Alberto Magnaghi, dalla città-fabbrica alla bioregione urbana. Dalle interpretazioni strutturali alla ricostruzione del rapporto tra l’uomo e il suo ambiente
Ricostruire il percorso scientifico di ricerca di Alberto Magnaghi significa ripercorrere gli ultimi cinquant’anni di trasformazioni dei modelli produttivi, delle dinamiche sociali e delle mutevoli dimensioni spaziali che le hanno accompagnate. La ricerca di Magnaghi, limitandoci alle sue opere fondamentali, inizia nel pieno dell’epoca fordista con la pubblicazione di La Città Fabbrica1. Un libro coerente con l’origine culturale operaista di Magnaghi e di altri redattori, applicata nell’analisi territoriale, intesa come una metodologia marxista che individua nel conflitto di classe tra operai e capitale la fonte delle trasformazioni produttive e territoriali del modello di sviluppo capitalistico.
L’approccio di Magnaghi guarderà al territorio con una visione olistica, senza limiti disciplinari, connettendovi i diversi approcci scientifico-culturali – dall’urbanistica alla sociologia, dall’economia alla storia e alla geografia dei luoghi.
Le tematiche che possono sintetizzare il percorso scientifico di Magnaghi sono individuabili in alcuni concetti fondamentali (città fabbrica, città digitale, sviluppo locale, coscienza di luogo, bioregione urbana, principio territoriale) che sintetizzano l’intera sua opera e richiameremo in questo contributo. Concetti che abbracciano l’intera vita di ricerca di Alberto, che ha continuato a lavorare fino all’ultimo dei suoi giorni lasciando una corposa eredità scientifica e culturale, oltre ad una metodologia capace di connettere ricerca applicata e riflessione teorica. Un’eredità da non disperdere ma da assumere a riferimento e continuare a sviluppare.
Dalla città fabbrica alla città digitale
La città fabbrica assume le funzioni di “fabbrica complessiva”, concentrando impianti produttivi e forza-lavoro in un’area metropolitana, con le funzioni di mezzo di produzione e di riproduzione della forza-lavoro. Rappresenterà il trionfo del modello fordista e dello sviluppo industriale, con al suo interno la contraddizione principale tra la necessità di concentrare impianti e forza-lavoro e, dall’altro, di scorporare e frantumare il processo lavorativo, per frenare l’accumulo di forza e di potere da parte dei lavoratori. Una contraddizione che si risolverà con il decentramento produttivo su scala internazionale e nazionale.
La rivista “Quaderni del Territorio” nasce proprio per analizzare i processi di ristrutturazione produttiva in corso, dopo che le lotte operaie degli anni ’60-‘70 avevano evidenziato l’ingovernabilità della concentrazione di fabbriche e operai nelle grandi città del Nord. Era il tramonto della città-fabbrica, ma anche di un tessuto urbano dominato dal processo produttivo nei suoi tempi di vita e riproduzione. La grande fabbrica si trasformava in fabbrica diffusa, mentre nel cuore dell’Italia centrale emergeva il modello del distretto industriale, cambiava la struttura economico-produttiva delle vecchie aree di concentrazione industriale, attraverso processi di terziarizzazione e il privilegio di settori ad elevata composizione organica del capitale, con la “[…] conseguenza di rendere minoritario l’operaio-massa, modificando radicalmente la struttura e la composizione della forza-lavoro”2.
La forza del movimento operaio italiano derivava anche dal mancato funzionamento del marxiano “esercito industriale di riserva”3. Il mercato del lavoro si presentava segmentato in comparti non comunicanti.
Le analisi dei Quaderni seguiranno le diverse trasformazioni dei territori: dalla scomposizione delle città fabbriche al Nord ai sistemi distrettuali nel Centro. Nel Mezzogiorno le analisi rifletteranno le diversità interne ad un territorio multiforme: dagli effetti dei poli di sviluppo sulle economie locali fino alle trasformazioni nel sistema assistenziale, sottoposto alla pressione dei disoccupati per lavori socialmente utili o trasferimenti assistenziali, la cui presenza nel centro storico era messa in discussione dai progetti di riconversione territoriale. La rivista si poneva non solo l’obiettivo di ricostruire le forme attraverso cui il governo del territorio si trasformava in governo della fabbrica sociale, ma anche di analizzare le trasformazioni del mercato del lavoro con il diffondersi di forme di precariato intellettuale con crescita del lavoro cognitivo, al fine d’identificare la nuova figura di “operaio sociale”.
