Alfonso Draghetti (1888-1960): le radici dimenticate (ma molto attuali) del movimento biologico in Italia
Il movimento per l’agricoltura e il cibo biologico nasce nel periodo tra le due guerre mondiali come reazione ai danni apportati al suolo dalla nascente agricoltura industriale basata sui fertilizzanti di sintesi e le macchine termiche agricole; e all’impoverimento della dieta delle popolazioni urbane occidentali, basata sempre più, dapprima in Inghilterra e poi nelle altri paesi industriali, su alimenti raffinati, trasformati, conservati e provenienti da ogni parte del mondo.
La letteratura internazionale((Si veda ad esempio Vogt, G. (2007) “The origins of organic farming”, in W. Lockeretz (ed.), Organic Farming: An International History, CABI, pp9-30 e Reed, M. (2010) Rebels of the Soil: The Rise of the Global Organic Food and Farming Movement, Earthscan)) individua la nascita del movimento del biologico nell’amalgama di idee provenienti da diversi filoni di pensiero che si svilupparono nel corso degli anni ’20 e ’30, principalmente nei paesi di lingua inglese e di lingua tedesca. Ad di là delle profonde differenze culturali, queste prime “comunità critiche” erano accomunate dall’idea che il mantenimento della fertilità organica del suolo sia la prima condizione per la sostenibilità nel tempo dei sistemi agrari e delle comunità che da essi traggono il proprio nutrimento e altre merci utili. Tra questi filoni eterogenei si ricordano solitamente: la scuola tedesca di biologia del suolo (Albert Bernhard Frank, Hermann Hellriegel, Hermann Wilfahrt), che aveva fatto luce sulle relazioni simbiotiche tra le piante e i microrganismi del suolo; il movimento culturale tedesco della Life Reform, collegato a quello americano della Food Reform, basato sull’ideale romantico di un ritorno alla terra e sul vegetarianismo; il filone dell’agricoltura biodinamica (Rudolf Steiner, Ehrenfried Pfeiffer), nato dall’antroposofia steineriana con la sua visione olistica ed esoterica del mondo; la scuola inglese dell’Organic Agriculture (Albert Howard, Robert McCarrison, Eve Balfour), focalizzata sulle interconnessioni tra salute del suolo, salute delle piante e salute degli animali, e che darà poi vita a Soil Association; il gruppo di scienziati esperti di protezione del suolo, sviluppo territoriale e ecologia (Edward H.Faulkner, Louis Bromfield, Aldo Leopold, Hugh H. Bennett), denominato Friends of the Land, formatosi negli Stati Uniti a seguito della crisi delle Dust Bowl, la lunga serie di tempeste di sabbia e polvere che, nel corso degli anni ’30, colpirono un’area di 40 milioni di ettari nelle grandi praterie causando la migrazione di milioni di contadini.
Normalmente assente in questa letteratura interazionale sulle origini del movimento biologico, la figura di Alfonso Draghetti (1888-1960). La lacuna degli autori stranieri è in gran parte giustificata dalla scarsa attenzione rivolta all’agronomo modenese dalla gran parte della letteratura italiana sull’argomento, che spesso data l’inizio del biologico italiano alla fine degli anni ’70 e ricorda, nella migliore delle ipotesi, solo marginalmente la figura di Draghetti((Si veda ad esempio Trigale M. (1991) L’azienda agricola biologica:l’esperienza di Ivo Totti , Jaca Book)).
Qui di seguito mi propongo quindi di colmare questa lacuna sia per ricordare la presenza di un connazionale tra i primissimi pionieri del movimento biologico a livello internazionale, sia per introdurre al pensiero di un grande agronomo che ha affrontato con originale lucidità questioni agronomiche, economiche ed epistemologiche molto attuali.
