Ambiente e tecnologia, una questione spinosa
Il rapporto che lega ambiente e tecnologia è attualmente al centro di un serrato dibattito, alimentato da un lato dall’incalzante sviluppo delle tecnologie NBIC (Nanotecnologie, Biotecnologie, Tecnologie dell’informazione, Scienze cognitive) con le loro potenzialità e incognite, dall’altro dalla fiducia che il mainstream ripone nelle innovazioni tecnologiche per realizzare quella transizione ecologica sulla cui necessità e urgenza tutti concordano. Il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) è espressione coerente di questa fiducia. Non mancano però le voci critiche, propense a guardare alla tecnologia non come alla soluzione delle problematiche ambientali, bensì come a una loro causa.
Un crescendo Rossiniano
Nella mitologia greca si narra del titano Prometeo che rubò il fuoco agli Dei per donarlo agli uomini. Con il fuoco, l’uomo acquisisce la techne (la tecnica), strumenti e abilità che gli consentono di assumere una strategia esplorativa o di adattamento ecologico((Modo con il quale una specie si adatta all’ambiente, scovando nel proprio serbatoio di variabilità le soluzioni di carattere metabolico, fisiologico e comportamentale più utili per mantenersi e riprodursi. Sono le soluzioni che consentono maggiore efficienza nel procurarsi o utilizzare risorse fondamentali quali aria, luce, acqua e nutrimento, o di incrementare la resistenza a condizioni fisiche difficili o avverse.)) diversa da tutti gli altri viventi: piegare l’ambiente alle proprie necessità. Alcune specie usano le tecnologie (ad esempio gli scimpanzé, che usano dei rametti per estrare insetti dai nidi) e tutte in qualche misura modificano il contorno, talvolta anche in modo pesante (si pensi ai castori che costruiscono lungo i corsi d’acqua sbarramenti, canali e logge), ma nessuna lo fa con la profondità, sistematicità e creatività dell’uomo. Attraverso la tecnica, guidata dal pensiero astratto, l’uomo si costruisce una nicchia artificiale, eludendo o allentando la pressione dell’ambiente naturale, determinante invece nelle altre specie nel selezionare i soggetti più adatti alla sopravvivenza, secondo la legge Darwiniana dell’evoluzione.
Si può dire che, grazie a Prometeo, il genere umano diviene cosciente della propria identità di specie bio-culturale. La cultura è fondamentale per compensare un’evidente fragilità biologica, denunciata da attitudini fisiche non eccelse e da una variabilità genetica molto ridotta, che esclude l’esistenza di razze. La variabilità umana è solo dell’uno per mille (condividiamo tra noi il 99,9% del genoma!), la metà di quella dei gorilla e un terzo di quella degli scimpanzé e degli oranghi, i primati a noi più vicini, nonostante la popolazione umana sfiori gli otto miliardi, contro meno di centomila per i gorilla e poche centinaia di migliaia per scimpanzé e oranghi.
L’uomo impara a controllare il fuoco ben prima della comparsa di sapiens. Le testimonianze primigenie risalgono a Homo erectus, a quasi un milione e mezzo di anni fa. Tuttavia è con sapiens che il genere umano comincia a maneggiare con più consapevolezza e intensità la tecnologia. Si deve per altro arrivare alla rivoluzione del Neolitico perché si definisca compiutamente la sua peculiare strategia esplorativa. Secondo la Niche construction theory, una teoria che vede organismo e ambiente legati da un rapporto coevolutivo, l’uomo diviene “il costruttore ultimo di nicchia” nelle parole del biologo Odling-Smee, colui che modellando a proprio piacimento gli habitat può decidere del destino degli altri viventi. Fattore determinante è l’invenzione dell’agricoltura, che trasforma gli ecosistemi naturali in agroecosistemi e impone la società stanziale. L’impronta umana sul pianeta si allarga progressivamente, sospinta dalla metallurgia e da varie innovazioni in campo meccanico e agronomico, finché sopraggiunge la rivoluzione industriale a imprimere un’accelerazione straordinaria allo sviluppo tecnologico e al processo di antropizzazione del pianeta.
