Capitalismo Natura Socialismo. Testi 1991 – 2018 (PARTE 1)
DA CNS (1991-1995)
Lo sviluppo sostenibile è un’ideologia borghese?
Da alcuni anni a questa parte si è esteso l’interesse, almeno a parole, per i progetti capaci di assicurare uno “sviluppo sostenibile”. Il concetto, che ha il carattere di una vera e propria ideologia, è arrivato in Italia negli ultimi due o tre anni, soprattutto in seguito alla pubblicazione del libro: Il futuro di noi tutti ((World Commission on Environment and Development, Our common future, Ginevra, 27 aprile 1987, Oxford University Press, London, 1987. Traduzione italiana col titolo Il futuro di noi tutti. Rapporto della commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo, Bompiani, Milano, marzo 1988. Si veda anche il periodico trimestrale Brundtland Bulletin, n.1, settembre 1988, n.6, dicembre 1989, pubblicato dal Centre for our common future, Palais Wilson, 52, rue de Paquis, CH-1201 Geneva, Svizzera.)).
Il testo è stato predisposto da una speciale Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo nell’ambito delle Nazioni Unite, presieduta dall’allora primo ministro norvegese signora G:H:Brundtland e composta da decine di personalità del mondo scientifico e politico internazionale, dei paesi industrializzati e di quelli sottosviluppati. Il rappresentante italiano è la senatrice Susanna Agnelli.
Secondo la Commissione Brundtland si definisce sostenibile uno sviluppo che sia in grado di assicurare all’attuale generazione il soddisfacimento dei propri bisogni in modo tale da lasciare alle generazioni future condizioni e risorse che consentano anche ad esse di soddisfare i loro bisogni fondamentali ((Nel testo inglese (1) la World Commission on Environment and Development ha definito sustainable development come “development that meets the needs of the present without comprimising the ability of future generations to meet their own needs”.)).
Benché “sostenibile” sia stata, fino a pochi anni fa una parola poco usata nella lingua italiana, essa sta evidentemente ad indicare il contrario di “insostenibile”, aggettivo di uso abbastanza comune.
Nel caso dell’ecologia e dello sviluppo è insostenibile una crescita economica che sia basata sullo sfruttamento delle risorse naturali non rinnovabili – petrolio, minerali, ecc. – al punto da portare al loro rapido esaurimento, oppure che sia basata sullo sfruttamento delle risorse naturali rinnovabili – foreste, acqua, suolo coltivabile, capacità ricettiva dei corpi naturali – al di là della loro possibilità di rigenerazione; oppure che determini il graduale deterioramento della qualità delle risorse naturali a causa dell’inquinamento delle acque e dell’aria, dell’impoverimento della fertilità del suolo, della desertificazione, ecc.
Tale crescita economica è insostenibile perché dopo alcune generazioni, con una popolazione che aumenta oggi in ragione di oltre ottanta milioni di persone all’anno, si va incontro a guerre per la conquista di risorse naturali scarse, a modificazioni climatiche, e migrazioni di popolazioni dalle terre erose e povere verso terre fertili, ecc. Tutti questi effetti di una crescita economica insostenibile – di cui si vedono già oggi i segni – portano ad una contrazione e ad una fermata dello sviluppo inteso, in alternativa alla crescita, come soddisfacimento dei bisogni essenziali di dignità, indipendenza, giustizia, libertà, vita in condizioni decenti.
D’altra parte una crisi delle risorse naturali deriva dalla violazione di ben precise leggi naturali, soprattutto di quelle che stabiliscono che ogni ecosistema, naturale o artificiale, ha una sua carrying capacity, può, cioè, sopportare la presenza e le attività vitali fino a una soglia, al di là della quale si ha una autodistruzione della vita stessa.
Un’altra legge della natura stabilisce che esistono alcuni fattori limitanti (è la “legge del minimo” proposta da Justus von Liebig nella metà del secolo scorso) per cui se manca anche uno solo dei fattori essenziali per la vita, la crescita vitale viene impedita.
L’applicazione di queste due leggi ai fatti economici, agli ecosistemi artificiali, come le fabbriche o i campi coltivati o le città, spiega che se manca anche uno solo dei “beni” indispensabili – per esempio il suolo coltivabile, o l’acqua, o l’elettricità, o la carta, ecc. – l’intero ecosistema artificiale si paralizza((La fragilità degli ecosistemi artificiali o tecnologici aumenta con la loro complessità o omogeneità, proprio come avviene negli ecosistemi naturali. È quindi ragionevole che una società, come quella dei paesi industriali avanzati, in cui persone e merci possono muoversi soltanto se sono disponibili prodotti petroliferi, si paralizzi se diventa scarsa la materia prima o se c’è uno sciopero delle raffinerie o dei sistemi di rifornimento.)).
Se è vero che il concetto di “sviluppo sostenibile” è arrivato da poco nel linguaggio, e nel dibattito politico, in Italia, le sue radici risalgono a molto lontano.
