A partire da “L’era della giustizia climatica”, di Paola Imperatore e Emanuele Leonardi
Il tempo della giustizia climatica è ora, ci dicono Paola Imperatore e Emanuele Leonardi. Il loro libro (L’era della giustizia climatica, Orthotes, Napoli-Salerno 2023) racconta in modo incisivo nascita, sviluppo e crisi dell’idea che il mercato sia l’unico meccanismo capace di affrontare in modo efficiente la crisi ambientale, anche una volta che questa sia stata ridotta a crisi climatica. Nella prospettiva degli autori, la performance di Greta Thunberg alla COP di Katowice (2018) da rappresentante di Climate Justice Now! ha segnato la fine di un’epoca, quella della green economy e della governance ambientale dall’alto, impostate nella Conferenza di Rio (1992) e rese operative con il Protocollo di Kyoto (1997).
Il testo si struttura attorno al riconoscimento della potenza inaugurale della presa di parola di Greta: la denuncia della colpevole inutilità di tutti i meccanismi economici messi in campo a partire dagli anni ’90 avviene proprio in una Conference of Parties (COP), cioè nel luogo deputato a monitorare l’andamento delle politiche globali green. Nella prospettiva dei due autori, la discontinuità segnata da questo gesto ha avuto un significato storico non solo perché ha originato la mobilitazione di masse enormi di giovani, ma anche perché ha spinto le organizzazioni più strutturate del campo ambientalista su posizioni più apertamente critiche nei confronti della gestione dell’emergenza climatica via COP & mercato.
Le dinamiche nel campo ambientalista, peraltro, sono state accompagnate da dinamiche simmetriche in campo politico e imprenditoriale: negli ultimi anni, ambiti sempre più vasti del mondo politico ed economico internazionale si sono ri-orientati (o sono rimasti) su posizioni scettiche quanto alla sostenibilità economica delle politiche green1.
L’era della giustizia climatica, secondo i due autori, nasce proprio dal sommarsi di questi due attacchi alla governance politica transnazionale guidata dalla Nazioni Unite: dal basso, a partire dal 2018 il sistema delle COP perde la legittimazione delle grandi ONG ambientaliste ed è contestato da un movimento mondiale di massa (effetto-Greta); dall’alto, si sfalda il consenso politico e imprenditoriale alla base della green economy e dei meccanismi chiamati ad assicurare un rilancio della crescita attraverso il rispetto dei limiti ambientali.
Il libro ricostruisce in maniera efficace e convincente questi passaggi, che diventano le premesse della tesi centrale dell’opera: la crisi irreversibile dei meccanismi politici ed economici che hanno regolato l’era della green economy, cioè della transizione ecologica “dall’alto”, annuncia l’inizio dell’era della giustizia climatica, cioè della transizione ecologica “dal basso”.
Questo esito non è presentato come utopia, nemmeno soltanto come orizzonte verso cui orientare le politiche, ma come qualcosa che ha già delle anticipazioni concrete: in particolare, il caso della GKN e delle elaborazioni congiunte tra collettivo di fabbrica e Fridays for Future è presentato come un laboratorio esemplare. L’idea della giustizia climatica quale vettore della “convergenza”, termine-chiave dell’opera e della prospettiva teorica a cui si rifanno gli autori, tra ecologismo e movimento operaio, trova nel “Piano per il futuro della Fabbrica di Firenze” il modello di un più complessivo “piano operaio per la conversione ecologica” (p. 140). In altri termini, il fatto che gli operai della GKN non abbiano lottato per la difesa del proprio posto di lavoro nella filiera dell’automotive, ma per un nuovo posto di lavoro in un Polo per la Mobilità Sostenibile2, indica la sfida fondamentale: “elaborare una strategia di pianificazione ecologica che assuma la giustizia climatica come orizzonte di riferimento” (p. 159). Dove per “pianificazione ecologica” si intende un piano per l’occupazione elaborato in modo da intrecciare la protezione ambientale con il lavoro (e non più, come nella green economy, con la crescita economica), a partire da una politica industriale che punti su settori selezionati sulla base di un criterio socio-climatico (p. 77).
Passiamo ora a discutere quelli che appaiono i punti salienti dell’opera.
