Attenzione: L’incidente di Seveso si è verificato il 10 luglio 1976
Se, la mattina di quel sabato 10 luglio 1976, alla Icmesa, una fabbrichetta chimica di Meda, nell’hinterland milanese, la valvola del camino avesse funzionato regolarmente, il nome “Seveso” sarebbe rimasto sconosciuto a quasi tutto il mondo, eccetto quel po’ di abitanti della Brianza dove si trova l’omonima cittadina. Quella fabbrica produceva triclorofenolo, una sostanza intermedia da cui si ottengono erbicidi e disinfettanti; la mattina del 10 luglio 1976 il sistema di raffreddamento della miscela contenente triclorofenolo e soda caustica si interruppe e la temperatura della miscela cominciò ad aumentare provocando la formazione di una sostanza poco nota, la tetraclorodibenzo-para-diossina, o TCDD, altamente tossica. Dentro il reattore si formò una massa pulverulenta che avrebbe dovuto essere trattenuta da un filtro, ma la valvola non funzionò e una polvere bianca – che sarebbe stata nota come la “nube tossica” – si disperse nell’aria e ricadde, col suo contenuto di alcuni chili di diossina, sulle campagne e le case del vicino paese di Seveso, abitato da piccoli agricoltori e artigiani.
Gli animali da cortile cominciarono ben presto a morire, sulla pelle di alcune bambine comparvero delle pustolette di cloracne, gli abitanti di Seveso furono presi dal terrore; intanto la polvere era finita nelle acque del vicino fiume, poi sulle strade attaccandosi alle ruote delle automobili che portavano la diossina verso i laghi e le zone vicine. Per vari giorni scienziati, amministratori locali, uomini politici, dirigenti dell’Icmesa, diffusero notizie contraddittorie. Ben pochi sapevano che cosa produceva la fabbrica e, solo molti giorni dopo l’incidente, al nome “triclorofenolo” fu associata la parola “diossina”; eppure incidenti simili a quello dell’Icmesa si erano già verificati ed erano noti; la presenza di diossina era stata scoperta e descritta, fin dal 1970, nei defolianti (prodotti da triclorofenolo impuro di diossina) che l’esercito americano irrorava in abbondanza nelle giungle del Vietnam “infestate” dai partigiani comunisti e dalla povera popolazione ostile agli arroganti invasori, e che provocarono morti e intossicazioni nelle popolazioni locali e fra gli stessi soldati americani.
In quel luglio del 1976 fa nessuno era veramente in grado di indicare gli effetti biologici e genetici del contatto con la diossina; che cosa sarebbe successo ai figli delle donne incinte su cui era caduta la polvere tossica? Sarebbe stato opportuno consigliarle di abortire? Pagine di dolore e di spavento umano, pagine di crisi e incapacità e viltà del potere politico; di fallimento degli “scienziati” incapaci di analizzare i terreni contaminati, di suggerire dei rimedi per fermare la diffusione della diossina dai terreni di Seveso alle popolose zone circostanti. Ormai è un capitolo, lontano, dimenticato, della storia dell’ambiente: la biologa Laura Conti (1921-1993) ha scritto un bellissimo drammatico resoconto di quei mesi di dolori, vissuti accanto alle, e dalla parte delle, donne, nel libro “Visto da Severo”, ormai una rarità (quanto resta delle carte e dei libri di questa studiosa è raccolto nell’archivio della Fondazione Micheletti a Brescia.
Negli anni successivi la diossina di Seveso è stata grattata dai muri della fabbrica, dal terreno contaminato, è stata bruciata in Svizzera o sepolta chi-sa-dove, i danneggiati sono stati tacitati dai proprietari dell’Icmesa con un po’ di soldi e tutti cercano ora di dimenticare.
Ma il dramma di Seveso non va dimenticato: l’ultimo quarto del XX secolo è stato dolorosamente costellato di altri incidenti e dolori e morti: a Massa Carrara, a Manfredonia, a Marghera, a Napoli, in Piemonte, in Sicilia, eccetera. Il lungo calvario delle “Severo” italiane ha mostrato che il “progresso” tecnico-scientifico ci ha fatto circondare di impianti produttivi di cui ben pochi conoscono i processi e la composizione delle materie trattate e la natura delle merci fabbricate e delle scorie che si formano. Una direttiva dell’Unione europea, di molti anni fa, prescrive che le industrie “a rischio” debbano denunciare quali materie contengono quando queste superano un certo peso, ma il “doveroso” segreto industriale fa si che le relative notizie siano sepolti negli uffici e che l’informazione della popolazione “a rischio” sia inesistente.
L’esperienza – e lo stesso evento di Seveso – mostrano che i pericoli per la vita dei lavoratori e degli stessi cittadini-consumatori derivano non soltanto dalle catastrofi, ma anche dalla diffusione e dispersione, nelle officine, nei negozi e nell’ambiente, di sostanze che sfuggono alla conoscenza dei singoli, dei governi, e ai controlli tecnici.
La difesa della vita umana dipende invece dalla conoscenza, diffusa, popolare, delle attività tecniche e delle materie con cui si viene a contatto, da una cultura delle fabbriche e delle cose, dalla pressione sui governi perché difendano la vita umana prima degli interessi degli affari. Solo così sarà possibile evitare che altre bambine, altre donne, altri cittadini siano esposti ad altre “Severo”, che pure sono intorno a noi.