1972, l’anno lungo dell’ecologia

Il 1972 è un anno fondamentale, non solo per la pubblicazione di The Limits to Growth, maldestramente tradotto in italiano I limiti dello sviluppo invece del letterale I limiti alla crescita: fu il culmine di quella che Giorgio Nebbia chiamò la “primavera ecologica” per il sommarsi di eventi decisivi, e per certi versi definitivi, al fine di inquadrare i temi della crisi ecologica e di come si sarebbe dovuto affrontarla.

Per questo, abbiamo ritenuto di offrire un numero monografico  della nostra rivista “Altronovecento”, esclusivamente dedicato a questo anno cruciale, pubblicando alcuni materiali che ci sembrano utili alla sua comprensione.

Partiremo, ovviamente, da The Limits to Growth[1]. Come è noto, viene lanciato il 12 marzo e riscuote subito una vastissima risonanza a livello internazionale: l’idea era nata all’interno del Club di Roma, in particolare dal suo Presidente Aurelio Peccei, un personaggio singolare, alto dirigente della FIAT molto legato agli Agnelli, ma anche libero pensatore. L’indagine prendeva in esame le variazioni col tempo, nell’intervallo dal 1900 a un ipotetico anno 2100, di cinque grandezze: popolazione;  disponibilità di alimenti;  produzione industriale; risorse non rinnovabili; inquinamento. La ricerca fu strutturata, su suggerimento di Jay Forrester, secondo i criteri dell’analisi dei sistemi,  i cui calcoli complessi divennero risolvibili grazie ai primi calcolatori elettronici del MIT, il Massachusetts Institute of Technology in cui lavora Forrester, IBM e Digital, dotati in realtà di una capacità di calcolo migliaia di volte inferiori a quelli di un personal computer odierno.

In sintesi queste le conclusioni: se continua la crescita della popolazione (pari nel 1971 a 3 miliardi e 775 milioni, con un tasso di crescita di circa il 2%, cioè  75 milioni all’anno; oggi, fine 2021, ha raggiunto i 7 miliardi e 900 milioni circa, con un tasso di crescita di circa l’1%, sempre, però, pari a circa 75 milioni all’anno)[2], crescono produzione e consumi, quindi inquinamento, crescono malattie, epidemie, fame, guerre e conflitti. Se si vogliono evitare situazioni traumatiche, la soluzione, secondo l’edizione originale di The Limits to Growth come anche nelle varianti scritte a venti e trenta anni di distanza, va cercata in un rallentamento del tasso di crescita della popolazione mondiale, della produzione agricola e industriale e del degrado ambientale, insomma nella decisione di porre dei “limiti alla crescita” della popolazione e delle merci, nonché nel raggiungimento di una situazione stazionaria che permetta a tutti gli umani per un futuro indefinito una vita in salute e dignitosa.

Il testo ebbe non solo grande risonanza, ma provocò una discussione accesa, sia tra gli ecologisti, che tra esponenti dei diversi schieramenti politici – discussione che la nostra rivista ha già ampiamente riportato grazie a Giorgio Nebbia e Luigi Piccioni in due numeri monografici, ai quali rinviamo il lettore[3].

Comunque, al di là dei grafici e dei numeri con cui venivano espresse le previsioni, rivelatisi più o meno esatti, conveniamo con quanto detto dal principale autore di quella ricerca, Dennis Meadwos, oggi 79enne, in una importante intervista recentemente rilasciata alla rivista francese “Socialter” e che noi riprendiamo integralmente in esclusiva in versione italiana, grazie alla disponibilità della stessa rivista. In tale intervista, l’autore ribadisce la sostanziale validità di quel rapporto e, come non dargli ragione, aggiunge un’amara constatazione sul presente: “Noi oggi entriamo in un periodo di esplosione di crisi”.