Passaggi cruciali
In questo crescendo rossiniano vi sono due passaggi di particolare significato. Il primo nel 1972, quando il flusso di energia tecnologica, quella prodotta dall’uomo per alimentare il sistema socioeconomico, supera il flusso di energia fotosintetica, quella solare intrappolata dai vegetali nei legami chimici della materia organica, che sostiene la biosfera (Pignatti e Trezza, 2000). Nei decenni successivi l’energia tecnologica, in gran parte di origine fossile, aumenta vertiginosamente, raggiungendo nel 2019 un valore di 131 Gkcal (131 miliardi di kcal), cinque volte e mezzo l’energia fotosintetica (circa 24 Gkcal). Si tratta di uno squilibrio termodinamico abnorme, con l’aggravante che mentre l’energia fotosintetica è ossidata liberando ossigeno e molecole biologiche, del tutto innocue e riciclabili, l’energia tecnologica è combusta, producendo scorie e inquinanti vari.
Il secondo passaggio è relativo al 2020. La massa antropogenica, ossia la materia inerte di origine umana, costituita da calcestruzzo, aggregati, mattoni, asfalto, metalli, plastiche e altro supera, al netto degli scarti, la massa vivente del pianeta: millecento miliardi di t in sostanza secca (Elhacham et al, 2020). Agli albori del Novecento era solo il 3% della biomassa, ma poi raddoppia ogni vent’anni, a un ritmo doppio della popolazione. Attualmente incrementa di trenta miliardi di t l’anno, proiettandosi nel 2040 a oltrepassare di un fattore tre la biomassa. L’impatto umano non si limita alla riduzione della massa vivente (nell’era pre-agricola la massa vegetale era il doppio dell’attuale), ma coinvolge anche la sua qualità. Nell’ultimo secolo la biomassa è rimasta sostanzialmente stabile, ma pochissime specie coltivate e allevate hanno sostituito molte specie selvatiche, facendo crollare la biodiversità. La biomassa dei mammiferi è oggi composta dal 36% di umani, 60% di animali allevati e solo 4% di selvatici. Negli uccelli, la componente selvatica è ridotta al 30%. In termini di biomassa, l’uomo si mangia il 94% dei mammiferi terrestri e il 70% degli uccelli, oltre a una quota rilevante di fauna acquatica. Si appropria pure di una frazione consistente di biomassa vegetale terrestre: un quarto circa della produzione primaria netta (Haberl et al., 2007((La produzione primaria netta (PPN) è la quantità di biomassa prodotta in un anno dai vegetali con la fotosintesi, al netto di quanto speso per i processi di respirazione cellulare e per il mantenimento di organi e tessuti.))). È di tutta evidenza come lo strabiliante successo evolutivo ottenuto dalla nostra specie((In ecologia il successo evolutivo si misura sulla dimensione della popolazione. Nessun’altra specie di pari stazza ha raggiunto una popolazione numerosa come quella di Homo sapiens, neppure lontanamente.)) sia avvento essenzialmente a spese della natura e degli altri viventi.
Il problema ambientale, nelle sue molteplici sfaccettature, ha la sua radice nella sconsiderata crescita della tecnosfera. Quella che dovrebbe essere un sottosistema della biosfera, prodotto di una specie che rappresenta solo l’1% della biomassa animale e lo 0.01% della biomassa complessiva, ingloba oggi in termini energetici e materiali la biosfera. Non è incidentale che il bilancio ecologico del pianeta cominci a segnare rosso proprio negli anni settanta del secolo scorso, in concomitanza con il sorpasso dell’energia tecnologica sulla fotosintetica. Al presente si stima un’impronta ecologica di 2,87 ettari a persona((Indicatore elaborato da Mathis Wackernagel e William Rees del Global Footprint Network. Misura l’area di mare e di terra biologicamente produttiva necessaria a rigenerare le risorse naturali consumate dall’uomo e metabolizzare i rifiuti. È calcolato in base alla superficie marina necessaria a ricostituire i prelievi di pesce e alla superficie terrestre necessaria ad assorbire le emissioni di carbonio, produrre cibo, legname e altri beni, allevare il bestiame e urbanizzare. A parere di molti, l’impronta è sottostimata, perché non considera tutte le emissioni di sostanze inquinanti.)) a fronte di una disponibilità di 1,71, con un disavanzo quindi di 1,16 ettari. Il modello previsionale World 3 di Jay W. Forrester, descritto nel III rapporto del Club di Roma, prefigura nei prossimi decenni il tracollo della civiltà umana, dapprima per il depauperamento delle risorse non rinnovabili, poi per l’inquinamento e infine per la crisi alimentare.
