Beni comuni vs capitalismo. Un paradigmi a confronto

Beni comuni e bene comune

Beni comuni è una espressione inflazionata, riemersa dalla notte dei tempi agli inizi del Terzo Millennio nella crisi del neoliberismo, come uno strumento utile a contrastare la privatizzazione e l’appropriazione del mondo da parte del capitale nelle sue due espressioni storiche – Stato e Mercato: come uno strumento capace di evitare che beni, servizi e rapporti sociali cessino di essere valori d’uso e siano mercificati, e cioè trasformati in valori di scambio per il profitto da realizzare sul mercato capitalistico degli equivalenti. Ovviamente i beni comuni esistevano anche quando non se ne parlava, nei due-tre secoli dopo la loro cancellazione con la Rivoluzione industriale che li ha considerati come un ostacolo al progresso e allo sviluppo, un lascito indesiderato del passato da superare più in fretta possibile – come è accaduto all’agricoltura contadina nel secolo scorso. La loro riemersione è segno di una vitalità nuova di opposizione diffusa alla distruttività del capitalismo, ma soffre di un vuoto di conoscenza e di memoria storica, e questo favorisce il fiorire di interpretazioni diverse e talvolta opposte, che possono creare confusione e ritardare l’affermarsi dell’alternativa. Una di queste confusioni è quella tra “il bene comune”, che non è il singolare di beni comuni ed esprime invece l’interesse generale o il benessere; ma non una struttura materiale, come una risorsa naturale o uno spazio fisico, come sono i beni comuni.

Il neoliberismo e la privatizzazione dei beni comuni

Storicamente, la ripresa di interesse per i beni comuni risale alla crisi del neoliberismo, che ha fatto fare un ulteriore e significativo salto di scala alla distruttività del sistema capitalistico, dopo i precedenti salti di scala come quello del consumismo o consumo di massa del secondo dopoguerra che ha promesso la società dell’abbondanza nascondendone il lato oscuro – dall’aumento incontrollato dei rifiuti o scarti, al depauperamento delle risorse naturali usate oltre la loro “capacità di carico”, alla separazione sempre più marcata tra produzione per il soddisfacimento dei bisogni e produzione per l’aumento del profitto, allo spreco di risorse incluso quelle essenziali alla vita sul pianeta, alla rottura dei rapporti sociali, alla de-responsabilizzazione sociale dell’impresa (che ha delocalizzato nel mondo il ciclo di produzione di merci e servizi, rendendo possibile licenziare per email i lavoratori delle aziende del ciclo catena quando il loro profitto scende al di sotto del target prefissato dall’azienda madre).

Il capitalismo finanziario

Nella fase di attuale crisi del capitalismo finanziario, la proposta dei beni comuni come ordine sociale e istituzionale alternativo a quello del capitalismo non è più solo l’auspicio di studiosi e attivisti ma una necessità storica per arginare il saccheggio della natura e l’imbarbarimento sociale: il cambiamento climatico, la fame e la morte per fame di oltre un miliardo di persone, l’insicurezza alimentare, le malattie causate dall’uso di sostanze nocive in agricoltura e nell’industria, le leucemie e malformazioni causate dall’energia nucleare civile e militare, l’inquinamento dell’acqua, dell’aria e delle catene trofiche, le nuove povertà, la disoccupazione specie dei giovani, l’esclusione e la marginalità sociale. Il finanzcapitalismo, come il sociologo Luciano Gallino ha definito questa fase della crisi, è una megamacchina (nel senso definito a suo tempo da Lewis Munford) sviluppata per “massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e di potere, il valore estraibile sia dal maggior numero possibile di esseri umani sia dagli ecosistemi”. In questo, essa supera tutte le precedenti megamacchine perché “si estende sull’intero pianeta e penetra in modo capillare in tutti gli strati della società, della natura e della persona”. La deriva finanziaria del capitalismo appare ancora più gravida di conseguenze negative quando si osserva che i paesi emergenti del Sud del mondo – India, Cina, Brasile e Sudafrica – seguono lo stesso percorso di sviluppo del Nord, incuranti sia del suo fallimento sia del prezzo che così addossano sulle popolazioni locali, in lotta contro la loro spoliazione.