Com’è noto, quel rapporto era stato predisposto anche in vista della 1a Conferenza dell’Onu sull’ambiente umano che si sarebbe tenuta a Stoccolma sempre in quell’anno cruciale, tra il 6 e il 15 giugno. Il capitolo centrale alla conferenza fu proprio quello del rapporto fra ambiente e sviluppo, con uno scontro non risolto tra Nord ipersviluppato e Sud sottosviluppato. I Paesi in via di sviluppo sostenevano che le questioni ambientali fossero un problema dei Paesi ricchi e causato dai Paesi ricchi per cui toccava a loro sopportarne tutti i costi. Nutrivano comprensibili timori che l’ambiente servisse invece da pretesto per diminuire l’impegno per un riequilibrio tra Nord e Sud, impedendo a quest’ultimo crescita e modernizzazione. Da molte parti nel ricco Nord si osservava invece che gli aiuti dovevano essere modificati radicalmente, rispetto ad un modello di industrializzazione e urbanizzazione di massa e che le strategie per lo sviluppo e per l’ambiente non potevano avere effetto se non si frenava l’incremento demografico. La questione demografica per il Nord era centrale, con tensioni non solo con i Paesi del Sud, ma in particolare con la Chiesa Cattolica, che con l’enciclica Humanae vitae di Paolo VI del 1968 aveva condannato ogni politica e tecnica di controllo della nascite che non fosse la virtù della continenza. Un’analisi del dibattito che si è sviluppato in quella sede è contenuta in un saggio della docente di storia contemporanea all’Università di Trento, Sara Lorenzini, già uscito qualche anno fa e che la stessa gentilmente ci ha permesso di ripubblicare integralmente[4]. Inoltre pubblichiamo, nella sezione Documenti, alcuni resoconti da Stoccolma di Giorgio Nebbia usciti sul quotidiano “Il Giorno”, che con freschezza ci restituiscono il clima e i temi di quell’evento, nonché il testo integrale della Dichiarazione conclusiva della Conferenza e la successiva valutazione dello stesso Nebbia.

In effetti, in quella conferenza vi furono due protagonisti che meritano di essere citati, Barry Commoner e Giorgio Nebbia.

Sempre nel 1972, grazie a Virginio Bettini, era stato pubblicato in Italia Il cerchio da chiudere[5], di Commoner, biologo cellulare statunitense, testo fondamentale che denunciava come i cicli dell’economia umana fossero disgraziatamente aperti, a differenza di quelli biologici chiusi, quindi distruttivi dell’ambiente (prelievo di risorse in entrata e inquinamento in uscita): preconizzava, in sostanza, un’economia circolare, quella seria non quella a volte solo di facciata di oggi, e concludeva con la famosa equazione I = P x M x T, dove I sta per inquinamento, P per popolazione, M per merci prodotte e “consumate”, T per il carico “tecnologico” ambientale delle stesse in termini di prelievo di risorse ed emissioni inquinanti – come si può notare, molti dei temi sollevati dal rapporto del Club di Roma. Anche questo testo sollevò un grande interesse che si può comprendere dall’intenso dibattito che si sviluppò in quell’anno e che Giorgio Nebbia ha ricostruito su questa rivista nel 2012[6] a partire dal confronto tra Commoner e  Paul Ehlrich[7] sul tema allora caldo della  bomba demografica che si sviluppò in particolare sulla rivista “Ecologia” diretta da Virginio Bettini. 

A quel dibattito, dobbiamo ricordare che partecipò direttamente anche un grande economista che avrà sempre più un ruolo fondamentale negli anni successivi a livello internazionale, Nicholas Georgescu-Roegen: come ricostruisce puntualmente Alberto Berton, Nebbia scrive che Georgescu-Roegen utilizzò per la prima volta il termine “bioeconomia” in una conferenza tenuta alla Yale University l’8 novembre del 1972, quindi quasi esattamente 50 anni fa. Tale conferenza, che riportiamo nei Documenti, faceva parte di una serie di incontri che erano stati organizzati nella celebre università statunitense a seguito della pubblicazione nel marzo dello stesso anno di The Limits to Growth; in effetti Georgescu-Roegen intervenne in quella sede in difesa della tesi principale del rapporto, ovvero dell’impossibilità di una crescita infinita in un pianeta con risorse finite, una consonanza  riconosciuta dallo stesso  Dennis Meadows, coautore del rapporto, che pochi giorni dopo la conferenza scrisse a Georgescu-Roegen affermando che la sua “analisi della natura entropica delle risorse ha avuto un’influenza sostanziale nel pensiero dei membri del mio gruppo”[8].