La transizione ecologica
Una grande cambiamento nel nostro rapporto con la natura appare dunque indispensabile. A ogni livello e in ogni sede si invoca una transizione ecologica e il governo italiano ha addirittura istituito un ministero con questo nome. Vi sono però posizioni contrastanti sul significato da attribuire alla transizione e sui modi con cui realizzarla. Da una parte vi è chi in continuità con l’attuale modello di sviluppo pensa a una nuova rivoluzione industriale, la cosiddetta “rivoluzione 4.0”; dall’altra chi auspica un drastico cambiamento di rotta verso una “società della parsimonia”. Uno degli elementi divisivi è la tecnologia. La rivoluzione 4.0 crede ciecamente in essa, nel suo potere taumaturgico nel risolvere ogni problema. La visione della parsimonia non la ritiene, invece, la panacea e, pur non rifiutandola a priori (sarebbe ignorare la nostra identità di specie), non l’accetta acriticamente.
Il tema è certamente complesso e necessità di qualche puntualizzazione. In primo luogo occorre riconoscere che l’evoluzione umana è stata fondamentalmente tecnologica, non biologica, anche se i due processi confluiscono in un fenomeno evolutivo unitario. I grandi cambiamenti avvenuti nella storia sono stati dettati da novità tecnologiche, che hanno poi avuto ricadute sull’organizzazione sociale, sull’economia, il lavoro, gli stili di vita, l’immaginario collettivo, l’antropologia, il rapporto con l’ambiente e così via. Biologicamente, la nostra specie non si è modificata più di tanto, è rimasta sostanzialmente stabile. La nostra strategia di adattamento ecologico, unita alla nostra giovane età come specie, ci ha mantenuto geneticamente identici al primo uomo moderno venuto alla luce trecentomila anni fa. La nostra evoluzione è stata esclusivamente esosomatica e continuerà a esserlo anche in futuro. Siamo quindi portati (erroneamente) a ritenere buono e ineludibile lo sviluppo tecnologico e a identificarlo con il progresso.
Un secondo elemento da considerare è l’utilità. Molte tecnologie, come ad esempio quelle per la diagnostica medica o per certe terapie, sono preziose e soddisfano bisogni fondamentali, migliorando la nostra qualità di vita. Altre sono fini a sé stesse, rispondono a bisogni futili e non servono alla nostra felicità. Si pensi a certe tecnologie digitali, che violano la privacy, controllano e condizionano i comportamenti, alterano la percezione della realtà, sottraggono tempo. Anche le tecnologie utili a risolvere dei problemi reali, spesso ne creano di nuovi e più gravi, magari altrove. Dietro a vantaggi immediati e tangibili, che ce le fanno apprezzare, nascondono effetti dannosi, di norma progressivi e dilazionati nel tempo, difficili pertanto da percepire. Esemplificando, tutti apprezziamo i vantaggi della comunicazione a distanza, ma non pensiamo ai danni alla vista o alla colonna vertebrale che alla lunga si potrebbero presentare sostando davanti a un monitor. Ancor più ci sfuggono i danni all’ambiente inferti dagli enormi consumi di energia e materiali che stanno dietro alle strutture e infrastrutture di supporto.