Magnaghi riconoscerà che la rivista ha “privilegiato una interpretazione strutturale del territorio, incentrata sugli effetti di breve e lungo periodo, sull’organizzazione dello spazio del conflitto fra capitale e lavoro” 4. Certamente un limite della stessa teoria e politica dello sviluppo economico che per Paesi o aree arretrate mirava a potenziare fattori strutturali (investimenti in capitale fisico, strumenti di produzione o infrastrutture) trascurando il ruolo dei fattori immateriali5, come il capitale cognitivo e sociale. La svolta di quest’approccio avviene con il declino del modello fordista, centrato su una forza-lavoro senza qualifiche, l’operaio-massa, investito dalle innovazioni tecniche, come la microelettronica, che richiedevano lavoratori qualificati.
Con la sua capacità di leggere il futuro anticipandone le tendenze, Magnaghi concepisce l’avvento della metropoli informatica come “un incessante movimento di trasferimento di attività, relazioni, immagini, informazioni, verso l’universo del codice informatico e delle telecomunicazioni”6. Una prospettiva che tende a relegare lo spazio fisico in un insieme di oggetti residuali, con l’affermarsi di una tendenza “a distruggere l’idea dello spazio come fattore principale dell’organizzazione sociale”, in uno scenario prevalentemente aspaziale della metropoli informatica.
L’avvento delle produzioni post-tayloristiche trasformeranno l’uso del territorio, rompendo le vecchie gerarchie funzionali (la grande fabbrica, le aree residenziali), per passare ad un insieme di funzioni sovrapposte e/o intersecate. Una trasformazione che farà perdere senso all’attribuzione di destinazioni d’uso ad ogni singola area (zoning), con i sistemi cibernetici a veicolare merci ed informazioni7.
Magnaghi anticipava la prospettiva della città digitale, proiettando sul governo del territorio il ruolo egemone dell’informatica, ragionando nei termini di flussi che assorbono lo spazio fisico. Il futuro gli darà ragione, ma evidenzierà anche elementi di resistenza dello spazio fisico, tra cui le necessità d’incontri fisici dei ricercatori impegnati in studi complessi, nei poli innovativi con una concentrazione urbana di università, centri di ricerca pubblici e privati e di una popolazione istruita per facilitare la comunicazione scientifica, oltre all’uso ibrido di reti digitali ed occupazione di spazi fisici nelle lotte urbane.8
A distanza di circa 40 anni, Magnaghi9, riprenderà le funzioni della città digitale e i suoi effetti di deterritorializzazione, in cui l’avvento della società robotizzata e digitale, l’iperspazio telematico, intelligenza artificiale diffusa e flussi globali opereranno relegando come residuali i fattori spaziali. Vi si opporrà la strategia dello sviluppo locale come capacità d’inserire, tra i flussi globali, la valorizzazione dei nodi territoriali, con la ripresa del legame tra ambiente fisico naturale ed antropico.