Alfonso Draghetti nacque a Castelfranco Emilia, nella provincia di Modena, nel 1888. Laureatosi in scienze agrarie a Bologna nel 1915, partì subito per la guerra come sottotenente di fanteria. Dopo avere combattuto sul fronte carsico, cadde prigioniero e fu internato in un campo di concentramento, dal quale riuscì a fuggire e a ritornare in Italia. Dopo il congedo riprese con grande passione gli studi di agraria, diventando assistente nel laboratorio di chimica agraria di Forlì. Nel 1927 conseguì la libera docenza in agronomia generale e coltivazioni erbacee, la prima rilasciata in Italia, e fu nominato, in seguito a concorso, direttore della Stazione Sperimentale Agraria di Modena.
La Stazione Sperimentale Agraria di Modena era nata nel 1870 come istituto del Ministero dell’Agricoltura e alla sua direzione si erano succeduti alcuni tra i più importanti botanici italiani noti a livello internazionale per le avanzate analisi di laboratorio applicate all’agricoltura. La stazione di Modena era inoltre rinomata per la pubblicazione del periodico Le stazioni sperimentali agrarie italiane, che rappresentava il massimo organo scientifico agrario in Italia.
Alfonso Draghetti fu il primo direttore “agronomo” della stazione di Modena e affiancò alla ricerca di laboratorio, sulla quale si erano focalizzati i suoi predecessori botanici, la sperimentazione in campo. Il nuovo indirizzo era coerente con le problematiche di quel periodo tipiche dell’agricoltura italiana quali l’autosufficienza cerealicola, la fertilità del suolo e il governo delle acque. Dopo due anni dalla nomina, Draghetti diresse il cambiamento di sede della stazione portandola in un grande edificio ottocentesco vicino al centro di Modena, che venne attrezzato con archivi, laboratori e strumentazioni all’avanguardia, e dove venne trasferita la grande biblioteca dell’istituto composta da migliaia di volumi dal Settecento in poi e da numerose collezioni di riviste e pubblicazioni.
A capo del più importante centro di sperimentazione agraria italiano, dopo solo due anni dal lancio della “battaglia del grano” da parte del regime fascista, Draghetti indirizzò da principio il suo lavoro sulla genetica e la biologia del frumento, focalizzandosi in particolar modo sulle nuove varietà basse e precoci di Nazareno Strampelli, le cosiddette “sementi elette”, al cui successo contribuì dimostrando l’efficacia della concimazione nitrica invernale.
Successivamente l’attività scientifica di Draghetti si esplicò nello studio delle tecniche di irrigazione a supporto delle grande opere di bonifica del periodo; e nel rilievo, nell’analisi e nell’archiviazione dei campioni di suolo dell’Emilia e dei vari comprensori di bonifica, i cui risultati rappresentano ancora oggi un patrimonio di dati e analisi insuperato per la conoscenza pedologica di questi territori.
Dal 1932 in poi, alla stazione di Modena venne annessa un’azienda sperimentale nella pianura modenese a San Prospero di Secchia, scelta appositamente per le condizione degradate del suolo, nella quale Alfonso Draghetti organizzò un rigoroso piano di miglioramento che durerà fino allo scoppio della seconda guerra mondiale.
Nel 1948, all’apice della sua carriera scientifica e accademica((Nel 1948, dopo tre decenni di ricerche e sperimentazioni e centinaia di pubblicazioni, Draghetti ottenne la cattedra di agronomia e coltivazioni erbacee all’università di Padova. Dal 1951 al 1954 occupò poi la stessa cattedra all’Università Cattolica di Milano. Morì a Bologna nel 1960.)), Draghetti pubblicò un lavoro di sintesi, innovativo e originale, intitolato Principi di fisiologia dell’azienda agraria ((Draghetti A. (1948) Principi di Fisiologia dell’Azienda Agraria, Istituto Editoriale Agricolo)), che rappresenta in qualche modo il suo testamento scientifico ed etico.
Nella prefazione((La Prefazione dei Principi di Fisiologia dell’Azienda Agraria è riproposta in questo numero di Altronovento nella sezione Documenti)) di questo interessantissimo volume, la cui ultima ristampa credo risalga al 1991, e le cui copie consunte risalenti anche alla prima edizione degli anni ’40 vengono gelosamente custodite dai pochi “cultori” che le posseggono, Alfonso Draghetti espone la sua visione dell’azienda agraria e propone un cambio di paradigma all’interno delle scienze agrarie.
