Aldo Grandi, Insurrezione armata, BUR, Milano 2005, pp.437
Si tratta di una raccolta di testimonianze di esponenti del gruppo “Potere Operaio”, attivo nei primi anni Settanta, il cui teorico ed esponente più celebre è stato Toni Negri. Sono materiali utili per la storia del ’68 in Italia ma qui ci interessano da un altro punto di vista: qual’era la percezione che i militanti rivoluzionari o meglio i contestatori di quell’epoca avevano dello sviluppo tecnico ed economico e dell’impatto del modo di produrre sull’ambiente e la salute. “Potere Operaio” esprimeva una sorta di marxismo avanguardistico, interessato unicamente ai punti alti dello sviluppo, ed era fautore di una modernizzazione accelerata. Concetto espresso pittorescamente ma efficacemente da uno dei protagonisti:«Quasi tutti, fino ad allora, avevano visto il comunismo come invidia di classe, i ricchi che dovevano diventare poveri; e i poveri che dovevano produrre trattori per altri poveri. Ad ascoltarli, gli emme-elle, il movimento studentesco, ma poi, anche le Brigate rosse, avrebbero riempito l’Italia di trattori. Per coltivare il Cervino. Invece quelli di Potere operaio e, in modo meno sfrontato, quelli di Lotta continua, raccontavano che gli operai dovevano avere salari alti, sempre più alti, la macchina per potere inquinare impunemente, la casa con l’affitto autoridotto. Tutta un’altra storia.» (Francesco “Cecco” Bellosi, pp.25-26).
Nelle oltre quattrocento pagine del libro non appare mai alcun riferimento alla crisi ecologica che proprio in quegli anni cominciava a suscitare l’attenzione, anche prima dello shock petrolifero: nel 1972 si tiene il primo vertice sull’ambiente delle Nazioni Unite a Stoccolma e in Italia viene pubblicato il rapporto commissionato dal Club di Roma allo MIT (D. H. Meadows et al. I limiti dello sviluppo, Mondatori, Milano 1972, ed or. 1971) nonché la traduzione del libro di Barry Commoner, Il cerchio da chiudere, Garzanti, Milano 1972 (ed. or. 1971).
Perché allora segnalarlo in questa sede? Il fatto è che esso contiene un testo che a me è parso di grande interesse e significato, un tassello prezioso di quell’altra storia del Novecento a cui è dedicata la rivista e molta e parte del lavoro della Fondazione e del Museo. Il contributo di Italo Srbogiò, già leader operaio al Petrolchimico di Porto Marghera, aiuta a capire aspetti importanti della storia sociale e politica del nostro Paese. Riporto qui di seguito una scelta di passi significativi riferiti ad un arco di tempo che va dai primi anni ’50 alla fine degli anni ’70, in pratica tutto il ciclo della “grande trasformazione” italiana in uno dei suoi epicentri materiali e simbolici.
«I primi impianti di quella che poi, attraverso nazionalizzazioni, acquisizioni, cessioni, ristrutturazioni, sarebbe diventata Montedison, risalgono ai primi anni ’50.
«Quando sono entrato in fabbrica non esisteva il sindacato cosiddetto “di classe”. I primi impianti produttivi iniziano nel 1951 con il reparto cloro-soda, TR1 (produzione tetracloretano), AC2 (acetilene), CV1 (cloruro di vinile monomero – CVM), CV3 (polivinilcloruro, PVC); continua lo sviluppo di altre produzioni quali acido solforico, acido fluoridrico e poi tante altre.
«Le maestranze arrivano dalla campagna: a lavorare sugli impianti erano operai degli zuccherifici di Cavarzere.
«I primi dirigenti della fabbrica provengono dalle gerarchie fasciste del ventennio. (…)
«A quei tempi l’organizzazione padronale in fabbrica era di stampo fascista, le maestranze dovevano osservare un regolamento interno del personale; a una minima trasgressione (ad esempio: scoperto dal guardiano a fumare) si veniva licenziati in tronco in barba alla disciplina regolarizzata dal C.C.N.L.