 Cause e soluzioni della crisi finanziaria globale

Nella discussione pubblica, le cause della crisi finanziaria sono attribuite all’eccesso di spesa pubblica, alla scarsa produttività del lavoro, e soprattutto alla “mancata crescita” capitalistica, così come le soluzioni proposte vanno dalla privatizzazione delle utilities e dei servizi locali, alle grandi infrastrutture, alla svendita del patrimonio culturale, agli eurobonds – tutto a sostegno della crescita senza precisare di che cosa: la crescita è infatti l’imperativo degli economisti keynesiani e liberisti, così come dei politici, anche (soi disant) di opposizione. Tutti sappiamo che la verità è un’altra: in Occidente gli Stati non riescono più a pagare gli interessi sui debiti contratti per la loro politica di potenza (le guerre, l’esportazione del modello occidentale di sviluppo, le politiche razziste e xenofobe di immigrazione dal Sud), per la rete di corruzione sempre più estesa del settore pubblico oltre che di quello privato, per le scelte sbagliate e per le mancate scelte di politica economica e di politica ambientale, che provocano entrambe disastri naturali, sociali ed economici, indennizzati a posteriori senza mai affrontarne le cause di fondo. I governi dell’Occidente hanno consegnato l’economia prima alle multinazionali prima e dopo alla finanza e ai mercati: grandi patrimoni, grandi banche, fondi di investimento, fondi pensione, assicurazioni – speculatori di professione, come li chiamava Keynes – 10 milioni di persone, secondo stime recenti delle Nazioni unite, che decidono le sorti di 7 miliardi di persone. Gli Stati di tutti i paesi occidentali, e soprattutto europei, tentano ora di scaricare il prezzo dei loro errori sui pensionati e sui lavoratori a reddito fisso, sugli studenti, sui malati e sui Comuni, che dovrebbero essere il presidio della democrazia: ma la democrazia è da tempo incompatibile con le richieste dei mercati e con il capitalismo.

 Di che parliamo quando parliamo di beni comuni

I beni comuni sono innanzitutto quelli legati alle risorse naturali necessarie alla sopravvivenza di tutti gli esseri viventi sulla terra, umani e non, e cioè all’acqua, all’aria, alla terra e al fuoco-energia, i quattro elementi vitali di Empedocle, il filosofo vissuto nel quarto secolo a.C. Ciascuno di questi elementi è molte cose insieme, in particolare la terra è terra fertile da coltivare, biodiversità, pascoli e foreste, ma anche suolo su cui costruire, risorse del sottosuolo, etc.; l’acqua è indispensabile alla vita e in quanto tale è un diritto umano ma è anche necessaria a tutte le produzioni agricole e industriali, oltre ad essere la linfa vitale della terra. Vi sono poi anche altri beni comuni come quelli culturali che non sono legati direttamente alle risorse naturali e sono invece il frutto della interazione tra l’uomo e la natura come il paesaggio, i beni artistici e il patrimonio culturale. Altri beni comuni sono i servizi pubblici e quelli di welfare – l’acqua potabile e i servizi igienici nelle abitazioni, i trasporti collettivi, la scuola e gli ospedali, costruiti nel corso del tempo con il risparmio e il lavoro dei cittadini. Esistono infine altri beni comuni detti della conoscenza, che includono i saperi, internet, i creative commons e wikipedia, il variegato mondo digitale e non della comunicazione.

 La sussistenza

Nel mio libro recente, Beni vs Merci, che è alla base della mia riflessione anche in questa sede, mi occupo soprattutto dei beni comuni di sussistenza, quelli legati alla natura non perché penso che gli altri beni comuni sono meno importanti ma perché sono convinta che ogni categoria di beni comuni ha una sua specificità e deve essere analizzata a partire dal suo statuto, evitando semplificazioni che non aiutano né a capire né a favorire il cambiamento di paradigma da tutti auspicato a fronte della distruttività del capitalismo nella sua fase di sistema finanziario, che produce ricchezza di carta. Una seconda ragione di questa scelta sta nel fatto che i beni comuni naturali o di sussistenza riguardano tutti – ricchi e poveri, nei paesi del Nord e in quelli del Sud. Per vivere (e stare in buona salute) tutti abbiamo o avremmo bisogno di aria pura e di acqua non inquinata, di una porzione anche se piccola di terra su cui vivere e costruirsi una casa, di energia e di fuoco per cucinare e accedere agli altri beni comuni come i trasporti o internet. Ma acqua, aria, terra e fuoco non si producono in laboratorio perché sono la vita stessa, un dono gratuito della natura a tutti noi. Se l’attività degli uomini distrugge questo dono, cessa la vita sulla Terra come è già successo a molte comunità e civiltà in passato. La sussistenza cambia nel tempo e nello spazio perché è storicamente determinata: ma la base cu cui si fonda non è opera dell’uomo bensì della natura. Si può dunque affermare che “Nessuno può fare a meno della natura”.

