Appunti per una filosofia politica della strada
Una singolare esperienza che devo ai rifugiati – e a chi con me meglio di me agisce fra loro – è l’esperienza di una condizione che non so bene come nominare perché è in se stessa contraddittoria. E’ un ossimoro esistenziale. Le parole,invece, tendono a unificare, ponendo la contraddizione ai margini o fuori del loro alone semantico. Perciò ho posto nel sottotitolo due parole che sono una la negazione non dialettica dell’altro. L’esperienza e quindi la filosofia della strada non sono dialettiche, vivono di contraddizioni che appaiono insuperabili, in cui bisogna entrare senza sapere in anticipo dove portano.
Intendo riferirmi a una condizione per cui, dall’interno di una situazione al limite della sopravvivenza e talora anche sotto, si creano micro-situazioni relazionali,ma anche più estese, in cui il rapporto fra chi può dare e chi è costretto a ricevere non produce dipendenza e quindi gerarchia ma legami di solidarietà in un contesto sociale caratterizzato dall’individualismo indifferente o rissoso, dalla crescente diffusione di larghe chiazze di odio sotto la spinta dell’affiorare di paure profonde, politicamente coltivate.
E’ un dare e un prendere che spesso costruisce una possibilità di continuare a vivere. E’ un livello della condizione umana in cui una ricerca di senso s’instaura per il rifugiato sui bisogni della sopravvivenza e per l’”operatore di strada”nel rapporto con bisogni che diventano indirettamente suoi.
Non si tratta di mero aiuto a sopravvivere. Un frutto o un’aspirina dati e presi valgono come e talora meno dello stringere una mano, guardare negli occhi, chiedere il nome, ascoltare o trascrivere frammenti di storia di vita: gesti pieni di senso. Restituiscono dignità a chi non è ritenuto degno. Fanno apparire la singolarità di chi si ha di fronte e la sua eguaglianza di valore con noi.
Chi opera con i profughi mette allora in atto una pratica dell’uguaglianzae, in essa, di quella differenza singolare che ciascuno è nei confronti di ogni altro e quindi di un’azione volta alla giustizia, che non nasce dall’applicazione di un’idea, di una teoria, ma dall’esperienza della vulnerabilità e dell’inermità dei corpi – e quindi della loro intrinseca relazionalità.
Ciò significa che può nascere senso dentro una condizione esistenziale al limite del sopportabile. E il senso genera l’esperienza di una pienezza nella mancanza – una sorta di felicità.
E’ l’esperienza della compenetrazione della dimensione collettiva e di quella singolare:non c’è l’una senza l’altra.
E’l’esperienza del fatto che non c’è libertà senza giustizia, singolarità senza collettività, ‘io’ senza ‘altro’.
Significa allora anche instaurare un’esperienza di ciò che tradizionalmente chiamiamo ‘diritti’ del tutto indipendente dal riconoscimento di un potere. Cominciando da quello che potremmo chiamare, in questo caso,il diritto di base: il “diritto di fuga” (S. Mezzadra); fuga da una situazione intollerabile,politicamente prodotta: ciò significa di fatto il diritto di vivere una vita degna d’essere vissuta.
Questi ‘diritti’ nascono dal corpo, dalla sua condizione relazionale, che si manifesta proprio nella sua vulnerabilità,nella sua esposizione all’altro. E in ciò si manifesta con evidenza che sono diritti collettivi in quanto singolari e che sono del singolo in quanto collettivi. Si contrappongono ai diritti giuridici individuali, statuali e internazionali,mediati dall’astrazione coattiva della legge.
Sono diritti incisi nei bisogni e nei desideri del corpo che, per esserci, ha bisogno dell’altro, da cui nasce e verso cui è costitutivamente proteso. E’ una constatazione elementare che la fondazione insieme individualistica e astratta della concezione giuridica dei diritti ha nascosto.
