Ambiente, tempo libero e politica di piano. Eredità e inerzie della programmazione nazionale italiana al tornante del 1970
Un punto di osservazione eccentrico
All’inizio degli anni Settanta la questione ambientale in Italia entra a pieno titolo nella sensibilità della politica e dell’opinione pubblica, incrociando saperi esperti, associazioni di categoria e associazionismo civile, e contribuendo di fatto a mettere in discussione la nozione di cittadinanza anche rispetto ai temi ecologici e al sistema dei relativi diritti e doveri. Non si tratta evidentemente di una novità, quanto piuttosto di uno spostamento progressivo della scala valoriale che viene veicolata negli anni precedenti da vari canali: in primo luogo dalla discussione degli ambienti esperti e degli addetti ai lavori, che a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta producono una significativa quantità di studi e ricerche che accendono luci di attenzione sul territorio e sulle sue ecologie e vi si depositano anche attraverso alcune proposte di istituzione di parchi e aree protette((Per una lettura di lungo periodo si veda L. Piccioni, “Regioni e aree protette”, in L’Italia e le sue regioni. II. Territori, a cura di M. Salvati e L. Sciolla, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2015, pp. 347-365; rimando inoltre a C. Renzoni, “Austerità e urbanistica. Questione ambientale e crisi energetica tra anni sessanta e settanta”, in Giovanni Favero, Paola Lanaro, a cura di, La città che cambia. Riconversioni e metamorfosi, numero monografico di «Città & Storia», vol. VII, n. 2, luglio-dicembre 2012, pp. 313-329.)). In secondo luogo è certo rilevante la presenza di gruppi già ampiamente consolidati (Italia Nostra, il Touring Club Italiano, per citare i più noti), portatori di quel «proto-ambientalismo» che a un approccio di tipo patrimonialistico e locale cominciano ad affiancare una sensibilità più sfaccettata – sebbene sempre molto legata a istanze di matrice conservazionista. In terzo luogo lo spostamento dell’attenzione matura anche intorno ai temi della tutela del paesaggio dall’inquinamento((Tra la seconda metà degli anni sessanta e i primi anni settanta vengono varate alcune prime e significative norme antinquinamento nazionali.)), e attraverso i movimenti dell’autunno caldo, con la rivendicazione della salute sul lavoro e poi della salute pubblica, andando a coinvolgere, ben presto, strati sempre più vasti della società civile((Si veda, tra gli altri, S. Neri Serneri, Culture e politiche del movimento ambientalista, in F. Lussana, G. Marramao, a cura di, L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, vol. II: Culture, nuovi soggetti, identità, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, pp. 367-399; G. Della Valentina, Storia dell’ambientalismo in Italia. Lo sviluppo insostenibile, Bruno Mondadori, Milano, 2011, p. 116)).
In questa condizione articolata e in movimento, il Progetto ‘80, Rapporto preliminare alla redazione del secondo piano economico nazionale 1971-75 – e in generale tutta la stagione conclusiva dell’esperienza di programmazione nazionale degli anni Sessanta, rappresenta un punto di osservazione significativo, sebbene per certi versi eccentrico, per osservare i ruoli demandati alle culture dell’ambiente nella definizione di un’idea di Paese e di una visione di medio lungo periodo((C. Renzoni, Il Progetto ‘80. Un’idea di Paese nell’Italia degli anni Sessanta, Alinea, Firenze, 2012; Ministero del Bilancio e della programmazione economica, Progetto 80. Rapporto preliminare al secondo programma economico nazionale 1971-75, Istituto poligrafico dello Stato, Roma, 1969.)). Il Progetto ‘80 è il nome del Rapporto preliminare al secondo programma economico nazionale 1971-75: un breve documento articolato in 205 punti e un’appendice corredata da tre mappe (“cartogrammi”) alla scala nazionale, che si pone un traguardo decennale (al 1980, appunto), immaginando di informare due successivi piani quinquennali. Il documento, elaborato all’interno dell’Ufficio del programma coordinato da Giorgio Ruffolo presso il Ministero del Bilancio, arriva al finire degli anni Sessanta: segna il punto culminante e la chiusura della stagione di programmazione economica e pianificazione nazionale dei governi di centro-sinistra e porta con sé alcuni aspetti innovativi che vengono metabolizzati nel corso di tutto il decennio di cui certamente il più significativo riguarda l’attenzione esplicita allo spazio fisico (in termini geografici e urbanistici, non solo in termini economici e sociali) del territorio.