 Un po’ di storia

In passato in Europa, e ancora oggi in molte parti del Sud del mondo e in alcune parti dell’Europa – come racconta Elinor Ostrom, la studiosa americana premio Nobel per l’economia nel 2009 – i beni comuni di sussistenza sono risorse naturali come ad esempio un campo che una comunità coltiva in regime di autogestione senza averne la proprietà; la comunità ne è solo usufruttuaria, e proprio per questo usa il bene in modo sostenibile senza esaurirlo, contrariamente a quel che accade nel regno delle merci; i beni comuni di sussistenza possono essere anche diritti d’uso collettivi sui frutti derivanti da un bene naturale come gli usi civici in Italia. In entrambi i casi, i beni comuni di sussistenza esprimono una forma di organizzazione sociale e produttiva basata sulla comunità, diversa e alternativa a quella del mercato capitalistico perché nell’ambito della comunità le persone tendono a prendere decisioni che non mirano solo al profitto, come dimostrano gli studi di caso condotti dalla Ostrom. Questa forma di organizzazione sociale e produttiva si fonda sulla partecipazione dal basso alla cosa pubblica mette in discussione la democrazia di mandato la dicotomia Stato-Mercato e il potere burocratico e parassitario di questi due soggetti. Questa forma di organizzazione è stata la norma in Europa per diversi secoli ed è ancora una realtà importante nei paesi in ritardo di sviluppo del Sud, dove un terzo circa della popolazione mondiale vive e sopravvive grazie ad essa, secondo stime delle Nazioni Unite.

I beni comuni oggi: una proposta

Noi cittadini del Nord non ne siamo consapevoli, ma i beni comuni e le comunità esistono anche nelle città e nelle metropoli del Nord, non certo nella forma delle comunità di villaggio medievali ma come movimenti/comitati che si organizzano e lottano per la difesa del territorio e della salute, per la scuola pubblica e per una corretta gestione dei rifiuti, per l’acqua pubblica e per i servizi pubblici locali come si è visto nei recenti referendum su acqua, servizi pubblici locali, energia nucleare, che hanno mobilitato il paese per mesi, e hanno conquistato il consenso di quasi 28 milioni di elettori. La battaglia non è certo vinta una volta per tutte, e del resto nessuno si illude che la gestione “pubblica” dell’acqua trasformi l’acqua in bene comune, autogestito dagli utilizzatori. E’ una vittoria che rischia di essere svuotata di significato già il giorno dopo le votazioni, perché i cittadini non hanno più potere dopo il voto, quando la realizzazione dei risultati del voto passa nelle mani delle burocrazie di partito. Per evitare che ciò accada, occorre riconoscere ai cittadini, organizzati in comitati e movimenti, la sovranità di co-decidere – insieme alle altre istanze come i governi locali – sulla destinazione della risorsa in tutto il suo ciclo di vita, a monte e a valle. L’esempio del comitato della Val di Susa, che da vent’anni lotta contro la costruzione di una linea ferroviaria ad altra velocità, è un caso emblematico di questo problema: occorre cambiare le leggi in modo che i comitati come quello della Val di Susao possano sedersi al tavolo della trattativa avendo lo stesso potere delle autorità locali, nazionali ed europee. E’ questa la proposta che nel mio libro ho definito “il ritorno dei beni comuni”, che va ben oltre la loro riappropriazione, rivendicata in tutte le parti del Sud del mondo dalle popolazioni locali. Come dice Boaventura de Sousa Santos al punto quattro della “Lettera alle sinistre” allegata alla presente, “L’esperienza dimostra che nel mondo esistono numerosissime realtà non capitalistiche, che chiedono di essere riconosciute come il futuro dentro il presente”.

 Lo “sviluppo” locale

Un aspetto particolarmente importante a favore del paradigma dei beni comuni riguarda la valorizzazione del locale, che il capitalismo svilisce e distrugge. Il relatore speciale per il diritto al cibo delle Nazioni Unite, Oliver De Schutter, ha sostenuto nel suo rapporto all’Assemblea generale del dicembre 2010 che l’agricoltura organica locale permetterebbe di raddoppiare la produzione agroalimentare dell’Africa in un periodo compreso tre 3 e 10 anni. L’agricoltura è un esempio emblematico di questa questione: rispetto all’agricoltura monoculturale delle multinazionali, l’agricoltura locale riduce la distanza tra produzione e consumo facendo, riduce sensibilmente la produzione di CO2, garantisce il valore nutritivo dei cibi, contribuisce alla difesa idrogeologica del territorio e al mantenimento della fertilità dei suoli, alla sicurezza e alla sovranità alimentare e alla conservazione della biodiversità, che è alla base della vita sul pianeta. La produzione locale valorizza inoltre l’intelligenza, l’energia e i saperi delle popolazioni locali che conoscono meglio di qualsiasi tecnico della Banca mondiale le potenzialità produttive del loro territorio e le attitudini delle comunità locali. La maggior parte dei fallimenti dei programmi di sviluppo e cooperazione verso i paesi del Sud dipende proprio dal dirigismo astratto e predatorio con cui i tecnici si rapportano alla popolazioni locali, come se esse fossero “ignoranti” e inferiori. Quei programmi esprimono solo gli interessi delle multinazionali e dei governi del Nord, non quello delle popolazioni locali: dicono di valorizzare i beni comuni locali, e invece li distruggono.

