Armi Chimiche
Le guerre locali degli ultimi decenni del novecento hanno riproposto uno dei volti più drammatici delle operazioni militari: l’impiego su larga scala delle armi chimiche e batteriologiche. Le armi chimiche sono sostanze, spesso ottenibili a basso prezzo e con strutture industriali abbastanza rudimentali, che sono state e sono causa di forme orribili di morte, di dolori indescrivibili.
L’uso di agenti chimici per mettere fuori combattimento gli avversari è iniziato durante la prima guerra mondiale come sottoprodotto del successo dell’industria chimica. Nella seconda metà del 1800 erano già note numerose sostanze dotate di proprietà irritanti, asfissianti e velenose. Gà’ nel 1812 si era scoperto che, dalla reazione del cloro con l’ossido di carbonio, si forma fosgene, un liquido volatile molto irritante e tossico.
L’industria chimica alla fine del secolo scorso produceva già industrialmente su larga scala il cloro, un gas soffocante. Ugualmente noto e prodotto industrialmente era il solfuro di dicloroetile, destinato ad una drammatica notorietà col nome di Yprite, dal nome della città belga in cui è stato usato per la prima volta in guerra.
Nonostante la voglia di guerra che ha attraversato l’Europa per tutto il milleottocento, lo spettro della guerra chimica ha spaventato sempre le grandi potenze, al punto da indurle a riunirsi all’Aja, nel luglio 1899, e a firmare un accordo che le impegnava “a non usare proiettili il cui unico scopo è quello di spandere gas asfissianti o deleteri”. L’accordo vietava in particolare l’impiego di “veleni o armi avvelenate” e di “armi, proiettili o sostanze capaci di provocare dolori superflui”.
Nonostante questo solenne impegno, le navi giapponesi lanciarono contro le navi russe delle granate contenenti gas asfissianti durante la battaglia di Tsushima, nel 1905; il fatto spinse le grandi potenze a riunirsi di nuovo e a firmare, il 18 ottobre 1907, una seconda convenzione dell’Aja nella quale si mettevano nuovamente al bando le armi chimiche (per inciso la convenzione vietava anche l’impiego dell’aeroplano in guerra); la convenzione però non fu firmata da cinque delle potenze che si sarebbero affrontate pochi anni dopo sui campi d’Europa.
Nonostante questi solenni impegni, la seconda guerra mondiale fu, fin dai primi mesi, il vero banco di prova della guerra chimica. Nell’ottobre del 1914 i francesi avevano fatto un limitato impiego di gas lacrimogeni, adducendo che non si trattata di sostanze “soffocanti o tossiche” e che quindi il loro uso non violava il trattato dell’Aja.
Come ritorsione il 22 aprile 1915 nella regione di Ypres in Belgio, i francesi, sottoposti da alcune ore ad un violento bombardamento, videro avanzare una nube di gas giallo-verdastro, il terribile cloro, che precedette l’avanzata dei fanti tedeschi. Due giorni dopo, sempre nella stessa zona, il cloro fu lanciato dai tedeschi contro le truppe canadesi: questo primo saggio di guerra chimica costò la vita a diecimila soldati.
Da allora si ebbe un uso sempre più frequente e intenso di armi chimiche; l’industria chimica offrì agli eserciti sostanze sempre più tossiche capaci di provocare lacrimazioni, di togliere il respiro, di uccidere quasi istantaneamente. Nello stesso tempo furono cercati e inventati dei sistemi di protezione, a cominciare dalle “maschere antigas”, vere e proprie maschere nelle quali l’aria esterna contaminata passava attraverso adatti filtri prima di arrivare ai polmoni.
Se si guardano le illustrazioni della prima guerra mondiale e le immagini che ci vengono dalle esercitazioni antigas nel deserto arabico durante la guerra del Golfo del 1990 si vede che non sono stati fatti grandi progressi. Vivere, muoversi e combattere con le maschere antigas è una sofferenza grandissima; si fa fatica a respirare ed è difficile disporre di filtri capaci di filtrare tutti i diversi agenti chimici di guerra, tanto più che sono decine e che non si sa quale sarà usato da un nemico.
Se ne accorsero i combattenti della prima guerra mondiale che dovettero affrontare, da entrambe le parti, attacchi, oltre che con cloro, con bromuro e cloruro di cianogeno, con acido cianidrico (usato dai francesi nel 1916), con fosgene – che provoca dapprima tosse, poi cianosi e infine, nel corso di poche ore, asfissia – e infine con yprite, usata per la prima volta dai tedeschi a Ypres nel 1917.
Il solfuro di dicloroetile, o gas mostarda – l’yprite appunto – – ebbe effetti devastanti perché provoca irritazione e cecità e, ad alta concentrazione, anche la morte. Molti combattenti sul fronte francese, anche se sono sopravvissuti, hanno portato per tutta la vita i segni dell’esposizione alla terribile sostanza.
