Attualità di Marx. Che cosa possiamo dire di nuovo sulla Scienza dal punto di vista del materialismo storico?
Da “marxismo oggi online”, 5.9.2018.
Nella ricorrenza del bicentenario della nascita di Marx si stanno ovviamente moltiplicando le iniziative a livello internazionale, nazionale e locale. Non devo certo esprimere la mia convinzione che dall’elaborazione di Marx ci siano ancora tantissimi insegnamenti da trarre. La vera sfida è di trarre spunti fecondi sui temi più scottanti oggi sul tappeto. Non ho l’ambizione di fare questo, ma vorrei dare un contributo su un campo che probabilmente non sarà al centro dei temi trattati, ma sul quale mi sono personalmente impegnato per quattro decenni e che ritengo sempre più cruciale oggi: il tema della Scienza. Intendo la Scienza capitalistica, quella cioè che venne fondata (schematizzo brutalmente) nei secoli XVII-XVIII e divenne con il decollo della Rivoluzione industriale del XVIII secolo uno dei cardini, sempre più imprescindibili, della Società industriale e del capitalismo. E qui sono convinto che ci sia ancora moltissimo da trarre da Marx.
La Scienza, in tutte le sue manifestazioni, informa sempre più tutti gli aspetti non solo della produzione e della distribuzione, ma della vita sociale e individuale. Questi sviluppi sempre più radicali e pervasivi sembrano avere anestetizzato la maggior parte delle persone le quali, nell’illusione di acquisire attraverso tecnologie sempre più sofisticate capacità a poteri eccezionali, non si rendono più conto di essere (anche) strumenti sempre più passivi e dipendenti dalla prossima innovazione che verrà introdotta, e per la quale viene sapientemente costruita l’aspettativa. Inutile dire che in questo meccanismo ha assunto un ruolo esorbitante la pubblicità, che pervade in modo incontenibile tutti gli aspetti della nostra vita, utilizzando molto frequentemente slogan che non hanno nessun fondamento, quando non sono palesemente infondati. Non può sfuggire, anche ad una riflessione superficiale, l’eclatante contraddizione fra l’esaltazione della Scienza e della tecnica e dei loro successi, e questo frequente ricorso ad affermazioni palesemente infondate, alle quali non avrebbe abboccato la maggior parte delle persone sensate che vivevano un secolo fa. Questa divagazione mi porterebbe in un campo, la pubblicità, che esula dalle mie conoscenze, ma non è estranea al tema che intendo trattare. Perché la Scienza se un lato viene incorporata in modo sempre più sostanziale nelle merci e nei prodotti iper-tecnologici, dall’altro è celata in essi in modi che sfuggono ormai completamente agli utenti inevitabilmente sprovveduti (ma a volte anche a chi non ne è digiuno, data la specializzazione esasperata dei campi tecnico scientifici). In questa situazione la Scienza nella mentalità comune diventa sempre più un “feticcio”. Non trovo di meglio di questo uso ardito del temine marxiano, che certo in questo caso non maschera il lavoro incorporato e il rapporto subordinato di sfruttamento ma, usando le parole di Marx, è “un’analogia … nella regione nebulosa del mondo religioso … [dove] i prodotti del cervello umano [in questo caso della Scienza] paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini”. Le innovazioni tecnico scientifiche incorporate (e celate) nelle merci appaiono figure indipendenti, si materializzano come proprietà e capacità che hanno quasi del magico, dato che la loro base è talmente complessa e sofisticata che risulta quasi impossibile ricostruirne il funzionamento. La Tecnica è da tempo una “seconda natura” artificiale che lungi dall’avvicinare all’Uomo la Natura costituisce un diaframma che si interpone alla Natura, che ci separa da essa. Ma l’innovazione scientifico-tecnica smodata sta addizionando a mio parere un carattere magico, di capacità che appaiono soprannaturali.
Marx e le Scienze della Natura
Ho solo in parte divagato, o generalizzato, perché il tema del rapporto fra l’Uomo, come essere sociale, e la Natura l’avevo già posto una quarantina di anni fa (insieme ad Arcangelo Rossi) come cruciale per estendere all’analisi delle Scienze della natura il metodo storico materialista che Marx aveva sviluppato per la critica dell’economia politica((Angelo Baracca e Arcangelo Rossi, Marxismo e Scienze Naturali, Bari, De Donato, 1976.)) Credo che la fecondità di quella impostazione sia stata confermata dai risultati del lavoro successivo, di cui porto solo una parte del merito.
In Marx non si trova una concezione generale delle Scienze della natura. Si trovano preziose osservazioni in tanti scritti, soprattutto giovanili, con Engels, sul concetto di Natura, che criticano radicalmente il punto di vista, che giudico “grossolano” (ma ahimè tutt’altro che morto), della Natura come “serbatoio” inerte al quale l’Uomo attinge i propri mezzi e le proprie conoscenze, divenute scientifiche con la “Rivoluzione scientifica” del capitalismo. Questa concezione “grossolana” rimane il fondamento della concezione della neutralità della Scienza. D’altronde ai tempi di Marx era ancora molto forte nelle Scienze l’impostazione del positivismo, e l’idea che il requisito di rigore della Scienza richiedesse di basarsi sui soli dati d’esperienza: il che voleva dire appunto trarre dalla Natura i dati senza di sovrapporre ad essi (o evitandolo il più possibile) delle interpretazioni. Quando Marx morì (1883) era ancora decisamente minoritaria la svolta inaugurata nel campo della fisica e della chimica negli anni Settanta dell’Ottocento che ricorreva a modelli matematici per interpretare i processi naturali ed estrarne le leggi che li regolano. Era stato Engels piuttosto ad occuparsi delle Scienze naturali, ma (so bene di urtare le opinioni degli engelsiani, non sto affatto sminuendo il suo ruolo e il suo pensiero) il materialismo dialettico che egli aveva adottato era ben diverso dal materialismo storico. Del resto, anche se Engels sopravvisse 12 anni a Marx (1895), egli difficilmente avrebbe potuto conoscere gli sviluppi matematici estremamente complessi della fisica e della chimica post-positiviste. Peraltro è noto l’interesse di Marx per le concezioni di Charles Darwin, scienziato che solo grossolanamente può venire collocato nel solco del positivismo (ma fu soprattutto Engels ad esserne entusiasta), che Marx cita anche nel Capitale, ma con la significativa raccomandazione di non dedurne un “materialismo astrattamente modellato sulle scienze naturali, che esclude il processo storico”((Mentre è da ridimensionare un presunto entusiasmo di Marx per le idee di Darwin (idea a cui aveva contribuito l’orazione funebre pronunciata da Engels), in particolare è falsa la tesi che Marx avesse offerto a Darwin di dedicargli Il Capitale e che questi avesse declinato: rimando per brevità a un articolo di Aldo Natoli pubblicato su La Repubblica il 31 gennaio 1982 (dal quale ho ripreso anche il passo del Capitale) e riprodotta da Salvatore Lo Leggio, http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2013/06/marx-e-darwin-sono-un-vostro-sincero.html.)).