Draghetti contrappone alla dominante “concezione economica” dell’azienda agraria la sua “concezione biologica”.
Per “concezione economica”, l’autore intende la visione dell’attività agricola come un’impresa industriale o commerciale, dove la produzione è ridotta alla scelta di mezzi di produzione distinti e disgiunti, acquistati sul mercato (materie prime, concimi, lavoro. macchinari), che vengono combinanti solo in funzione diretta del raggiungimento del massimo profitto. La concezione economica di cui parla l’agronomo modenese è quella che trae origine dall’applicazione, anche all’attività agricola, dell’epistemologia meccanicistica e dell’etica utilitaristica, i due cardini dell’economia neoclassica, il filone dominante ormai da quasi un secolo e mezzo all’interno del pensiero economico.
Per “concezione biologica”, di contro, Draghetti intende la visione dell’azienda agraria come un “corpo” radicato nel terreno geologico fondamentale, che si auto-mantiene e si sviluppa grazie ai flusso di radiazione solare, agli scambi di gas dell’atmosfera, al flusso delle acque, ai minerali del terreno fondamentale, e alle circolazioni interne di materia organica e minerale tra i vari “organi” che compongono l’azienda (terreno fertile, coltivazioni, stalla, concimaia). L’ideale agrario di Draghetti è quello dell’azienda biologica “intensiva” ((Al suo modello di azienda biologica evoluta, Draghetti contrappone, oltre all’azienda agricola industriale, il modello di azienda biologica primitiva basata sulla produzione cerealicola, il maggese e l’allevamento estensivo, nella quale le interazioni simbiotiche principali sono quelle tra le erbe selvatiche e i microrganismi del suolo che ricostituiscono periodicamente la fertilità del terreno.)), basata sulla rotazione di cereali e foraggere, l’allevamento di animali erbivori, la presenza della stalla e della concimaia. Tra i vari organismi viventi che compongono questa entità biologica unitaria (microrganismi del suolo, piante cerealicole, piante foraggere leguminose, erbivori) sussistono delle “simbiosi”, ovvero delle interazioni biologiche mutuamente benefiche, che, se ben governate dall’uomo agricoltore, permettono la “perennazione” nel tempo dell’azienda agricola e la produzione di merci agricole e zootecniche per il mercato. Lo schema sviluppato utilizzato da Draghetti nei Principi di Fisiologia per esemplificare la sua concezione è riportato in fondo a questo lavoro.
Draghetti è perfettamente consapevole di come l’invenzione dei fertilizzanti di sintesi e delle macchine termiche agricole abbia permesso la diffusione di una “agricoltura dei grandi successi immediati“, che ha radicato l’idea di poter superare con i mezzi tecnici artificiali (ritenuti liberi e illimitati) i limiti biologici dell’azienda agraria, e la convinzione che solo il passaggio dalla agricoltura contadina all’agricoltura industriale possa liberare la produzione agricola verso livelli quantitativi sempre più alti.
Le scienze agrarie, per Draghetti, hanno così finito per accettare la concezione economica dell’azienda agraria, smembrando il loro oggetto di studio in parti da studiare e da gestire separatamente l’una dall’altra, con l’unica finalità di aumentare la loro economia diretta e immediata in relazione all’obiettivo ultimo del profitto. In tal modo le scienze agrarie, pur rappresentando di fatto una biologia applicata, hanno rinunciato allo sviluppo di una “propria” visione dell’azienda agraria, quella biologica, perdendo di vista le interazioni simbiotiche, mutuamente benefiche, gratuite e quindi realmente economiche, tra le parti.
Nella prefazione dei Principi di Fisiologia, Draghetti lamenta quindi questa “grave lacuna nelle scienze agrarie” e manifesta l’esigenza di “una necessaria revisione delle direttive agronomiche verso una interpretazione più biologica del miglioramento della produzione“. La sua “fisiologia” vuole quindi essere una nuova disciplina di sintesi che, facendo tesoro delle conoscenze scientifiche acquisite dalle varie discipline specialistiche, si occupa delle interrelazioni simbiotiche esistenti nell’azienda agraria, intesa come oggetto unitario di studio, con l’obiettivo di migliorarla e se del caso risanare le diverse situazioni “patologiche”.