Così come la visione cartesiana ha nascosto che il simbolico- l’anima- non è una dimensione separata, ma è la potenza relazionale del corpo. Il corpo umano è una protensione, un’irradiazione verso il simbolico:
le “forme di astrazione e simbolizzazione non costituiscono un allontanamento del corpo ma semmai la forma più raffinata ed efficace dell’embodiment”((M. Cometa, Perché le storie ci aiutano a vivere, Cortina ed. 2017, p. 321))
Il corpo non finisce con il confine della pelle, come siamo abituati a credere – il confine stesso, peraltro,è relazione (di apertura o di chiusura) -, ma, sia dentro questo confine, dove pullulano miliardi di forme di vita essenziali per l’organismo, sia fuori, il corpo vive in “una cooperazione continua …[in] un’interazione forte e [in] una dipendenza reciproca tra forme di vita” ((Da Lynn Margulis, citazione del suo libro Microcosmo pubblicato da Mondadori nel 1989.)), in un compatto tessuto di relazioni ‘biologiche’ e culturali. Il corpo è il centro dinamico di vastissime relazioni associative: non è un individuo, ma ogni corpo è il centro di una vasta cooperazione.
Nel contesto storico del fenomeno dei richiedenti asilo, è troppo evidente la grave dolorosa parzialità dell’impegno,che va aggravandosi per le scelte ciniche dei governi europei e dei loro apparati e sotto-apparati, volte ad utilizzare politicamente, incrementandolo, il disagio che può ingenerarsi nelle popolazioni all’arrivo di un numero peraltro in sé modesto di profughi. Come se volessero rimuovere una coscienza storica sporca, con la scelta, in particolare del governo italiano ma approvata a livello europeo, di accordarsi con la criminalità organizzata libica e africana per tener lontani i rifugiati dai confini europei, destinandoli a detenzioni e violenze di ogni genere, in una sorta ripresa contemporanea della funzione dei campi di concentramento e di sterminio.
In realtà, dunque, queste scelte non fanno che ribadire la storica attività genocida e rapinatrice dell’Occidente nei confronti di Africa e Medioriente su cui, insieme al dominio sul resto del mondo, si basano il suo predominio e la sua ricchezza.
In questa situazione, caratterizzata da un’immensa sproporzione e dalla mancanza di credibili orizzonti alternativi, il senso del nostro impegno non può non collocarsi tutto nel presente.
E’ un cambiamento radicale dell’orizzonte epistemologico dell’impegno politico.
E’ un cambiamento dell’esperienza politica del tempo, su cui i bisogni della sopravvivenza ci insegnano qualcosa di importante, perché non possono essere sospesi e rimandati a un futuro migliore.
Non ci possiamo soffermare a sperare e meditare su un immaginario orizzonte futuro di solidarietà diffusa tra le genti, che appare nel presente come mera teoria e che richiederebbe l’agio temporale necessario. E che risponde anche al bisogno inesaudibile di controllare il tempo. Bisogna accettare la paura dell’ignoto senza nasconderla nella teoria. Immersi nella concretezza inglobante di un presente che non possiamo trasformare in un oggetto concettuale o in un campo dell’immaginario, abbiamo soltanto da depositare grumi di solidarietà in atto che spingono a continuare nell’impegno, pur al di qua e al di là di un confine fra ‘noi’ e ‘loro’, da ‘spostare’ faticosamente giorno dopo giorno, pur sapendo che non sarà mai del tutto valicabile. Ma almeno può diventare poroso come la pelle.
Su questi grumi bisogna impostare anche l’avvio di un pensiero, senza dimenticare, senza rinnegare, ma stando dentro una tensione di ricerca che parta dallo sguardo negli occhi, dalla mano data e presa, dal corpo vulnerabile.
II
Bisogna dunque ricercare un nuovo senso per un’azione sociale diversa da quelle che conoscevo, che conoscevamo.
Si aprono domande difficili…
Questa esperienza di strada, in che cosa differisce dall’assistenza? Forse soltanto nell’intenzione che la vive come un’esperienza resistenziale per la quale cerca le parole?
Non sono domande retoriche. Sono domande sofferte che rimandano a una scelta che è anche una filosofia dell’azione politica: gettarsi e stare attivamente nelle situazioni senza avere le ‘idee chiare’, accettando di camminare nel buio in cerca di una luce che solo cammin facendo si può accendere e che sarà sempre una luce nel buio. Bisogna fare del dubbio una guida invece che un ostacolo.
La prima intenzione elementare ma forte è: resistere. Resistere alla brutalità individualistica e possessiva della visione dominante,anche nell’intimo di ciascuno di noi. Resistere,confidando nella forza diffusiva di gesti quotidiani di solidarietà concreta. Agire sorretti e spinti dall’intenzione di allargare l’esperienza, di costruire reti (parola abusatissima…) di solidarietà che sia anche frammentaria prefigurazione di un modo alternativo di essere-insieme.
