Breve storia dei rifiuti
“Rifiuto”, sostantivo maschile per indicare qualcosa che è stato “rifiutato”, cioè espulso, gettato via, da qualcuno. La stessa definizione ufficiale della legge italiana ed europea definisce il rifiuto come “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi, abbia l’intenzione od abbia l’obbligo di disfarsi”. In realtà i rifiuti sono “cose” che hanno un significato ben più esteso. Una legge ineluttabile della natura spiega che ogni essere vivente “vive” assorbendo dei materiali dall’ambiente circostante e trasformandoli in altre cose che restituisce allo stesso ambiente; noi stessi umani “compriamo”, poco conta che si paghino in denaro o no, alimenti vegetali e animali e acqua e gas dall’atmosfera, li trasformiamo in energia vitale, muscolare, e espelliamo, “rifiutiamo”, all’esterno, sotto forma di escrementi, o gas di respirazione, (quasi) tutto quello che abbiamo assorbito.
I cicli biologici sono, per definizione, “chiusi” nei loro scambi, in entrata e in uscita, con l’ambiente naturale. Tutto questo è andato avanti per miliardi di anni, per milioni di anni per quanto riguarda gli esseri umani, fino a quando – un evento collocabile ad una diecina di migliaia di anni fa – qualcuno ha deciso si smettere di raccogliere frutti e bacche e radici e di correre dietro agli animali da catturare con la caccia e di fermarsi. Qualcuno aveva scoperto che alcune piante alimentari, buone, potevano essere seminate e coltivate e che alcuni animali erano abbastanza stupidi da lasciarsi mettere dentro dei recinti per essere allevati. È la transizione dalla condizione di raccoglitori-cacciatori a quella di coltivatori-allevatori: è la nascita dell’”uomo” moderno. Vi furono alcune complicazioni: non tutti potevano possedere un campo coltivabile e degli animali; alcuni potevano ottenere il cibo soltanto vendendo il proprio lavoro; quelli che possedevano più campi e bestiame diventavano sacerdoti e poi re e comandavano su tutti gli altri. I più ricchi o benestanti o potenti ben presto non si accontentarono più di abitare nelle capanne e ordinarono la costruzione di case di pietra, più solide e sicure. Per fabbricarle occorreva portare via dai monti circostanti delle rocce da cui ricavare blocchi da unire fra loro, un’operazione che lasciava delle scorie di estrazione, i primi “rifiuti”.
Poi qualcuno scoprì che certe rocce, scaldate col calore ottenuto bruciando la legna, si trasformavano in oggetti che chiamarono metalli, con cui era più facile tagliare le pietre, macellare gli animali e anche uccidere i nemici. Solo una parte della roccia diventava minerale, il resto si liberava come fumi e scorie. Se ne trovano tracce nel Sinai nelle “miniere del Re Salomone” dove si lavorava il rame, nell’isola d’Elba dove si estraeva il ferro. Nell’isola d’Elba gli Etruschi usavano una tecnologia siderurgica arretrata e lasciarono delle scorie che contenevano ancora del ferro, usate in siderurgia nel XX secolo come materie prime per processi siderurgici più progrediti. Un primo esempio di riciclo dei rifiuti.
A mano a mano che progredivano le tecniche di fabbricazione e la quantità degli oggetti, è andata aumentando anche la quantità di scorie e rifiuti; alcuni solidi, lasciati sul terreno, altri pure, solidi, scaricati nelle acque, altri gassosi scaricati nell’aria. Fino a quando la massa dei rifiuti è stata limitata ed è stata molto grande la capacità dei corpi naturali – suolo, acque superficiali e sotterranee e mari, e aria – di ricevere e diluire le scorie, i disturbi della produzione dei rifiuti sono stati solo modesti e locali.