Draghetti mutuò da Pietro Cuppari (1816-1870), laureato in medicina e famoso agronomo italiano dell’Ottocento, questa visione organicistica dell’azienda agraria come un corpo, un organismo vivente, che si auto-mantiene grazie al corretto interscambio e alle giuste proporzioni tra le varie parti (campi e colture, foraggi e bestiame, lavoro animale e umano, equipaggiamenti ed edifici).
Termini come corpo, organo e fisiologia rappresentano probabilmente la parte più datata del pensiero scientifico dell’agronomo modenese, soprattutto alla luce dei moderni concetti dell’ecologia, come quello di ecosistema e di parti attive interconnesse. Sostituendo la terminologia organicistica antiquata con quella ecologica contemporanea, risulta però in Draghetti, e per certi versi già in Cuppari, una lucida visione sistemica dell’azienda agraria in cui, come sostiene il Prof. Fabio Caporali, “la moderna agroecologia trova le sue radici” ((In Caporali F., Campiglia E., Mancinelli R. (2010) Agroecologia Teoria e pratica degli agroecosistemi, Città Studi Edizioni)).
L’attualità del pensiero di Draghetti non risulta solo da un piano prettamente agronomico, come quello dell’agroecologia, ma anche da una prospettiva più specificatamente economica, come quella della bioeconomia. Mi riferisco alla elaborazione, posteriore a Draghetti, del pensiero del grande economista rumeno Nicholas Georgescu Roegen (1906-1994) che, è interessante notare, condivide con l’agronomo modenese (oltre ad una grande passione per l’agricoltura) visioni e metodi scientifici nonché preoccupazioni economico e politiche.
Anche Georgescu Roegen, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, indirizzerà la sua critica all’epistemologia meccanicistica e all’etica utilitaristica tipica dell’economia neoclassica, incapace di vedere e trattare proficuamente gli aspetti evolutivi, ambientali e culturali, del processo economico; innanzitutto quelli collegati alla dipendenza dalle risorse naturali che giacciono nella crosta terrestre (combustibili fossili e minerali ad alto contenuto di metalli) che, una volta entrate nel processo economico e utilizzate, data la legge dell’entropia, ne escono in una forma irreversibilmente degradata e non più utilizzabile. Il tutto ovviamente in radicale contrasto con l’idea dominante di una crescita economica libera e illimitata, coerente con i principi di conservazione della meccanica su cui l’economia neoclassica ha fondato la teoria e la pratica dell’analisi economica dominante.
Draghetti auspica il passaggio dalla concezione economica dell’azienda agraria a quella biologica, e quindi il passaggio dall’agricoltura industriale al quella biologica, non tanto per un esigenza nostalgica, romantica e spirituale, tipica di alcuni filoni all’origine del movimento del biologico, quanto per una preoccupazione specificatamente bioeconomica: ” Certo è d’uopo considerare se veramente libera e illimitata sia la disponibilità dei nuovi mezzi di produzione per gli stessi paesi ricchi di miniere, destinate un giorno ad esaurirsi, in presenza soprattutto di esempi vastissimi di isterilimento industriale, che non trovano riscontro nelle tradizioni millenarie di un’agricoltura biologica, sia pure primitiva, continua nel tempo e sempre pronta a battere le grandi vie dell’incremento della produzione “.