Si tratta di un punto di osservazione eccentrico per almeno due motivi: da un lato perché il Progetto ‘80, elaborato tra il 1968 e il 1969 e pubblicato tra il 1969 il 1971, segna una conclusione di una stagione, più che un nuovo inizio, abbracciando un arco temporale che lo mette a cavallo tra un momento e l’altro dello spartiacque del 1970 preso a riferimento. Dall’altro, e proprio per questo motivo, perché è portatore al contempo di alcuni elementi di tradizione e di innovazione, che di lì a poco sarebbero stati definitivamente superati e abbandonati (la programmazione e la stagione del riformismo di stato con la politica di piano portata avanti in continuità nel corso degli anni Sessanta), oppure rielaborati e rinnovati (ad esempio attraverso i nuovi strumenti di governo del territorio in capo alle regioni a statuto ordinario). Queste le ragioni del riferimento, nel titolo, a eredità e inerzie.
Dall’assetto del territorio all’ambiente
Il Progetto ‘80 segna uno spostamento dell’attenzione significativo rispetto ai documenti della programmazione del decennio precedente, soprattutto in merito alla dimensione spaziale del piano che costituisce uno degli elementi di maggiore innovazione: le questioni attraverso cui leggere e pensare il territorio appaiono trasversali rispetto alle tradizionali categorie di sviluppo e squilibri territoriali e non si riducono ad una distinzione tra le aree geografiche ed economiche del Triangolo industriale e del Mezzogiorno. Fanno invece la loro comparsa con un ruolo di primo alcune delle questioni centrali del dibattito sulla città e sul territorio degli anni Sessanta: i temi dello “sviluppo urbano”, l’attenzione verso la salvaguardia dei beni ambientali, il problema della conservazione e valorizzazione dei centri storici. Temi verso i quali la politica di sviluppo non aveva fino ad allora mostrato particolare sensibilità((Rimando a C. Renzoni, “Il piano implicito: il territorio nazionale nella programmazione economica italiana, 1946-73”, in «Storia Urbana», vol. XXXIII, n. 126-127, 2010, pp. 139-168; C. Renzoni, “Immagini e saperi per il territorio italiano: l’esperienza della programmazione”, in A. Calafati, a cura di, Città, tra sviluppo e declino. Un’agenda urbana per l’Italia, Donzelli, Roma, 2015, pp. 183-201.)).
L’interesse di questo documento di programmazione è legato all’approccio al territorio nazionale e alla pianificazione spaziale, che emergono con forza in una sezione dedicata, invece che al più praticato «assetto del territorio», all’«Ambiente», a sua volta strutturata in tre macro-temi: natura e beni culturali, sistemi metropolitani, rete dei trasporti. Le riflessioni che supportano il lavoro sono fortemente permeate da una cultura della tutela che viene presentata come l’esito diretto di una sensibilità ormai data per consolidata nei confronti del patrimonio non solo storico artistico, ma anche ambientale del Paese. Le categorie di analisi per la definizione sia degli obiettivi sia delle cartografie a corredo (mappe e legende) sono infatti incentrate sul grado di unicità o riproducibilità delle risorse naturali e culturali. Le risorse territoriali sono classificate in quattro categorie di beni il cui grado di flessibilità rispetto a possibili trasformazioni risulta via via crescente: “beni connessi alla natura” (mari, fiumi, spiagge, montagne, suolo e sottosuolo, ambiente paesistico e agricolo tipico, ecc.); “beni connessi a preesistenze storico-culturali” (zone archeologiche, centri storici, ecc.); “beni connessi all’agglomerazione urbana degli insediamenti umani” (sistemi residenziali, zone industriali, infrastrutture urbane e servizi pubblici, ecc.); “beni connessi ai sistemi infrastrutturali”. Appare evidente che la stessa nozione di “bene” – per certi versi generica e molto ambigua, sintomo anche di una prospettiva prevalentemente economicistica – viene estesa all’intero territorio e alla complessità di segni (naturali e culturali) che vi si stratificano. Non solo la discussione sui centri storici e sulla loro salvaguardia sembra diventata parte integrante di una cultura della tutela ormai consolidata, ma prende piede una coscienza – anch’essa largamente condivisa – intorno ai “beni ambientali”. Un approccio al tema che, se in parte si esplica per lo più in termini classificatori e inventariali, come sottolinea Giuseppe Dematteis nel rileggere il documento venticinque anni dopo((G. Dematteis, “Immagini e interpretazioni del mutamento”, in Clementi, Alberto, Dematteis, Giuseppe, Palermo, Piercarlo, a cura di, Le forme del territorio italiano. Temi e immagini del mutamento, vol. I, Laterza, Roma-Bari, 1996, pp. 66-79.)), proprio per questo rende conto dell’intento di ricognizione sistematica che si propone lo studio, che si dichiara volto “alla costruzione di un primo generale censimento dei beni naturalistici e storico-artistici”((Ministero del bilancio e della programmazione economica, Centro di studi e piani economici, a cura di, Le proiezioni territoriali del Progetto 80: ricerca e modelli di base, Atel, Roma, 1971 (vol. I, p. 11).)). Non appare secondario il fatto che a lavorare a questo progetto ci sia un gruppo composito di economisti, statistici, architetti e urbanisti, coordinati da Franco Archibugi che ruotano intorno al Ministero del bilancio e della programmazione economica e, in parte, al Ministero dei Lavori Pubblici((Rimando a C. Renzoni, “Urbanistica e programmazione nel primo centro-sinistra. Uno sguardo su saperi esperti e apparati pubblici”, in Enzo Russo, a cura di, Programmazione, cultura politica e metodo di governo, vol. V della collana Le culture del socialismo italiano (1957-76), a cura di Enzo Bartocci, Quaderni della Fondazione Giacomo Brodolini, Roma, 2015, pp. 81-115.)). La metafora dell’equilibrio e dello squilibrio che informa tutto il discorso sulla programmazione nazionale, nella sua dimensione spaziale ruota tutta attorno al rapporto tra unico e irriproducibile, con uno sguardo non usuale, e per certi versi avanzato in quel momento, rivolto alle forme di fruizione e accessibilità (in termini non perentoriamente conservazionistici).