Tornando a Barry Commoner, questi denunciava il fatto che a Stoccolma non si parlasse del rischio maggiore per la sicurezza dell’ambiente umano: la possibilità di una guerra atomica. Le logiche politiche del rapporto Est-Ovest e della “guerra fredda” ne impedivano la discussione, come mettevano in secondo piano lo scontro fondamentale e potenzialmente esplosivo, quello fra ricchi e poveri, fra bianchi e non bianchi. La “questione più pericolosa a livello mondiale” era una questione di giustizia sociale e redistributiva fra le nazioni e fra le razze[9].

Giorgio Nebbia partecipava alla Conferenza, invece, in rappresentanza del Vaticano, quindi in una posizione particolarmente delicata. Cattolico conciliare, da alcuni anni vicino al marxismo critico, in particolare ai Manoscritti economici e filosofici del giovane Marx[10], chimico e insegnante di merceologia all’Università di Bari, da oltre un decennio aveva maturato una profonda cultura ecologica. Dunque, con una certa bonaria astuzia, aveva preparato la sua partecipazione a Stoccolma  con un saggio pubblicato verso la fine dell’anno precedente su “Il Popolo”, il quotidiano della Democrazia Cristiana: Per una visione cristiana dell’ecologia. Un saggio in cui tutti i temi oggi sul tappeto erano posti con lucidità di analisi e lungimiranza di proposte, compreso quello dei limiti della crescita e della “de-crescita”: “… è indispensabile imporre ai paesi che già hanno molto una revisione critica della gerarchia dei bisogni di beni materiali e un’azione di disciplina nei consumi e di freno nello sfruttamento delle risorse naturali. Da varie parti si pensa di ridurre eventualmente a zero il tasso di accrescimento della produzione a livello mondiale, il che richiede una operazione di de‐sviluppo dei paesi ricchi per consentire ai paesi poveri di raggiungere un adeguato livello di sviluppo”. Quindi “de-sviluppo”, ovvero decrescita, che, riprendendo la parola chiave dell’Humanae vitae, denominerà anche continenza, trasferendola dalla sfera sessuale a quella della produzione e dei consumi, con l’“invito alla continenza nel possesso, continenza che, anche se impopolare, pure è così squisitamente cristiana e che costituisce la vera guida per una nuova saggezza ecologica”. Su questa importantissima vicenda rinviamo ad un altro quaderno di “Altronovecento” di Luigi Piccioni, Chiesa ed ecologia 1970-1972. Un dialogo interrotto.[11] 

Nebbia, sempre in quell’anno, avrà l’opportunità di chiarire ulteriormente la sua posizione sul dibattito in corso a livello internazionale, nella presentazione dell’edizione italiana del testo di E. Goldsmith e R. Allen, La morte ecologica[12], da lui curata e tradotta da sua moglie, Gabriella Menozzi, presentazione che riprendiamo nella sezione Documenti