Il problema si è aggravato col crescere della dimensione e della popolazione delle città. Già nelle città greche e nella Roma repubblicana e imperiale lo smaltimento dei rifiuti richiedeva la costruzione di discariche (a Roma una di queste è una collinetta artificiale detta Testaccio, gioia degli archeologi alla ricerca di antichi manufatti) o di fognature: la Cloaca massima costruita duemila anni fa a Roma è ancora utilizzata come fognatura. All’igiene urbana erano addetti speciali funzionari. Nelle grandi città dell’Islam medievale erano predisposte speciali norme igieniche per lo smaltimento dei rifiuti solidi e liquidi delle abitazioni e delle attività artigianali come i macelli, particolarmente inquinanti.
L’uso del carbone, a partire dal Seicento, soprattutto in Inghilterra, costrinse i governanti ad emanare le prime leggi contro l’inquinamento; nelle grandi città come Parigi e Londra le fognature diventarono opere monumentali. Ma un vero e proprio problema dei rifiuti e di riciclo comincia con la rivoluzione chimica del 1700. Il primo processo chimico industriale in senso moderno è stato quello, inventato alla fine del Settecento dal chimico francese Nicolas Leblanc (1742-1806), per la produzione del carbonato sodico in due passaggi; il primo consisteva nel trattare il cloruro di sodio con acido solforico, col che si formava solfato di sodio e il rifiuto era l’acido cloridrico gassoso che per molto tempo è stato immesso nell’atmosfera, con grave disturbo per la popolazione vicina e distruzione della vegetazione. Il secondo passaggio consisteva nello scaldare il solfato di sodio con carbone e carbonato di calcio, col che si otteneva carbonato di sodio (peraltro sporco con residui di carbone) e solfuro di calcio, poco solubile in acqua, il rifiuto solido del processo, in un primo tempo lasciato in mucchi all’aria aperta aria ed esposto alle piogge, con liberazione di idrogeno solforato, altro gas nocivo e puzzolente. Le proteste contro l’inquinamento atmosferico – la prima contestazione ecologica – spinsero gli industriali della soda a cercare delle soluzioni. Gli inquinatori scoprirono che dai rifiuti era possibile recuperare qualcosa di utile e vendibile (i primi processi di riciclo e riutilizzo dei rifiuti): dall’acido cloridrico era possibile ottenere cloro, una merce vendibile; dal solfuro di calcio era possibile recuperare zolfo, vendibile alle fabbriche di acido solforico.
Nel corso dello stesso Ottocento grandi progressi in siderurgia erano stati possibili dall’invenzione, ad opera dell’inglese Henry Bessemer (1813-1898), del convertitore che permetteva di trasformare la ghisa fusa, all’uscita dall’altoforno, in acciaio: la ghisa era posta entro un recipiente sferico in cui veniva iniettata aria; l’ossigeno reagiva col carbonio presente nella ghisa, con liberazione di calore sufficiente a teneva fusa la massa dell’acciaio che si andava formando. Dopo qualche tempo si è scoperto che alcuni minerali, come quelli della Lorena, al confine fra Francia e Germania, fornivano ghise che non erano “decarburate” col forno Bessemer perché contenevano fosforo. Lo scozzese Sidney Thomas (1850-1885) scoprì, nel 1878, che, rivestendo le pareti interne dei forni Bessemer con dolomite, era possibile decarburare anche le ghise fosforose. Il carbonato di calcio e magnesio assorbiva il fosforo sotto forma di fosfati e anzi il rivestimento, staccato periodicamente dall’interno del forno Thomas, poteva essere venduto come concime fosfatico, altro esempio di impiego commerciale di una scoria.
I forni Bessemer producevano acciaio a poche tonnellate per volte; l’inventore francese Pierre Emile Martin (1824-1915) nel 1865 mise a punto un forno che poteva decarburare la ghisa su larga scala con un forno che poteva essere caricato con ghisa fusa ma anche con i rottami di ferro. Nel corso dell’Ottocento tali rottami si stavano accumulando a mano a mano che i macchinari venivano sostituiti, e da rifiuti diventano così materie prime, anzi materie seconde, come si chiamano oggi.