L’effetto-Greta
Gli autori sono mossi dall’entusiasmo di chi è convinto che le parole di Greta Thunberg (non a caso riportate e glossate) abbiano messo in moto qualcosa di profondo, in una realtà a lungo congelata tra integrati euforici, apocalittici depressi e una larghissima maggioranza silenziosa. L’opera è scritta attingendo alla riserva di energia politica manifestatasi a partire del 2019 con i grandi scioperi per il clima (il primo dei quali ebbe luogo il 15 marzo 2019). In questi cinque anni, quell’onda appare molto abbassata, ma non va relativizzata: si è trattato di un fatto nuovo e importante, certamente “a misura di media” ma non artefatto e per nulla “buonista”, a cui va riconosciuto il grande merito di aver articolato sul piano pubblico una posizione netta e per nulla conciliante rispetto alla gestione della crisi climatica. In questo senso, il personaggio-Greta (“l’adolescente straordinaria che le canta agli adulti insensibili”) ha danneggiato i contenuti del messaggio, che è mirato, politico ed esplicitamente collegato alla denuncia dell’ingiustizia sociale come dimensione interna della crisi ecologica. Diranno gli scettici che i grafici che monitorano lo stato di salute del pianeta mostrano i segni dell’effetto-Covid, non dell’effetto-Greta, ma questo sarebbe un dispetto al personaggio mediatico più che una replica all’istanza culturale e politica. Gli autori hanno utilizzato come criterio di misura dell’effetto-Greta le ricadute a livello sia di posizionamento politico nelle COP, sia di mobilitazioni di massa. Possiamo sfumare o distinguere, ma l’impatto è stato reale e diretto. Potremmo però aggiungere un secondo criterio di misura, quello dell’impatto a livello di lotte territoriali. Si tratta di un criterio non alieno agli autori, anzi; da ultimo, nel 2023 Paola Imperatore ha pubblicato un libro dal titolo: “Territori in lotta”(Meltemi), dedicato proprio a una mappatura dei conflitti territoriali a base ecologica. Ora, se ci poniamo da questo punto di osservazione, penso sia difficile sfuggire alla conclusione che, in questo ambito, l’effetto-Greta è stato molto più limitato, almeno se compariamo l’enorme capacità di mobilitazione giovanile delle marce per il clima con l’effettiva partecipazione a forme di conflitto territoriale già esistenti o alla nascita di nuovi fronti locali. Al di là di alcuni casi (tra cui quello già ricordato della GKN), le lotte territoriali a base ambientale non paiono mostrare segni radicali di discontinuità, né per numero né per partecipazione, e questo nonostante i segni del rapido aggravamento dello stato del pianeta si siano resi molto più tangibili, dal 2018 in qua. Significa che l’effetto-Greta è tutto un bluff? No, significa che l’effetto-Greta è sicuramente stratificato e ha avuto, almeno finora, efficacia più circoscritta come innesco di una disponibilità a prendere parte ad azioni collettive non puntuali.
Le parole per dirlo
L’opera è scritta in larga parte in modo chiaro, tanto da avere talora un approccio quasi didattico, soprattutto nelle parti che ricapitolano la storia delle conferenze per il clima e delle COP. Il libro anche per questo è davvero utile e importante, anche perché attraversato dalla volontà di ascoltare e ragionare con interlocutori molto diversi, da Mattarella (pp. 54-55) agli imprenditori genuinamente green (p. 159). E in fondo Mattarella o un imprenditore interessato, se si trovassero a leggere il cap. 1, magari non sarebbero sempre d’accordo ma capirebbe cosa si dice senza tanto bisogno di googlare. La stessa idea di passare al vaglio passi lunghi dei vari interlocutori citati agevola la lettura e la riflessione di chi non avesse presente il dettaglio degli argomenti discussi. Questa intenzione divulgativa in un testo che resta militante mi pare sia una qualità importante, anche perché piuttosto rara.
Almeno ai miei occhi, questo approccio è parzialmente contraddetto, e un po’ offuscato, dal ricorrere di termini e questioni (dalla citata “convergenza” all’“insorgenza” fino alle “soggettività subalterne”) che rimandano a un certo radicalismo accademico3, qui impastato con frequenti omaggi a classici operaisti o post-operaisti (da Marghera anni ’70 a Genova 2001, dal “punto di vista autonomo della classe lavoratrice” allo stesso “piano operaio”4). Per un verso, la cosa è comprensibile e coerente con quanto detto circa la volontà di dialogare con una pluralità di interlocutori: il libro è rivolto anzitutto “al dibattito interno dei movimenti che si richiamano alla giustizia climatica” e “nasce da un’esigenza di auto-analisi” (p. 28). Quindi, come ci sono le parola di Greta e di Mattarella, è ovvio ci siano anche le categorie di un dibattito più interno a movimenti che sono anche marcati da confini generazionali e terminologici.