Giorgio Nebbia, sempre in quel fatidico 1972, istituirà nella Facoltà di economia di Bari un corso di ecologia, il primo in Italia e forse in Europa. Fino ad allora l’ecologia era sostanzialmente una disciplina appartenente alle scienze naturali. Nella prolusione presentata il 13 novembre del 1972[13],  che riproponiamo integralmente sempre nella sezione Documenti, Nebbia motiva il perché di questo corso all’interno di una Facoltà di economia e traccia il suo futuro programma di ricerca che lo impegnerà nei successivi 30 anni: sottoporre l’economia alle leggi dell’ecologia, come unica via per scardinare l’inganno del pil e di una fallace gestione solo monetaria dell’economia. Si tratta di una vera rivoluzione copernicana, che Nebbia non si limiterà ad affermare sul piano teorico, ma tradurrà in pratica nel 2002 con il calcolo del prodotto interno materiale lordo dell’economia italiana al 2000, ovvero dei flussi quantitativi e qualitativi di materia in ingresso dalla natura ed in uscita, degradati, verso la natura. Uno studio pionieristico per il quale Nebbia è riconosciuto nella comunità scientifica internazionale, che ha avuto scarsa attenzione e seguito in Italia, ma che troviamo ora alla base della nota  metodologia dell’impronta ecologica. Dunque per Nebbia è l’ecologia che deve comandare l’economia, avendo intuito già allora che l’economia del pil monetario non avrebbe mai potuto conciliarsi con la reale tutela dell’ambiente. Peraltro già nel ‘72, in quella prolusione all’Università di Bari, con la sua consueta ironia affermava: “oggi l’ecologia è di moda, ma come tutte le mode anche quella dell’ecologia sta declinando”.

Ancor più pessimista e drastico sarà Dario Paccino, studioso, giornalista e saggista, che intrattiene un rapporto di collaborazione e confronto dialettico con lo stesso Nebbia e che aveva dato vita, insieme a Valerio Giacomini, ecologo e botanico di fama internazionale, alla rivista della Pro Natura, “Natura e Società”. Sempre in quel magico 1972 pubblica un testo all’epoca di grande successo,  L’imbroglio ecologico[14]: l’assunto di fondo del suo punto di vista marxista  è che la crisi ecologica, indubbiamente profonda e sconvolgente, non è altro che una manifestazione della distruttività intrinseca al sistema capitalistico. Dunque l’ecologismo può essere di per sé un “imbroglio”, se si illude di salvaguardare l’ambiente agendo all’interno dell’attuale sistema economico e sociale: senza una fuoriuscita dal capitalismo la sua azione si riduce ad aggiustamenti parziali che il sistema è in grado di assorbire perpetuando, anzi, esasperando il suo potenziale distruttivo nei confronti della natura  e degli uomini. Questo testo, di cui pure abbiamo già trattato in diverse occasioni  come rivista[15],  in certo modo anticipava quanto sarebbe accaduto di lì a venti anni, quando il sistema, non potendo più ignorare la crisi ecologica, si è attrezzato per annacquare l’impatto che poteva produrre la “primavera ecologica” se avesse potuto dispiegare pienamente le sue potenzialità innovative. Il gigantesco nuovo imbroglio è stato costruito e praticato in particolare in questi  ultimi trent’anni mettendo in campo in maniera diffusa e pervasiva operazioni di cosmesi di facciata, il cosiddetto greenwashing[16].

Il timbro sulla sostanza ingannevole della svolta ambientalista dell’economia mondiale  viene emblematicamente impresso vent’anni dopo nel 1992 da un personaggio, Stephan Schmidheiny, il magnate svizzero della Eternit, responsabile della devastazione ambientale e sanitaria  prodotta dal cemento-amianto in mezzo mondo: fu lui il principale ispiratore, in qualità di consigliere di Maurice Strong, Signor Ambiente all’onu ed organizzatore del summit della Terra a Rio, della proposta dello “sviluppo sostenibile” che da quel Summit inondò tutte le contrade del pianeta promettendo una rivoluzione che, in realtà, non poteva realizzarsi essendo palesemente una contraddizione in termini. In quell’anno Schmidheiny pubblica il libro, Cambiare rotta,  che spiega agli imprenditori il modus operandi per concretizzare in affari le ambizioni ambientaliste e sociali fissate a Rio e di lì a poco darà vita alla Fondazione che avrebbe dovuto guidare gli imprenditori in questo percorso apparentemente “virtuoso”, il World Business Council for Sustainable Development (wbcsd), diventando così un leader “verde” rispettato dalla comunità internazionale.  E i risultati di questo “nuovo imbroglio ecologico” li abbiamo tutti sotto i nostri occhi. 