Marx ispiratore del ‘68: il materialismo storico e la concezione delle Scienze
Prima di venire specificamente al valore e all’attualità del pensiero di Marx per le Scienze ritengo opportuno un cenno brevissimo ad alcuni sviluppi degli ultimi quattro decenni. La giovane generazione degli scienziati italiani che si erano laureati attorno al 1968 e avevano vissuto direttamente la contestazione studentesca e le lotte operaie, si fecero carico di dare contenuti concreti alla contestazione della Scienza, che era stata soprattutto ideologica (termine con il quale non intendo affatto sminuirne la portata). Ho ricostruito dettagliatamente quelle vicende in uno scritto recente((Angelo Baracca e Flavio Del Santo, “La giovane generazione dei fisici e il rinnovamento delle scienze in Italia negli anni Settanta”, “altronovecento”, n. 34, ottobre 2017, http://www.fondazionemicheletti.it/altronovecento/Default.aspx?id_articolo=34.)). È superfluo dire che gran parte dei giovani scienziati italiani si scontrò duramente con gli intellettuali del PCI, e il tema della cosiddetta “non neutralità” della Scienza era uno degli aspetti scottanti. Ma una parte, soprattutto dei giovani fisici e matematici, si propose di rintracciare le radici delle scelte di fondo della Scienza moderna ricostruendone lo sviluppo storico in relazione alle trasformazioni cruciali del capitalismo. Verso la metà degli anni ‘70 uscirono le prime opere che proponevano una concezione storico materialistica della Scienza capitalistica (nel 1976 il famoso L’Ape e l’Architetto((Giovanni Ciccotti, Marcello Cini, Michelangelo De Maria, Giovanni Jona-Lasinio, con contributi di Elisabetta Donini e Dario Narducci, L’Ape e l’Architetto. Paradigmi Scientifici e Materialismo Storico, Milano, Feltrinelli, 1976 (il volume è stato ripubblicato con il corredo di vari commenti degli autori e di altri nel 2011).)) e il saggio Marxismo e Scienze Naturali che ho citato nella nota 1). Su queste basi (pur con le articolazioni delle diverse impostazioni personali) venne sviluppato un lavoro collettivo che ritengo ancora di grande valore, volto alla ricostruzione dello sviluppo della Scienza dalla fine del secolo XVIII collegando su basi storico materialistiche le svolte e le innovazioni cruciali alle esigenze poste dalle diverse fasi dello sviluppo del capitalismo e dalle sue contraddizioni interne.
Se gran parte di quelle elaborazioni sembra oggi dimenticata, bisogna riconoscere il fatto di fondo che (non certo per merito unico, e neanche principale, degli scienziati-storici che vi dedicarono gran parte delle loro carriere) oggi l’idea della “non neutralità” della Scienza, dei suoi legami strutturali con gli interessi del Capitale, è in larga misura passata nella mentalità comune: anche, e forse soprattutto, per le tantissime lotte di movimenti popolari in tutto in mondo contro prodotti o progetti nefasti fondati su presunti criteri scientifici, dei quali i movimenti contestavano invece la subordinazione alla logica del profitto.
Tuttavia queste lotte e queste contestazioni si sono basate e si basano soprattutto sulle vertenze concrete, più che legittime. Non vi è dubbio che esse hanno prodotto, e producono, un grande patrimonio di cultura e di elaborazioni scientifiche alternative, che antepongono l’interesse generale a quello dei gruppi di potere o finanziari. Si è però appannata, a parere di chi scrive, quella tensione ideale che sviluppava la critica radicale alla struttura stessa della Scienza moderna, che è alla base della sua funzionalità agli interessi capitalistici. Così, mentre da un lato si diffondono il disincanto e l’opposizione a progetti disastrosi spacciati per scelte tecnico scientifiche, e cresce una forte critica ai concetti di “progresso” e di “sviluppo”, vi è d’altro lato una grande curiosità verso i contenuti delle teorie scientifiche sempre più complesse e formali, e riscuotono notevole interesse saggi di “divulgazione scientifica”, spesso indubbiamente pregevoli ma certo tutt’altro che critici degli indirizzi della ricerca scientifica avanzata. A me sembra di vedere una sorta di dissociazione tra la valutazione di quello che la Scienza capitalistica porta a fare nella pratica, e suscita forti contestazioni, e la fascinazione esercitata dalle sue concezioni (estremamente formali e complesse, delle quali la “divulgazione” rende di solito un’immagine ideologizzata, e inevitabilmente parziale).
Ben diverso era il progetto che si era sviluppato negli anni ‘70 del secolo scorso nel quale, riconoscendo la separazione abissale dei formalismi astratti della Scienza dalla cultura e la mentalità comuni, si mirava piuttosto a una comprensione integrale dello sviluppo e dell’assetto delle Scienze ricostruendo le motivazioni materiali, gli interessi di classe – questi si largamente accessibili – che avevano sotteso le svolte metodologiche della Scienza, l’uso delle sue acquisizioni come forze produttive finalizzate all’aumento dei profitti e allo sfruttamento della forza lavoro degli operai; anche quando questo era mediato dal potere ideologico della Scienza. L’esplicitazione di questi moventi rendeva esplicite le scelte sempre più formali e lontane dall’intuizione, aprendo la possibilità di una comprensione integrale (non solo formale), storico sociale, delle Scienze, fornendo inoltre gli strumenti per valutare gli indirizzi dello sviluppo scientifico, cioè criteri e strumenti di controllo da parte dei movimenti operai e popolari.
È qui che rimane importante rifarsi al materialismo storico di Marx per riprendere una critica integrale, di classe, della Scienza, che fornisce sempre più un supporto allo sviluppo devastante della società capitalistica, allo sfruttamento sconsiderato delle risorse e alla mercificazione della natura.
L’ideologia scientista, la svendita del lavoro e la mercificazione della Natura
Molte delle cose che dirò si potrebbero quasi considerare scontate, ma credo che non sia inutile ribadirle nella fase storica che stiamo vivendo, intanto perché non mi sembrano davvero ovvie, e soprattutto perché possono riannodare il legame tra le lotte pratiche su temi concreti, che sono quelli che giustamente la gente sente sulla propria pelle, e l’impostazione della Scienza, che è dominio degli specialisti ma dispensa appunto pubblicamente il proprio fascino alimentando una forte ideologia. Come sempre è stato, è necessario supportare l’azione pratica con una solida base ideologica. Tanto più che la resa senza condizioni della sinistra storica all’ideologia scientista e sviluppista è stata un fattore tutt’altro che secondario della svendita del lavoro e dei suoi diritti (e della sua subalternità alla mercificazione della natura).
Dietro questa capitolazione non vi è stato un vuoto di teoria, bensì una teoria opposta, ancorché implicita, subalterna all’ideologia e agli interessi dominanti. La concezione del ruolo trainante delle forze produttive (in tutte le accezioni: mercato, tecnologia, ecc.) concepite come neutrali rispetto ai rapporti di produzione, delle tecnologie “avanzate” (si ricordi il cieco sostegno, in una certa fase, del PCI e dei Sindacati ai programmi nucleari), tanto più “progressive” quanto più garantiscono l’esclusione del lavoro vivo e lo sfruttamento della forza lavoro impiegata, ha costituito un elemento portante della politica della sinistra storica. Ne ha determinato la venerazione dello “sviluppo”, inteso come necessario e unico, e la monocultura (la miseria ideologica) del Pil. Tutta questa concezione si è coniugata con un’interpretazione della Scienza e della Tecnica come assolutamente oggettive, intrinsecamente progressive, dotate della capacità taumaturgica di risolvere tutti i problemi.
Questa interpretazione fornisce la giustificazione ultima di qualsiasi tipo di intervento sulla natura, purché attuato con metodi “scientifici”, quantitativi e “rigorosi” (ma inevitabilmente parziali): l’uomo diviene così l’“apprendista stregone”, pretende di sostituirsi alla Natura stessa, ai suoi meccanismi ed equilibri, in un delirio di onnipotenza dogmatico e cieco (e la deleteria pubblicità, come ricordavo, diviene una forma di persuasione occulta, che tutte le forze politiche e sociali subiscono passivamente, trascurano o pensano di utilizzare per i propri fini). Salvo poi inventarsi la foglia di fico dello sviluppo sostenibile, vero ossimoro di comodo: si mistificano ormai televisioni o automobili “ecologiche”, come se nascessero sugli alberi, e non ci si vergogna di sparlare di sviluppo sostenibile perfino per un paese come il nostro che importa il 90 % delle risorse energetiche, depredando ovviamente altri paesi con il pagamento di royalties ridicole, non certo alle popolazioni ma a classi politiche corrotte.