Nel merito, vien da dire che se Sergio Bologna, nel 2023, dedica una delle sue tre lezioni sugli anni Settanta alle dinamiche emancipative interne alle professioni e all’università, non si capisce perché l’evocato ripensamento complessivo del sistema di produzione e distribuzione contemporaneo, sempre nel 2023, dovrebbe essere retto da un “piano operaio”: l’esempio della GKN, pur significativo, non mi pare basti per sostenere che il ripensamento ecologico della società contemporanea possa essere condotto (solo) in fabbrica. A dire il vero e per restare nel gergo, non è detto che per questa rivoluzione basti l’intero general intellect messo al lavoro h24 sui binari giusti. Proprio la centralità della questione occupazionale nella gestione politica della crisi ambientale impone, semmai, un riferimento all’insieme del mondo del lavoro – un mondo di cui in fondo la faccia operaia “di fabbrica” non è oggi tra le meno riconosciute, né tra le meno garantite5. Ma non è solo una questione di tutela o stipendio, è anche, come vedremo (cfr. punto 3.) una questione di sapere, che coinvolge necessariamente altri soggetti e altri luoghi.
A parte quella che potrebbe anche ridursi a una semplice questione terminologica, questo modo di declinare la questione, davvero cruciale, del lavoro e dell’occupazione nel tempo di una crisi ambientale che parrebbe non più negabile, si inserisce in una narrazione che ha un po’ dell’epopea: l’era della giustizia climatica risulta incubata da certo ambientalismo operaio anni Settanta, poi rilanciata da Genova 2001, evocata implicitamente dalle assemblee transfemministe, infine annunciata da Greta Thunberg e poi sperimentata alla GKN. Contro l’eco-ansia e ogni tendenza catastrofista, è sicuramente importante valorizzare esperienze passate e presenti, piccole e grandi: l’importante è non perdere di vista lo stato complessivo delle cose, come a volte mi pare accada nel leggere quella che viene presentata come una genealogia, ma è più semplicemente un elenco di precursori della giustizia climatica, stadio supremo della storia ecologica.
Forse vale la pena ricordarci che la storia dell’ecologismo corre parallela alla storia dell’occultamento della crisi ecologica, e in questo senso non è detto che il 2018 non sia un altro 1972, cioè un altro anno in cui la questione ecologica pare entrare irreversibilmente nell’agenda politica e culturale dell’umanità. In effetti, le “piazze meno numerose” (p. 28) potrebbero anche voler indicare questo, cioè l’inizio di una nuova stagione delle denegazione, stavolta a ghiacciai sciolti. In fondo, al momento, anche data per finita la green economy e quindi la transizione ecologica dall’alto, lo stato delle cose pare meno da transizione dal basso avviata che da non transizione dall’alto esibita (cosa che peraltro sarebbe in linea con la critica alla gestione del PNRR, pp. 107-108). Non sarà necessario ri-ri-ripetere che siamo messi male, ma forse non è nemmeno tanto utile saltare di insorgenza in convergenza.
“Ambiente tecnica società”
Tra i vari interlocutori del libro figurano anche Giorgio Nebbia e gli animatori storici di AltroNovecento, citati non solo nel capitolo dedicato alla “preistoria” della giustizia ambientale. Questi riferimenti impongono per chi contribuisce a questa rivista una lettura particolarmente attenta e un supplemento di riflessione, qui limitato al nesso “ambiente-tecnica-società” (il sotto-titolo della rivista).
Il problema centrale del libro consiste nell’essere centrato sul nesso ambiente-società, eludendo quasi completamente la questione della tecnica. La tecnica entra solo come “bene rifugio” per la transizione ecologica dall’alto, a valle del fallimento della green economy, secondo quanto delineato già negli anni Novanta dalla “teoria della modernizzazione ecologica” (p. 87). Questa risposta esclusivamente tecnologica alla crisi ambientale viene presentata come un’evoluzione dell’elitarismo ambientale, egemone negli anni Settanta (conservazionismo e dintorni): oggi l’ecomodernismo riproporrebbe quella stessa promessa di armonizzazione tra mondo artificiale e mondo naturale, ottenibile by-passando ogni forma di conflitto sociale.