Sempre in quel decisivo 1972, troviamo particolarmente attivo sul fronte del dibattito sul rapporto tra scienza e diritto alla salute e tra scienza e potere Giulio Alfredo Maccacaro, di cui la nostra  rivista si è già occupata, anche, ma non solo, nel dossier dedicato al 1970[17] e che qui riprendiamo nella sezione Documenti, con altri significativi interventi sulla salute minacciata dai prodotti che incontriamo sugli scaffali dei supermercati, nonché dall’asservimento ai meccanismi del potere.

Infine per completare, pur in estrema sintesi, quel 1972, non possiamo ignorare un altro soggetto, questa volta collettivo,  il movimento operaio, della cui precoce attenzione ai temi dell’ambiente di lavoro abbiamo già trattato in precedenza[18]. Verso la fine di marzo i sindacati confederali unitariamente si trovano a Rimini per metter a punto e rilanciare la propria strategia per la tutela della salute in fabbrica e quindi per la rimozione dei rischi negli ambienti di lavoro, un evento unico nella storia del sindacalismo italiano, di cui riportiamo nella sezione Documenti diversi materiali di cruciale importanza: alcuni interventi rappresentativi di Consigli di Fabbrica e di alcuni protagonisti di primo piano di quell’evento, nonché la mozione conclusiva[19]. Sempre in quell’anno pubblica un importantissimo saggio Ivar Oddone, il medico del lavoro di Torino, già partigiano Kim protagonista de Il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, che con alcuni gruppi operai della Cgil di Torino, in particolare della Farmitalia e della Fiat, aveva ideato negli anni Sessanta la Dispensa  del “modello operaio” di intervento sull’ambiente di lavoro, poi ripresa e rilanciata in tutta Italia con lungimiranza da Gastone Marri, dell’Inca Cgil nazionale: in questo saggio, che riprendiamo integralmente nei Documenti, dopo aver ricostruito nei dettagli il lavoro compiuto in oltre un decennio, avanza una proposta lungimirante tesa ad estendere quell’esperienza dalla fabbrica al territorio[20]. Infine, il 2 ottobre, a Genova,  la Federazione dei lavoratori metalmeccanici, flm,  dei sindacati confederali approva la piattaforma unitaria per il contratto di categoria, il cui testo  riproponiamo nella sezione Documenti: inquadramento unico per operai e impiegati, aumenti salariali e delle ferie uguali per tutti, potenziamento dei diritti e dei controlli sull’ambiente di lavoro, 150 ore retribuite per il diritto allo studio.  Gli ultimi due punti, rappresentano forse il più alto livello qualitativo raggiunto dall’elaborazione del sindacato italiano dal secondo dopoguerra ad oggi, obiettivi che saranno realizzati dopo mesi di lotte e di scioperi. Il tema dell’ambiente di lavoro e degli strumenti per una migliore tutela della salute dei lavoratori prevede poteri di controllo e contrattazione da parte dei Consigli di fabbrica e l’istituzione di strumenti di rilevazione delle condizioni di lavoro (registro dei dati ambientali e biostatistici, libretti professionali sanitari e di rischio), nonché l’intervento delle visite mediche e di controllo da parte di enti e istituti specializzati di diritto pubblico. Sancisce in sostanza i risultati di quella straordinaria iniziativa che si era sviluppata nelle fabbriche dalla seconda metà degli anni Sessanta, con il cosiddetto “modello operaio” di intervento per la prevenzione delle malattie professionale e degli infortuni, attraverso la rimozione dei rischi di un ambiente di lavoro nocivo e pone le basi di quella che sarà la Riforma sanitaria.