Lo sviluppo locale
Dall’inizio degli anni ’90 Magnaghi approfondirà la tematica dello sviluppo locale, pervenendo poi alla definizione del territorio come essere vivente che nasce dalla fecondazione della natura da parte della cultura10, un neo-ecosistema con un suo ciclo di vita ma anche un’identità già percepibile dal paesaggio. Lo sviluppo e l’uso delle tecnologie assumerà invece una visione del territorio come “superficie insignificante” come mero sostegno all’attività produttiva. La grande impresa fordista, concentrando al suo interno tutte le funzioni e i servizi necessari, aveva ridotto la dipendenza dal territorio ospitante. La città metropolitana, la sua organizzazione territoriale per funzioni vanificherà ogni ipotesi d’integrazione tra ambiente fisico-naturale, costruito ed antropico, mentre la tecnologia informatica confinerà lo spazio materiale a ruolo di appendice dello spazio virtuale. Il processo d’integrazione internazionale dei mercati attiverà due spinte contraddittorie: una verso la perdita d’identità dei luoghi, la deterritorializzazione11, un’altra tesa alla valorizzazione delle specificità territoriali al fine di attrarre risorse mobili ed allargare gli spazi di mercato delle esportazioni. Verrà così definendosi l’approccio territorialista che identifica, nella rottura tra ambiente fisico ed antropico, l’elemento da cui partire per affrontare il problema della sostenibilità, ricostruendo il rapporto tra le componenti fondamentali del territorio, estendendo il concetto becattiniano di luogo oltre le soglie distrettuali. Un ruolo centrale in tale trasformazione giocano le esperienze comunitarie, siano esse etniche, sociali o volontarie nel relazionarsi ai luoghi produttivi in trasformazione. Magnaghi definisce lo strumento di questa trasformazione nello Statuto dei luoghi che individua le invarianti strutturali, le modalità di trattamento dei valori territoriali e le regole della trasformazione. Identifica il patrimonio territoriale come prodotto di un processo storico di lunga durata, valore potenziale che diviene risorsa territoriale, se interpretato attraverso un progetto che ne evidenzi le sue potenzialità. Risorse che vanno a costituire il capitale territoriale di un sistema locale.
La globalizzazione dei mercati ha ridefinito lo sviluppo locale come capacità di attrarre risorse esterne per valorizzare le risorse interne ed arricchire le competenze locali. Centrali divengono le economie esterne, frutto di beni collettivi locali, che se inizialmente possono essere spontanee e non coordinate, poi – a fronte di produttori autonomi – necessitano di processi consapevoli nella generazione di beni collettivi. I luoghi differenziano i territori con le loro identità, potenzialità e risorse nascoste divenendo di nuovo centrali.
La coscienza di luogo
L’incontro tra Giacomo Becattini e Alberto Magnaghi s’incentrerà sul passaggio dalla coscienza di classe alla coscienza di luogo12. Becattini noterà che la “coscienza di luogo” esisteva prima ancora dell’avvento del capitalismo; con un rapporto tra luogo e comunità vivente, che garantiva la riproduzione biologica e relazionale nelle comunità. Il capitalismo ha «sfarinato» i luoghi, disperdendone la coscienza, producendo «non luoghi» senza identità. Poi ha disperso la «coscienza di classe», delle grandi fabbriche fordiste, sfarinandola lungo le linee del decentramento produttivo.
Se la coscienza di classe ha rappresentato:
“un autoriconoscimento collettivo della condizione di sfruttamento di simili, che attiva la lotta di classe; la coscienza di luogo riguarda…i rapporti conflittuali fra una comunità insediata e il suo luogo di vita nella sua composizione complessa (contadini, artigiani, operai, lavoratori della conoscenza, imprenditori, ecc.) che si manifesta quando questa variegata composizione sociale trova, nella liberazione dal lavoro subordinato e nel bene comune del proprio patrimonio, la forza propulsiva di un patto solidale funzionale alla costruzione del benessere collettivo”13.
Mi sia consentito di aggiungere, a questa definizione, che la coscienza di luogo è anche coscienza delle fragilità dell’ambiente in cui si vive, poiché il degrado ambientale parte dai luoghi, dalla cementificazione territoriale, dall’uso delle aree periferiche come discariche di rifiuti urbani, produttivi e sociali, da pratiche autolesionistiche, come l’eliminazione dei terrazzamenti nelle isole o, come nella Terra dei Fuochi, con incendio di rifiuti industriali all’aria aperta.
È consapevolezza del valore patrimoniale dei beni comuni, materiali (acqua, aria, territorio) e immateriali (saperi e tradizioni produttive), presenti in un territorio, fattori di riproduzione della vita individuale e collettiva; elementi naturali da sviluppare con politiche di valorizzazione. Si acquisisce nel percorso di trasformazione culturale degli abitanti/produttori, attraverso un processo individuale e collettivo per la ricostruzione di elementi di comunità, in forme aperte, relazionali e solidali. Ha alle spalle una comunità, conscia della potenzialità, delle fragilità ma anche delle potenzialità delle risorse nascoste e potenziali.
