Alla ricerca di una società neotecnica

Nota introduttiva

Nei primi anni Settanta del Novecento, in quella primavera dell’ecologia, c’è stato un vivace dibattito sulle strade con cui sarebbe stato possibile superare la crisi dei beni collettivi, l’inquinamento e il degrado ambientale del pianeta.

Alcuni attribuivano “alla tecnica” la fonte di questa violenza, altri ritenevano che la fonte della violenza ambientale fosse “la” tecnica usata della società capitalistica per assicurare ad alcuni privati il massimo profitto.

Perfino il Papa Paolo VI, nell’enciclica Populorum progressio – sul “progresso”, differente dalla ”crescita” o dallo stesso “sviluppo”, dei popoli – nel 1967 aveva scritto che “non basta promuovere la tecnica perché la terra diventi più umana da abitare. (…) Economia e tecnica non hanno senso che in rapporto all’uomo ch’esse devono servire”.

In Italia nell’ambito di Italia Nostra, allora la principale associazione attenta ai problemi ambientali, presieduta da Giorgio Bassani, ci fu un vivace dibattito per immaginare una società progredita capace di soddisfare le crescenti necessità umane con un uso razionale della tecnica e delle risorse naturali.

Fu l’occasione per “rileggere” Lewis Mumford, l’autore che negli anni trenta del Novecento aveva analizzato i grandi problemi della città, del territorio, della natura.

Nel libro “Tecnica e cultura”, del 1934, pubblicato in italiano nel 1961, Mumford auspicava l’avvento di una “società neotecnica” basata su una tecnica meno violenta e inquinante, su differenti materie prime, su una diversa organizzazione del territorio, su un riequilibrio fra città e campagna, sull’agricoltura come fonte di alimenti e di materie “rinnovabili”.

Sulla possibile realizzazione di una società neotecnica l’associazione organizzò vari seminari i cui resoconti sono contenuti in vari fascicoli del Bollettino di Italia Nostra, vol. 18, (136/137), 15-22 (1976); vol. 19, (157), 3-8 (dicembre 1977); vol. 20, (167/168), 11-12 (settembre-ottobre 1978). Ad uno di questi incontri partecipò anche Giovanni Berlinguer che dedicò al problema l’articolo: “La neo-tecnica” apparso in Rinascita, n. 5, 4 febbraio 1977, p. 33.

L’articolo che segue, pubblicato originariamente nel 1976 e poi riprodotto in varie riviste, è una testimonianza di tale dibattito e forse può offrire alcuni spunti anche per pensare al futuro in questi tormentati primi decenni del XXI secolo.

Nel leggerlo bisogna tenere conto delle condizioni e delle conoscenze di oltre 40 anni fa; ci sono alcune ingenuità e valutazioni errate, alla luce di quanto si sa oggi, e la sua riproduzione rappresenta più che altro un contributo alla conoscenza di una pagina dimenticata del dibattito novecentesco sull’”ecologia”.

Ottobre 2017

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Alla ricerca di una società neotecnica — Saggio pubblicato originariamente in “Sapere”, 79, (794), 42-45 (settembre 1976)

Alle soglie del ventunesimo secolo

La crisi che ha investito il mondo occidentale nell’ultimo quarto del ventesimo secolo impone con urgenza delle scelte che influenzeranno la maniera di essere e di vivere, la sicurezza politica e psicologica degli uomini che vivranno nell’ormai vicino ventunesimo secolo. Il ventesimo secolo è stato un periodo di fantastiche contraddizioni, di grandi dolori e di grandi speranze; la scienza e la tecnica hanno fatto fare agli uomini degli incredibili balzi avanti nel campo dei trasporti, delle comunicazioni, delle merci, dell’energia, ma hanno anche aperto trappole e baratri sulla cui soglia ci troviamo oggi e che determinano un senso di insicurezza del futuro, di violenza, di ingiustizia, di ricerca appassionata di diversi rapporti individuali e collettivi.