Si arriva così a un terzo punto. Tutte le tecnologie hanno un costo ambientale, più o meno elevato. Ogni strumento o apparato, dal più semplice al più complesso, consuma risorse materiali ed energetiche, impattando sulla biosfera. Ognuno ha una storia nascosta, di cui i beneficiari non hanno solitamente consapevolezza. Molto istruttiva in tal senso è la storia di una lattina di Coca-Cola narrata nel sito web energyskeptic: la sua complessità è davvero sorprendente in raffronto alla banalità del bene e lascia intuire quanto siano elevati i consumi di risorse e gli impatti ambientali. Consumi e impatti si verificano in ogni fase della storia, dall’approvvigionamento delle materie prime, alla produzione, commercializzazione, uso e smaltimento finale e possono essere misurati attraverso l’analisi del ciclo di vita (LCA – Life Cycle Assessment), ossia monitorando il processo “dalla culla alla tomba”. Risulta così che per produrre un chilogrammo di carne bovina si consumano 15.000 litri di acqua, o per una maglietta di cotone 2.700 litri; la spedizione di sette mail comporta un consumo energetico pari quello di un chilometro di un’auto; per costruire un computer si genera una quantità di rifiuti pari a quasi quattromila volte il suo peso e per un chip di semiconduttore centomila volte il suo peso. Di recente Elon Musk, il patron di Tesla, ha deciso che la sua azienda non accetterà più il Bitcoin come mezzo di pagamento, in ragione degli alti consumi energetici che il sistema delle criptovalute, in apparenza del tutto immateriale, richiede.
Quale evoluzione nella strategia esplorativa?
Il diverso ruolo assegnato alle tecnologie dalla rivoluzione 4.0 e dalla società della parsimonia ha implicazioni dirette sulla strategia di adattamento ecologico dell’uomo, aprendo a scenari evolutivi divergenti.
La rivoluzione 4.0, perfettamente in linea con il paradigma economico imperante curvato sulla crescita infinita e la ricerca del profitto, accentuerà ulteriormente l’azione manipolatoria sull’ambiente, alterando sempre più gli ecosistemi naturali. Poiché la nostra specie si è originata e selezionata in stretto contatto con una natura incontaminata, diverremmo dei disadattati sotto il profilo filogenetico, con conseguente esplosione di malattie degenerative, cui si sommerebbero pandemie sempre più gravi e frequenti. Ecco allora la nuova strategia esplorativa: modificare il nostro corredo genetico al fine di renderlo confacente a contesti divenuti invivibili. Invece di evitare che la pressione ambientale ci modifichi, come abbiamo cercato di fare fino ad ora, ci auto-modificheremmo scientemente. Da costruttori di nicchie ecologiche diverremo anche costruttori di noi stessi. Per la prima volta il fenotipo di un essere vivente agirebbe direttamente, seppure in modo collettivo, sul proprio genotipo, interferendo direttamente con i meccanismi biologici più profondi e ponendo le premesse per una vita ibrida, transumana, ciò grazie a un mix di tecnologie noto con l’acronimo NBIC (Nanotecnologie, Biotecnologie, Tecnologie dell’informazione, Scienze cognitive). Così facendo, però, andremmo incontro a rischi molto seri((La nostra conoscenza del genoma, del suo funzionamento e delle sue connessioni con l’epigenoma e gli altri sistemi ereditari è molto limitata. Vi è una complessità che ci sfugge in larga misura e ogni manipolazione potrebbe innescare derive imprevedibili.)) e ci rinchiuderemmo, forse definitivamente, in un circolo vizioso, dove nuove, più potenti e invasive tecnologie saranno continuamente chiamate a rimediare ai danni creati dalle tecnologie precedenti, in una progressione destinata prima o poi a interrompersi. Le tecnologie non potranno mai risolvere il problema della finitezza delle risorse naturali, risorse dalle quali dipende totalmente la nostra vita. Potranno in certi casi aiutare, ma uno sfruttamento senza limiti del pianeta, oltre le capacità rigenerative degli ecosistemi, condurrà inesorabilmente al collasso della civiltà umana.