Ora, la tecnica, nella riflessione promossa su questa rivista, non è l’arma a disposizione di una particolare teoria, ma il motore centrale (almeno) del Novecento e l’interlocutore obbligato per ogni pensiero che voglia delineare un qualsiasi tipo di alternativa. Di conseguenza, fare storia dell’ecologia significa necessariamente anche fare storia della tecnica. Non è quindi un caso che la storia dell’ambientalismo condotta dalla Fondazione Micheletti sia stata svolta privilegiando la storia dell’ambientalismo scientifico. La tecnica è quindi concepita come interfaccia necessaria e ineludibile tra ambiente e società, per cui pensare l’ambiente significa pensare ai modi in cui una società interagisce con esso attraverso le tecniche via via modellate.
Fino a qui niente di davvero discordante rispetto alla ricostruzione della storia dell’ecologia condotta nel libro, tesa a valorizzare i passaggi di lato rispetto a un’idea pacificata di natura, prolungata nell’apologia della wilderness presente nella deep ecology e veicolata anche dall’ecomodernismo (secondo cui appunto la tecnologia, risolvendo i problemi ecologici, permette all’uomo di coltivare il proprio rapporto emotivo con la natura, p. 88). Il problema è che il superamento di una visione contemplativa della natura pare essere operato unicamente per legittimare la denuncia dell’esposizione differenziata al rischio ambientale, in modo da ridisegnare il conflitto ambientale come conflitto per la giustizia ambientale. Si dice: “[La giustizia ambientale] origina dalle lotte delle comunità più povere e marginalizzate, mette in discussione implicitamente molti degli assunti di base delle correnti conservazionista e ambientalista” (p. 85). Ambiente è potere, quindi. D’accordo, ma non è anche sapere?
Chiaramente, il taglio del libro porta a privilegiare il polo “società” e il suo nucleo conflittuale, ma anche adottando questa linea, si potrebbe e dovrebbe soffermare sulla questione, centrale, del lavoro e dell’obiezione di incoscienza nel campo tecnico e scientifico. Le stesse lotte territoriali passano attraverso un dialogo e un’osmosi tra ragioni degli abitanti e saperi esperti. In questo senso, mi pare significativa la replica alla recensione di Paolo Cacciari di The Climate Book, l’opera che articola la “visione-Greta”, cioè la parte positiva di un’ecologia improntata alla giustizia ambientale (p. 56). Cacciari pone un problema di indeterminatezza delle posizioni sostenute nella raccolta, gli autori rispondono, al solito in modo molto rispettoso, difendendo la radicalità dell’opera. Ora, la mancanza di radicalità non è certo qualcosa che può essere imputato al movimento della giustizia climatica, almeno per come viene presentato in questo libro e in The Climate Book: il problema semmai è la moltiplicazione di prospettive radicali e l’evocazione di una loro convergenza, condotte mantenendo sfocati i nessi e i vincoli di un mondo sempre più retto dalla tecnica e dal sapere che la rende operativa (con annessi limiti e contro-finalità, oltre che una dose di non-sapere sempre più evidente).
Certo, spesso il riferimento alla Tecnica è stato un modo per squalificare ogni dissenso e per innalzare l’esistente a realtà indiscutibile con un destino già segnato (positivo o negativo). Proprio per questo, contro le visioni tecnofile o tecnofobe, è importante continuare a nutrire un approccio empirico e circostanziato, in presa diretta con il sapere critico di tecnici e scienziati. Non dare priorità a questo livello significa assumere che sia la realtà stessa, nella sua patente radicalità, a rendere sempre auto-evidenti le ragioni e la direzione dei conflitti, rendendo non problematico lo sviluppo nel merito della critica “dal basso”.
Oltre i limiti alla crescita: sulla storia della risposta industriale alla crisi ecologica
Il libro analizza in modo piuttosto attento il rapporto tra crisi del governo del clima via mercato e negazionismo delle élite economiche e politiche. Si tratta di processi importanti che è utile inserire in prospettiva storica.