Queste tensioni sociali hanno la loro origine nella congestione e nell’affollamento delle grandi città, nella consapevolezza che le risorse naturali sono scarse, nell’inquinamento, nell’incubo della guerra totale, nella presa di conoscenza e di coscienza delle disparità; fra l’altro si è andato diffondendo un sentimento di ribellione alla scienza e alla tecnica a cui viene attribuito il cattivo uso che ne è stato fatto da organizzazioni e da singoli individui.

Tale reazione non è nuova ed è irrazionale; una volta mangiato il frutto dell’albero della tecnica non si può tornare ad un ipotetico e discutibile paradiso precedente; la nostra è, e continuerà ad essere, una società tecnologica e noi possiamo solo fare in modo che gli immensi mezzi disponibili per l’uomo siano posti al suo servizio e non siano usati per perpetuare ingiustizie ed oppressione.

La ricerca di una nuova maniera di usare la tecnica fu descritta in modo incisivo da Patrick Geddes che nel 1915 preconizzò l’evoluzione della società disordinata, sporca ed inquinata della rivoluzione industriale vittoriana – una società che egli definì paleotecnica – e l’avvento di una  società neotecnica basata su nuove fonti di energia pulite, in particolare sull’energia elettrica, su città pianificate e ordinate. I concetti di Geddes ebbero il più rilevante portavoce in Lewis Mumford che nel 1933, col libro Tecnica e cultura, riconobbe ancora nel suo tempo – sono gli anni della grande crisi americana e dell’avvento al potere del nazismo – i chiari segni della società paleotecnica, l’«impero del disordine», e cercò i segni, che gli sembravano vicini, della società neotecnica.

Se le nostre città industriali usano meno carbone e sono (forse) meno fumose di quelle della rivoluzione industriale, non sono però meno inquinate, congestionate, disordinate, violente; ancora una volta siamo spinti, in un momento di crisi simile a quella del tempo in cui Mumford scrisse il suo libro, a cercare di inventare e creare una società neotecnica che non può non essere tecnologica e industriale, ma che può essere più razionale e meno inquinata di quella attuale.

L’industrializzazione diffusa

Proviamo insieme, alla luce della situazione italiana contemporanea, ad immaginare come si potrebbe sviluppare una tale società neotecnica nel nostro paese, partendo da alcuni degli squilibri più vistosi e, in particolare, dal rapporto, violentemente mutato e abnorme, fra città e mondo rurale. Vari autori hanno immaginato un quadro di insediamenti umani diversamente distribuiti nel territorio. «Solo una società che faccia ingranare armoniosamente le une nelle altre le sue forze produttive secondo un solo grande piano, può permettere all’industria di stabilirsi in tutto il paese con quella dislocazione che è più appropriata al suo sviluppo e conservazione, e rispettivamente all’utilizzazione degli altri elementi della produzione. Solo con la fusione fra città e campagna può essere eliminato l’attuale avvelenamento di acqua, aria e suolo, solo con questa fusione le masse che oggi agonizzano nelle città saranno messe in una condizione in cui i loro rifiuti siano adoperati per produrre le piante e non le malattie». «Noi dobbiamo creare un gran numero di industrie nelle regioni rurali affinché i contadini si trasformino in operai, sul posto. Il tenore di vita nelle campagne non deve essere inferiore a quello che si trova nelle città; deve essere vicino a quello che si trova nelle città o anche più alto. Ogni comunità deve possedere i propri istituti di insegnamento superiore per poter formare i propri intellettuali».

Un riequilibrio dei rapporti fra città e campagna, quindi, non significa un ritorno, ormai impensabile, alla «sana» vita dei campi, che voleva poi dire la schiavitù ad una terra ingrata, la condanna a scuole e ospedali scadenti, a pregiudizi e arretratezze, ma significa il trasferimento nel territorio in forma diffusa di imprese industriali basate su materie e su fonti di energia alternative alle attuali.

Adriano Olivetti, negli anni Cinquanta, aveva progettato di insediare, nei paesi montani del Canavese, poveri e con un’agricoltura insufficiente per le necessità della popolazione, delle piccole imprese industriali che costruivano accessori per la Olivetti di Ivrea o altri prodotti. La popolazione locale agricola passava così ad un modo moderno, che è industriale e tecnologico, di produzione, ma, nello stesso tempo, poteva continuare nelle attività agricole tradizionali; l’orario delle fabbriche era adattato in modo che gli operai interrompevano il lavoro nelle ore centrali della giornata per poter tagliare il fieno e badare alle stalle, utilizzavano le proprie case, conservavano i propri amici e condizioni di vita non alienate. Nel breve periodo di questa originale avventura, i pochi paesi che l’hanno ospitata hanno sperimentato un nuovo benessere.