Bisogna partire dalla vulnerabilità di vite non degne di lutto ((E’ evidente il riferimento letterario ai testi di J. Butler.)) e dalla condizione dell’inerme ((Qui il riferimento è invece ad Adriana Cavarero.)), per farne un’occasione di politica radicale: tutta da inventare ma, per così dire, germogliante qua e là in chi non si arrende alla deriva, in chi resiste, anche nella piccolezza delle situazioni;come quella, tanto per fare un esempio,in cui un gruppo di una ventina di rifugiati, ospiti di una cooperativa cattolica, protesta davanti a una Prefettura per chiedere migliori condizioni di vita, gridando: vogliamo essere trattati con dignità!
Mi sembra che il terreno comune fra uno come me, ad esempio,e un pastore dell’Afganistan o un meccanico del Pakistan, quindi fra habitus (Bourdieu) identitari ed esistenziali profondamente diversi, stia proprio nel valore assoluto del dignità del singolo. Essa eccedegli schemi identitari che incastrano nelle direttive di un potere. La condizione di pro-fugo, nella sua sospensione traumatica fra passato e futuro, può in qualche difficile modo manifestare un’eccedenza rispetto alla cultura da cui è costretto a fuggire e anche rispetto a quella in cui la sua fuga lo ha precipitato: un’eccedenza che inadeguatamente la parola ‘dignità’ cerca di nominare, rimandando ai diritti di cui parlavo prima. Il possibile terreno d’intesa fra il profugo e il ‘locale’ che si impegna con lui sta proprio in questa eccedenza, non in un’integrazione che peraltro non c’è e non potrà esserci nei confronti di una società in cui la divaricazione fra una stretta minoranza che possiede e controlla tutto e la maggioranza continua ad aumentare.
E’ molto importante per me notare come questa esperienza produca in chi cerca di agire, certamente, ansia, amarezza, dolore, stanchezza, ma anche – e soprattutto – migliore capacità e maggior desiderio e volontà d’azione e, infondo, anche una maggior pienezza di vivere proprio là dove la vita appare massimamente diminuita -felice infelicità, appunto.
La cupezza dell’orizzonte allora non produce rassegnazione, ma il contrario. Bisogna ascoltare le emozioni, i desideri, ascoltare se stessi in questo cammino, trovare la strada partendo da se stessi, anche da soli. La felicità nell’infelicità nasce dal sentirsi in accordo con se stessi e dalla percezione che gli atti, per quanto in sé modesti, producono comunque vita in un contesto che produce morte.
Questo, secondo me, è non oso dire il metodo, ma certamente un metodo per un agire che si vuole politico nel luogo dove viviamo, quale che sia, in cui precipita ogni giorno il mondo, diventato un’unica polis.
III
Tutto ciò mi obbliga a continuare a riflettere criticamente sul mio trascorso agire politico, nel solco di una tradizione marxista,incisa criticamente dagli approfondimenti radicali introdotti dal femminismo.
Il discorso è ovviamente molto complesso e non si presta a schematismi e neppure a sintesi eccessive.
In questo tempo che stiamo vivendo è necessario agire con un impegno attivo in un presente che sembra privo di orizzonti aperti ad unfuturo alternativo. Al contrario: l’orizzonte sembra restringersi a paesaggi sempre più desolati. Manca, infatti, tra il presente e il futuro, la mediazione attiva di un progetto di cambiamento che coinvolga attivamente,in modo politicamente significativo,chi è costretto a subire e comunque a soffrire per lo stato presente delle cose. In tali condizioni, l’utopia può diventare un rifugio consolatorio.
Si impongono allora, come prima accennavo, una percezione, una rappresentazione e una elaborazione del tempo necessariamente diverse da quelle della tradizione marxista, proiettata al futuro da una visione e concezione dialettiche.
Jacques Rancière parla di uno “scarto irriducibile tra le analisi delle situazioni e le conseguenze che se ne possono trarre” e ritiene opportuno mettere
“in discussione il modello semplicistico della teoria che si applica [… ] La maggior parte dei discorsi radicali fanno come se la sola questione fosse quella dei buoni mezzi per attingere un fine che si ipotizza essere sempre lo stesso, mentre non si sa più bene quale sia questo fine”((J. Rancière, intervista del 22 settembre 2017 nel sito TYM.)).