Sempre durante la prima guerra mondiale fu impiegato come agente asfissiante la lewisite, un prodotto arsenicale irritante. Complessivamente il peso dei gas di guerra impiegati durante la prima guerra mondiale ammontò a 13 milioni di kilogrammi.
Chi rilegge a tanti decenni di distanza le cronache di tale guerra, su tutti i fronti, ha una chiara idea dell’impressione lasciata dagli attacchi con armi chimiche; tutti i paesi avrebbero dovuto, a rigore, unirsi per mettere al bando tali armi, per distruggere gli arsenali esistenti. Effettivamente un tentativo di nuovo accordo si ebbe con la conferenza di Ginevra del 1925; il 17 giugno fu firmato un trattato che, pur con certe ambiguità, proibiva l’uso in guerra di “gas asfissianti, tossici e simili e di tutti i liquidi, materiali e dispositivi analoghi”, stabilendo che il divieto era esteso anche a tutti i tipi di guerra batteriologica. Gli Stati Uniti non firmarono l’accordo del 1925.
La Società delle Nazioni indisse qualche anno dopo una nuova conferenza. Il 15 gennaio 1931 vari paesi (Regno Unito, Romania, Jugoslavia, Cecoslovacchia, Giappone, Spagna, Unione Sovietica, Cina, Italia, Canada e Turchia) dichiararono che, secondo loro, l’accordo del 1925 doveva comprendere il divieto dell’uso in guerra di gas lacrimogeni e di altri prodotti chimici irritanti.
Nonostante le dichiarazioni della diplomazia, nel dicembre 1935 il generale Graziani ordinò l’uso dell’yprite contro le truppe etiopiche durante la conquista dell’Africa orientale e i giapponesi usarono gas asfissianti nella campagna contro la Cina fra il 1937 e il 1943.
Del resto nei venti anni fra le due guerre, più o meno segretamente, sono state sviluppate e potenziate molte nuove sostanze adatte per la guerra chimica; nei corsi universitari italiani di chimica c’era addirittura un insegnamento di “Chimica di guerra”.
Nel 1940 certamente tutti i paesi avevano delle grandi riserve di potenti armi chimiche. Fortunatamente, e in maniera abbastanza sorprendente, però, durante la seconda guerra mondiale nessuna delle potenze in lotta volle farvi ricorso. Anzi nel giugno 1943 il presidente americano Roosevelt condannò l’uso delle armi “inumane” e dichiarò che gli Stati Uniti – che pure non avevano firmato la convenzione di Ginevra del 1925 – non le avrebbero mai usate per primi.
Anche se non in guerra, negli anni cinquanta e sessanta agenti di guerra chimica sono stati impiegati dalle truppe britanniche per sedare le rivolte a Cipro, nella Guiana ex-britannica e altrove; armi chimiche sono state impiegate nella guerra civile dello Yemen e poi nella guerra Iran-Iraq.
A rigore sono agenti di guerra chimica anche gli erbicidi, ben noti e di diffuso impiego in agricoltura, lanciati su larga scala dagli Stati Uniti nel Vietnam per distruggere vaste zone di foresta tropicale nella quale si rifugiavano i partigiani vietcong, con l’effetto di distruggere anche molte coltivazioni di riso che rappresentava l’unico alimento disponibile alla popolazione civile.
Alla fine degli anni sessanta la notizie sollevò un grande scandalo tanto più che gli erbicidi usati in guerra erano materiali greggi e poco costosi ed erano contaminati da diossina (un sottoprodotto della loro fabbricazione); questa diossina ha provocato morti e malattie sia fra la popolazione civile sia fra i combattenti, per cui una associazione di reduci per decenni ha fatto causa al governo americano per le ferite riportate a causa dei defolianti usati nel Vietnam.
Il 5 dicembre 1966 l’assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato una nuova risoluzione nella quale sono state condannate le azioni contrarie allo spirito dell’accordo di Ginevra del 1925.
Mentre l’interesse per il problema delle armi chimiche stava di nuovo crescendo, è scoppiato, nell’aprile 1968, lo scandalo delle pecore dello Utah: in una valle di questo stato degli Stati Uniti, vasto e poco abitato, improvvisamente oltre seimila pecore sono morte in modo misterioso. Le forze armate americane hanno dovuto ammettere, dopo molte reticenze, che l’incidente era dipeso dal fatto che agenti paralizzanti di guerra erano fuoriusciti accidentalmente, a 50 kilometri di distanza, dal campo sperimentale di Dungway, dove venivano provate.
Improvvisamente l’opinione pubblica mondiale si è resa conto di quali progressi la guerra chimica aveva fatto e nuove terribili sigle sono entrate nel vocabolario della morte chimica.