Cerchiamo di immaginare come questa integrazione fra produzione industriale e territorio rurale possa essere estesa adesso in larghe parti d’Italia, soprattutto in quelle che soffrono di pesanti emigrazioni; vi sono delle attività industriali per le quali non è necessario né essere vicini ai grandi centri urbani, né esistono problemi di trasporto di materie prime o di fonti di energia o di macchinari. I moderni mezzi di comunicazione potrebbero consentire il collegamento di queste attività diffuse nel territorio con i centri degli affari.

La diffusione delle attività industriali e produttive nel territorio consentirebbe di ridare vita a paesi e città minori, salvando un patrimonio di centri storici, edifici, chiese, tradizioni irripetibili, specialmente nell’Italia centrale e nel Mezzogiorno. Si tratta delle zone più gravemente colpite dall’esodo, i cui abitanti sono calati nelle grandi città alla ricerca di lavoro e di condizioni più decenti di vita; tale esodo ha provocato da una parte la degradazione dei paesi e dei territori abbandonati, la disgregazione di un mondo provinciale e periferico, arretrato sotto certi aspetti, ma ancora ricco di valori; dall’altra la congestione delle grandi città, con relativi costi sociali di servizi, di traffico, di violenza, di inquinamento, di speculazione.

In un momento come questo, in cui ritornano amareggiati, nei paesi di origine, coloro che ne sono emigrati negli anni del boom economico, l’Italia povera viene ad avere disponibile un patrimonio di mano d’opera, di intellettuali, di conoscenze che troverebbe impiego e rappresenterebbe un elemento propulsore nelle attività produttive se queste fossero localizzate nei rispettivi paesi.

Produrre che cosa per chi?

Ci si deve chiedere a questo punto che cosa potranno produrre queste industrie sparse nel territorio. Lo sviluppo degli ultimi venticinque anni è stato diretto alla produzione di merci partendo da poche materie prime, soprattutto minerali metallici e prodotti petroliferi per i quali dipendiamo pesantemente dalle importazioni.

In particolare l’industria petrolchimica ha permesso di ottenere una serie di merci sintetiche – materie plastiche, fibre tessili sintetiche, gomma sintetica, eccetera – che hanno fatto concorrenza e in qualche caso hanno soppiantato prodotti o materie prime naturali, anche in campi nei quali il nostro paese era all’avanguardia.

La produzione di fibre tessili sintetiche, per esempio, ha provocato la distruzione della coltivazione e della produzione della canapa, una fibra tessile naturale nella quale il nostro paese aveva raggiunto un livello molto avanzato sia come volume di produzione sia come qualità.

Le materie sintetiche di origine petrolchimica hanno più o meno la stessa qualità – lo stesso valore d’uso – di quelle naturali a cui fanno concorrenza, ma richiedono una materia prima scarsa e non rinnovabile, il petrolio, che una volta consumato non c’è più, e sono fonti di maggiore inquinamento rispetto a quelle naturali; queste dipendono da risorse naturali rinnovabili, i prodotti agricoli, fabbricati ogni anno dal sole attraverso i processi di fotosintesi e i grandi cicli geologici e geochimici naturali.

Io immagino che in una parte del nostro territorio, oggi abbandonato ed esposto all’erosione, possano diffondersi colture arboree per la produzione di cellulosa e altre piante, come la ginestra, in grado di dare sia cellulosa, sia direttamente fibre tessili naturali. L’opera di rimboschimento e di diffusione di piante da cellulosa e da fibra contribuirebbe a ricostituire un manto di sostanza organica in grado di proteggere il suolo contro l’erosione, con la prospettiva di dare una soluzione a questo assillante problema e di porre un freno alle frane e alle alluvioni.