La forma delle città: la bioregione urbana
Il crescente processo di urbanizzazione mondiale va letto lungo i due assi in cui è storicamente avvenuta la crescita urbana. Quello verticale, con un accentramento di popolazione in aree urbane, e quello orizzontale, estendendo la cementificazione del suolo verso aree agricole. Nel primo caso, la “città verticale”, priva di risorse agricole, idriche e alimentari, importa dall’esterno il necessario per la vita e la sopravvivenza della sua popolazione e – nel caso di metropoli o megalopoli – divorerà risorse ambientali, umane e territoriali, tanto da assumere un ruolo parassitario e devastante per l’ambiente. Nel secondo caso, la città diffusa, la sua crescita orizzontale aumenta il consumo di suolo con danni alla biodiversità e alle produzioni agricole
A fronte di queste due alternative dei modelli di crescita urbana, entrambe portatrici di squilibri territoriali e di uno sviluppo non sostenibile, viene da chiedersi se esista una terza possibilità sostenibile per l’ambiente. Domanda molto attuale oggi che ci si prova, attraverso l’elaborazione di politiche di rigenerazione urbana, a rivitalizzare le parti morte o abbandonate delle grandi metropoli, come nelle periferie ma anche per edifici o aree in disuso negli stessi centro storici. Il problema è se sia sufficiente intervenire con attività compensative e/o mitigative su limitate porzioni di territorio, su cui si sono scaricati gli effetti più dirompenti di una crescita illimitata o se, invece, bisognerebbe ricercare una soluzione che si fondi su un modello di coevoluzione tra aree urbane e rurali.
Proprio dal riconoscimento dei limiti delle attività compensative nasce la proposta della bioregione urbana caratterizzata da:
“a) una pluralità di centri piccoli e medi, urbani e rurali, organizzati in sistemi reticolari non gerarchici e connessi con il proprio territorio agroforestale […]; b) dalla presenza interagente di sistemi idro-geo-morfologici e ambientali complessi e differenziati, relazionanti consapevolmente in forme coevolutive e sinergiche con il sistema insediativo, urbano e agroforestale […]; c) dalla dotazione essenziale di forme di autogoverno finalizzate all’autosostenibilità del sistema stesso e al benessere degli abitanti”14.
Tre caratteristiche che mirano a rafforzare le identità dei centri (i nodi) in una prospettiva di equilibrio dinamico, senza sviluppare relazioni di tipo gerarchico in un modello centro-periferia, rappresentando una guida per le operazioni di rigenerazione urbana, riconnettendo urbanizzazione e territorio rurale, in modo da riprodurre il metabolismo urbano anche attraverso la fornitura di servizi ecosistemici.
La proposta è di affrontare “la tematizzazione della complessità e multisettorialità della questione ecologica mediante strumenti concettuali del bioregionalismo, al fine di riattivare relazioni sinergiche fra sistemi antropici, ambiente e mondi viventi e ristabilire processi di coevoluzione fra insediamenti umani e contesti naturali”15:
“la città bioregionale rappresenta un’area urbanizzata […] circondata dalla rete ecologica di penetrazione e di attraversamento che porta il vivente a ricreare collegamenti e confini all’interno della componente urbana. La città bioregionale incentiva mobilità dolce e trasporti pubblici, rigenera i quartieri e gli edifici favorendo la riduzione della pressione sull’ecosistema con soluzioni innovative di riuso e riciclo delle risorse”16.
Un obiettivo ambizioso e innovativo che per realizzarsi richiede crescita della coscienza di luogo per coinvolgere le popolazioni nella ricucitura tra l’uomo e il suo ambiente, ma anche un sistema istituzionale con l’attuazione reale del principio di sussidiarietà, che per Magnaghi deve fondarsi su “un sistema sussidiale di decisioni dal basso verso l’alto, che costituisce il nucleo fondativo di un modello di federalismo municipale solidale che rivaluta la municipalità in quanto forma di autogoverno e autonomia, e le sue reti come locale di ordine superiore”17.