La credibilità dei progetti comunisti era legata a un soggetto sociale che dal 1848 è stato il fondamentale protagonista della scena sociale, sulla cui presenza attiva, spesso comprensiva di vaste masse rese più o meno consapevoli attraverso forme di partecipazione associativa e conflittuale, poggiavano anche i progetti più utopisti.
Un progetto di trasformazione sociale, infatti, è vivo nella misura in cui incontra,raccoglie e invera i bisogni e i desideri di coloro che, subendo il dominio, ne sono anche l’indispensabilea limento e supporto. Allora l’utopia,inscritta nei bisogni e nei desideri di gruppi e masse che riescano a divenire soggetto politico,può diventare una potenza di trasformazione sociale e personale.
La fulminea involuzione della rivoluzione sovietica aveva certo creato gravi problematiche nell’ambito delle diverse e anche contrapposte correnti marxiste e comuniste, ma, fino ai primi anni Settanta,l’identità collettiva di classe operaia era stata la forza sociale attiva di riferimento, responsabile e aggregante,nei momenti sociali più incisivi nelle società governate dai dispositivid ella democrazia rappresentativa di tipo occidentale, che di questa forza erano costrette a tener conto; ma anche altrove.
“…gli operai della Renault di Flins negli anni sessanta e settanta non si riconoscevano su basi etniche o religiose, ma soltanto sulle basi dell’autonomia di classe che durante le lotte dell’epoca accomunava lavoratori europei e nord-africani. La perdita di quell’identità di classe, di quella comunità di lotta, che ha marcato la vittoria del turbo-capitalismo finanziario degli ultimi decenni, ha anche segnato il divenire di una società in cui la guerra civile tra differenti gruppi, che pur le appartengono, sarà la norma”. ((Sandro Moiso, “Crash! 17 Barcellona, agosto 2017”, dal sito Carmilla, 20/ottobre/2017.))
“La perdita dell’identità di classe” e “la guerra civile fra differenti gruppi” rimanda, però, non solo alla durissima reazione dei vari dispositivi di potere nei territori in cui tale identità aveva agito con maggior forza, ma anche ai suoi limiti interni, resi evidenti appunto dal femminismo (e da altri movimenti che toccavano le problematiche sessuali e di genere).
Nel dinamico contesto di lotta sociale a cavallo degli anni Sessanta/Settanta,in cui il movimento degli studenti investiva le problematiche essenziali della formazione e del rapporto genitori/figli, il nuovo movimento femminista, infatti, approfondiva e radicalizzava l’esperienza del rifiuto del potere e del desiderio concreto di nuove relazioni personali e sociali, giungendo, per così dire, a far toccare con mano la sua prima radice: l’androcentrismo.Il pensiero pratico del femminismo veniva articolato e approfondito, con diversi tempi di maturazione e diffusione,da movimenti come lo LGBT, che ne proseguivano la critica radicale dell’eterosessualità come forma dominante delle relazioni umane.
Il femminismo e gli altri movimenti di critica radicale della radice eterosessuale del potere hanno lasciato un patrimonio d’esperienze, ancora in atto, benché costrette a fare i conti con un’involuzione generale che tocca tutto e tutti, e una letteratura da cui ormai non si può più prescindere.
Del campo di ricerca della vasta area marxista rimane indispensabile,a mio parere,la critica dell’economia politica, pur variamente articolata, in cui ‘economia’ va intesa prima di tutto come l’orizzonte simbolico unitario imposto al mondo, forma attuale appunto dell’androcentrismo, da cui discendono le altre forme fondamentali di inferiorizzazione, razzismo e classismo. La marxiana critica dell’economia politica si trasforma, allargandosi, intensificandosi e radicalizzandosi come critica dell’androcentrismo.
In tutto ciò convivono molteplici esperienze e un’ampia gamma di concetti che orientano nella complessità in cui siamo immersi. Sembra mancare,però,oggi,ogni concreta possibilità progettuale di cambiamento sul terreno.
Ci sono certamente situazioni attive di gestione collettiva di piccole e meno piccole situazioni di comunità, momenti e soprattutto movimenti di associazione e lotta, che sorgono e spariscono, ma possono lasciare pur sempre una traccia significativa e domande per il momento incomprese che possono fermentare; e una molteplicità di forme di rifiuto, spesso poco conosciute o sconosciute, dell’ingiustizia suicidaria che oggi domina il mondo.