Di fronte a questi, che non sono “sbandamenti” ma un vero passaggio nel campo avverso (tanto più pericoloso e ingannevole se operato da forze che mantengono un legame storico con la “sinistra”), occorre reagire recuperando non solo un’incisiva capacità di azione e di aggregazione, ma anche una chiara base teorica di classe.
Il rapporto storicamente e socialmente determinato fra l’Uomo e la Natura
Credo che sulla concezione della Natura vi sia ancora oggi una profonda confusione, avvalorata dalla “corporazione” scientifica (termine che rende il concetto preciso al posto di quello di “comunità”). Penso che domini ancora, nonostante tutto, l’idea naif di una separazione netta fra l’Uomo e la Natura, e che la Scienza indaghi e descriva (rispecchi) fenomeni e processi le cui caratteristiche sono indipendenti dall’azione umana.
Marx, come dicevo, non ha scritto, né avrebbe potuto, sulle Scienze della Natura (lo ha fatto per la Scienza Economica), ma insieme a Engels aveva formulato concetti molto chiari sulla Natura, insistendo in modo particolare sul fatto che essa non si può concepire indipendentemente dall’azione sociale dell’Uomo. Non è questa la sede per snocciolare citazioni, basti riprendere quella piuttosto nota con Engels nell’Ideologia Tedesca (Roma, Editori Riuniti, 1958, pp. 16, e 38), quando essi criticano Feuerbach perché “non vede come il mondo sensibile che lo circonda sia non una cosa data immediatamente dall’eternità sempre uguale a sé stessa, bensì il prodotto dell’industria e delle condizioni sociali; e precisamente nel senso che è un prodotto storico”. “Il rapporto dell’uomo con la natura [nella filosofia borghese] è quindi escluso dalla storia, e con ciò è creato l’antagonismo fra natura e storia”.
Nello studio del 1976 citato nella nota 1, Marxismo e scienze naturali, un punto cardine è il concetto del rapporto Uomo-Natura((Quell’analisi del 1976 riprendeva, sia pure rivedendolo, il concetto di “astrazione storicamente determinata” di Galvano Della Volpe, per ancorare l’analisi al concreto contesto storico materiale.)), che riprendo brevemente perché lo ritengo basilare, quanto purtroppo poco familiare. La Natura, come tale, non è mai data in modo “immediato” (cioè senza mediazioni) per l’esperienza umana. L’Uomo, piuttosto, quale componente di una specifica formazione economico sociale, si rapporta alla Natura con modalità storicamente e socialmente determinate, che definiscono il contesto delle sue forme e del suo livello di conoscenza della Natura, oltre che del livello del suo sfruttamento. Scriveva molto efficacemente Alfred Schmidt((Alfred Schmidt, Il Concetto di Natura in Marx, Bari, Laterza, 1973, pp. 29, 33.)): “Gli uomini … nella loro produzione non hanno mai a che fare con la materia in quanto tale, bensì sempre soltanto con i suoi concreti modi di esistenza, determinati quantitativamente e qualitativamente. […] “Le questioni relative all’essere pre-umano e pre-sociale della natura non si possono porre ‘astrattamente’; esse presuppongono già di volta in volta un grado determinato di appropriazione teoretica e pratica della natura. Ogni presunto sostrato assolutamente primo è sempre già affetto da ciò che ne deve risultare, e quindi non è assolutamente primo”.
L’Uomo ha ovviamente sempre attinto alla Natura per le proprie necessità materiali (come del resto fa ogni specie vivente), ai primordi aveva una concezione religiosa dei fenomeni naturali, che non controllava, ma con l’evoluzione dei rapporti sociali il suo concetto della Natura andò mutando, egli acquisì un distacco dai fenomeni naturali, cominciò a oggettivarli e a sviluppare metodi sempre più sofisticati per sfruttarli, finché lo sviluppo del Capitalismo lo portò a mercificarli, facendone anzi uno strumento per intensificare lo sfruttamento della forza lavoro((Anche se può essere superfluo per molti, ricordo che Marx scrive nella Critica al Programma di Gotha: “Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natura è fonte dei valori d’uso (e di tali valori consiste la ricchezza reale!) come il lavoro” (Critica al Programma di Gotha, Samonà e Savelli, Roma, 1968, p. 31). Premettendo che la vera ricchezza è costituita dai valori d’uso, Marx contesta quindi che il lavoro sia sempre la sola fonte della ricchezza: è necessario cioè definire le condizioni e i rapporti in cui il lavoro si esplica. Infatti, se l’uomo entra in rapporto con la natura come proprietario (sia dei mezzi di produzione che del prodotto) ciò è vero. “Solo in quanto l’uomo si ritiene, fin da principio, proprietario della natura, fonte principale di tutti i mezzi e oggetti di lavoro e li tratta come cosa che gli appartiene, il suo lavoro diventa fonte dei valori d’uso, dunque anche di ricchezza”. Se invece l’uomo (lavoratore) è proprietario solo della propria naturale forza-lavoro mentre il resto appartiene ai capitalisti, allora il lavoro produce povertà per gli uni e ricchezza per gli altri. Il rapporto con la Natura, e l’impatto su di essa, sono quindi strettamente legati, in ultima analisi, al modo di produzione.)). Il modo di percepire e concepire la Natura è cambiato radicalmente nelle diverse epoche storiche ed è diverso nelle diverse strutture sociali. Oggi nessuno di noi concepisce più la Natura come un congegno meccanico, come avveniva nel XIX secolo. I cinesi (schematizzando brutalmente) hanno concepito la profonda unità dei fattori naturali. I popoli indigeni dell’America Latina concepiscono la Natura come Pacha Mama.
Che si tratti dei medesimi processi naturali è un problema ontologico che qui non ci riguarda: il punto è che essi sono dati all’Uomo, come essere sociale, in modi storicamente determinati. Che senso ha rimanere attaccati all’idea che “la Scienza tratti fenomeni oggettivi che esistono indipendentemente da noi”, quando è evidente che in ogni formazione sociale storicamente determinata essi sono stati rappresentati e trattati secondo i modi specifici, e profondamente diversi, in cui essi venivano percepiti, concepiti e utilizzati? Ben più fecondo è il punto di vista che quello che la Scienza tratta non sono i fenomeni in sé, ma il modo in cui essi sono concepiti in un’epoca storica e in una formazione sociale specifiche: nel XIX secolo prevaleva l’idea di un meccanismo, anche se molto complesso, poi la meccanica quantistica ha completamente distrutto questa visione, oggi la teoria dei sistemi complessi ha riportato in auge la profonda interconnessione tra fenomeni diversi.
Mi sembra importante osservare che le trasformazioni delle condizioni storiche e sociali non portano l’Uomo solo ad avere una diversa percezione della Natura, ma anche della “propria Natura”. Come scrive Marx nel Capitale (Roma, Editori Riuniti, 1970, Libro I, Cap, 5, p. 194): “In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo, per mezzo della propria azione produce, regola e controlla il ricambio organico fra sé stesso e la natura: contrappone sé stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. … Operando … sulla natura fuori di sé, e cambiandola, egli cambia allo stesso tempo la natura sua propria”.
Nessuno si è mai sognato di affermare, e neanche di pensare, che la Scienza sia un “prodotto sociale”, anche se questa era la critica che veniva mossa (spero solo) in passato. Tanto meno si cadeva nell’idealismo. Non sono i processi naturali in sé a dipendere dai rapporti sociali [“la natura fuori di sé”], ma i modi in cui tali processi sono rappresentati. La concezione del rapporto Uomo-Natura, come due poli distinti ma profondamente interconnessi – dal processo di lavoro – fornisce un fondamento storico materialistico al processo di produzione della conoscenza scientifica. Oggi poi i cambiamenti climatici rendono sempre più drammaticamente evidente quanto gli stessi processi naturali vengano modificati dall’azione sociale dell’Uomo!