Il problema delle dipendenza dell’agricoltura industriale da risorse naturali non rinnovabili e non omogeneamente distribuite è fortemente sentito in Draghetti, memore come Georgescu Roegen delle vicende di due guerre mondiali: “Si devono indubbiamente riconoscere a questo tipo di azienda agraria i grandissimi progressi dell’ultimo secolo, chiamato, appunto perché fondato sulle macchine e sui concimi minerali, secolo della meccanica e della chimica. Ma non meno gravi sono i difetti che le vanno riconosciuti, per la creazione di organismi esageratamente sensibili alle crisi di disponibilità dei concimi, delle macchine e dei carburanti, come l’ultima guerra ha ben dimostrato, con il rapido e fatale declino della produzione, nei paesi più caratteristici di questa agricoltura, al primo verificarsi di eventi contrari (guerre, blocchi economici, crisi sociali, ecc.) “
Al di là di questa preoccupazione per la tenuta dei sistemi agrari nelle situazioni emergenziali, Draghetti mette in rilievo la diseconomicità intrinseca dell’azienda agricola industriale che ” è forgiata pressoché esclusivamente dalle forze plasmatrici del mercato e si serve per raggiungere il suo fine, delle scelte dei fattori di produzione, spesso trascurando il loro concatenamento organico nel meccanismo aziendale e avvalendosi di preferenza dei mezzi artificiali, e perciò onerosi, in sostituzione di quelli biologici e naturali, in gran parte gratuiti .”
Anche per Georgescu Roegen l’agricoltura industriale è “una sperperatrice di energia“: ” La sostituzione degli animali da tiro con il trattore, del foraggio con carburanti, del letame e del maggese con fertilizzanti chimici, rimpiazza l’elemento più abbondante, la radiazione solare, con altri più scarsi […] e questa sostituzione rappresenta anche uno sperpero di bassa entropia terrestre, data la resa fortemente decrescente di questi elementi “((In Georgescu Roegen N. (1976) Energy and Economic Myths, Pergamon Press)).
Dal punto di vista analitico, come Draghetti si occupa dell’analisi della circolazione di materia e energia tra l’ambiente esterno e l’azienda agricola, e tra le parti interne dell’azienda agricola, così Georgescu Roegen affronterà l’analisi dei processi economici in termini di flussi di materia e di energia in entrata e in uscita, e in termini di scambi interni tra i vari settori.
Quella di Draghetti è nella sostanza una bioeconomia applicata all’azienda agricola, antecedente alla nascita della bioeconomia. La concezione biologica di Draghetti, che l’agronomo modenese contrappone alla concezione economica standard, è in fondo una “concezione bioeconomica” dell’azienda agraria.
Se le premesse teoriche di Draghetti sono estremamente attuali, ponendolo in diretta relazione con l’agroecologia e la bioeconomia, i risultati del suo lavoro sperimentale, a mio parere, sono altrettanto attuali. Nei Principi di Fisiologia, Draghetti dà evidenza dei risultati quantitativi conseguiti dal piano di miglioramento dell’azienda sperimentale di San Prospero di Secchia. Partendo da una situazione pedologica particolarmente degradata, l’agronomo modenese orientò l’azienda agraria verso il suo ideale caratterizzato dall’integrazione dell’attività agricola con l’attività zootecnica, la rotazione tra cereali e leguminose foraggere, la corretta gestione della concimaia. Calcolando il peso della massa di materiale organico e minerale in circolazione tra i vari organi dell’azienda (terreno geologico, suolo, coltivazioni, stalla, concimaia) e dei prodotti agricoli e zootecnici in uscita verso il mercato, Draghetti mostra che la produzione di materia organica complessiva e la produzione di prodotti agrari raddoppia nel corso del quindicennio di sperimentazione. E’ un risultato molto significativo, anche alla luce delle problematiche sempre più attuali di “nutrire il pianeta” e del “riscaldamento globale” causato dall’accumulo di gas climalteranti nell’atmosfera. Problema quest’ultimo che ovviamente Draghetti ignorava, ma che oggi può trovare una soluzione, perlomeno parziale, nell’aumento della sostanza organica del terreno a cui corrisponde una diminuzione di anidride carbonica nell’atmosfera.