Vi sono anche perduranti processi, collettivi e singolari,di ricerca e approfondimento; ma nessuna capacità effettiva di un progetto collettivo che riesca ad affermarsi almeno parzialmente e a diffondersi e a condizionare la gestione di un sistema articolatissimo di potere, che da decenni ormai usa l’arma micidiale della dialettica tra luogo e mondo, governata da dinamiche localmente inafferrabili.
Di questo, non sappiamo nulla.
Le teorie politico-filosofiche più significative tendono a concentrare
“l’attenzione sulla riproduzione dei sistemi sociali e politici, non sul loro trasformarsi in qualcosa d’ignoto e d’incontrollabile… Oscurano la metamorfosi che rende il mondo una terra incognita”((U. Beck, la metamorfosi del mondo, Laterza 2017, p. 54))
Credo che sia forte la tentazione di rifugiarsi in idee e ideali senza la capacità di entrare in un rapporto trasformativo con lo stato presente delle cose, che tende perciò a diventare analoga a una fede religiosa o metafisica.
In tale contesto, anche la letteratura, lo studio, la discussione – ovviamente essenziali –,rischiano di crescere su se stesse e riprodursi in una separazione vitrea rispetto alla realtà sociale – nel rapporto fra singolarità e collettività – che si tormenta al di fuori (essendo anche una condizione di privilegio, diciamo pure:una condizione in qualche modo di classe).
IV
Cercando di essere aderente alla mia esperienza, passata e soprattutto presente, credo dunque necessario per chi voglia agire oggi nelle società in cui viviamo ri-orientare il rapporto con il tempo,con il tempo,storico e singolare, nel loro rapporto di unità/differenza.
Questo ri-orientamento può avvenire per qualcosa che a me appare come un dato ontologico.Nelle possibilità della condizione umana, intesa come fascio in divenire di possibilità relazionali, rientra infatti, oltre alla possibilità dominante del potere, anche un’altra che vorrei chiamare le possibilità di comunità libere ed ugualitarie di singoli, sempre apparse nelle vicende storiche, pur nella diversità delle condizioni e delle situazioni, bucando, qua e là, la spessa coltre delle possibilità dominanti.
Oggi, non voglio più orientarmi – non penso che ci si debba più orientare – sulla base della proiezione sempre immaginaria nel futuro,con l’effetto di svuotare il presente, lanciandolo in un futuro immaginato. E’ stato il grande limite dei gruppi post-sessantotteschi.
E’ necessario agire nell’orizzonte del presente, anche senza rappresentazioni previe. Agire in termini che vorrei chiamare anche, rammemorando, di comunismo delle singolarità, partendo da se stessi e da chi incontriamo attivo nei luoghi di impegno politico, che negli ultimi tre anni sono stati nella strada.
Ciò significa agire nel presente il rifiuto concreto dell’ingiustizia e dell’illibertà. Cercare di porre concretamente giustizia e libertà dove e come posso, scontrandomi continuamente anche con me stesso, in una sorta di lotta politica interiorenei confrontidei miei limiti personali, della mia gabbia caratteriale, frutto della mia formazione, della mia storia singolare dentro la storia collettiva.
Non è difficile dimostrare che tutto questo non è – o almeno a me non sembra – una posizione ideologica.
Riflettendo sul lungo corso della mia esperienza politica, mi diventa sempre più evidente come l’individualismo sia stato altrettanto e anzi più pericoloso della repressione e della reazione del potere, per una liberazione effettiva, perché l’individualismo (sempre possessivo)non è altro che l’interiorizzazione del potere. Il capitalismo è anche produzione di società di individui in concorrenza fra di loro e non solo, ovviamente, sul piano dell’economia in senso stretto.
Devo quindi riferirmi al mio sbattere contro i muri che racchiudono la mia scena personale (persona = maschera), nei differenti parametri, a cominciare da quelli sessuali e di genere e poi altri, della mia identificazione individuale, che rifugge e insieme si sporge sull’osceno, su ciò che è fuori della mia scena identitaria.
La presenza di questi corpi con cui ho a che fare turba il mio quieto vivere, palesa le mie maschere attoriali, mi interroga sulla mia identità, anche nella sua dimensione storica collettiva, costruita dentro il dominio individualistico del maschio bianco occidentale. Mi getta insomma sul confine di me stesso.
