Automobile
Quale futuro avrà l’automobile, la “cosa” che ha caratterizzato l’intero Novecento e la cui industria, all’inizio del XXI secolo, mostra segni di una crisi che mette in pericolo il posto di lavoro di migliaia di famiglie in Italia, forse di centinaia di migliaia di famiglie nei paesi avanzati?
Al di là delle alchimie finanziarie, un’industria sopravvive se produce una merce che si vende e il destino dell’automobile è segnato da tempo: il suo mercato è saturo: ogni famiglia può possedere un’automobile, forse due automobili, alcune famiglie possono possederne tre, ma, per quanto aumenti la pressione dei venditori, l’acquirente non saprà più neanche dove mettere altre automobili.
Sono sature le città; le strade urbane possono sopportare una certa quantità di automobili in movimento o ferme, hanno, insomma, per citare una analogia biologica, una capacità ricettiva limitata. Quando le automobili ingombrano le strade in numero superiore a quello che le strade possono accogliere, si arriva dapprima a situazioni caotiche (non a caso i fenomeni di caos sono stati scoperti osservando che cosa succede quando una popolazione di animali supera la capacità ricettiva del territorio) e poi alla paralisi.
I segni del collasso del mercato dell’automobile sono evidenti da molti anni; perfino un “uomo Fiat”, come Aurelio Peccei, nel 1971, aveva scritto un articolo intitolato “Il crepuscolo di un idolo”, pubblicato in Francia e adesso tradotto anche nel fascicolo del novembre 2002 della rivista “Capitalismo Natura Socialismo CNS“.
Le soluzioni sono chiare da tempo: la mobilità è un diritto, anzi una forma di libertà e democrazia, ma può essere ottenuta a condizione che non generi congestione, che non sia pagata con la perdita di salute per avvelenamento dell’aria, che non comporti sprechi di energia, che il mezzo di trasporto, alla fine della sua vita utile, non sia un insopportabile e ingombrante rifiuto. Per soddisfare queste condizioni l’automobile privata è la merce sbagliata.
Peccei, nell’articolo citato scriveva: “Prima che lo stadio di saturazione si estenda a tutti i paesi industrializzati, bisogna procedere a profonde modificazioni delle città. L’automobile vive i suoi ultimi anni di gloria in quanto bene personale, proprietà privata, espressione di uno status sociale. Non c’è dubbio che l’automobile individuale, che utilizziamo due o tre ore al giorno, che occupa spazio e inquina le aree geografiche in cui passiamo la parte più importante della nostra vita è un anacronismo. L’automobile deve diventare semplicemente un bene d’uso con le seguenti caratteristiche: massima sicurezza; minimo inquinamento, minimo ingombro. Le formule che sostituiranno l’automobile-proprietà-privata possono essere varie: dagli autobus che circolano su percorsi fissi a microbus a itinerario variabile.
“Nell’immediato è probabile che prevalga, per l’urgenza del problema, il trasporto collettivo. La fuga dai centri delle città che si osserva negli Stati Uniti si verificherà presto anche in Europa se non migliorano le condizioni di trasporto. Lo spazio occupato dai trasporti collettivi è infatti 25 volte inferiore, per persona trasportata, a quello richiesto dai mezzi di trasporto privati. E’ evidente che questo cambiamento di mentalità nei confronti dell’automobile richiederà anche delle profonde modificazioni nella progettazione e costruzione delle automobili, in funzione dei differenti bisogni che si hanno nelle città o nei percorsi lunghi: ci saranno due o tre modelli di autoveicoli, molto semplici e quanto più possibile standardizzati.
“Se questa razionalizzazione della produzione attraverso il mondo si afferma, come conseguenza di una situazione divenuta troppo costosa, anche l’industria automobilistica subirà delle grandi trasformazioni nel senso di una migliore suddivisione della produzione di una grande specializzazione. I grandi centri attuali di produzione – Detroit, Torino, la periferia parigina – saranno decongestionati. Produrranno meno ma guadagneranno in qualità dedicandosi alla ricerca e alla sperimentazione dei nuovi mezzi di trasporto. La trasformazione dell’automobile in bene d’uso renderà necessari perfezionamenti nella costruzione. Sul piano tecnico si è raggiunta una soglia: non è più importante arraffare qualche secondo di più ai margini di produttività che possono ancora sussistere. Sui criteri di microefficienza prevarranno delle considerazione di macro-razionalizzazione”.
Nonostante questi avvertimenti fatti, ripeto, da un grande manager della Fiat trent’anni fa, l’industria dell’automobile in Italia ha continuato a produrre la merce sbagliata procacciandosi strumenti pubblici per immettere altre automobili in un mercato e in città ormai saturi. Si è cominciato dai cosiddetti incentivi alla rottamazione, con la scusa che “occorreva” eliminare dalla circolazione le automobili più vecchie che inquinavano di più. La vendita di altre automobili era spacciata per operazione ecologica, senza tenere conto che comportava costi privati e collettivi, per l’aumento della congestione urbana e per lo smaltimento di crescenti quantità di rottami, inquinanti nella fase di deposito, inquinanti nella fase di recupero di alcune delle componenti. Se poteva esserci una diminuzione dell’inquinamento dovuto all’eliminazione delle “vecchie” automobili, questo era grandemente neutralizzato dall’aumento dell’inquinamento atmosferico dovuto al fatto al movimento disordinato e congestionato di molto più numerose automobili “nuove”. Fino alla ridicola soluzione degli “ecoincentivi” che prevedono la sostituzione e distruzione perfino degli autoveicoli “catalizzati” spacciati fino a ieri per “ecologici”.
Enormi quantità di denaro sono state investite nella diversificazione e personalizzazione dei modelli, quando gli sforzi avrebbero dovuto essere concentrati nella standardizzazione e nella progettazione in vista del successivo riciclo.
“Fiat” è nome che significa, per milioni di italiani, impresa, innovazione, lavoro, liberazione dalla miseria nel Mezzogiorno, crescita di classe e cultura operaia. Fiat significa capacità di produrre qualsiasi manufatto che possa soddisfare bisogni umani, dai mezzi di trasporto collettivi, dalle macchine per la lavorazione della terra e la movimentazione di materiali, da autoveicoli adatti alle condizioni di trasporto nei paesi del sud del mondo.
A mio modesto parere la salvezza dell’impresa e dell’occupazione può venire soltanto dalla ripresa dell’orgoglio per il fabbricare nuove cose sotto i nuovi vincoli della diminuzione dei consumi di energia e del miglioramento delle condizioni ambientali, nazionali e planetarie, dalla rinascita di una genuina cultura industriale e operaia, basata sulle cose e non sulle futili e frivole immagini.