A differenza della mia modesta opinione, per Antonio Saltini, autore della Storia delle Scienze Agrarie e docente di Storia dell’agricoltura alla Facoltà di Agraria dell’Università di Milano, deciso sostenitore dell’agricoltura industriale e dei suoi sviluppi biotecnologici, la ” colorita” concezione biologica dell’azienda agraria di Draghetti costituisce “un ritorno al passato” e le conclusioni del suo piano sperimentale non sono altro che la riproposizione dei risultati conseguiti dagli agronomi inglesi del XVIII secolo, sistematizzati dall’agronomo tedesco Albrecht Thaer (1752-1828), sostenitore dell’importanza dell’humus per la nutrizione della pianta. Secondo Saltini: ” Sperimentatore accorto, il direttore della Stazione agronomica di Modena non è maestro di storia dell’agronomia: la modestia delle cognizioni storiche gli consente di presumere l’originalità di un’ipotesi le cui cento formulazioni hanno ricolmato le biblioteche delle istituzioni agrarie “((Saltini A. (2013) “L’orrore della chimica: dottrine e fedi delle agricolture alternative” in Storia delle Scienze Agrarie, Volume settimo, Nuova Terra Antica)). Questo giudizio è secondo me non fondato su una corretta valutazione dei Principi di Fisiologia, densissima di riferimenti alla storia delle scienze agrarie, fra cui i lavori di Thaer. Ricordo inoltre che Alfonso Draghetti, in qualità di direttore della stazione di Modena, seguì personalmente la costituzione della ricchissima biblioteca composta da migliaia di volumi dal ‘700 ad oggi e da rare collezioni di riviste e pubblicazioni.
Rispetto alle acquisizioni scientifiche degli agronomi della Rivoluzione Agraria, di cui Cuppari fu primo promotore in Italia e che l’agronomo modenese ovviamente conosce, i Principi di Fisiologia, secondo lo stesso Draghetti, sono “un cenno sintetico dell’immane lavoro scientifico dell’ultimo secolo, rivolto a dimostrare, come gli sviluppi particolari, spesso slegati e indipendenti, dopo avere ristagnato nel meccanicismo e nel chimicismo, fatalmente debbano confluire nel biologicismo e naturismo, il solo capace di valorizzare i mezzi e le scoperte moderne ” .
Da quanto posso dedurre sulla base delle mie conoscenze della storia delle scienze agrarie (cognizioni le mie, effettivamente modeste), il carattere innovativo del lavoro di Draghetti, che lo situa tra le figure più significative ma purtroppo poco conosciute del movimento biologico, sta nell’avere acquisito e reinterpretato i lavori della scuola tedesca di biologia del suolo che, come ho accennato all’inizio, aveva fatto luce sulle relazioni simbiotiche tra piante e microrganismi. Draghetti allarga a tutta l’azienda agraria il concetto di “simbiosi”, non solo nella relazione tra piante e microrganismi ma anche in quelle tra piante e piante e tra piante e animali erbivori. Alla fine “l’uomo stesso diventa un simbionte” ((“L’uomo simbionte” sarà poi il titolo del testamento scientifico ed etico dell’agronomo Giovanni Haussmann (1906-1980), dal 1948 al 1976 direttore della Stazione Sperimentale di Praticoltura di Lodi, il cui pensiero trova delle forti convergenze con quello di Alfonso Draghetti. Sulla figura di Haussmann si veda la scheda pubblicata su Altronovecento http://www.fondazionemicheletti.it/altronovecento/articolo.aspx?id_articolo=6&tipo_articolo=d_persone&id=52)). Draghetti acquisisce inoltre dai biologi del suolo tedeschi l’evidenza della mobilitazione e trasformazione in sali solubili dei minerali che giacciono inattivi nel suolo, grazie all’attività della materia organica del terreno, che quindi rende disponibili questi minerali in forma utile per le piante. Dopo essersi compiaciuto dell’ottima presenza nei terreni italiani degli elementi chimici più critici (fosforo, potassio, calcio, magnesio, azoto), molto maggiore che in altri terreni europei, Draghetti scrive sempre neiPrincipi di Fisiologia: ” In altri termini, è un lavoro di coltivazione dell’unica miniera che abbiamo: lavoro di coltivazione biologico“. L’approccio scientifico di Draghetti non è quindi un ritorno al vecchio umismo, che per decenni era stato contrapposto al mineralismo, ma rappresenta nella sostanza una sintesi organico-minerale.