Scienza e sfruttamento. La corporazione scientifica complice del potere
In questa impostazione diventa subito chiaro il motivo per cui la Scienza ha tremendamente aumentato il potere dell’Uomo sulla Natura: ma anche sulla forza lavoro impiegata da chi detiene la proprietà dai mezzi di produzione.
La Scienza moderna, quantitativa e matematica, è stata un prodotto della società occidentale nella sua fase di sviluppo capitalistico, e ha sussunto nella propria struttura e nei propri metodi la logica di sfruttamento della Natura e della forza lavoro umana propria del capitalismo((Non mi soffermo in questa sede sul fatto che altre formazioni sociali, pur avendo prodotto in precedenza conoscenze scientifiche molto avanzate, non ebbero la necessità di sviluppare approcci quantitativi simili. Valga per tutti l’esempio della scienza cinese tradizionale, in relazione in particolare alla struttura sociale del “mandarinato”, studiata a fondo da un biochimico britannico di ispirazione marxista, J. Needham (1900-1995) nella monumentale opera: Scienza e Civiltà in Cina, Einaudi, Torino 1981 e sgg. Si può vedere il più agile saggio Scienza e Società in Cina, Bologna, Il Mulino, 1973.)). La Scienza capitalistica ha, simultaneamente, ampliato enormemente il potere dell’Uomo sulla Natura – ma solo di quella classe sociale che (riprendendo la citazione di Marx in nota 8) “si ritiene, fin da principio, proprietaria della natura” – mentre con le conoscenze che ha messo a disposizione ha consentito alla classe capitalistica di intensificare enormemente lo sfruttamento della forza lavoro salariata.
Gli scienziati si configurano ed operano socialmente come una “corporazione”, forse anche una “casta”, che si proclama depositaria di un sapere superiore, inaccessibile alle persone comuni, e sfrutta l’enorme potere che da tale sapere le deriva. In tutte le epoche storiche, fin dall’antichità, la categoria sociale depositaria di un sapere esclusivo – riconosciuto o imposto come quello ufficiale, la “verità” – ha tratto da questo ruolo un enorme potere (come le caste sacerdotali dell’antichità). La Scienza moderna, quantitativa, ha aggiunto a questo sapere un enorme ed esclusivo potere pratico.
La “casta” degli scienziati si è formata, e si è connotata storicamente (con poche, ma lodevoli eccezioni)((Ricordiamo scienziati quali Giulio Maccacaro o Renzo Tomatis, che assumevano il sapere operaio come elemento di rottura del mistificante e arrogante sapere accademico (come Basaglia riconduceva le istituzioni segreganti ai criteri di emarginazione dell’ordine sociale costituito).)) come complice del potere. Nel senso che in ogni fase storica dello sviluppo capitalistico essa si è posta l’obiettivo di
- Aumentare lo sfruttamento della forza lavoro umana e delle forze naturali, secondo le esigenze delle classi imprenditoriali dominanti;
- Superare i problemi e le contraddizioni dello sviluppo capitalistico, nelle fasi di difficoltà o di crisi, mediante nuove soluzioni scientifiche, tecniche e produttive.
Il secondo aspetto mi sembra comunemente poco apprezzato. Sappiamo bene che lo sviluppo del capitalismo è tutt’altro che lineare, è animato da una spietata lotta all’interno della classe capitalista che lascia sul suo cammino una tragica scia di vittime, e spesso di vero e proprio sangue: non solo quello di illustri “capitani d’industria” che il fallimento economico porta al suicidio, ma perché la competizione capitalistica fra le borghesie di diversi paesi è stata all’origine dei conflitti più sanguinosi. In tutti questi casi la corporazione scientifica che era al servizio della classe capitalistica del proprio paese ha portato contributi decisivi.
Sulla complicità della Scienza con i fini della classe capitalistica si potrebbero discutere innumerevoli esempi. Senza dilungarmi, nella seconda metà del XIX secolo furono le radicali innovazioni sviluppate dagli scienziati e dai tecnici tedeschi – sottese dalla profonda svolta scientifica che in rottura col primo positivismo ricorreva a modelli, sviluppati matematicamente per rappresentare i fenomeni e individuare proprietà e processi nuovi – consentì alla Germania di superare in pochi decenni la tecnologia inglese, dando vita a una Seconda Rivoluzione industriale (è l’occasione per sottolineare che non si attribuisce affatto agli scienziati tedeschi una intenzionalità esplicita di superare l’Inghilterra, la differenza fu il dinamismo innovatore della formazione economico sociale della Germania del tempo, che informò e plasmò tutte le manifestazioni della società, dall’economia, alla cultura, alla Scienza e la tecnica((Rimando per chi voglia approfondire a un saggio del 1979 nel quale questi processi sono sviluppati in grande dettaglio (come esempio anche del concetto diverso da quello della “divulgazione” scientifica che si perseguiva): A. Baracca, S. Ruffo e A. Russo, Scienza e Industria, 1848-1915, Bari, Laterza, 1979.))). Ma l’intenzionalità esplicita si manifestò comunque in alcuni esponenti di punta, come il Premio Nobel per la Chimica Fritz Haber il quale nella preparazione del conflitto mondiale diresse il programma tedesco degli aggressivi chimici, che furono poi tragicamente inaugurati a Ypres (programma a cui collaborò anche un altro Premio Nobel, Walther Nernst). Ed è molto significativo che dopo la battaglia di Ypres si siano immediatamente sviluppati in tutti i paesi in conflitto le ricerche per lo sviluppo, e poi l’uso, di armi chimiche, con orrende carneficine((Tutta questa storia è stata recentemente ricostruita in un ottimo volume: B. Friedrich, D. Hoffmann, J. Renn, F. Schmaltz, M. Wolf (a cura di), One Hundred Years of Chemical Warfare: Research, Deployment, Consequences, New York, Springer Open, 2017.)).
L’ideologia della Scienza come libera indagine della Natura ha mascherato e occultato questa compromissione intrinseca della “corporazione” scientifica con la struttura e la logica del capitalismo. Sia chiaro, io non nego in alcun modo che la Scienza abbia un valore conoscitivo, ma sono stati, e sono, i momenti di svolta della storia umana e dei conflitti di classe a trasformare le modalità del rapporto dell’Uomo con la Natura, e di conseguenza i modi di considerarla e rappresentarla, e pertanto le rappresentazioni scientifiche. Si potrebbe rispolverare la distinzione marxiana fra struttura e sovrastruttura, senonché la Scienza non è solo una sovrastruttura, ma è un aspetto del rapporto fra l’Uomo e la Natura. Si può essere legittimamente affascinati dai costrutti e le rappresentazioni delle teorie scientifiche (non dimenticando che storicamente esse sono sempre state superate da quelle successive), la cosa importante a mio avviso è mantenere chiaro che al di là di queste rappresentazioni vi sono livelli sempre più profondi di sfruttamento della Natura e della forza lavoro, anche quando questi non appaiono chiaramente.