Paradigmi a confronto

Il primo paradigma – quello dei beni comuni – permette di riunificare produzione e consumo, che il mercato capitalistico ha drammaticamente separato;

permette di produrre beni e servizi che non sono merci;

non distrugge le risorse naturali ma le usa in modo sostenibile;

è basato sulla cooperazione e non sulla competitività

misura la produttività in base al soddisfacimento dei bisogni e non alla max del profitto;

 non produce scarsità, neanche quando le risorse sono finite e non riproducibili;

nella comunità, le persone tendono a prendere decisioni che non mirano solo al profitto

opera in regime di autogoverno, e permette quindi la partecipazione dei cittadini alla formazione delle scelte politiche che li riguardano;

rompe pertanto la dicotomia soffocante Stato-Mercato.

Nessuno è tuttavia tanto ingenuo da pensare che la gestione delle risorse naturali da parte delle popolazioni locali sia di per sé sufficiente a far funzionare un società complessa come quella oggi prevalente, rendendolo il paradigma dei beni comuni totalmente alternativo al paradigma del capitalismo: vi sono scelte politiche che richiedono un livello decisionale superiore a quello locale, e al momento non è chiaro come sarà risolto questo problema. Oggi non lo sappiamo. Quel che sappiamo è che la forze, le idee e la determinazione per avviare la transizione non possono venire che dal movimento carsico che in tutto il mondo impegna milioni di persone alla ricerca di un mondo diverso. Se il processo avrà un seguito, è possibile che spezzoni delle attuali classi dirigenti siano disponibili a sostenerlo – ma non saranno loro ad innescare il processo (Guido Viale su il manifesto, 17 agosto 2011).

La riconversione ecologica della società e la riterritorializzazione dei mercati

Il cambiamento di paradigma si realizzerà in molti modi, primo tra tutti – specie nei paesi industrializzati dell’Occidente – attraverso la riconversione ecologica dei settori più sensibili come quelli in crisi perché producono beni obsoleti com’è l’automobile nel quadro attuale della mobilità; le energie rinnovabili non inquinanti e decentrate sul territorio; l’agricoltura organica e contadina; la cura e la manutenzione del territorio, oggi ridotto a merce edificatoria. Ma la riconversione non va intesa come un progetto deciso a monte dallo Stato (la pianificazione), ma come un processo dal basso, avviato fabbrica per fabbrica, territorio per territorio, campo per campo. La riterritorializzazionde dei mercati non è un obiettivo deciso da qualche autorità centrale o locale, ma una scelta consapevole dei cittadini che si difendono dalla distruttività del capitale e dei mercati. I beni comuni di sussistenza sono locali per definizione; la loro forza e capacità di resistere nel tempo, nonostante tutti i tentativi di eliminarli, sta proprio nella loro diversità e nella flessibilità con cui le comunità sono capaci di adattarsi al contesto in cui operano. I soggetti del cambiamento, da cui trarre le idee e la forza per innescare il cambiamento, vanno identificati paese per paese, vista la diversità esistente tra di essi. Nel caso dell’Italia, i soggetti che animano i movimenti sono gli operai delle fabbriche in crisi, gli studenti, i giovani disoccupati, le donne, i cittadini in lotta contro i rifiuti e l’alta velocità ferroviaria, quelli colpiti oggi dalla manovra economica decisa dal governo per “salvare” il paese.

Bibliografia minima

Zygmunt Barman, Voglia di comunità, Roma-Bari, Laterza 2001.

Piero Bevilacqua, Il grande saccheggio. L’età del capitalismo distruttivo, Roma-Bari, Laterza 2011.

Boaventura de Souza Santos, Lettera alle Sinistre, Carta Maior, 29 agosto 2011.

Luciano Gallino, Finazcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Torino, Einaudi 2011.

Elinor Ostrom, Governare I beni collettivi, Venezia, Marsilio 1990 e 2006.

Elinor Olstrom, Cooperating for the Public Good: Self-Governance, Polyentricity and the Commons, ciclostilato.

Giovanna Ricoveri, Beni comuni vs Merci, Milano, Jaca Book 2010.

Giovanna Ricoveri, a cura di, Beni comuni tra tradizione e futuro, Bologna, Emi 2005.

Guido Viale, Vari saggi sul suo blog (guidoviale.blogspot.com) e sul quotidiano «il manifesto».