Molto interessante è anche il raffronto tra la figura di Alfonso Draghetti e quella dell’agronomo inglese Albert Howard (1873-1947), considerato il padre dell’agricoltura organica inglese. Howard dopo essersi laureato in scienze naturali e avere studiato agricoltura a Cambridge, centro britannico degli studi in scienze agrarie, nel 1905 fu nominato Imperial Economic Botanist , divenendo direttore dell’Imperial Agricultural Reasearch Institute (IARI)a Pusa, in India, carica che mantenne fino al 1924. In qualità di direttore di questo importante istituto di ricerca agraria, che non aveva equivalenti in Inghilterra, insieme alla moglie Gabrielle con la quale aveva studiato a Cambridge, Albert Howard si dedicò da principio al miglioramento genetico delle varietà di grano locali, applicando le tecniche di incrocio e selezione che erano state elaborate a seguito della riscoperta dei lavori di Gregor Mendel. Nel corso degli anni ’20 i coniugi Howard iniziarono però ad interessarsi alle pratiche dell’agricoltura contadina indiana e svilupparono l’idea di un continuum tra la salute del suolo, quella delle piante e quella degli animali che di essi si cibano. Questi nuovi indirizzi di ricerca li condussero ad lasciare il lavoro presso lo IARI per stabilirsi presso un nuovo centro di ricerca a Indore, dove svilupparono un metodo di compostaggio noto come “metodo Indore”. Per Albert Howard e sua moglie Gabrielle la produzione di humus non era importante solo per il nutrimento delle piante, ma anche per il miglioramento della struttura del suolo (contenuto di umidità e di aria) e della sua vitalità (aumento della micorriza). Dopo la morte della moglie, nel 1931 Albert Howard ritornò in Inghilterra dove divenne il più importante riferimento scientifico di quella comunità critica che portò successivamente, nel 1945, alla nascita di Soil Association , il centro mondiale del movimento per l’agricoltura e il cibo biologico nei successivi trent’anni, di cui l’agronomo inglese però si rifiutò di fare parte.
Albert Howard e Alfonso Draghetti sono stati entrambi tra i più grandi ricercatori agrari del loro tempo, inserendosi, a differenza di altri filoni all’origine del biologico come quello dell’agricoltura biodinamica, nella più solida tradizione scientifica del pensiero occidentale. In An Agricultural Testament((Howard A. (1940) An Agricultural Testament, ried. 2010 Oxford City Press)), il libro del 1940 nel quale Howard riassume il senso e i risultati della sua attività di ricerca, ritroviamo inoltre delle forti analogie con le considerazioni filosofiche e valoriali espresse da Draghetti nei Principi di Fisiologia. Anche Howard denuncia i limiti della concezione economica dell’azienda agraria ridotta ad un’attività industriale o commerciale: ” Si è giunti a guardare all’agricoltura come un’industria. L’agricoltura è vista come un’impresa commerciale; e decisamente troppa enfasi è stata posta al profitto. Ma lo scopo dell’agricoltura è molto differente da quello di una fabbrica. E’ quello di provvedere cibo al fine di fare fiorire e mantenere la razza umana. I risultati migliori si ottengono se il cibo è fresco e il suolo è fertile. La qualità è più importante del peso dei prodotti, l’agricoltura è perciò una questione vitale per la popolazione come lo sono l’acqua da bere, l’aria fresca e la protezione dalle intemperie ” . Anche per Howard, come per Draghetti, l’obiettivo monetario è secondario rispetto all’obiettivo più propriamente agricolo e alimentare: ” Il cibo della nazione nella natura delle cose deve avere sempre il primo posto. Il sistema finanziario, dopo tutto, è una questione secondaria. La scienza economica perciò, non riuscendo a vedere queste verità elementari, si è resa colpevole di un grave errore di giudizio “.
Riassumendo, quanto esposto credo sia sufficiente a dimostrare l’appartenenza della figura di Alfonso Draghetti a quella fase originaria del movimento biologico internazionale, caratterizzata dalla centralità del mantenimento della fertilità del suolo. Draghetti si inserisce a pieno titolo nel filone più propriamente scientifico, a fianco dei biologi del suolo tedeschi e di Albert Howard. I lavori teorici e sperimentali dell’agronomo modenese, riassunti nei Principi di Fisiologia, dimostrano anche una grande attualità alla luce degli sviluppi successivi della bioeconomia e dell’agroecologia.