La “corporazione” scientifica si è adoperata, direi sistematicamente, per contribuire, con l’innovazione tecnologica e la trasformazione delle condizioni di lavoro, ad intensificare lo sfruttamento della forza lavoro, e corrispondentemente a svuotare le conquiste della classe operaia e gli strumenti che questa aveva acquisito per intervenire sul ciclo produttivo (si pensi al leggendario “salto della scocca” alla catena di montaggio a Mirafiori): cioè per riaffermare e rafforzare la subalternità della forza lavoro al ciclo capitalistico e le sue condizioni di sfruttamento e l’estrazione del plusvalore. Nelle fasi di crisi del modo di produzione capitalistico gli scienziati e i tecnici hanno contribuito in modo sostanziale a sviluppare quelle innovazioni che hanno consentito di ristrutturare e rimettere in moto il ciclo produttivo, superando i colli di bottiglia (per l’esempio precedente, la brutale ristrutturazione post-fordista). L’uscita del sistema capitalistico dalla recessione seguita al Grande Crollo del 1929 fece ricorso ad un nuovo ruolo della Scienza e della Tecnica, chiamate a promuovere un processo di innovazione continua che riuscisse ad evitare le fatali crisi di sovrapproduzione: anche se il New Deal roosveltiano riuscì a rimettere realmente in moto il sistema capitalistico solo quando si inserì nell’impresa militare della Seconda guerra mondiale.
Non è di solito la classe politica o imprenditoriale che progetta nuovi ritrovati o soluzioni: sono proprio gli scienziati che si fanno in quattro per tradurre i loro sogni in pratica! La ricerca esasperata di innovazioni scientifiche e tecnologiche ha fornito un contributo decisivo al recupero e all’estensione dei margini di profitto, e agli approdi estremi dello sfruttamento del lavoro, e della Natura. Il famigerato glifosato (assurto alle cronache per la recente sentenza di condanna di un tribunale americano) è un tipico prodotto della ricerca scientifica al servizio della Monsanto, come furono ritrovati scientifici l’amianto, il DDT, il non meno famigerato Agente Orange con il quale venne devastato il Vietnam, ecc. Per non parlare dei colossali interessi dell’industria farmaceutica e del grande apparato scientifico di cui si avvale.
Non fu certo il presidente Reagan a concepire nel 1983 il folle progetto delle “Guerre Spaziali”: esso venne elaborato dalla lobby degli scienziati dei grandi laboratori militari e delle università ad essi collegati, interpretando come meglio non si poteva le più avveniristiche aspettative della classe politica e militare statunitense.
I colossali laboratori di ricerca militare (statali e di imprese private) che impiegano decine di migliaia di scienziati e tecnici in tutti i paesi (ma perché di solito neanche si citano quando si fanno quadri e bilanci della ricerca scientifica?) sono impegnati a sviluppare tecnologie sempre più mostruose e inumane per le prossime guerre: e non di rado sono proprio le nuove armi sviluppate dai laboratori militare che stimolano metodi di guerra nuovi! Altro che Scienza “neutrale”! Quando si rivendica la “libertà della ricerca” (di solito ad uso e consumo degli scienziati) vorrei che, almeno per coerenza, si esigesse in primo luogo la “liberazione” di queste migliaia di scienziati da questo giogo.
Crisi ambientale o crisi del capitalismo?
Fino dagli albori dell’ambientalismo in Italia fui fra coloro che si contrapposero all’ideologia che connotava le formazioni dei Verdi sostenendo un punto di vista marxista. Non si può mancare di riconoscere che le esperienze storiche del “Socialismo” hanno costituito esempi disastrosi di devastazione dell’ambiente, e il motivo di fondo mi sembra sia l’avere assunto un’accezione del marxismo nella quale l’Uomo si contrappone alla Natura e ne utilizza le risorse (Soviet più elettrificazione) per sviluppare le forze produttive, concepite come intrinsecamente progressive sulla strada radiosa del Sol dell’Avvenire, neutre rispetto ai rapporti di produzione.
Ovviamente questo snaturava il pensiero di Marx. Ben diversa, e feconda, è l’accezione che sto discutendo del legame profondo e indissolubile tra sfruttamento dell’Uomo e sfruttamento della Natura, come due facce di uno stesso problema. Il capitalismo ha messo in contraddizione la forza lavoro umana con le forze naturali, e ha sferrato una guerra alla Natura, per la necessità intrinseca di sfruttarne selvaggiamente le risorse: una guerra che diviene sempre più brutale mano a mano che queste diventano sempre più scarse. In questo senso la contraddizione dell’Uomo con la Natura è subordinata alla contraddizione principale, tra capitale e lavoro.
I problemi ambientali, la violenza che in modo sempre più profondo e irreversibile viene esercitata sulla Natura (compresa quella umana) sono non solo una conseguenza, ma un meccanismo essenziale che alimenta e sostiene la logica del profitto esasperato.
Dietro il paravento di una Scienza talmente avanzata da rivaleggiare con i meccanismi della Natura (la pretesa di “far meglio, e prima”, della Natura), la presunzione riduzionista degli apprendisti stregoni, al servizio (diretto o indiretto) delle multinazionali, modifica impunemente i meccanismi naturali più profondi, “giustificando” appunto tali interventi per il metodo “scientifico”, “rigoroso” della Scienza: ma la Natura è più complessa di qualsiasi nostra conoscenza, inevitabilmente parziale e limitata, per cui punisce inevitabilmente la presunzione dell’apprendista stregone con reazioni che la scienza riduzionista non aveva saputo, o voluto, prevedere (quando, pur conoscendole, non le aveva occultate per garantire gli interessi capitalistici: come dimostrano gli studi sugli effetti nocivi di diversi prodotti o processi, in cui quelli “assolutori” sono pagati dalle stesse ditte che fanno profitti e inquinano).
Non si può negare che la gravità della crisi climatica è stata denunciata con grande fermezza da una componente molto autorevole della comunità scientifica accademica, che si è resa ben conto delle drammatiche conseguenze che deriveranno per le condizioni del Pianeta e della stessa società umana. Questo non può tuttavia farci dimenticare la componente non meno importante degli scienziati che o lavorano per il complesso militare e l’industria bellica, o studiano e realizzano sostanze micidiali per l’ambiente e la salute umana per i fini di profitto delle multinazionali.
E c’è anche una corrente che si adopera addirittura per fornire supporti “scientifici” alle procedure di spoliazione della Natura e delle sue risorse: si tratta della perversa logica delle “compensazioni”, detto in termini banali: “io inquino o devasto qui, ma compenso creando un’oasi ‘equivalente’ là”. Non può sfuggire che la logica è sempre la stessa, la rapina e la mercificazione della Natura. Ieri era la compensazione delle quote di CO2, oggi è la compensazione della biodiversità. È stato introdotto perfino il concetto di “capitale naturale”, nella “Dichiarazione sul capitale naturale”((The Natural Capital Declaration, http://www.naturalcapitalfinancealliance.org/the-declaration.)) dell’Institute for Sustainable Development (ti pareva che non si tratti di sviluppo “sostenibile”?), dove viene definito come il capitale che “comprende i beni naturali della Terra (il suolo, l’aria, l’acqua, la flora e la fauna) ed i relativi servizi ecosistemici che rendono possibile la vita sul nostro pianeta”. Non potevano mancare le dichiarazioni di prammatica su “integrare le considerazioni del capitale naturale nel processo decisionale di tutti i prodotti finanziari e i servizi”, l’assunzione dei “Principi degli Investimenti responsabili” ed altri stabiliti dall’Onu, nonché l’applicazione di “principi olistici”. Il concetto non poteva mancare sul sito del Ministero dell’Ambiente((Capitale naturale e servizi ecosistemici, 23 aprile 2018, http://www.minambiente.it/pagina/capitale-naturale-e-servizi-ecosistemici.)), e la Legge 28 dicembre 2015 n. 221 ha istituito all’Art. 67 il “Comitato per il capitale naturale”((http://www.minambiente.it/sites/default/files/archivio/normativa/legge_28_12_2015_221.pdf.)). Sotto l’insegna della “green economy” si punta alla creazione di mercati per i servizi ecosistemici, e ovviamente al loro valore economico. Insomma, un’economia “green” ma orientata al dogma della “crescita” (il fallimento della Rivoluzione Verde, ormai ampiamente riconosciuto sarebbe un aspetto importantissimo, che qui non analizzo).