Mappe e scenari: una questione di scala e di pubblico
Il Progetto ‘80 è accompagnato da alcune carte tematiche che compaiono nella prima stesura del rapporto dato alle stampe nel 1969 e che vengono ampliate contestualmente alla pubblicazione degli studi territoriali legati al piano: le Proiezioni territoriali del Progetto ‘80 pubblicate nel 1971((Ministero del bilancio e della programmazione economica, Centro di studi e piani economici, a cura di, Le proiezioni territoriali del Progetto 80: ricerca e modelli di base, 3 voll., Atel, Roma, 1971; anche in “Urbanistica” 57/1971.)).
Le risorse naturalistiche e storico-artistiche – ricondotte a una comune denominazione di “aree libere” – viaggiano sempre di pari passo, nei discorsi ma soprattutto sulle carte. L’attenzione nei confronti di queste risorse è strettamente legata – oltre che alla loro natura di beni non riproducibili – alle pratiche d’uso che vi si svolgono o che potenzialmente potrebbero svolgervisi, in particolare alle attività del tempo libero. Non è casuale la sovrapposizione anche terminologica tra “aree libere” e “aree per il tempo libero”, che da un lato indica il riferimento a spazi aperti, non costruiti e dall’altro propone per questi spazi una utilizzazione prevalentemente legata al loisir, in un ricercato dialogo tra conservazione e fruizione turistica.
Questa articolazione del discorso, cui si accompagna un’attenzione estremamente ridotta nei confronti dell’agricoltura, è sintomatica di un’idea di paese che sembra aver poco a che fare con la società contadina che ha costituito negli anni precedenti lo sfondo di riferimento per il discorso territoriale della programmazione. Un atteggiamento che testimonia uno spostamento significativo dell’attenzione nei confronti del territorio e del paesaggio, intorno al quale si consolida, proprio nel corso degli anni sessanta, un bagaglio esperienziale molto diverso rispetto al passato((A. Lanzani, Paesaggi italiani, Meltemi, Roma, 2003.)): l’Italia che emerge dalle carte è un Paese in cui quasi il 60% della superficie viene individuata come “aree caratterizzate da accentuata presenza di valori naturalistici e storico-artistici” e in cui vengono segnalati come “centri storici e complessi di valore archeologico” oltre 1200 siti che punteggiano in modo pressoché uniforme tutte le rappresentazioni cartografiche.
Vale la pena fare un breve cenno alle fonti utilizzate per questa parte della ricerca sulle risorse ambientali e storico-culturali e, più in generale, sulle aree libere: dalle schede e dagli approfondimenti riportati nell’appendice si evince il ruolo determinante svolto dalle pubblicazioni del Touring Club Italiano, che forniscono non solo criteri classificatori e definizioni, ma anche una base per la costruzione delle carte e in particolare modo per “la perimetrazione rigorosa delle zone là dove le conoscenze dirette non erano sufficientemente precise”((Ministero del bilancio e della programmazione economica, Centro di studi e piani economici (1971), a cura di, Le proiezioni territoriali del Progetto 80: ricerca e modelli di base, 3 voll., Atel, Roma, vol. 2, p. 208.)). Sono presenti inoltre i rapporti di numerose commissioni parlamentari di studio – tra le quali la Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del Patrimonio Storico, Archeologico, Artistico e del Paesaggio (1967), le schede internazionali dell’UNESCO e la documentazione prodotta da alcuni Comitati regionali per la programmazione economica (CRPE). Va inoltre sottolineata la ricorrente presenza di documenti elaborati da Italia Nostra, sintomo di un associazionismo con forte valenze operative e progettuali che nel corso degli anni Sessanta ha acquistato sempre maggior consistenza e credibilità.