«La vita lavorativa in fabbrica diventa sempre più insostenibile.
«Per evitare infortuni non ci sono consigli, ma solo minacciosi divieti e ricorso a provvedimenti disciplinari. (…)
«Ricordo il luglio 1961, era in corso il rinnovo del contratto di lavoro dei chimici, viene proclamato uno sciopero nazionale dei chimici, vi partecipano una decina di lavoratori. (…)
«Nonostante ciò continuavamo a organizzarci e a partire con le nostre prime rivendicazioni e, pur non conoscendo affatto la filosofia della nostra organizzazione del lavoro, già allora tentavamo di formalizzare le prime proposte. (…)
«A quei tempi il salario era formato dalla paga base, dalla contingenza e dal cottimo; altro salario differito non esisteva. Per i chimici (non manifatturieri) il cottimo non esisteva e la quantità di produzione era legata esclusivamente alla quantità di presenze. Rivendicare allora una diminuzione di orario significava una drastica riduzione del salario. Però diminuire l’orario significava andare contro i dogmi del Pci, soprattutto contro il dogma del grande lavoratore che lavora, che lavora sempre, che lavora sodo, oggi, per avere un domani, più o meno lontano, tutto. Se poi l’informazione, o meglio la controinformazione prodotta dal movimento dei giovani che si stava allargando, si azzardava a mettere in discussione questi dogmi, era subito criminalizzata, in quanto l’organizzazione del Pci, il suo centralismo democratico non ammetteva dissidio alla propria dottrina.
«Quando mi sono avvicinato anch’io a questo nuovo movimento, ho incominciato a conoscere cose che mi sembravano dapprima incomprensibili: ho imparato, per esempio, ad analizzare le varie voci che comprendevano il salario e come eventualmente ricomporle nelle future rivendicazioni.
«Il movimento incominciava a dire che il progresso, termine a noi sconosciuto, presupponeva la partecipazione di tutti, mentre finora il solo concetto certo che la classe operaia conosceva era il binomio pane-lavoro: se non c’era il lavoro non c’era il pane. Analizzando allora le voci che articolavano il salario si incominciava a dire che il cottimo, per esempio, doveva essere eliminato. (…)
«Ricordo un’assemblea di tutti i chimici di Porto Marghera, organizzata dal sindacato al cinema Marconi di Mestre.
«Erano presenti una trentina di operai. Il giorno dello sciopero, lo stesso cinema era pieno, il dibattito era accesissimo, critico nei confronti del sindacato. Io feci un intervento appassionato, ero salito alla ribalta come capo popolo. Con grande entusiasmo indicai negli operai dei reparti di produzione (CVM monomero) una vera forza di avanguardia dello schieramento in lotta, un esempio da imitare. Il 21 giugno 1968 partì una grande lotta con l’obiettivo: aumento in busta paga uguale per tutti. Parteciparono tutte le fabbriche chimiche di Porto Marghera e vi fu un’assemblea e un incontro studenti-operai nei picchetti. (…)
«I trascinatori di questa lotta eravamo noi del Petrolchimico. Ma è anche vero che le altre fabbriche del gruppo (allora Vetrocoke, Azotati, Vego, Fertilizzanti) che oggi non ci sono più perché smobilitate, o chiuse, accettarono con entusiasmo il piano di lotta. (…)
«Lo sciopero continua con massiccia partecipazione, al punto tale da chiedere al padrone di ridurre il numero dei lavoratori indispensabili per la salvaguardia degli impianti.
«La lotta si fa sempre più dura, si programmano cortei bloccando tutta la viabilità delle città di Marghera, Mestre e Venezia al grido di “cinquemila lire subito” – “Potere operaio”. (…)
«E ancora blocco totale della viabilità con cortei di diecimila persone, fino alla occupazione della stazione ferroviaria occupando i binari. Questa era la prima volta che i lavoratori in lotta occupavano obiettivi considerati impossibili da parte delle istituzioni. Lo scontro fisico con i celerini era pronto per scoppiare. I celerini si schierarono armi in pugno pronti a caricare, gli operai con le loro armi, i sassi, si stringono attorno alla celere al punto tale che il commissario ordina ai celerini di andarsene. Da parte operaia, baci e abbracci gridando:“abbiamo vinto”.