Come per il caso delle quote di CO2 non poteva mancare la “compensazione della biodiversità” (biotechnology offsetting), il patrimonio naturale più prezioso e più a rischio con l’aggravarsi della crisi climatica e ambientale. Inutile dire che ci sono gli “esperti” in materia, al soldo delle imprese che intendono realizzare progetti molto impattanti, i quali pretendono di paragonare quantitativamente ed equiparare un pezzo di ambiente naturale ad un altro. Senza contare che spesso i progetti causano ingenti danni alle popolazioni locali, che vedono limitare l’accesso alla pesca o alle foreste senza essere state prima adeguatamente informate e consultate((Un esempio eloquente è il progetto delle attività minerarie dell’impresa Rio Tinto in Madagascar, L’inganno del biodiversity offsetting, il caso Rio Tinto, “Re:Common”, 14 aprile 2016, https://www.recommon.org/linganno-del-biodiversity-offsetting-il-caso-rio-tinto/. Una discussione generale è sviluppata in “La truffa del biodiversity offsetting, Ovvero come distruggere il Pianeta e passare per amico della natura”, “Re:Common”, dicembre 2016, https://www.recommon.org/la-truffa-del-biodiversity-offsetting/.)).
Così la Environment Bank presenta un Impact calculator per “calcolare quanti crediti di compensazione sono necessari per compensare gli impatti causati da un particolare sviluppo”((http://www.environmentbank.com/impact-calculator.php.)) (e per pudore c’è un’avvertenza che “questa informazione si basa su certe assunzioni”!). E c’è anche un Calcolatore del pagamento delle compensazioni((The offsets payment calculator, https://www.environment.nsw.gov.au/biodiversity/paymentcalculator.htm.)), perché i crediti si possono compensare oppure pagare. I governi, e la Banca Mondiale, sono attivamente impegnati a sviluppare simili progetti((Ad esempio, per il Regno Unito “Biodiversity offsetting in England, Consultation outcome”, https://www.gov.uk/government/consultations/biodiversity-offsetting-in-england; la “No net loss initiative” della UE, http://ec.europa.eu/environment/nature/biodiversity/nnl/index_en.htm ; “Biodiversity offsets: a user guide”, The World Bank, http://documents.worldbank.org/curated/en/344901481176051661/Biodiversity-offsets-a-user-guide.)), che ovviamente vengono presentati come “scientifici” (Science-based). Basti qui un’osservazione per denunciare l’infondatezza in generale di considerazioni di questo tipo, considerando che la maggior parte delle specie viventi è ancora oggi sconosciuta((L’86% delle specie è ancora da scoprire, “National Geographic”, 25 agosto 2011, http://www.nationalgeographic.it/natura/2011/08/25/news/vita_sulla_terra_l_86_delle_specie_ancora_da_scoprire-479962/.)).
Siamo dunque ricondotti al nodo vero: dalla crisi ambientale agli interessi economici forti, il nucleo duro del sistema e del modo di produzione capitalistico; in ultima analisi di nuovo la contraddizione capitale-lavoro, anche se mediata da molti passaggi. Se non si intaccheranno profondamente e si cambieranno i meccanismi economici, non vi sarà rimedio alle sfide del 21o secolo, che denotano ormai la crisi del sistema capitalistico.
Il ciclo produttivo capitalistico è distruttivo per la salute umana
Vi è un aspetto che collega in modo più diretto la crisi climatica al ciclo produttivo capitalistico, la nocività del ciclo produttivo capitalistico, dei suoi processi e dei suoi prodotti. Mentre vengono diffusi gli allarmi climatici dell’IPCC, la gente è tenuta all’oscuro dell’allarme dell’Organizzazione mondiale della sanità sulla diffusione di una vera “epidemia di tumori”, che potrebbero aumentare del 50% di qui al 2020((World Health Organization, Global cancer rates could increase by 50% to 15 million by 2020, Ginevra, 2 Aprile 2003, http://www.who.int/mediacentre/news/releases/2003/pr27/en/.)). Ma concentrarsi solo sul cancro è riduttivo, il problema è ben più generale, una minaccia globale alla salute umana, che conferma il rapporto indissolubile e la contrapposizione tra Uomo e Natura generata dal capitalismo. E conferma anche il ruolo degli scienziati subalterno agli interessi capitalistici.
Quello che è sotto accusa è il paradigma prevalente che è alla base della medicina ufficiale, che sottostima ampiamente gli effetti dei fattori ambientali sulla salute, e che fornisce chiaramente un forte supporto agli enormi interessi dell’industria farmaceutica((Una discussione sistematica di questi problemi si trova in una monografia di Ernesto Burgio, Ambiente e Salute. Inquinamento, interferenze sul genoma umano e rischi per la salute, Arezzo, Ordine Provinciale dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Arezzo, 2013, http://www.omceoar.it/docs/cesalpino/AMBIENTE%20E%20SALUTE.pdf. Da questa monografia sono tratti i concetti e le citazioni del presente articolo.)). È urgente sviluppare un approccio radicalmente diverso, che è in nuce ma ovviamente stenta ad affermarsi (anche per conservatorismo della categoria dei medici), basato sulle nuove scoperte delle scienze biologiche che stanno rivoluzionando le concezioni che per mezzo secolo si sono fondate sul cosiddetto “dogma centrale” della biologia (il termine stesso di “dogma” la dice lunga su quanto esso fosse scientificamente fondato e non invece, a lungo andare, un preconcetto). Secondo questo “dogma” l’informazione genetica può fluire solo dal DNA verso il fenotipo, attraverso le istruzioni per la sintesi delle proteine, ma non può fluire in senso opposto. Si sta sviluppando in contrapposizione una nuova concezione sistemica epigenetica di un genoma dinamico, plastico e interattivo, come un reticolo nel quale il DNA contiene il programma genetico potenziale (una specie di hardware) plasmato nel corso di milioni di anni di evoluzione biologica, circondato da una rete estremamente complessa di molecole (una specie di software) che è in continuo cambiamento in risposta e adattamento alle informazioni e stimoli esogeni dall’ambiente (esterno ed interno all’organismo). Questi cambiamenti reattivi/adattativi inducono la concreta espressione e l’attualizzazione fenotipica dell’informazione potenziale pluripotente contenuta nel DNA (per inciso, non è questo un cambiamento, sostanziale, del modo di concepire la Natura, e del rapporto dell’Uomo con la Natura?).
In questo contesto nuovo i profondi e rapidi cambiamenti (locali e globali) prodotti dalla “civilizzazione” umana nell’ambiente devono necessariamente avere effetti diretti e permanenti sulle condizioni di salute, sebbene essi siano stati ignorati o gravemente sottostimati dalla comunità dei medici. Non solo i bambini sono ovviamente i soggetti più esposti, ma si sta accumulando anche un forte evidenza che questi effetti si producano già nel feto, le cui cellule e i cui organi sono in formazione e in rapido cambiamento; ma non solo, questi effetti risultano trasmissibili alle generazioni future (transgenerazionali).