Relativamente alla storia del movimento biologico italiano, la tradizione organico-minerale di Draghetti venne in sostanza ereditata dal Prof. Francesco Garofalo, agronomo siciliano, uno dei fondatori dell’Associazione Suolo e Salute((Tra gli altri fondatori dell’Associazione Suolo e Salute, ricordo la figura del Prof. Luciano Pecchiai, per oltre quarant’anni Primario Patologo dell’Ospedale dei Bambini “Vittore Buzzi” di Milano, tra i primi critici dell’alimentazione basata su cibi altamente raffinati e trasformati.)), la prima associazione italiano per l’agricoltura biologica, nata a Torino nel 1969 sul modello dell’inglese Soil Association. Appassionato promotore dell’agricoltura biologica negli anni ’70 e ’80, anche Garofalo, che ci ha lasciato circa due anni fa nell’assoluto disinteresse di quel mondo (quello del biologico) che contribuì per primo a creare, è una figura oggi quasi dimenticata.
Curiosa situazione quella della memoria storica del biologico italiano, che dagli anni ’90 in poi, con la nascita della regolamentazione europea sul biologico, gli aiuti pubblici e il successo dei prodotti certificati ha via via allentato i legami culturali e valoriali con le sue radici propriamente scientifiche ed etiche, alle quali ha sostituito un orientamento prettamente commerciale. Questo fenomeno, pur avendo rappresento un motore della crescita quantitativa del settore, si è tradotto in una pratica agricola sempre più aperta al mercato attraverso l’acquisto di mezzi “biologici” certificati, e in una pratica commerciale sempre più globalizzata e convergente verso l’industrializzazione dei processi di trasformazione e di distribuzione dei prodotti alimentari.
In questo contesto, acquista quindi significato la riproposizione del pensiero di Alfonso Draghetti e l’interpretazione del biologico come “movimento sociale”, che nella sua evoluzione storica si è posto degli obiettivi che vanno al di là dei risultati conseguiti nel mercato, e che implicano nella sostanza un vero e proprio cambiamento culturale, prima ancora che colturale.
Come scrive Draghetti alla fine della prefazione dei suoi Principi di Fisiologia: “[Questa trattazione] non deve perciò considerarsi come una esposizione e l’enunciazione di ipotesi e teorie, ancora da dimostrare, ma come una concreta acquisizione, come la prassi di un movimento e di una evoluzione, che s’inizia già nelle nebulose origini dell’agricoltura, si arricchisce di un enorme patrimonio di conoscenza ad opera della scienza moderna, e volge ora alla meta teleologica di un’agricoltura evoluta, più informata delle leggi naturali “.
Come ulteriore evidenza della scarsa cura per le radici storiche del biologico italiano, concludo questa breve presentazione di Alfonso Draghetti ricordando lo stato di degrado e di abbandono in cui si trova attualmente l’ex Stazione Sperimentale di Agraria di Modena, che dopo la direzione di Draghetti, è stata prestigiosa sede operativa del Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura, il più importante istituto di sperimentazione agraria in Italia.
La stazione di Modena è stata chiusa nel 2006 a seguito di una riorganizzazione voluta dal Ministero delle Politiche Agricole, al tempo diretto da Gianni Alemanno. I locali sono stati destinati all’Ispettorato Centrale di Repressioni Frodi ma è stato poi deciso di dismettere l’immobile.
La biblioteca composta da oltre 12.000 volumi dal ‘700 ad oggi e da rare collezioni (anche quarantennali) di riviste e pubblicazioni, gli strumenti di laboratorio, gli archivi pedologici e di ricerca rappresentano un patrimonio culturale, storico e scientifico di enorme valore per il Paese, patrimonio che in questo momento non è chiaro come verrà conservato nella sua unitarietà, e che quindi rischia di essere dissipato. Tutto questo nel totale disinteresse anche di chi rappresenta, almeno a livello istituzionale, il movimento del biologico italiano.