Il problema diventa allora come modificare questo confine e fino a che punto è modificabile.
L’esperienza con i rifugiati ha messo in luce per me, vorrei dire corporalmente, prescindendo e/o inverando letture come quelle di Foucault o Butler e altri, l’importanza politica dei processi di soggettivazione, nelle loro diverse possibilità. L’impegno per la trasformazione sociale e politica deve essere accompagnato da un impegno di trasformazione nei confronti di se stessi: le due dimensioni sono veramente due facce dell’unica medaglia – averle separate (di fatto se non sempre in teoria) è stato un errore ‘tradizionale’ gravissimo. Il femminismo ha colto e mostrato questo nodo.
Da questo punto di vista l’esperienza nella gruppettistica post-sessantottesca è stata interessante – ma in senso negativo. L’individualismo diffuso, il bisogno di emergere, erano un efficacissimo ostacolo alla formazione di situazioni di gruppo effettivamente collettive, capaci di ascolto reciproco, di accettazione delle diversità, di costruzione di relazioni in cui il collettivo non opprimesse, ma esaltasse ciascuno nella sua singolarità e viceversa.
L’esperienza del rapporto fra singolarità e collettività, come due momenti che si affermano reciprocamente, è sempre stata – ed è – estremamente difficile.
Il lungo processo di soggettivazione, che inizia già nel grembo materno, è poi gestito dal potere e dai dispositivi di potere diffusi come assoggettamento ed è, nella nostra cultura, un processo di individualizzazione, nel preciso significato di produzione di soggetti che si ritengono separati e contrapposti: in cui cioè la differenza si manifesta come contrapposizione.
L’esperienza di cui sto parlando con questa gente sbucata qui da mondi devastati–esperienza relazionalmente, socialmente, politicamente complessa – offre la difficile e faticosa possibilità di fare i conti con la propria storia ‘individuale’, i cui limiti vengono messi fortemente in luce, nel mentre affrontiamo un fenomeno storico epocale, che riguarda i fondamenti di violenza della civiltà europea e occidentale attraverso l’esperienza diretta di una condizione e di una sofferenza concrete, corporee, qui ed ora.
Sentimus experimurque, allora – tanto per divertirmi a citare Spinoza! -, che in ciascuno di noi esistono altre possibilità, rimosse e spesso sclerotizzate, che si possono affrontare non in un intimo colloquio con se stessi, ma nel vivo di un impegno relazionale e politico.
Privo dei conforti fideistici in una filosofia della storia progressista, come quella in cui sono nate le grandi correnti del socialismo e del comunismo, l’agire politico assume oggi un carattere tragico.
Condizione tragica, però, nel significato che io voglio dare all’aggettivo, non significa disperazione, ma il contrario: agire nel presente con tutte le energie disponibili,anche senza il conforto della proiezione di una grande narrazione utopica sullo schermo vuoto del futuro. Sapendo però che, se la violenza e quindi il potere sono la forma di relazione dominante da sempre e dunque la via più facile da seguire, esiste anche dell’altro nell’essere umano,finora soffocato nella misura in cui è riutilizzato dal potere. Senza una certa quota di capacità relazionale positiva, di cura e attenzione all’altro, di solidarietà collettiva, l’umanità non esisterebbe più da tempo. Anzi, probabilmente, non si sarebbe nemmeno formata. E nemmeno la vita che è cooperazione, come mostra Lynn Margulis.
Se la violenza, che si apre necessariamente sul limite estremo della morte, fosse l’unica forma di relazione possibile agli umani, questi non sarebbero potuti esistere.
A questo proposito, penso che il riferimento alla condizione infantile, totalmente trascurata dalla filosofia e dalla filosofia politica ((La tematica dell’infanzia traluce nell’antropologia filosofica tedesca di Arnold Gehlen e Helmuth Plessner.)), sia invece essenziale.
Mi piace notare che segno paradossale di questa mancanza, nella filosofia del Novecento, sono le elaborazioni di uno dei filosofi più influenti, Martin Heidegger, la cui nozione di Geworfenheit (gettità, l’esser gettati) è una neutralizzazione filosofica della nascita(rivendicata invece dalla sua allieva Hannah Arendt), mentre la nozione di Sorge (cura), come dimensione esistenziale di fondo, ha una caratterizzazione prevalentemente negativa per sfociare nell’angoscia e nell’essere-per-la morte.