Imperatori e Leonardi vedono nella Conferenza di Rio del 1992 il punto di svolta rispetto all’epoca inaugurata nel 1972 da “I limiti alla crescita” e dalla prima Conferenza di Stoccolma. La discontinuità viene individuata nel modo in cui è configurato il rapporto tra economia e natura: la promessa della green economy è di rendere sinergiche due logiche, quella dell’economia e quella della natura, fino ad allora riconosciute come contraddittorie (basta il titolo: “The limits to growth”). Da un certo punto in poi, fare business non significa più automaticamente fare qualcosa “contro” la natura, ma può significare anche fare qualcosa “per” la natura, sotto forma di azione green. In realtà, con Rio non si impone solo questa idea, ma anche quella che la crisi ambientale sia sostanzialmente riducibile a crisi climatica. L’ossimoro “green economy”, cioè, non è più tale solo una volta che le molte facce della crisi ambientale vengono ridotte al piano climatico: per poter agire in modo economico e green bisogna prima aver ridotto la complessità ambientale al rischio climatico.
Credo sia importante chiedersi come possano essere cambiate così radicalmente le cose, in 20 anni. Si dirà: in quei 20 anni era già cambiato il mondo. È vero, ma qui partiamo da un punto in cui una parte delle élite globali aveva individuato nelle tendenze in atto a livello ambientale e demografico un potenziale catastrofico. Quegli scenari, elaborati da un’università prestigiosa e diventati (com’è tutt’altro che ovvio) un libro pubblicato, hanno segnato in modo fortissimo tutto il dibattito del tempo. Se è lecito parlare di “effetto Greta”, è anche possibile parlare di “effetto-Club di Roma-MIT”. Cosa è successo, tra Stoccolma e Rio?
Gli autori del libro ripercorrono quel periodo andando alla ricerca di antecedenti della giustizia climatica, localizzati soprattutto negli anni Sessanta, saltando poi agli anni Novanta come fase di accelerazione del degrado ambientale e conseguente produzione di nuove resistenze (p. 94). Qui vorrei portare alcuni elementi per meglio delineare la dinamica interna alle élite economiche. A tal fine, è di grandissima importanza storica la ricerca condotta da Ann-Kristin Bergquist e David Thomas sugli archivi dell’International Chamber of Commerce (ICC)6.
In questo lavoro del 2023 si evidenzia come tale organizzazione abbia lavorato fin dal 1972 per influire sulla governance ambientale internazionale, contribuendo poi attivamente, assieme ad altri soggetti, a definire i caratteri della Conferenza di Rio del 1992. Il titolo dell’articolo, “Oltre i limiti planetari”, è particolarmente indovinato: si tratta di ricostruire la genesi di una politica che punta ad andare oltre i limiti non del famoso libro, ma della realtà.
In effetti, a forza di parlare di “neo-liberalismo” come fosse il bar sotto casa (e non parlo degli autori del libro) si finisce con il perderne il carattere magico. Fine anni Settanta. Lo stato della Terra alimenta già da un po’ il genere apocalittico. L’ordine occidentale è mantenuto a colpi di golpe, la società dei consumi ha scoperto l’eroina e ci dà dentro alla grande. Negli Stati Uniti, epicentro della crisi economica e spirituale, il sociologo Christopher Lasch convince il Presidente uscente, Jimmy Carter, e impostare la campagna per la sua rielezione su principi di verità e austerità. Stravince lo sfidante, Ronald Reagan, nel passato grande attore di western, con un programma opposto. È il battesimo di una nuova politica che avrà la prodigiosa capacità di svincolarsi dalla realtà per come allora conosciuta, con le sue contraddizioni e i suoi vincoli, proiettandosi in un altro mondo, a forte tasso di virtualità ma con effetti concreti: ne saranno il simbolo l’esplosione dell’economia finanziaria. La società dei consumi diventa “società dei simulacri” (Baudrillard, Perniola). E il mondo reale, con i suoi limiti alla crescita? No limits! E la fine delle risorse? Risorse senza fine! In questa politica fantastica, l’ecologia in quanto principio di realtà materiale non può che occupare un palco secondario.