La società della parsimonia, invece, accettando il limite quale condizione della e per la vita, ha tra le priorità il rispetto della natura e delle sue regole, oltre che della persona nella sua integrità. L’ecologia è anteposta all’economia e uno degli obiettivi fondamentali è la conservazione dei servizi ecosistemici((Il progetto Millennium Ecosystem Assessment identifica quattro categorie di servizi ecosistemici: servizi di approvvigionamento (cibo, materie prime, principi per la medicina, acqua dolce), servizi di regolazione (qualità dell’aria, clima, risorse idriche, erosione, purificazione delle acque e trattamento dei rifiuti, regolazione malattie e pandemie, impollinazione, mitigazione eventi estremi), servizi culturali (salute fisica e mentale, ricreazione ed ecoturismo, valori estetici, valori spirituali e religiosi), servizi di supporto (ciclo dei nutrienti, fotosintesi, formazione del suolo).)). La strategia esplorativa sarà orientata alla moderazione e all’armonia, traendo ispirazione dalla natura stessa e dalle antiche saggezze, quando l’uomo considerava sacra la Terra e la abitava con rispetto, non con l’atteggiamento violento e predatorio di oggi. Le tecnologie non potranno essere accettate in modo indiscriminato. Dovranno essere utili, efficienti ed eticamente indirizzate, vale a dire con impatti accettabili per l’ambiente e per la salute, a servizio del bene comune e non escludenti.
Il giudizio etico applicato alla tecnologia ha oggi bisogno di una revisione. In origine si riteneva che la tecnologia non fosse né buona né cattiva, ma che tutto dipendesse dall’uso (un coltello può essere usato per affettare del salame o uccidere una persona). Tuttavia, già nel secolo scorso, lo storico americano Melvin Kranzberg ne contestava la neutralità. Essendo un prodotto dell’ingegno umano, egli sosteneva, incorpora una visione del mondo, un’ideologia. Il giudizio non può più circoscriversi al semplice uso, ma deve comprendere anche la tecnologia in sé. L’attenzione sullo strumento va necessariamente accentuato con le NBCI. Gli ampi margini d’incertezza e rischio che comporta l’insinuarsi nel profondo dei meccanismi biologici esige una valutazione della tecnologia preliminare all’uso, regolata sul principio di precauzione. Se una tecnologia è potenzialmente dannosa per l’ambiente o la salute pubblica e non gode ancora di consenso scientifico non dovrebbe essere utilizzata. Una posizione così netta è senz’altro plausibile nella società della parsimonia, ma non, ovviamente, dentro il paradigma della rivoluzione 4.0, dove il mito della crescita ha necessità di suscitare una fede incrollabile nella tecnica per diffondere ottimismo e prevenire ogni dissenso. In tal modo, però, le persone non sono stimolate a mettere in atto quelle azioni e quei comportamenti indispensabili per superare davvero la crisi ambientale.
Conclusioni
Riconoscere che la tecnologia è parte integrante e irrinunciabile della nostra vita e della nostra strategia esplorativa non ci deve far cadere nell’errore di considerarla onnipotente e gratuita. La tecnologia ci può aiutare a risolvere dei problemi, ma ha sempre un costo ecologico e serve poco al nostro benessere, quello vero, che ci fa essere persone soddisfatte e serene. Se così non fosse, i nostri antenati avrebbero dovuto essere dei disperati e noi oggi l’icona della felicità. Purtroppo, la realtà non pare essere questa.
Le tecnologie vanno prodotte e utilizzate con prudenza, in particolare quelle più moderne che, ai limiti già segnalati, aggiungono altri pericoli. Dandoci l’illusione di poter controllare e manipolare tutto, di poter dirigere la nostra evoluzione di specie, di governare se non di creare la vita stessa, ci spingono al delirio di onnipotenza, il che potrebbero risultare esiziale per l’umanità. Inoltre, l’immenso potere consegnato nelle mani dei proprietari di queste tecnologie, potere di controllare le persone, orientarne i comportamenti, condizionarne le coscienze, limitarne la libertà potrebbe minare alle fondamenta la democrazia, soggiogandola alla tecnocrazia e agli interessi di pochi.
Opere citate nel testo
Elhacham E., Ben-Uri L., Grozovski J., Bar-On Y.M., Milo R., 2020. “Global human-made mass exceeds all living biomass”, in “Nature”, n. 588, pp. 442-444.
Haberl H., Erb K.H., Krausmann F., Gaube V., Bondeau A., Plutzar C., Gingrich S., Lucht W., Fisher-Kowalski M., 2007. “Quantifying and mapping the human appropriation of net primary production in earth’s terrestrial ecosystems”, in “Proceeding of the National Academy of Sciences of the United States of America”, n. 104 (31), pp. 12942-12947.
Pignatti S. e Trezza B., 2000. Assalto al pianeta, Torino, Bollati Boringhieri.