È stato probabilmente Robert Malthus a esporre per primo il concetto di limitatezza delle risorse del pianeta nel suo celebre e discusso saggio sulla popolazione mondiale((T.R.Malthus (1766-1834), Saggio sul principio di popolazione, prima edizione inglese 1798, varie edizioni successive, per le quali si veda, tra l’altro, la presentazione alla traduzione italiana pubblicata da Laterza, Bari, 1976.)).
Pur avendo a disposizione dati molto limitati sui tassi di crescita della popolazione inglese e di quella mondiale e sui tassi di crescita della disponibilità di cibo, Malthus spiegò che “se” la popolazione mondiale cresce secondo una legge esponenziale (e continua a crescere con legge esponenziale ancora oggi, in ragione di circa 1,7 per cento all’anno) e “se” la produzione di alimenti cresce, con legge lineare, si arriva ad una situazione in cui i nuovi arrivati al pur grande banchetto della natura dovranno essere respinti da quelli che vi sono già seduti, pena la mancanza di cibo per tutti.
Malthus, come è ben noto, affrontava il problema dal punto di vista dell’egoismo borghese, il cui benessere sarebbe stato compromesso se i poveri fossero aumentati troppo, tanto è vero che auspicava che venisse rallentato e disincentivato l’aumento della popolazione dei poveri.
Da qui la sferzante critica di Marx e dei marxisti anche in tempi recenti. Il che non esclude la validità della legge biologica secondo cui una popolazione animale non può aumentare al di là della carrying capacity di un territorio, rappresentata dalla disponibilità di spazio e di cibo e, nel caso degli ecosistemi artificiali, anche dalla disponibilità di energia, di acqua, di minerali, ecc.
Il concetto di rottura degli equilibri ecologici – la diminuzione della fertilità del suolo, la rottura del ricambio organico fra uomo e natura – si ritrova nell’analisi sociale fatta da Marx nella straordinaria atmosfera culturale creata dalle scoperte scientifiche di Liebig in agricoltura, di Darwin in biologia((Justus von Liebig (1803-1873) scrisse le prime opere di chimica applicata all’agricoltura fra il 1840 e il 1850; Charles Darwin (1809-1882) intraprese il viaggio intorno al mondo sulla nave “Beagle” fra il 1831 e il 1836 e pubblicò la prima edizione del saggio sull’origine della specie nel 1859. Karl Marx (1818-1883), fu quindi contemporaneo di entrambi, ne conobbe le opere e ne trasse alcune indicazioni per le sue opere, fra cui la prima edizione del “Capitale” del 1867.)).
Nel XIII capitolo della quarta sezione del Primo libro del Capitale Marx esamina il processo di crescita della città e di “modernizzazione dell’agricoltura. “Con la preponderanza sempre crescente della popolazione urbana che la produzione capitalistica accumula nei grandi centri, essa accumula da un lato la forza motrice storica della società, dall’altro turba il ricambio organico fra uomo e terra, ossia il ritorno alla terra degli elementi costitutivi della terra consumati dall’uomo sotto forma di mezzi alimentari e di vestiario, turba dunque l’eterna condizione naturale di una durevole fertilità del suolo.”.
“Ogni progresso dell’agricoltura capitalistica – prosegue poco dopo Marx nello stesso capitolo – costituisce un progresso non solo dell’arte di rapinare l’operaio, ma anche dell’arte di rapinare il suolo; ogni progresso nell’accrescimento della sua fertilità per un dato periodo di tempo, costituisce insieme un progresso della rovina delle fonti durevoli di questa fertilità”((Questa citazione è riprodotta nella traduzione di Delio Cantinori pubblicata nel 1970 dagli Editori Riuniti, Roma, riprodotta nel 1975 da Einaudi, Torino.)).
E in nota Marx dice che “la spiegazione del lato negativo dell’agricoltura moderna, dal punto di vista delle scienze naturali, è uno dei meriti immortali di Liebig”, di cui cita la settima edizione tedesca del 1862 della celebre “Die Chemie”.
D’altra parte John Stuart Mill, nel 1848, quasi contemporaneamente a Marx, ha analizzato il concetto di limite e di stato stazionario, sostenendo che la società industriale, per la sua stessa natura, non avrebbe potuto durare a lungo e avrebbe dovuto essere sostituita da una molto migliore società stazionaria.
Dopo aver chiarito che una società stazionaria presuppone una equa distribuzione dei beni materiali fra la popolazione, che deve anch’essa stabilizzarsi, Stuart Mill continua((John Stuart Mill (1806-1873), Principi di economia politica, con alcune delle sue applicazioni alla filosofia sociale, traduzione italiana della seconda edizione inglese in: “Biblioteca dell’economista”, serie I, vol.12, Pomba, Torino, 1951; Libro IV, capitolo I, vol.12, Pomba, Torino, 1951; Libro IV, capitolo VI “Dello stato stazionario”, pp.957-959. Cfr. anche E.Goldsmith e R.Allen, La morte ecologica, a cura di G.Nebbia, Laterza, Bari, 1972)): “Io spero sinceramente per amore della posterità che, se la terra dovesse perdere quella beltà che deve alle cose, che un accrescimento illimitato di ricchezze e di popolazione farebbe estirpare onde alimentarne una quantità maggiore, essa aderirebbe a rimanersi stazionaria assai prima che la necessità ve la obbligasse.