Inoltre si chiedeva (e si sarebbe ottenuto)  che gli operai potessero sottrarre 150 ore alla produzione per destinarle allo studio. Si trattò, come si vede, della prima messa in pratica di un pezzettino di “decrescita”, anche se non proclamata, da parte di centinaia di migliaia se non di milioni di lavoratori  in particolare nel corso degli anni Settanta. Una rivoluzione culturale dal basso, in cui non solo fu soddisfatta la legittima aspirazione al completamento dell’obbligo, ma fu offerta a tutti e tutte l’occasione per lo sviluppo di una cultura critica su diversi fronti nonché delle attitudini individuali (suggestiva l’espressione dell’epoca di Bruno Trentin: anche un operaio, se vuole, può apprendere a suonare il pianoforte). Fu un processo liberatorio di democrazia sostanziale e di cittadinanza attiva pensato e vissuto come una esperienza collettiva di reciproco confronto e crescita, non individualistica, in cui generazioni di giovani intellettuali formatisi nel Sessantotto studentesco e nei movimenti femministi ebbero l’opportunità di mettere a disposizione le loro conoscenze confrontandosi con la realtà concreta del lavoro. Anche perché da parte operaia e sindacale si intendeva mettere in discussione la tradizionale gerarchia di fabbrica: il diritto alla conoscenza ed alla sua applicazione nell’organizzazione del lavoro e nella tutela dell’integrità fisica, dunque per un ambiente sano, doveva vedere come soggetto attivo e consapevole  anche chi forniva semplicemente la propria manodopera. Inevitabilmente, quell’esperienza diventò anche, nei fatti, una critica vivente al sistema scolastico italiano, ritenuto ancora estremamente chiuso, elitario, verticistico, quindi poco democratico.

“Quale fosse lo spirito ideale e la volontà che animava la flm,  lo si constatò poche settimane dopo, il 22 ottobre 1972, a Reggio Calabria quando, con le Federazioni unitarie dei chimici, dei tessili, degli edili e con il sindacato braccianti della sola cgil, senza l’adesione della cisl e della uil, si tenne la Conferenza sindacale del Mezzogiorno e un corteo durato diverse ore sfidò le forze fasciste che da due anni tenevano in scacco la città dimostrando ai calabresi e al paese che Nord e Sud potevano essere uniti e lottare insieme”[21].

In conclusione, forse sono necessarie due parole su come finì la “primavera ecologica” che abbiamo visto nel suo massimo splendore nel 1972. Già l’anno dopo, il 1973, fu fatale. Ai movimenti operai e popolari che in Italia e nel mondo avanzavano istanze di profondo cambiamento il sistema rispose con la violenza, una sorta di guerra a bassa intensità: il colpo di stato in Cile, l’11 settembre del 1973, contro il governo popolare di Salvador Allende, orchestrato dalla CIA; la bomba messa da neofascisti, con coperture in settori degli apparati dello Stato, il 28 maggio 1974 contro una manifestazione sindacale unitaria  in Piazza Loggia a Brescia, con 8 caduti e oltre un centinaio di feriti.  Nel 1973, inoltre, scoppiò la crisi petrolifera e il sistema, invece che accogliere la lezione di Giorgio Nebbia che già nel 1966 aveva pubblicato con  Guglielmo Righini presso Feltrinelli, L’energia solare e le sue applicazioni, si buttò nella disastrosa avventura del nucleare, un vicolo cieco che all’Italia costò lo spreco di ingenti risorse, ritardando di decenni la necessaria conversione ecologica.

Ma la riflessione su come e perché quella stagione sia stata tradita, a distanza di mezzo secolo, meriterebbe ben altri approfondimenti, peraltro assolutamente indispensabili se si volesse rimettere seriamente in carreggiata una strategia efficace per la salvezza dell’ambiente e dell’umanità futura. 


[1] D. Meadows et all., The Limits to Growth. A Report for Club of Rome’s Project, Universe Book, New York 1972 (trad. it. I limiti dello sviluppo, Edizioni Scientifiche e Tecniche Mondadori, Milano 1972).

[2] Il tema demografico è oggi pressoché assente nel dibattito sulla crisi ecologica, se si esclude l’amico Luca Mercalli. Si sconta, probabilmente, una certa reticenza dettata dal fatto che papa Francesco, indubbiamente encomiabile per la sua Laudato Si’, ripetutamente lancia l’allarme per il cosiddetto “inverno demografico” che colpisce le nostre società opulente e denuncia  reiteratamente l’ormai consolidata denatalità dell’Occidente! Un argomento che trova particolare e strumentale attenzione nella destra che si accinge a governare l’Italia.