«Siamo alle soglie degli anni ’70. (…) La politica delle cose da fare diventa sempre più professionale, c’è ormai difficoltà anche a farsi capire e, a poco a poco, molti compagni non si riconoscono più in questi gruppi ma continuano comunque a lottare e proporre forme di partecipazione diffusa, con tenacia, con entusiasmo perché credono ancora nel cambiamento, nel modo di vivere la vita, il lavoro, senza chili di ideologia di volta in volta sciorinata da intellettuali che interpretano i testi sacri a modo loro.
«Gli operai, e io con loro, hanno avuto una enorme difficoltà a capire l’avvicendarsi così repentino di fatti nuovi, filosofie nuove… non restava che cavalcare questo decennio così veloce e incredibile». (…)
«Il Capannone del Petrolchimico esiste, ancora oggi, perché noi per primi l’abbiamo voluto, per discutere, per dibattere l’evolversi delle lotte, degli scioperi. Una vera e propria cultura del dibattito. Novelli discepoli di Socrate: sofisti-artigiani della classe operaia, e come gli artigiani ci strappavamo gli abiti in quella fucina del Petrolchimico e da quella fucina molti intellettuali proletari contribuirono nell’elaborazione di piattaforme contrattuali che fecero poi da guida, per parecchi anni, alle bozze di contratti collettivi nazionali di lavoro». (…)
«Stavamo anche acquisendo quella che oggi definiremmo una cultura ambientalista, volevamo il risanamento degli impianti, organizzando scioperi spontanei. Il sindacato, incalzato e sorpassato da continue rivendicazioni, ha dovuto “cavalcare” la situazione». (…)
«La nostra lotta non conosceva tregua, come non avevano sosta i continui dibattiti su tutto quello che accomunava. Il sindacato veniva a ruota, incalzato dalla spinta operaia si trovò costretto a parlare di nuova organizzazione del lavoro, dei comitati di reparto, dell’articolazione dei turni per reparti, e dello sciopero bianco.» (…)
«Il mio lavoro politico consisteva (…) nella pratica di lotta, giorno dopo giorno, in fabbrica e nell’impegno sociale fuori di essa. Lotta che nelle sue forme, anche da me indicate, erano e sono tutt’ora consentite dal nostro ordinamento istituzionale.
Ricordo invece con grande tristezza la morte di alcuni lavoratori caduti per mano della polizia di stato in occasione di lotte politiche e, con altrettanta angoscia, mi vengono alla mente altre morti perpetrate da sedicenti organizzazioni rivoluzionarie. In nome e per conto di chi? La classe operaia, i lavoratori tutti a nessuno hanno mai dato questa delega, non hanno mai legittimato nessun assassinio». (…)
«…la gente delle fabbriche, dei quartieri, aveva creduto (…) fortemente, che una volta rivendicato e ottenuto il valore prodotto, avrebbe messo in ginocchio il padrone. Si sentì completamente sconfitta quando constatò che non solo non era vero questo assunto, ma che nemmeno le forze politiche tradizionalmente vicine alle lotte operaie credevano e appoggiavano questo progetto, pur cavalcando furbescamente la protesta di quel momento. E dopo la sconfitta politica, la repressione da parte dello stato che non poteva tollerare i gruppi di avere consensi. Eppure poteva essere un finale formidabile per una storia cominciata da anni.
«All’operaio di massa, dequalificato, senza radici, privo di credito, responsabile di aver disorientato i partiti della sinistra e i modelli da essa imposti a dispetto di ogni tentativo di rimozione individuale e collettiva, è rimasto il merito di aver avviato l’intreccio di un grande ciclo di lotte per una diversa qualità della vita nella fabbrica e nella società».