Il principio territoriale
Rappresenta la sua opera omnia che ricostruisce e sistematizza in un unico volume i principi e i concetti cui è pervenuto il lavoro di ricerca nel corso della sua vita. Da questa ricostruzione dell’evoluzione del pensiero di Alberto Magnaghi vengono fuori non solo i principi guida per la ricostruzione del rapporto tra uomo e ambiente, ma mettendo capo ad un nuovo modello delle politiche di rigenerazione urbana. Il suo titolo, “Il principio territoriale”, è l’omaggio ad Adriano Olivetti e al suo riconoscimento della “comunità concreta” come primo livello fondativo dello Stato federale. Magnaghi propone un modello di democrazia partecipativa per affrontare forme di autogoverno territoriale delle comunità locali. Il prerequisito è quello della riappropriazione dei saperi contestuali come base delle capacità autodecisionali e della crescita della coscienza di luogo. Magnaghi censirà le diverse forme e strumenti di pianificazione dal basso e di auto-organizzazione socio-territoriale nelle periferie urbane, fino a forme di autovalorizzazione dei beni comuni patrimoniali, costituenti forme di autogoverno comunitario e di protagonismo sociale.
Non è retropia, né nostalgia di un passato pre-industriale, ma un progetto di rifondazione del rapporto tra uomo e natura, centrato sul ruolo attivo delle comunità locali.
1 A. Magnaghi, A. Perelli A., C. Sarfatti, C. Stevan, La Città Fabbrica. Contributi per un’analisi di classe del territorio, Milano, CLUP, 1970.
2 A. Magnaghi, Il territorio nella crisi, in “Quaderni del Territorio”, n.1 (1976), pp. 15-29.
3 Cfr. M. D’Antonio, Sviluppo e crisi del capitalismo italiano 1951-1972, Bari, De Donato, Bari, 1973, pp. 17-19.
4 A. Magnaghi (a cura di), Quaderni del Territorio. Dalla città fabbrica alla città digitale. Saggi e ricerche (1976-1981), Roma, DeriveApprodi, 2021, p. 8.
5 A. Flora (a cura di), Mezzogiorno e politiche di sviluppo. Regole, valori, capitale sociale, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2002; A. Flora, Lo sviluppo economico, il ruolo dei fattori immateriali. Nuove frontiere della ricerca, Milano, FrancoAngeli, 2008.
6 A. Magnaghi, “Il terziario nella metropoli post-industriale: una categoria interpretativa obsoleta”, in S. Belforte, La riconversione del terziario, Milano, Celuc, 1981, pp. 7-14.
7 A. Magnaghi, Il sistema di governo delle regioni metropolitane, Milano, FrancoAngeli, 1981.
8 M. Castells, Reti d’indignazione e di speranza, Milano, Università Bocconi, 2012.
9 A. Magnaghi, Il principio territoriale, Torino, Bollati Boringhieri, 2020.
10 A. Magnaghi, Il progetto locale, Torino, Bollati Boringhieri, 2000.
11 M. Giusti, A. Magnaghi, “L’approccio territorialista allo sviluppo sostenibile”, in Archivio di studi urbani e regionali, n. 51 (1994).
12 G. Becattini, La coscienza dei luoghi, Il territorio come soggetto corale, Roma, Donzelli, 2015. In particolare, nello stesso testo, G. Becattini, A. Magnaghi, “Coscienza di classe e coscienza di luogo. Dialoghi tra un economista e un urbanista”, pp. 115-222.
13 A. Magnaghi, Il principio territoriale, Torino, Bollati Boringhieri, 2020, p. 60.
14 Per la definizione completa di bioregione urbana, si rinvia a A. Magnaghi, Il principio territoriale, cit., p. 149.
15 A. Magnaghi, O. Mazzoca (a cura di), “Presentazione”, in Ecoterritorialismo, Firenze University Press, 2023, pp.VII-XIII.
16 D. Poli D., “La città come nodo della rete eco-territoriale della bioregione urbana”, in A. Magnaghi, O. Marzocca (a cura di), cit., p. 151.
17 A. Magnaghi, Il principio territoriale, cit., p. 203.