[3] G. Nebbia, L. Piccioni, I limiti dello sviluppo in Italia. Cronache di un dibattito 1971-1974, in “Quaderni di Altronovecento”, n. 1,  “Altronovecento”, n. 18, 1 dicembre  2011. https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/category/numero-18/; L. Piccioni, Fourty Years Later. The Reception of the Limits to Growth in Italy. 1971-1974, in “Altronovecento”, n. 20, 1 giugno 2012. https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/editoriale-n20/

[4] S. Lorenzini, Ecologia a parole? L’Italia, l’ambientalismo globale e il rapporto ambiente-sviluppo intorno alla conferenza di Stoccolma, in “Rivista Contemporanea”, n. 3, luglio-settembre  2016, pp. 395-418.  

[5] B. Commoner, The closing circle, Alfred Knopf, New York 1971 (trad. it. Il cerchio da chiudere, Garzanti, Milano 1972).

[6] G. Nebbia, Su un dibattito ecologico del ’72, in “Altronovecento”, n. 21, 1 dicembre 2012, https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/su-un-dibattito-ecologico-del-72/

[7] Paul R. Ehrlich (1932-), entomologo e neo-malthusiano, pubblicò nel 1967 un saggio in cui prevedeva una grave crisi alimentare a causa della sovrappopolazione del Pianeta, tema ripreso l’anno successivo in  The population Bomb, Ballantine, New York 1968.

[8] https://www.academia.edu/269653/Can_de_growth_be_considered_a_policy_option_A_historical_note_on_Nicholas_Georgescu_Roegen_and_the_Club_of_Rome

[9] S. Lorenzini, op. cit, p.397-398.

[10] Si tratta dei  Manoscritti economico-filosofici del 1844 (detti anche Manoscritti di Parigi) che  furono stesi tra l’aprile e l’agosto 1844 da Karl Marx (1818-1883), mai stampati in vita di questi e pubblicati per la prima volta nel 1932 da ricercatori sovietici (Einaudi, Torino 1968). Pubblicato di recente anche in Francia, dopo la prima edizione in Germania, il libro di K. Saïto, La nature contre le capital. L’écologie de Marx dans sa critique inachevée du capital (La natura contro il capitale. L’ecologia di Marx nella sua critica incompiuta del capitale), per le edizioni Syllepse, Parigi 2021, affronta di petto un tema che, appunto, era molto caro a Giorgio Nebbia. Contrariamente alla vulgata che ritiene Marx ed ecologia una sorta di ossimoro,  ricostruisce congrande rigore, proprio a partire dai Manoscritti economico-filosofici del 1844, la critica ecologica di Marx, progressivamente affinata sulla base dei contributi di Liebig, Fraas e di altri studiosi della natura, che, in forza dell’analisi delle correlazioni tra le forme economico-sociali e il mondo materiale concreto, èparte integrante della sua critica dell’economia politica e del modo di produzione capitalistico. Sempre in questo filone si veda anche: H. Pena-Ruiz, Karl Marx penseur de l’écologie (Karl Marx pensatore dell’ecologia), Seuil, Paris 2018. Sul tema si veda il mini-dossier Marx, marxismi, ecologia e decrescita, in “Altronovecento”, n. 45, 1 settembre 2022. https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/marx-marxismi-ecologia-e-decrescita-presentazione-del-dossier/

[11] L. Piccioni,  Chiesa ed ecologia 1970-1972. Un dialogo interrotto, in “Quaderni di Altronovecento”, n. 10,  “Altronovecento”, n. 38, 1 ottobre  2018, https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/editoriale-n38/

[12] R. Goldsmith e R. Allen, A Blueprint for Survival, in “The cologist” 1972, (trad. it. La morte ecologica. Progetto per la sopravvivenza, Laterza, Bari 1972).