L’arma chimica che aveva ucciso le pecore nello Utah divenne nota come agente VX, un composto di una nuova classe di agenti chimici di guerra, portanti la sigla G o la sigla V. Si tratta di sostanze appartenenti alla classe degli esteri fosforici, sviluppati principalmente e apertamente come insetticidi, ma le cui proprietà militari sono subito apparse evidenti: del resto molti insetticidi sintetici manifestano la loro azione tossica sull’uomo con lo stesso meccanismo con cui uccidono i parassiti.
Gli esteri fosforici, per esempio, agiscono sul sistema nervoso inibendo, in grado maggiore o minore, l’azione dell’enzima colinesterasi che presiede alla trasmissione degli impulsi nervosi. In generale gli esteri fosforici possono anche non essere letali, ma provocano disturbi alla respirazione, oppressione, cefalea, sudore, nausea, vomito, effetti paralizzanti.
Nel nuovo vocabolario di morte si incontra il GA, o “tabun”, inventato dai tedeschi intorno al 1937: un liquido incolore che viene spruzzato come aerosol; il GB, o “sarin”, inventato anch’esso dai tedeschi nel 1938, un liquido incolore e inodore, molto volatile, quattro volte più tossico del fosgene. Va incontro alla morte chi respira per un minuto aria contenente più di 5 milligrammi per metro cubo di sarin. Il GD, o “soman”, inventato dai tedeschi intorno al 1940, è un liquido con leggero odore di frutta e viene spruzzato come aerosol.
Gli esteri fosforici della seria V comprendono il VE, un liquido, e il VX, una delle sostanze più tossiche. E’ stato calcolato che ucciderebbe il 30 % dei soldati se venisse sparso su un campo di battaglia alla concentrazione di 300 kilogrammi per kilometro quadrato.
Le ricerche di chimica di guerra hanno messo a disposizione degli eserciti altri agenti, questa volta dotati di proprietà irritanti: essi provocano tosse, lacrimazione, malessere per un tempo più o meno lungo. Si tratta di sostanze solide o liquide. molto volatili, che agiscono generalmente allo stato di vapore, donde il nome di “gas” con cui spesso sono indicati.
L’agente CN, o omega-cloroacetofenone, è una polvere bianca studiata come agente di guerra fin dagli anni trenta; provoca forte irritazione alla pelle e lacrimazione ed è usato talvolta insieme ad un altro “gas”, la cloropicrina. L’agente DM, o adamsite, è un derivato arsenicale che provoca cefalee, tosse, dolore al petto, nausea, vomito.
Il CS (nome usato in Inghilterra; il nome francese e’ CB), e’ una sostanza denominata orto-cloro-benzalmalonitrile ed è stata inventata nel laboratorio segreto militare inglese di Porton come agente lacrimogeno da usare per domare le rivolte. E’ dotato di proprietà irritanti maggiori di quelle del CN, ma presenta tossicità inferiore al DM.
Il CS colpisce dapprima gli occhi provocando una immediata e grave congiuntivite, accompagnata da sensazione di bruciore e dolore che durano per almeno cinque minuti, dopo che l’esposizione al gas è terminata. Questi effetti sono accompagnati da difficoltà nella respirazione, tosse, oppressione; gli individui colpiti sono presi dalla paura di non riuscire a respirare e diventano incapaci di difendersi. E’ questo il gas usato contro i dimostranti.
L’elenco delle sostanze di guerra chimica è molto più lungo; è stato proposto l’uso di allucinogeni come il BZ, un derivato dell’acido glicolico, o l’LSD, la dietilamide dell’acido lisergico, usata anche come droga. Va detto che alcune di queste sostanze potrebbero essere sciolte nell’acqua dei pozzi e potrebbero gettare nel panico un’intera città.
La diminuzione delle possibilità di difesa dei combattenti o delle popolazioni civili potrebbe essere ottenuta mediante sostanze o microrganismi che interferiscono in maniera grave sui meccanismi di sviluppo della vita, provocando malattie o la morte. Le armi biologiche potrebbero avere effetti ancora più devastanti delle armi chimiche.
Certamente molti paesi possiedono delle riserve di armi biologiche, costituite per lo più da microrganismi patogeni o loro tossine che possono diffondere malattie, epidemie o intossicazioni. Per avere un’idea della potenziale “efficacia” di tali armi basta pensare come una semplice epidemia influenzale benigna possa rallentare le attività economiche di un paese; o al numero di morti provocate, dopo la seconda guerra mondiale, dalla epidemia influenzale di “spagnola”.
Il pericolo è tanto più grave in quanto le reazioni biologiche dei vari individui alle malattie sono molto variabili e dipendono dallo stato di nutrizione e da molti altri fattori.