In questo contesto, che qui ho solo potuto accennare, nasce una visione completamente nuova dello stato di salute e della sua evoluzione. Sulla base di una crescente evidenza è stato proposto il concetto di Transizione/Rivoluzione Epidemiologica del 20o-21o secolo. Sta cioè avvenendo un cambiamento radicale caratterizzato da un lato da una drammatica riduzione delle patologie acute, infettive e parassitiche che hanno devastato la vita umana per millenni, plasmando il nostro sistema immunitario; ma per l’altro verso si assiste negli ultimi decenni a un aumento rapido e consistente (e accompagnato da un’insorgenza sempre più precoce) di malattie cronico-degenerative, infiammatorie e neoplastiche – dapprima in Nord Europa e Stati Uniti, e successivamente a livello globale – che costituiscono attualmente le cause di morte di gran lunga prevalenti. Infatti un secolo fa circa 45-50% dei decessi erano dovuti a patologie infettive (tubercolosi 10%, malattie respiratorie 20%, diarrea e patologie gastroenteriche acute 5%, altre patologie infettive 13%), a fronte di circa 13% dovuti a patologie cardiovascolari, e solo il 2% per tumori((McMichael Tony, “Human Frontiers, Environments and Disease. Past Patterns, Uncertain Futures”, “Global Change and Human Health”, 2 (2), 2001, p 119.)). Dopo un secolo la situazione epidemiologica appare rovesciata, almeno nel Nord del Pianeta, o meglio in proporzione con il livello di sviluppo((WHO 2010, Global status report on noncommunicable diseases, http://www.who.int/nmh/publications/ncd_report_full_en.pdf.)): i decessi per patologie cardiovascolari ammontano a circa il 30%, e quelle dovute a tumori hanno la stessa tendenza, mentre si sta abbassando l’età della loro insorgenza (cfr. nota 21); invece le patologie infettive “classiche” sono quasi scomparse (anche se gli esperti e le autorità sanitarie chiamano l’attenzione sulle nuove emergenze infettive – dengue, virus del Nilo occidentale, Chikungunya, ebola – e ad orthomyxovitus influenzali potenzialmente pandemici). Per di più la maggior parte dei dati recenti mostra un aumento drammatico delle patologie endocrino-metaboliche (pandemie di obesità e di diabete) e neuro-degenerative (Alzheimer), allergiche, dello sviluppo neurologico (autismo) e neuropsichiatriche.
Nel novembre 2006 un articolo su “The Lancet” di un pediatra e un epidemiologo della Harvard School of Public Health((Grandjean Philippe, Landrigan Philip J., “Developmental neurotoxicity of industrial chemicals”, “Lancet”, 368: 2167-2178, 2006, http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/17174709.)) denunciava, tra l’indifferenza generale, una possibile connessione fra il continuo rilascio in atmosfera di molecole e agenti potenzialmente neurotossici e una “pandemia silenziosa” di danni neuro-psichici nel 10% dei bambini del cosiddetto Primo Mondo (a dire il vero, un problema che alcuni ricercatori avevano denunciato fin dagli anni Sessanta). Per non menzionare le frodi alimentari e l’impiego (legale) di sostanze artificiali negli alimenti, in particolare nelle “merendine” dei bambini.
I criteri e le metodiche standard di valutazione dei rischi (risk assessment) epidemiologici e tossicologici non sono sufficienti per capire la rivoluzione epidemiologica in corso, e inevitabilmente sottostimano gli effetti sulla salute. La tossicologia considera soprattutto gli effetti sulla salute di agenti singoli, mentre siamo esposti simultaneamente agli effetti sinergici di innumerevoli contaminanti. Per di più è sempre più evidente che molti agenti risultano tossici anche in dosi infinitesime, a causa dei loro meccanismi d’azione (compresi in particolare quelli epigenetici cumulativi), mentre dosi più elevate danneggiano seriamente le cellule innescando meccanismi che ne provocano la morte((Una situazione analoga sussiste per gli effetti delle piccole dosi di radiazioni ionizzanti. I modelli adottati dall’ICRP (International Commission on Radiological Protection) sono riferiti alle alte contaminazioni derivanti dalle esplosioni nucleari, e sottovalutano gli effetti delle piccole dosi, come contesta una parte degli scienziati. Il 3 dicembre 2003 fece scalpore (a dire il vero presto dimenticato) una lettera inviata dal notissimo specialista Ernest Sternglass al Segretario per l’Energia degli USA Steven Chu nella quale egli denunciava “un tragico errore dei medici e dei fisici … [per avere assunto] che l’esposizione a piccole dosi di radiazioni dai test e dalle centrali nucleari non avessero conseguenze significative sulla salute … [causando] un enorme aumento di tumori e di diabete”: Letter from Dr. Ernest Sternglass to Energy Secretary Steven Chu: On health dangers from ingested and inhaled radiation, https://healfukushima.org/2014/12/03/letter-from-dr-ernest-sternglass-to-energy-secretary-steven-chu-on-health-dangers-from-ingested-and-inhaled-radiation/. Chi sia interessato a una discussione approfondita può vedere il capitolo specifico a firma di Ernesto Burgio nel libro di A. Baracca e G. Ferrari, SCRAM, ovvero La fine del nucleare, Milano, Jaca Book, 2011.)). L’epidemiologia è stata concepita come disciplina soprattutto per valutare gli effetti di esposizioni massicce accidentali, e appare inadeguata per valutare una situazione di esposizione collettiva, giornaliera e soprattutto indiretta (transplacentare e transgenerazionale) – agente principalmente su particolari soggetti, come i bambini – a un’enorme varietà di agenti artificiali chimici e fisici che per la maggior parte non sono mai stati adeguatamente testati per i possibili effetti sulla salute.
Del resto si pensi agli allarmi che si susseguono da anni sul numero spaventoso di decessi precoci causati dall’inquinamento atmosferico: ma i decisori pubblici e i politici (in maggioranza, i casi virtuosi non fanno la regola) non osano ostacolare gli interessi delle case automobilistiche, delle compagnie petrolifere e dei palazzinari per proteggere la salute pubblica con provvedimenti radicali. E non sembra esserci stata qualche presa posizione generalizzata e forte della “corporazione” scientifica.
Scienza e guerra: un confine sempre più labile
Mi dilungherò un po’ su aspetti non molto noti, e ancor meno dibattuti, sui rapporti fra Scienza e guerra, perché sono molto significativi del ruolo che giocano gli scienziati, anche quelli che non si “sporcano le mani” con le ricerche belliche, per il livello di compromissione che il capitalismo sfrenato e famelico ha creato con la Scienza avanzata.
Arrivato a manipolare le molecole fondamentali per la regolazione dei viventi, l’Apprendista Stregone, “bio-Stranamore”, rischia davvero di innescare trasformazioni che nessuno potrebbe essere in grado di controllare((I riferimenti specifici per le considerazioni che seguono sono studi di cui raccomando vivamente la lettura anche da parte dei profani: 1o) gli scritti e iseminari di Ernesto Burgio, “Bioterrorismo e Impero Biotech: armi biologiche e guerra (infinita) al Pianeta”, “Mosaico di Pace”, 15 luglio 2010 (apparso originariamente su L’Ernesto il 01/07/2003), https://www.peacelink.it/mosaico/a/32122.html . 2o) gli studi curati da Susan Wright, Biological Warfare and Disarmament: New Problems/New Perspectives, Lanham, Rowman & Littlefield, 2002; oltre alle referenze che seguono.)). Sono stati denunciati i legami tra le ricerche sulle armi biologiche e le pandemie ricorrenti((La grande “biotecnologa pentita” malese Mae Wan Ho ha denunciato con forza questi pericoli, si veda ad esempio la decisa denuncia dei legami tra il bioterrorismo e l’epidemia di SARS: “Bioterrorism and SARS”, Institute of Science in Society, 16 aprile 2003, http://www.kurzweilai.net/articles/art0561.html?printable=1 ; inoltre Mae-Wan Ho, Living with the fluid genome, London-Penang, Third World Network, 2003; Mae-Wan Ho, Sam Burcher, Rhea Gala e Vejko Velkovic. Unraveling AIDS: the independent science and promising alternative therapies, Ridgefield, Vital Health Pub., 2005.)): “La genetica oggi può accelerare enormemente l’evoluzione in laboratorio creando virus e batteri che non sono mai esistiti in tutti i miliardi dell’evoluzione biologica sulla Terra”.