[13] G. Nebbia, Ecologia ed economia, in “Giornale degli economisti e annali di economia”, luglio-agosto 1973, cedam, Padova 1973, pp. 435-455.

[14] D. Paccino, L’imbroglio ecologico. L’ideologia della natura, Einaudi, Torino 1972. Riedito recentemente da Ombre Corte,  Verona 2021.  

[15] Sul dibattito che ha accompagnato il libro di Paccino rinviamo a quanto abbiamo già pubblicato in passato su “Altronovecento”: G. Marcucci, Recensione a Dario Paccino, L’imbroglio ecologico, in “Ecologia”, a. 2, n. 7, pp. 45-46 , novembre 1972, in “Altronovecento”, n. 21, 1 dicembre 2012, https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/limbroglio-ecologico/; G. Nebbia, Dario Paccino, un ecologo inquieto, in “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 14 giugno 2005, in G. Nebbia, Scritti di storia ambientale, in “Altronovecento” n. 26, ottobre 2014, pp. 371-372, ttps://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/category/numero-26/; L. Piccioni, Ecologia e lotta di classe. Una corrispondenza tra Giorgio Nebbia e Dario Paccino, 1971-1972, in “Altronovecento”, n. 42, 1 Agosto 2020, https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/ecologia-e-lotta-di-classe-una-corrispondenza-tra-giorgio-nebbia-e-dario-paccino-1971-1972/, pubblicato anche in  G. Nebbia, La terra brucia. Per una critica ecologica al capitalismo, Jaca Book, Milano 2020, p. 141-155; G. Avallone, L. G. Fassine, S. Sirio,  Dario Paccino. Un archivio per un metodo materialista, In “Altronovecento” n. 44, 14 settembre 2021. https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/dario-paccino-un-archivio-per-un-metodo-materialista/

[16] Su questo tema si veda: Greenwashing, la grande rivoluzione passiva, in “Altronovecento”, n. 45, 1 settembre 2022,  https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/greenwashing-la-grande-rivoluzione-passiva-presentazione-del-dossier/

[17] Dossier “1970”. La responsabilità dello scienziato. Due articoli di Giulio Maccacaro,  in “Altronovecento”, n. 43, 1 dicembre 2020. https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/dossier-1970-la-responsabilita-dello-scienziato-due-articoli-di-giulio-maccacaro/. Importante anche il contributo di L. Mara, Scienza, salute e ambiente. L’esperienza di Giulio Maccacaro e di Medicina Democratica, in “Altronovecento”, n. 39, 1 dicembre 2018, https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/scienza-salute-e-ambiente-lesperienza-di-giulio-maccacaro-e-di-medicina-democratica/.

[18] A. Baracca, Una radice trascurata di classe dell’ambientalismo in Italia negli anni ’70: il precoce ambientalismo rosso. Memorie dei movimenti e documenti, in “Altronovecento” n. 43, 1° dicembre 2020, https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/dossier-1970-una-radice-trascurata-di-classe-dellambientalismo-in-italia-negli-anni-70-il-precoce-ambientalismo-rosso-memorie-dei-movimenti-e/; M. Ruzzenenti, Le radici operaie dell’ambientalismo italiano, in “Altronovecento” n. 43, 1° dicembre 2020.

[19] cgil-cisl-uil, Fabbrica e salute. Atti della conferenza nazionale di cgil-cisl-uil, Rimini, 27-31 marzo 1972, Seusi, Roma 1972.

[20] I. Oddone, La difesa della salute dalla fabbrica al territorio, in “Inchiesta”, n. 8, 1972, pp. 18-27.

[21] R. Penna, A Reggio: “Nord e Sud uniti nella lotta”, 24 ottobre 2022. L’intervento, con alcuni adattamenti, è tratto da R. Penna, Il Lavoro come Valore. Quando c’era la flm. Gli anni delle lotte sociali, delle tensioni, dei diritti e dell’unità (1968-1980), Falsopiano, Alessandria 2022. http://www.cittafutura.al.it/sito/reggio-nord-sud-uniti-nella-lotta/