Oggi la ricerca scientifica al servizio della morte ha messo a punto numerose armi biologiche con effetti terribili; anche in questo caso le notizie disponibili sono quelle filtrate attraverso le cortine del segreto militare o che appaiono occasionalmente nelle riviste e nei libri scientifici.
Fra i batteri si può ricordare quello responsabile del carbonchio, o antrace, una infezione polmonare con effetti mortali. Nel 1941 questi batteri sono stati sparsi per esperimento nell’isola di Gruinard, nel nord-ovest della Scozia; le spore sono state assorbite dal terreno e l’isola è ancora contaminata e pare lo sarà ancora per un secolo.
Altri batteri presenti negli arsenali militari sono quelli responsabili della dissenteria, della peste, della tularemia, della febbre maltese; quest’ultima malattia è caratterizzata da cefalee, perdita di appetito, perdita di peso; dura mesi e anche anni e provoca un grave indebolimento.
Fra le armi biologiche vi sono agenti che permettono la diffusione di malattie da virus, come encefalite, febbre gialla, poliomielite, vaiolo; gli agenti responsabili della febbre Q, caratterizzata da dolori muscolari, delirio, convulsioni; oppure tossine.
Contro le armi biologiche è difficile predisporre dei sistemi di difesa: per molti agenti patogeni esistono dei vaccini e degli agenti immunitari, ma tali difese sono inefficaci quando un attacco è già stato sferrato.
Queste poche considerazioni sulle armi chimiche e biologiche forniscono una pallida idea del pericolo costituito non solo dal possibile uso di tali armi, ma anche dal solo fatto che ne esistano delle rilevanti scorte.
Quanto si è visto nelle – fortunatamente poche – occasioni in cui si è fatto uso di tali armi o quando si sono avute delle perdite e degli inquinamenti accidentali, indica chiaramente che l’uso su larga scala di tali armi costituirebbe un vero suicidio per l’umanità, forse ancora più grave di quello atomico.
Se venissero usate in battaglia, le sostanze attive e tossiche si disperderebbero facilmente nelle acque e nell’aria colpendo, a breve e a lungo termine, nemici, alleati e neutrali, in una tragica carneficina. E’ stato calcolato che la dispersione di appena dieci tonnellate di armi biologiche contaminerebbero un’area grande come un terzo dell’Italia.
Il pericolo deriva dal fatto che, a differenza delle armi atomiche, le armi chimiche e biologiche possono essere fabbricate con mezzi tecnici relativamente rudimentali, addirittura a fianco di altre sostanze per usi civili, come gli antiparassitari agricoli, usando le stesse materie prime e gli stessi impianti. È quindi corretto denunciare tali armi come “le atomiche dei poveri”.
Del resto una volta che si è aperto il vaso mortale della conoscenza delle armi chimiche e biologiche, si è messa in moto una reazione a catena perché, anche se si decidesse di smantellare gli arsenali esistenti, non si conoscono dei mezzi ecologicamente accettabili con cui barazzarsene.
La prima idea sarebbe quella di buttarle in mare; dopo la seconda guerra mondiale gli inglesi hanno disperso almeno centomila tonnellate di armi chimiche in disuso al largo delle coste dell’Irlanda; addirittura non si conosce neanche più il posto esatto dell’affondamento dei relativi fusti. Fusti contenenti armi chimiche dell’esercito americano sono state gettate, negli anni quaranta e cinquanta del 1900, nell’Adriatico e vengono raccolte, a decenni di distanza, talvolta nelle reti dei pescatori.
Anche le scorte di armi chimiche tedesche, dopo la guerra, sono finite nel mare: decine di migliaia di fusti dell’agente “tabun” sono stati gettati in fondo al Mar Baltico. Il fatto che finora non sembra si siano verificati avvelenamenti su larga scala del mare o degli organismi marini – o che non se ne sia venuti a conoscenza – non esclude la follia di questo modo di procedere.
Ma anche altri sistemi – interramento, incenerimento – sono altrettanto insoddisfacenti, come dimostrano i numerosi tentativi fatti negli anni passati. La situazione si aggrava continuamente a mano a mano che aumentano le scorte o che vengono inventate nuove sostanze.
La follia delle armi chimiche e batteriologiche va fermata in tempo con una grande mobilitazione dell’opinione pubblica contro anche questo tipo di armi. Una mobilitazione popolare ha indotto le potenze nucleari a ridurre gradualmente i propri arsenali di bombe atomiche; una simile e ancora più decisa pressione dell’opinione pubblica può forse salvarci anche dai pericoli delle armi chimiche e biologiche.
Bisogna, però, parlarne nelle scuole, nei mezzi comunicazione, nelle Università, nelle chiese, bisogna che tutti comprendano in pieno tali pericoli e chiedano alle Nazioni Unite e ai governanti di allontanarli per sempre.