Bioeconomia una, due, tre…: la bioeconomia secondo Giorgio Nebbia

Come testimonia la lettera ricevuta da Giorgio Nebbia datata 18 ottobre 1988 pubblicata in appendice, il termine “bioeconomia” è stato usato per la prima volta da Nicholas Georgescu-Roegen (1906-1994) in una conferenza tenuta nella Yale University, nel Connecticut, l’8 novembre del 1972. Qualche mese prima un accademico cecoslovacco aveva usato “bio-economics” per qualificare la particolare visione dell’economia come estensione della biologia dell’economista rumeno e Georgescu-Roegen si era reso conto che questo termine era una buona etichetta per le sue tesi, iniziando così ad utilizzarlo.

Prima dell’economista rumeno, il termine bioeconomia era stato utilizzato, già a partire dagli anni Venti, da alcuni biologi marini per definire un comparto di indagini molto specifico, quello dello sfruttamento ottimale delle risorse ittiche. Nulla di paragonabile, quindi, alla ampia prospettiva epistemologica dell’economista rumeno.

Il 1972 fu un anno eccezionale per l’ecologia. Fu l’apogeo di un movimento che, partendo da una disciplina scientifica, l’ecologia, assunta a nuova visione del mondo, ovvero a paradigma, metteva radicalmente in discussione ogni aspetto della conoscenza, della tecnica, della società, dell’economia e della politica. Il movimento a livello sociale aveva mosso i primi passi con Silent Spring del 1962 e, nel contesto più generale della guerra in Vietnam e del movimento di contestazione giovanile, aveva raggiunto il suo momento di massima popolarità con l’immagine della Terra scattate dalle navicelle delle missioni Apollo (1968), il disastro petrolifero di Santa Barbara (1969), il primo Earth Day (1970), la pubblicazione da parte del Club di Roma di Limits to Growth dei coniugi Meadows e la Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano di Stoccolma (1972).

Georgescu-Roegen iniziò ad usare “bioeconomia” proprio in quel 1972 (anno che Giorgio Nebbia amava chiamare la “primavera dell’ecologia”) qualificando con questo termine la propria visione del processo economico, basata sulla termodinamica e l’ecologia, elaborata in contrasto con la visione dominante, fondata sulla meccanica.

Il lavoro critico del matematico ed economista rumeno all’interno della teoria economica standard, quella neoclassica, era partito molti decenni primi e Georgescu-Roegen, già nel lontano 1934, con il suo lavoro “La teoria pura del comportamento del consumatore”, aveva smascherato, in quanto assolutamente irreali, gli assiomi di base di quella “razionalità economica” avente come fine la massimizzazione dell’utilità personale sui quali si regge l’intero edificio teorico dominante.

Ho sempre pensato, fin da giovane studente, che sia proprio la devastante critica logico-matematica alla teoria del consumatore la parte più scomoda per il mainstream del lavoro di Georgescu-Roegen. La parte successiva del lavoro scientifico dell’economista rumeno, la sua riflessione epistemologica e la sua bioeconomia, nonostante gli elogi di economisti del calibro di Paul Samuelson, venne di fatto ignorata, ricevendo scarsissima attenzione, nessuna critica esplicita, “soltanto un pacato e gentile silenzio” come disse lo stesso Georgescu-Roegen, o quel fin de non recevoir di cui Stefano Zamagni ha parlato per definire la riposta del mondo accademico al pensiero critico dell’economista rumeno.

Dopo la breve stagione della primavera dell’ecologia, la bioeconomia di Georgescu-Roegen, che nella sostanza implicava il passaggio da una visione dell’economia intesa come un meccanismo astorico, autosufficiente, “circolare” ed isolato ad una visione dell’economia come un processo storico ed irreversibile collegato ad un determinato ambiente naturale e culturale, rimase di fatto ignorata dal mainstream, pur dando avvio ad una scuola di pensiero marginale ed eterodossa nota anche come “economia ecologica”.

In Italia uno dei primi studiosi ad accogliere l’appello di Georgescu-Roegen ad una rifondazione degli studi di economia su basi ecologiche è stato Giorgio Nebbia. Nebbia fin dalla prima metà degli anni Settanta fu in contatto con l’economista rumeno, il cui modello di analisi del processo economico a “fondi e flussi” certamente influenzò la sua ricerca di una contabilità delle merci e dei rifiuti su basi fisiche, ovvero quell’analisi del ciclo di vita delle merci a cui Nebbia amava riferirsi come il “sistema natura-merci-natura” o come la “storia naturale delle merci”.

Dal punto di vista della teoria bioeconomica, i contributi principali di Giorgio Nebbia sono contenuti nei suoi lavori “La Bioeconomia: somiglianze e diversità tra fatti economici e fatti biologici” del 1989 e “Ecologia ed Economia” del 2000. Già il primo lavoro del 1989 si apre con una breve analisi sui molti significati della parola bioeconomia, dove Nebbia distingue tra la bioeconomia di Georgescu-Roegen e quella dei primi studiosi delle risorse rinnovabili.

Nonostante questi primi e diversi usi del termine e l’interesse di alcuni studiosi tra cui in Italia Giorgio Nebbia, dagli anni Ottanta alla fine del Novecento la parola bioeconomia, per il carattere sgradevole del pensiero roegeniano, rimase di fatto esclusa della discussione economica e politica dominante.