“Il vero pericolo oggi è che una guerra biologica globale deflagri senza che si riesca a impedirla, piuttosto che per la deliberata volontà di qualcuno. … [É impossibile] distinguere tra usi difensivi e offensivi delle ricerche sui microrganismi e, almeno a partire dagli anni ‘80, con gli enormi interessi economici collegati al nuovo settore delle biotecnologie genetiche”((Susan Wright, Biological Warfare and Disarmament, cit.)).
Mentre, nel 1972, veniva firmata la Convenzione sull’interdizione delle armi biologiche((Ernesto Burgio, “Bioterrorismo e Impero Biotech”, cit.)),
“proprio in quegli stessi anni, e proprio nei laboratori americani, si stava realizzando la rivoluzione tecnologica che avrebbe sconvolto il mondo della genetica e fornito agli scienziati gli strumenti necessari a trasformare innocui microrganismi in microscopiche bombe intelligenti, più potenti di qualsiasi altra arma mai costruita”
“Da quel momento la legge del profitto condizionò pesantemente le strategie di ricerca e le scelte normative. … Quando arrivarono i primi brevetti concernenti gli esseri viventi (1980), fu chiaro che fermare la sperimentazione bio-genetica sarebbe stata un’impresa disperata … [per] la difficoltà di distinguere tra usi offensivi e difensivi della ricerca biotecnologica e l’enorme business derivante dalla rivoluzione biotech. Ma anche e soprattutto per la quasi impossibilità di porre un confine netto tra la ricerca biotech finalizzata alla messa a punto di vaccini e di altri importanti presidi terapeutici e le sue applicazioni in campo militare: … i controlli in questo campo sarebbero non solo inaccettabili per migliaia di laboratori di ricerca e per le multinazionali che hanno investito miliardi di dollari in questo settore, ma praticamente impossibili, visto che la produzione del “nucleare dei poveri” non richiede particolari strutture (un bioreattore per la costruzione di germi micidiali ha dimensioni estremamente ridotte, al punto che potrebbe essere trasportato in un furgone) … vista la facilità con cui è oggi possibile acquistare (per corrispondenza!) microrganismi patogeni e indurre in essi micidiali modifiche.”
“Abbiamo sottolineato il probabile ruolo svolto dalla Big Pharma e dalle imprese biotech nel cambiamento di strategia che avrebbe indotto gli USA a boicottare la Convenzione sulle armi biologiche. Nel caso della SARS (e dell’Aids) il problema è analogo: se le guerre biologiche non possono essere fermate perché comandano la Big Pharma e la Monsanto, le epidemie rischiano di dilagare perché comandano le Corporations in genere. … da quando gli esperimenti su virus e altri vettori genetici sono di routine nei laboratori di tutto il mondo, le malattie da nuovi virus sono diventate un problema drammatico ed enormemente sottovalutato.”
La grande “biotecnologa pentita” Mae Wan Ho ha sottolineato con forza
“la pericolosità di simili manipolazioni, oggi di routine in migliaia di laboratori, in grado di creare in pochi minuti milioni di particelle virali mai esistite nei quattro miliardi di anni di evoluzione che ci hanno preceduto e in grado di ‘saltare’ da un ospite all’altro. […] sul banco degli imputati è l’ingegneria genetica in quanto ‘tecnologia finalizzata a trasferire orizzontalmente i geni tra specie non destinate a incrociarsi tra loro’. Il che equivale a dire che i pericoli per l’intera biosfera, non derivano da un cattivo uso del biotech, e cioè dal bioterrorismo e dalle guerre biologiche, ma da una tecnologia che infrange deliberatamente le barriere specie-specifiche che la Natura ha costruito a difesa delle singole specie viventi.” [corsivo mio]
“[…] se ciò che rende più invasive e pericolose di tutte le altre le armi biologiche, e in particolare i virus geneticamente modificati è il loro essere semplici frammenti di codice genetico circolanti e, quindi, la loro capacità di parassitare gli esseri viventi, di competere con essi e, in taluni casi, di inserirsi nel loro genoma modificandolo, è evidente che l’inquinamento genetico del pianeta, da parte di centinaia di varietà di organismi geneticamente modificati (Ogm) è già in atto da anni e rappresenta una vera guerra non dichiarata all’intera biosfera. Un pericolo immenso, forse il maggiore pericolo mai corso dall’umanità e del tutto non prevedibile, almeno in tempi brevi.”
In definitiva, stiamo arrivando all’ultimo stadio, assolutamente incontrollabile, di un progetto esasperatamente scientista, con il quale possiamo arrivare a perdere del tutto il controllo su quei processi naturali che il progetto si prefiggeva di controllare e manipolare a piacimento!
“Nessuno può oggi affermare con sicurezza che gli effetti e i prodotti delle biotecnologie con finalità sulla carta ‘buone’ non si rivelino, specie nel medio-lungo periodo, altrettanto pericolose di quelle con finalità ‘cattive’. [corsivo mio] […] Le Life Science Industries, la Big Pharma e le grandi corporations hanno investito miliardi di dollari nel biotech, nella convinzione che gli scienziati abbiano ormai le conoscenze, gli strumenti e i mezzi necessari a trasformare la biosfera e la società mondiale a propria immagine e somiglianza. Il programma era ed è quello di mettere le mani sul codice stesso della vita, per correggerne i ‘difetti’ e giungere ad una nuova creazione ‘perfetta’, cioè adattata alle nostre o meglio alle loro esigenze: … un vero e proprio ‘delirio di onnipotenza’. … da progetto di bio-dominio globale, il progetto dei biotech-scientists e delle corporations … rischia di trasformarsi in una global-bio-war combattuta da un nemico infinitamente sfuggente, elusivo, pervasivo … un esercito di organismi geneticamente modificati che, messo a punto in migliaia di laboratori, distribuito in ospedali, farmacie, supermercati e mercati dei sei continenti. sta colonizzando il pianeta.”
Se la tecnica è venuta a costituire una “seconda natura” artificiale, un diaframma rispetto alla Natura, le biotecnologie costituiscono “una “Nuova Creazione”, una sorta di neo-biosfera sempre più artificiale, popolata di organismi creati in laboratorio, selezionati per fini di profitto e brevettati: una realtà povera (sul piano biologico) e quindi fragile, squilibrata e priva di quei fondamentali meccanismi di autoregolazione e feed-back che ne hanno garantito per miliardi di anni l’esistenza e l’evoluzione.”
Queste considerazioni sono certamente insufficienti, ci sarebbero tanti altri aspetti da analizzare: il punto che mi interessa sottolineare è che esse confermano l’importanza di tenere fermo il riferimento al rapporto fra l’Uomo e la Natura, proprio quando l’Uomo-scienziato, in ossequio ad interessi capitalistici ben precisi e ai poteri forti, si attribuisce capacità di super-Uomo e si arroga prerogative proprie della Natura, intervenendo sui suoi meccanismi più profondi e delicati con la presunzione di poterli piegare ai propri scopi (di profitto). E proprio quando il fine è sempre più l’appropriazione da parte di quella classe sociale che “si ritiene, fin da principio, proprietaria della natura” (di nuovo citazione di Marx in nota 8), è fondamentale mantenere ferma la caratterizzazione del rapporto Uomo Natura nei termini dei rapporti di classe nella società.
In un momento storico nel quale l’incubo di un’Apocalisse nucleare è più drammatico che in tutta la storia umana passata, e si intreccia con disastri umanitari, fiumane migratorie bibliche, sfruttamento selvaggio del lavoro e della Natura, crisi climatica globale, mi sembra che i richiami alla sensibilizzazione e mobilitazione sui singoli problemi rischino di rimanere succubi delle fobie securitarie dilaganti e della settorializzazione delle lotte, e che solo un risveglio pieno (per quanto poco verosimile) della coscienza di classe sarebbe in grado di costruire un’alternativa collettiva capace di contrastare efficacemente la tendenza autodistruttiva.
E qui l’importanza dell’eredità di Marx rimane di estrema attualità e importanza.