Le risorse naturali rinnovabili, come le materie prime cellulosiche, potrebbero essere trasformate in merci – carta, fibre tessili, prodotti chimici industriali, sostanze proteiche, eccetera – in quelle fabbriche diffuse nel territorio di cui parlavo all’inizio, con effetti rilevanti anche sui nostri scambi internazionali. Come è ben noto, infatti, l’Italia dipende pesantemente, fra l’altro, dalle importazioni di materie prime cellulosiche, soprattutto per la fabbricazione di carta e cartoni.

Nuove materie prime industriali

Attualmente negli Stati Uniti vi è una crescente attenzione per l’uso della cellulosa come materia di base per molte nuove lavorazioni e merci: dalla cellulosa, per esempio, è possibile ottenere zuccheri che possono essere usati, a loro volta, come materie prime per l’industria delle fermentazioni: molte difficoltà tecniche sono state di recente superate in questo campo attraverso nuove ricerche di chimica della cellulosa e dei prodotti naturali.

Dagli zuccheri di origine cellulosica o provenienti da altri prodotti e sottoprodotti agricoli – come la paglia, frutta di scarto, eccetera – è possibile ottenere, per esempio, microrganismi o lieviti ricchi di  proteine adatti direttamente all’alimentazione umana; si pensi che la recente follia di costruire delle grandi fabbriche per ottenere questi microrganismi partendo da idrocarburi del petrolio – le cosiddette «bistecche dal petrolio» – fornisce dei materiali proteici non idonei, per motivi igienico-sanitari, all’alimentazione umana e ancora discutibili per l’alimentazione del bestiame, mentre enormi quantità di prodotti e sottoprodotti agricoli zuccherini, amidacei e cellulosici vanno distrutti o bruciati, o sono fonti di inquinamento, e comunque restano inutilizzati.

L’industria delle fermentazioni di materie vegetali rinnovabili fornisce la soluzione tecnologicamente avanzata di molti altri problemi merceologici. Sempre per fermentazione è possibile produrre alcool etilico, materia suscettibile di numerosissime applicazioni: di recente in alcuni stati agricoli degli Stati Uniti l’alcool viene addizionato alla benzina col vantaggio che si consuma meno benzina, che si ottengono miscele ad alto numero di ottano senza bisogno di addizionare il velenoso piombo tetraetile alle benzine, che l’inquinamento è molto minore. L’alcool etilico può anche essere usato come materia prima per la produzione di gomma sintetica, di materie plastiche e di numerosi altri prodotti chimici industriali attualmente ottenuti da risorse non rinnovabili come il petrolio e i suoi derivati o il gas naturale.

Le industrie chimiche basate sui prodotti naturali rinnovabili e diffuse nel territorio consentirebbero, fra l’altro, l’impiego di quei diplomati e laureati in discipline scientifiche, tecniche e naturalistiche che oggi sono spesso occupati male o sottoccupati.

A proposito di prodotti chimici industriali, va ricordato che, soprattutto nelle zone aride del paese, è possibile coltivare piante della  gomma come il guayule, un arbusto che, in California, in certi anni ha fornito fino a 800 kg di gomma naturale per ettaro: è abbastanza curioso ricordare che alla fine degli anni Trenta una compagnia americana aveva iniziato tale coltura anche in Puglia. Attualmente quasi tutta la gomma usata nel nostro paese è gomma sintetica ottenuta per via petrolchimica o è gomma naturale d’importazione.

Tutta l’esperienza della «chemiurgia» – la scienza nata negli anni Trenta negli Stati Uniti per l’utilizzazione di materie prime e la produzione di merci dal mondo agricolo e naturale – può essere riesplorata nel quadro dell’invenzione della società neotecnica. Gli investimenti per la ricerca scientifica e tecnologica, attualmente finalizzati in pochi settori legati ad industrie che richiedono alti investimenti di capitale, potrebbero essere diretti alla razionale utilizzazione di risorse rinnovabili naturali, allo sviluppo di industrie decentrate non inquinanti, caratterizzate da alto impiego di mano d’opera.