Nel Novecento il problema dei rifiuti si è ulteriormente aggravato: nuove invenzioni, nuove merci, una grande guerra, una crisi economica, le autarchie, una seconda guerra mondiale, il successivo mezzo secolo di produzione e di consumi, con altre guerre e altre crisi, hanno prodotto una massa crescente di rifiuti da trattare in qualche modo. I rifiuti solidi dapprima venivano messi in discariche sul suolo o nelle cave abbandonate; nel caso dei rifiuti solidi urbani, purtroppo, la materia scaricata nel terreno per anni continua “a vivere” liberando liquami, gas e puzze per cui è stato necessario sviluppare tecnologie per impermeabilizzare il fondo delle discariche, per recuperare e depurare i liquami, per recuperare almeno una parte dei gas, in parte riutilizzabili come combustibili, per trasformare le discariche in ridenti collinette alberate. Per comprendere quali reazioni avvengono e come possono essere controllate un gruppo di studiosi dell’Università dell’Arizona ha analizzato come si sono trasformati, in mezzo secolo, i rifiuti della grande discarica di Fresh Kills, a New York.
L’alternativa alle discariche è stata offerta dagli inceneritori, salutati all’inizio come gli strumenti per purificare ed eliminare, “col fuoco”, i voluminosi rifiuti urbani e industriali. Purtroppo si è visto che “il fuoco” non purificava tanto; a seconda di come la combustione veniva condotta e a seconda della composizione chimica delle sostanze bruciate, dai camini dei inceneritori uscivano sostanze nocive che andavano dagli idrocarburi policiclici cancerogeni, ai metalli pesanti tossici: e poi si formavano ceneri, che inevitabilmente residuano da ogni combustione di miscele di sostanze varie. E ancora: a poco a poco si è visto che, quando i rifiuti di merci sempre più comode e progredite contenenti cloro, finivano negli inceneritori, si formavano sostanze inquinanti in precedenza sfuggite alle analisi chimiche e chiamate, genericamente, “diossine”, alcune centinaia di differenti composti chimici, alcuni dei quali altamente tossici.
In queste condizioni è stato necessario, e anche redditizio, cercare di trattare una parte dei materiali presenti nei rifiuti con tecniche di riciclo sempre più raffinate, le quali peraltro consentono di recuperare cose utili da una piccola frazione (poche unità percento) dei rifiuti solidi: circa 150 milioni di tonnellate in Italia, circa 60.000 milioni di tonnellate nel mondo.
I problemi si sono aggravati con l’avvento della rivoluzione microelettronica, dagli anni Ottanta del secolo scorso in avanti, e con la moltiplicazione di dispositivi elettronici, dapprima poche centinaia di migliaia di computers, poi miliardi di computers e telefoni mobili, tutti strumenti che vengono continuamente modificati e perfezionati al punto che i vecchi modelli vanno ad accrescere, milioni di tonnellate all’anno, quei rifiuti chiamati RAEE, di apparecchiature elettriche ed elettroniche. Queste ultime soprattutto difficili, ma anche attraenti da smaltire, attraenti per il contenuto di oro e metalli preziosi, difficili perché le piccole quantità di materiali preziosi devono essere separate da grandissime quantità di plastica, agenti chimici, eccetera, con pericoli e danni alla salute dei lavoratori. Tanto che le operazioni di riciclo vengono fatte in gran parte nei parsi poverissimi, con limiate norme di sicurezza sul lavoro.
Questo breve racconto ha una sua piccola morale. La massa dei rifiuti, la inevitabile conseguenza della produzione e dell’uso delle merci, è maggiore della somma di tutti i materiali entrati in ciascun processo; la differenza è dovuta al fatto che in tutti i processi di trasformazione interviene l’ossigeno dell’aria che si combina con le materie rifiutate. Con un po’ di buona chimica e ingegneria qualsiasi problema di trattamento dei rifiuti sarebbe risolvibile, ma con un costo di soldi (ma quello sarebbe ancora poco), di energia e di disturbo ambientale. Senza contare che i rifiuti del passato sono sempre intorno a noi, nel sottosuolo, nelle discariche, talvolta con un carico di nocività per cui occorre identificare dove sono finiti e procedere alla loro inertizzazione, lavoro per storici e “archeologi” dei rifiuti (nuove professioni di cui ci sarà sempre più bisogno in futuro) e, naturalmente, per chimici. Buon lavoro.