Verso la fine degli anni Novanta, però, due accademici ed uomini di affari statunitensi, Juan Enriquez e Rodrigo Martinez, cofondatori del Life Science Project presso la Harward Business School, iniziarono ad usare il termine “bioeconomy” per qualificare la prospettiva di una trasformazione dell’economia mondiale promossa dal flusso continuo di innovazioni nel campo delle biologia molecolare che erodendo i confini tra industria farmaceutica, agro-industria e chimica di base, avrebbe forzato le più grandi aziende mondiali a reinventare i propri modelli di business, creando nuove alleanze o megafusioni basate su una logica di blocco dei brevetti.

All’inizio degli anni Duemila, inoltre, in alcuni istituti tedeschi di ricerca si iniziò ad utilizzare il termine bioeconomia anche per identificare la prospettiva della trasformazione dell’economia industriale volta alla sostituzione delle risorse di origine fossili con la biomassa, attraverso il passaggio dalle raffinerie alle bioraffinerie.

Dopo il 2005, le due nuove accezioni di bioeconomia, quella americana che poneva l’accento sulla biotechonomy e quella europea che poneva l’accento sulla bio-based economy, si integrarono in un concetto di bioeconomia che venne diffuso con sempre maggior forza a livello delle agende politiche nazionali ed internazionali. In alcuni casi, all’interno di queste agende politiche, la bioeconomia viene presentata come un macro settore dell’economia che ingloba l’agricoltura, la pesca, la gestione forestale.

Contemporaneamente a questo processo di diffusione e metamorfosi del termine, la bioeconomia di Georgescu-Roegen riacquisì popolarità ed interesse all’interno dei lavori dei teorici della decrescita, come Serge Latouche e Mauro Bonaiuti, che individuarono nell’economista rumeno l’antesignano di quella prospettiva de-sviluppista da essi prospettata come unica via al conseguimento di una economia ecologicamente e socialmente “sostenibile”, protesa fondamentalmente sull’annichilimento dello scambio mercantile, e quindi della merce.

Più recentemente, dal 2012 in poi, in Italia alcuni rappresentanti dell’industria delle biotecnologie, come Mauro Bonaccorso, e alcuni responsabili di Legambiente, come Beppe Croce e Stefano Ciafani, hanno cercato di individuare nel pensiero di Georgescu-Roegen la base teorica della bioeconomia, da essi intesa come strategia di crescita sostenibile a cui oggi viene collegato con sempre maggiore insistenza il concetto di “chimica verde” ed “economia circolare”.

Il “dialogo sulla bioeconomia” con Giorgio Nebbia nacque appunto da questa situazione che io personalmente sentivo come molto confusa. Da un lato non condividevo l’interpretazione anti-sviluppista di Georgescu-Roegen fatta dai teorici della decrescita, dall’altra non mi sembrava corretto fondare la bioeconomy, intesa nuova strategia di business sostenibile basata sui brevetti biotecnologici, sul pensiero dell’economista rumeno.

Georgescu Roegen del resto era stato allievo di Joseph Schumpeter, che aveva insegnato a distinguere la crescita (il cambiamento quantitativo dell’economia) dallo sviluppo (il cambiamento qualitativo dell’economia). Nulla poi nella bioeconomia roegeniana aveva a che fare con l’idea di un’industria basata sull’agricoltura, settori di cui l’economista rumeno aveva messo in luce i contrasti nelle diverse dinamiche produttive.

Per la mia inadeguatezza a continuare lo scambio con Giorgio Nebbia su questi temi complessi in forma dialogica, il dialogo sulla bioeconomia, sull’uso ed abuso che viene fatto di questo termine, purtroppo è rimasto un mio “compito incompiuto” e, come tale, rappresenta un problema che rimane aperto, per nulla chiuso.

A distanza di qualche anno dal nostro scambio epistolare e dopo qualche mese dalla scomparsa di Giorgio Nebbia, quello che credo di avere capito grazie al suo paziente aiuto circa l’interpretazione della bioeconomia di Georgescu-Roegen, sono due cose tra loro collegate.

La prima è l’importanza per l’economia umana non solo dell’energia ma anche della materia, non solo quella rinnovabile. “Matter matters too” diceva Georgescu-Roegen e ricordava sempre Giorgio Nebbia, che a lungo ha lavorato e sperato ad una contabilità delle merci e dei rifiuti in unità fisiche (energia e massa).

La seconda, che discende dall’applicazione della legge dell’entropia non solo alla energia ma anche alla materia, è l’”insostenibilità della sostenibilità”, ovvero la debolezza dell’idea di raggiungere nell’economia umana uno stato (stazionario, di crescita o di decrescita) suscettibile di riprodursi indefinitamente e armoniosamente nel tempo.

Come direbbe Giorgio Nebbia, non è un messaggio disperato ma l’accettazione del nostro limite, del valore delle cose e della nostra temporaneità.

La constatazione che anche la nostra specie umana ubbidisce alle stesse leggi di crescita e declino di tutti gli esseri viventi è motivo non di disperazione, ma di stimolo a cercare il “benessere” non nel continuo sfruttamento e degrado del pianeta per il possesso di più merci, ma nella solidarietà, nel rispetto degli altri, nel vivere “bene . Del resto perfino il Papa Francesco, in una “lettera” al giornalista Scalfari nell’estate del 2013, ha scritto che un giorno la nostra specie finirà. Quando e come questo avverrà per la popolazione umana — centinaia, migliaia di anni ? — non è possibile sapere: innumerevoli specie viventi sono comparse, cresciute e scomparse nella Terra; non scomparirà comunque la vita, almeno fino a quando il Sole diffonderà un po’ delle sue radiazioni di luce e energia.” (Giorgio Nebbia, Pensieri sul futuro — 2015)