Finora ho fermato l’attenzione sugli aspetti agricoli della società neotecnica, ma non va dimenticato che esistono, nel nostro paese, risorse minerarie minori finora trascurate: una di queste è la leucite, un minerale presente in grande quantità nelle zone vulcaniche dell’Italia centrale, da cui è possibile ricavare alluminio e sali potassici, questi ultimi richiesti come fertilizzanti. Attualmente l’Italia importa bauxite, il principale minerale di alluminio, dall’Australia a 20.000 chilometri di distanza, e fertilizzanti potassici da vari paesi, trascurando un minerale locale la cui utilizzazione avrebbe effetti positivi sull’occupazione.

Va notato che le «fantasticherie» finora esposte sono basate su conoscenze già sperimentate e collaudate nel nostro e in altri paesi industriali avanzati.

Acqua e energia

Ho immaginato finora la creazione di industrie diffuse nel territorio e basate sulla trasformazione di prodotti naturali, per lo più risorse rinnovabili. Ma tali industrie hanno bisogno di energia e io penso che il  rimboschimento e la difesa del suolo contro l’erosione e le alluvioni possano essere affiancati dall’aumento delle risorse idriche e idroelettriche, con una revisione dell’intera politica energetica nazionale.

L’Italia non è un paese povero di acqua; anche nelle zone meridionali, aride, del paese, le precipitazioni sono spesso rilevanti e in qualche caso anche abbondanti; l’acqua, che spesso penetra e si disperde nel sottosuolo o viene perduta per evaporazione, potrebbe essere raccolta in un grande sistema di invasi o laghi artificiali al duplice scopo di aumentare le  risorse idriche – per le città, le industrie, l’agricoltura – e di produrre energia idroelettrica. L’efficacia degli invasi artificiali finora realizzati è stata spesso ridotta dal fatto che i bacini artificiali, se a monte non esiste una protezione del suolo contro l’erosione, diventano dei collettori di fango, dei detriti dell’erosione, oltre che di acqua. Proteggendo il suolo con le opere prima immaginate, sarebbe possibile rivedere tutta la politica e la geografia dei bacini anche nelle zone meno favorite, per esempio nell’Appennino centrale e meridionale.

Si usa dire, accogliendo il punto di vista delle grandi imprese elettriche private che hanno preceduto l’ENEL, che tutte le risorse idroelettriche del paese sono già state «sfruttate» e che la produzione attuale di energia idroelettrica, circa il 27% della produzione di energia elettrica (il resto è quasi esclusivamente energia termoelettrica ottenuta da combustibili fossili), è vicina al limite massimo ottenibile nelle nostre condizioni geografiche.

L’energia idroelettrica è l’unica forma di energia veramente non inquinante, ottenibile con minime perdite di trasformazione: è stato calcolato che in Italia, con adatte opere di regolazione delle valli, sarebbe possibile recuperare almeno il doppio dell’energia idroelettrica che si produce attualmente, che cioè una notevole percentuale della produzione di energia elettrica nazionale potrebbe essere coperta con nuove opere idroelettriche. Ciò consentirebbe di ridurre il consumo di combustibili fossili per la produzione di energia termoelettrica e permetterebbe di riesaminare e contenere i discutibilissimi programmi di espansione dell’energia nucleare; le nuove centrali idroelettriche, diffuse nel paese, consentirebbero di produrre l’energia necessaria per alimentare, con minimi costi e perdite di trasporto, i nuovi insediamenti industriali prima ipotizzati.

Certamente, per nuove opere idroelettriche occorrono pubblici investimenti, ma anche per l’avventura nucleare, in cui l’Italia si è imbarcata, occorrono spese e investimenti, aggravati dalla prospettiva di dover dipendere dall’estero per decenni e da problemi di inquinamento ed ecologici di vastissima portata. Gli investimenti per le opere di rimboschimento, di regolazione del corso dei fiumi, di costruzioni di dighe e centrali sono ad alto impiego di mano d’opera; può essere interessante ricordare che una delle opere pubbliche volute da Roosevelt per uscire dalla crisi americana del 1929-1933 fu la regolazione del corso del fiume Tennessee attraverso una serie di grandi dighe e centrali elettriche; le opere della Tennessee Valley Authority assorbirono parte dei lavoratori disoccupati e contribuirono a combattere l’erosione del suolo, ad aumentare le risorse idriche per l’irrigazione e ad aumentare, di conseguenza, la produzione agricola, contribuirono alla creazione di industrie, per esempio per produrre fertilizzanti con l’energia elettrica disponibile sul posto.