Senza un pensiero sull’infanzia, non si può capire nulla della condizione umana ed è merito indelebile della psicoanalisi aver attirato su di essa l’attenzione culturale. Nell’infanzia si manifesta,infatti,la fondamentale condizione dell’essere umano – la condizione d’inerme ((Il concetto di inerme è elaborato in particolare da Adriana Cavarero in Orrorismo ovvero della violenza sull’inerme, Feltrinelli, 2007.)), che lo tiene letteralmente in potere degli altri nel tempo lungo della sua formazione. Credo che stiano qui le chiavi per comprendere la persistenza di quella forma di relazione che è il potere. Nell’infanzia emergono, per così dire allo stato puro, le possibilità relazionali fondamentali che costituiscono la condizione umana, il gioco fra il potere e un’altra dimensione che è il suo contrario e che penso la preceda: la capacità di entrare in relazione positiva con l’altro, di riconoscerlo come co-fondatore della propria soggettività. Questa dimensione, comunque si voglia chiamare, è essenziale, fondativa, perché senza di essa non ci sarebbero le condizioni minime della vita. Si manifesta inizialmente dentro la relazione fondante del venire alla vita. Sappiamo che nell’infanzia si formano le emozioni profonde e la capacità immaginativa, le basi del pensiero: insomma, ciò che costruirà e orienterà la vita adulta.
Non può reggere a lungouna società che si basi esclusivamente sulla violenza. Se una società vive o anche solo sopravviveè necessaria una certa quota di promozione solidale della vita, storicamente delegata alle donne. E’ questo che permette di resistere, di vivere e non soltanto sopravvivere, anchein condizioni estreme, di cui abbiamo moltissime esperienze. E’ questa forma di vita culturale, già presente e attiva, ma, per così dire, imprigionata nelle maglie del dominio, che costituisce la base della politica di trasformazione.
Dentro la condizione umana,dunque, è attiva anche la capacità di relazioni positive, giuste, libere e felici, che non sono soltanto un ideale o un’invenzione fabulistica (( Non intendo riferirmi a relazioni senza conflitto, idilliache. La conflittualità è intrinseca alla relazione in cui il rapporto fra i soggetti implica sempre uno scarto: c’è sempre un tasso di incomprensione, d’incomunicabilità, d’indicibilità, di equivoco, che chiamerei solitudine ontologica, che costituisce anche quella differenza che fonda la possibilità di comunicare. Questo tipo di conflittualità non è violenta, non mira cioè ad esercitare un potere.)). E’ quindi reale e attivo ciò che generalmente appare utopico: non solo in momenti pubblici e visibili, bloccati poi e dispersi – come i cosiddetti ‘movimenti’, fra cui quello del Sessantotto -, che ne sono in qualche modo la confusa richiesta, ma anche in innumerevoli micro-situazioni quotidiane. Rimane peròincluso dentro l’ordine del dominio cui è costretto a rendere il servizio fondamentale della “manutenzione” (( La parola mi vien dal titolo di un libro di poesie di Gabriella Musetti, La manutenzione dei sentimenti, Samuele editore 2015, in cui però è usata in significato assai diverso.)) della vita: è questo il problema!
Ciò avviene anche nell’impegno con i rifugiati perché noi operatori di strada svolgiamo di fatto un servizio di “manutenzione”, appunto, che dovrebbe essere assolto dalle istituzioni. Il punto è che dentro questo ‘servizio’ deve nascere e crescere dell’altro.
Su questo dobbiamo impegnarci con tutte le nostre forze, nell’agire quotidiano, inseparabilmente pubblico e personale, anche senza una credibile visione del futuro. Se è il potere a decidere ciò che è possibile e ciò che è impossibile, allora mi ritorna lo slogan sessantottesco “vogliamo l’impossibile”. Ma questo impossibile è, in realtà profondamente annidato nella condizione umana.
Nella grande difficoltà di un operare che non può non partire dal corpo umiliato e offeso, traumatizzato, vulnerato, è molto importante sentire e comprendere che la base di un’azione liberatrice non è meramente immaginaria, ma attiene a una potenza (= possibilità) intrinseca alla dimensione relazionale dell’essere umano, senza la quale non ci sarebbero esseri umani.
Note al testo