Ora, al di là del carattere un po’ giocoso di questa ricostruzione, resta che una cosa del genere capita anche tra Stoccolma e Rio. Qui rimandare al “neo-liberalismo” come fattore esplicativo non ha tanto senso, poiché le politiche “neo-liberali” possono essere molto diverse: l’impatto del neo-liberalismo sulla gestione internazionale della crisi ambientale, in astratto, avrebbe potuto significare l’opposizione a ogni meccanismo regolativo ai danni della libertà delle imprese, quindi il boicottaggio di ogni conferenza avente a che fare con poteri potenzialmente vincolanti. Come vedremo, è questo l’atteggiamento inizialmente adottato dall’amministrazione Reagan rispetto agli organismi UN attivi nel campo della crisi ambientale. Come si arriva a Rio, dove l’industria fa gli onori di casa e si presenta stretta intorno a un’agenda ben definita?
Il lavoro di Bergquist e Thomas aiuta a ripercorrere le tappe della metamorfosi delle élite economiche occidentali. In estrema sintesi, l’articolo, a cui rimando e da cui attingo tutte le informazioni di seguito riportate, informa sul fatto che i punti in discussione alla Conferenza di Stoccolma furono oggetto di attento esame preventivo da parte degli ambienti industriali. La prima conclusione fu che lo sforzo richiesto in termini di rispetto dell’ambiente sarebbe stato estremamente costoso e che questo rendeva necessario un’azione immediata da parte della ICC. A tal fine presso gli uffici parigini dell’ICC venne organizzato, nel febbraio 1972, un incontro con il Segretario Generale della Conferenza, Maurice Strong7. Nell’incontro, a cui prese parte Aurelio Peccei, Strong si impegnò a fornire aggiornamenti informali sulla Conferenza in preparazione e a rispondere alle eventuali questioni.
Quello che viene avviato è un rapporto diretto tra enti delle Nazioni Unite preposti alla questione ambientale e rappresentanza industriale internazionale, che evolverà nel senso di una relazione sempre più osmotica, prima a livello economico, poi a livello politico. In un primo tempo, infatti, cioè fino ai primi anni Ottanta, l’atteggiamento dell’ICC rimane sostanzialmente difensivo e punta a stornare ogni regolazione esterna volta a limitare l’impatto del sistema economico sull’ambiente, sostenendo la via di un’autoregolazione da parte dei soggetti economici. La svolta si ha con il WICEM – World Industry Conference on Environmental Management di Versailles, del 1984. Questa non è solo la prima conferenza organizzata insieme da un ente delle Nazioni Unite e da una rappresentanza di soggetti economici e industriali, ma è anche il luogo in cui fa la sua prima apparizione il concetto-chiave di “sviluppo sostenibile”. Questa invenzione spinge tra le altre cose l’ICC a tradurre l’auto-regolazione in specifici programmi di management, pronti per essere implementati dalle imprese. La via che porta a Rio è ancora lunga, ma è già segnata nei suoi tratti fondamentali. Tutto è pronto perché l’ultimo miglio di questa transizione sia compiuto con il coinvolgimento di Stephan Schmidheiny, industriale svizzero vicino alla ICC, nominato adviser da Strong in sede di organizzazione della Conference di Rio con l’incarico di rappresentare il mondo imprenditoriale e di “incoraggiare e promuovere una vasta espansione dell’interesse verso lo sviluppo sostenibile tra imprese e industrie” (p. 26). Non si tratta di omonimia, è proprio lo Schmidheiny erede dal 1976 del gruppo Eternit, direttore dal 1976 al 1986 dell’omonimo stabilimento di Casale e per questo dal 2009 principale indagato nell’ambito dei “processi-Eternit”, ancora in corso8.
Alla luce della ricostruzione condotta da Bergquist e David, la posizione del Club di Roma e della pubblicazione de “I limiti alla crescita” non appare affatto espressione di posizioni rappresentative delle élite economiche del tempo, nemmeno all’inizio degli anni Settanta (quando esse si mobilitarono subito in senso difensivo). Ugualmente, sarebbe fuorviante vedere nel processo che conduce a Rio una dinamica omogenea e compatta: i manager SHELL, citati da Bergquist e David nell’articolo, giudicano il tentativo di combinare crescita economica e protezione ambientale “troppo ottimistico”. Vediamo già qui la traccia di un’area fondamentalmente contraria o scettica rispetto ai principi della green economy – un’area diventata oggi predominante (o che ha deciso oggi di rendersi manifesta e attiva).