Non a caso Mumford pensava che, a differenza della società paleotecnica, basata sul carbone e sul petrolio, sporca e inquinante, la società neotecnica sarebbe stata basata principalmente sull’uso dell’energia elettrica pulita, ed egli pensava all’energia idroelettrica ricavabile attraverso grandi opere di risistemazione del territorio, nonché all’energia ricavabile dal sole e dal vento, altre due fonti di energia rinnovabili che potrebbero avere un ruolo decisivo nella società neotecnica diffusa che stiamo cercando di immaginare.

Una nuova maniera di fare i conti

A tale progetto di società neotecnica si usa obiettare che le merci e le soluzioni prospettate sono «più costose» di quelle attuali e tradizionali. È probabile che, sulla base di valutazioni puramente microaziendalistiche, l’alcool etilico sia un carburante più costoso della benzina, l’alluminio e i sali potassici ottenuti dalla leucite siano più costosi di quelli ottenuti da minerali di importazione.

Va però notato, intanto, che i prezzi delle materie prime e delle merci tradizionali stanno mutando e aumentando rapidamente e che, in generale, i prezzi delle risorse naturali non rinnovabili aumentano più rapidamente di quelli delle risorse naturali rinnovabili; tali mutamenti, quindi, possono rendere competitive quelle materie prime che finora erano considerate «antieconomiche».

Inoltre le analisi dei costi tradizionali non tengono conto dei costi che i privati e le aziende non pagano, ma che ricadono sulla collettività, cioè i costi dell’inquinamento conseguente la produzione e l’uso delle attuali merci, i costi dovuti alla congestione e alla violenza urbana, alla degradazione dei centri storici, alle emigrazioni, alla perdita di fertilità del terreno, alle frane e alle alluvioni; tutti costi in termini di vite umane, di patrimonio storico e naturale, oltre che di denaro privato e pubblico.

Le soluzioni neotecniche presentano dei benefici associati alla possibilità di ridurre le importazioni, di aumentare l’occupazione, di creare nuovi spazi per le attività ricreative, in seguito al ricupero della collina e della montagna, di rivitalizzare i centri minori, eccetera. Nel momento in cui impareremo a fare i conti diversamente, ci accorgeremo che molte operazioni, processi e scelte, materie prime e fonti di energia, considerati antieconomici dalla ragioneria paleotecnica, si rivelano economici in un quadro più generale di valori.

Naturalmente il progetto di industrializzazione neotecnica decentrata richiede anche una nuova maniera di distribuire nel territorio i servizi – ospedali, scuole, università – di cui sono stati finora privilegiati molto di più i grandi centri urbani e industriali, rispetto al resto del territorio. L’esodo dal mondo rurale è dovuto anche al fatto che all’Italia minore sono stati sempre riservati i servizi peggiori.

Un futuro da pianificare

L’invenzione di una società neotecnica è una grossa sfida, specialmente in questo momento grave per il nostro paese, di crisi e disoccupazione e di contraddizioni, per cui in certe parti del territorio vi sono paesi e campi abbandonati e nelle grandi città la gente è senza casa e senza lavoro. I bisogni fondamentali di cibo, di abitazioni, di istruzione, di servizi sanitari, di sicurezza nel futuro, sono soddisfatti in maniera molto diversa nelle varie parti del paese e nelle varie classi sociali: si passa dallo spreco offensivo, all’analfabetismo e alla povertà.

Ho proposto questo modello di società neotecnica come una provocazione alla pigrizia, come invito a rifare i conti, pubblici e privati, ad inventare una politica di rinnovamento della qualità della vita; tale politica presuppone l’identificazione di precisi obiettivi di natura merceologica ed ecologica e una pianificazione dei mezzi per raggiungerli, ma anche questo non basta; una società neotecnica richiede fantasia, coraggio e forza morale per criticare e rivedere strutture politiche, di potere e sociali ormai consolidate; saremo capaci di attuare tale rivoluzione?