Alla dimensione descrittivo-interpretativa sopra brevemente restituita, si accompagnano un modello di sintesi (modello A, “modello di assetto territoriale attuale”) e uno scenario al futuro (modello P, “modello di assetto territoriale programmatico”) in cui i “criteri progettuali di un nuovo assetto territoriale” vengono riconosciuti da un lato nel patrimonio insediativo e policentrico del paese, dall’altro nel patrimonio paesistico e storico-culturale. Su questo secondo aspetto il Progetto ‘80 mette in evidenza l’urgenza di indirizzi non solo di salvaguardia delle fasce costiere e di valorizzazione dell’ambiente collinare e montano, ma anche di miglioramento della loro fruizione e accessibilità. E in questa direzione l’aspetto più innovativo è legato alla proposta di istituzione di 82 nuovi parchi tra parchi nazionali e riserve naturalistiche (si vedano le figure 1 e 2), in un paese che, alla fine degli anni Sessanta, ne conta soltanto quattro((Parco nazionale del GranParadiso (1922); parco nazionale d’Abruzzo (1923); parco nazionale del Circeo (1934); parco nazionale dello Stelvio(1935).)). Si tratta di una presa di posizione piuttosto significativa, a fronte del riconoscimento di un rapporto più volte definito squilibrato tra la potenzialità di risorse culturali e ambientali diffuse sul territorio e la loro necessaria valorizzazione, che, come sappiamo, avverrà in seguito e solo in parte.
Negli anni immediatamente successivi alla sua pubblicazione il Progetto ‘80 fu giudicato in modi diversi da parte di specialisti della conservazione urbana, che ne sottolineavano l’importante operazione di censimento alla scala nazionale da un lato, ma anche la distanza tra alcuni posizionamenti teorici e scelte progettuali((Si vedano ad esempio Carozzi, Carlo, Rozzi, Renato (1971), Centri storici questione aperta. Il caso delle Marche, De Donato, Bari; Gurrieri, Francesco (1975), a cura di, Dal restauro dei monumenti al restauro del territorio, Edizioni Clusf, Firenze.)). Osservato con il beneficio della distanza temporale, il documento anticipa alcuni aspetti di un dibattito che emergerà con più forza di lì a breve, in particolare per quanto riguarda l’attenzione alla scala territoriale, la declinazione della questione della conservazione in termini ambientali e l’attenzione alla dimensione dei consumi e del turismo. Ne emerge un’immagine del patrimonio del Paese potenzialmente alternativa rispetto a quelle che il dibattito sui “centri storici”, e in parte anche sulle aree protette, aveva elaborato a partire dagli anni cinquanta, in cui – in parziale continuità con un processo iniziato fin dagli anni postunitari – il riferimento prevalente a una dimensione locale/municipale era strettamente legato alla riproposizione di forti valori identitari((Cfr. De Pieri, Filippo (2012), “Un paese di centri storici: urbanistica e identità locali negli anni Cinquanta e Sessanta”, in «Rassegna di architettura e urbanistica», n. 136, pp. 92-100; Troilo, Simona (2005), La patria e la memoria. Tutela e patrimonio culturale nell’Italia unita, Milano, Electa; Piccioni, Luigi (2012), “Environmentalism and sociocultural movements in Italy”, in «Plurimondi. An International Forum for Research and Debate on Human Settlements», vol. V, n. 11, pp. 137-153.)). All’opposto, i documenti di sviluppo territoriale della programmazione nazionale sembrano costruirsi prevalentemente su una diversa idea di cittadinanza, fondando le proprie ragioni intorno a nuovi rituali condivisi di uso del territorio. È possibile sostenere che la dimensione implicitamente comunitaria che caratterizza molti dei discorsi sui centri storici e sul loro recupero nel secondo dopoguerra sia completamente trascurata dai documenti della programmazione nazionale, che vedono piuttosto nei centri storici una risorsa per la costruzione di una efficiente e capillare rete di nuclei archeologici e storico-artistici, destinati a essere investiti da un turismo che coinvolge l’intero Paese e i suoi cittadini. Cittadini che non sono gli abitanti dei centri minori che si stanno spopolando o delle città medie e medio-grandi minacciate da processi di distruzione o di depauperamento((Cfr. Cederna, Antonio (1956), I vandali in casa, Laterza, Bari; Belli, Attilio, Belli, Gemma (2012), L’urbanistica narrata alle élite. «Il Mondo» (1949-1966) di fronte alla modernizzazione del Bel Paese, Franco Angeli, Milano (Cederna 1956; Belli, Belli 2012))), quanto un nuovo ceto medio di cittadini-consumatori che risiede idealmente nei futuri “sistemi metropolitani” regionali che il Progetto ‘80 prefigura.