Dopo questo lungo excursus, tornando alle analisi di Imperatori e Leonardi sulle diverse facce del negazionismo ambientale e sulle posizioni oggi assunte dalle élite economiche, si potrebbe dire che la fine del consenso sulla green economy abbia portato in primo piano posizioni, che potremmo denominare “realiste”, rimaste a lungo sottotraccia ma mai scomparse. Anzi, si potrebbe ipotizzare che la fede nel mercato come nuova frontiera delle politiche ambientali e gli annessi dispositivi finanziari escogitati a Kyoto9 siano frutto di una parentesi culturale ed economica nel complesso breve (circa 15 anni), prolungatasi per inerzia e mancanza di alternative difendibili.
In ogni caso, la diversità di accenti o prospettive non deve far perdere di vista il punto principale: il libro è molto importante ed è assolutamente da leggere e discutere, anche perché collegato alla produzione di due autori appassionati e originali, capaci di mediare tra impegno politico ed esigenze e relativi format accademici.
1 Un fronte apertamente negazionista si è manifestato nella stessa COP di Katowice (p. 51).
2 Il progetto di riconversione è stato sviluppato insieme a collettivi ecologisti ed è stato pubblicato come quaderno della Fondazione Feltrinelli, dal titolo: “Un piano per il futuro della fabbrica di Firenze. Dall’ex GKN alla Fabbrica socialmente integrata”.
3 Secondo questa impostazione, il “neoliberalismo” si regge anche sul potere di far accadere cose per il solo fatto di nominarle in un certo modo. Per questo, l’unica opposizione efficace dovrà essere dotarsi di un’analoga capacità performativa, pena l’ineffettualità. Questo mix di undicesima tesi e postmodernismo è tra le altre cose all’origine di gigantesche vertenze su parole, sulla base della convinzione che non si tratti “solo” di parole. In fondo, se sono le parole del potere a fare la realtà, per cambiare la realtà bisognerà come prima cosa cambiare le parole. L’idea, già di per sé discutibile, nei fatti si degrada in una pratica neologistica o ridefinitoria che ha esiti non di rado grotteschi (penso al mio campo e all’epopea della nuova definizione di “museo”, andata avanti anni e infine sfociata in una sudatissima revisione parziale, compiuta mentre larga parte dei musei reali versano in stato comatoso per assenza di fondi, organizzazione e prospettiva culturale).
4 Vero che esiste anche il «piano» di «Non Una Di Meno» (p. 98), ma “piano” è anche un termine mitico dell’Italia degli anni Sessanta, a cui fece il verso la rivista “Contropiano”.
5 Come dice bene un operaio della GKN, sta peggio il giornalista a 5 euro a cottimo che va a chiedergli come stanno (passo riportato a p. 131).
6 Cfr. Bergquist A-K, David T.: Beyond Planetary Limits! The International Chamber of Commerce, the United Nations, and the Invention of Sustainable Development, «Business History Review», 2023; 97(3):481-511. doi:10.1017/S0007680522001076.
7 Come noto, Strong divenne in seguito Segretario Generale di UNEP – United Nations Environment Programme, dal 1973 l’ente UN deputato alla governance ambientale. Fu poi membro della Commissione Brundtland e Segretario Generale della Conferenza di Rio.
8 “Il Sole 24 Ore” del 7 giugno 2023 nota: “L’industriale svizzero Stephan Schmidheiny è stato condannato a 12 anni di carcere per le morti legate all’amianto, il reato è stato derubricato da omicidio volontario con dolo eventuale a omicidio colposo. Questa la sentenza in Corte d’Assise a Novara del processo Eternit bis per la morte di 392 persone vittime dell’esposizione al minerale nel territorio di Casale Monferrato. Schmidheiny è stato condannato anche a pagare 50 milioni di euro di risarcimento al Comune di Casale, 30 milioni allo Stato italiano e centinaia di milioni ai familiari delle vittime” (cfr. https://www.ilsole24ore.com/art/eternit-bis-industriale-schmidheiny-condannato-12-anni-AEzRGYbD, consultato il 9 febbraio 2024).
9 Si rimanda al notevole lavoro di Leonardi: “Carbon trading dogma. Presupposti teorici e implicazioni pratiche dei mercati globali di emissioni climalteranti”, in Jura Gentium, 16 (1):54-73 (2019).