È superfluo osservare che una condizione stazionaria di capitale e di popolazione non implica uno stato stazionario di miglioramenti umani. Vi sarebbe sempre un altro scopo per ogni specie di cultura mentale, e per progressi morali e sociali; vi sarebbe luogo, come prima, a perfezionare l’arte della vita e vi sarebbe eziandio più facilità per farlo.”.
Il dibattito è continuato di tanto in tanto nei decenni successivi e nel 1935 Pigou ha dedicato un intero volume allo stato stazionario((Arthur Cecil Pigou (1877-1959), The stationary state, 1935.)).
Con l’esplosione dell’interesse per l’ecologia – che ha messo in evidenza che popolazione e consumi non possono aumentare all’infinito in un pianeta di risorse finite((Cfr., per esempio: Kenneth Boulding, The economics of coming Spaceship Earth, in H.Jarrett (a cura di), Environmental quality in a growing economy, John Hopkins Press, Baltimore, Maryland, Usa, 1966, pp.3-14; Garrett Hardin, “The tragedy of the commons”, Science, 1243-1248 (dicembre 1968), traduzione italiana col titolo: “La tragedia dei “commons””, Sapere, 70, (710), 4-10 (marzo 1969).)) – sono sorti vari movimenti che proponevano di ridurre a zero il tasso di aumento della popolazione (Zero population growth, Zpg), di stabilizzare i consumi, ecc..
Il libro che scosse l’opinione pubblica sui rapporti fra risorse limitate e crescita economica e della popolazione apparve nel 1972 col titolo The limits to growth((Meadows D.H. e altri, The limits to growth. A report for the Club of Rome’s project for the predicament of mankind, Universe Book, New York, 1972; traduzione col titolo: I limiti dello sviluppo, Est Mondadori, Milano, 1972. Ma la traduzione corretta del titolo originale è: “I limiti alla crescita”!)); si trattava di un libretto scritto per conto del Club di Roma e pubblicato nei giorni in cui a Stoccolma si teneva la Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano.
Pochi mesi prima era stato pubblicato sulla rivista inglese Ecologist un lungo saggio intitolato Blueprint for survival((Traduzione italiana col titolo La morte ecologica, citata alla nota 8.)), più o meno con le stesse tesi che si possono così riassumere:
Se la popolazione mondiale continua a crescere alla velocità di questi decenni e se la produzione agricola e industriale di beni materiali richiesti per soddisfare i bisogni di tale popolazione continua a crescere ai tassi di questi decenni, la produzione di scorie, l’impoverimento delle riserve di minerali e di fonti di energia e la diminuzione della fertilità del suolo aumenteranno così rapidamente da provocare guerre per le conquiste delle materie prime, aumenti di prezzi dei beni essenziali su scala planetaria, malattie e conflitti che porteranno a loro volta un rallentamento e poi una diminuzione della popolazione e forse allora un rilassamento della situazione di crisi e una ripresa dello sviluppo dell’umanità.
La soluzione andava cercata, raccomandavano questi libri, nella decisione di porre dei limiti alla “crescita” – della popolazione, della produzione di merci, dell’inquinamento, dello sfruttamento delle risorse scarse – il che non voleva affatto dire che si sarebbero dovuti porre dei limiti allo sviluppo, che dipende dai rapporti umani e sociali, dalla dimensione della famiglia, dalle strutture politiche.
Il libro del Club di Roma suscitò un dibattito vivacissimo. I cattolici riconoscevano lo spettro dell’odiato Malthus, i marxisti riconobbero i vizi della società capitalistica, sostenendo che una società socialista pianificata avrebbe potuto fare fronte ai problemi di scarsità delle risorse e di aumento della popolazione senza fermare né crescita né sviluppo, gli economisti e gli imprenditori borghesi sostennero che le leggi ferree e la mano provvidenziale del mercato capitalistico sono in grado di far fronte a qualsiasi problema di scarsità di risorse naturali.
I critici di parte borghese riconobbero che il concetto di stazionarietà va contro i principi di una società basata sulla crescita dei beni materiali, delle merci, della circolazione del denaro, dei profitti privati, basata sull’idea che la crescita è un bene e un valore economico in assoluto.
Concetto presente, in quegli anni, anche nelle regole del socialismo “realizzato”, tanto che destò sorpresa un discorso di Brezniev, nel 1971, che invitava ad un uso “parsimonioso” delle risorse della natura, nel nome delle generazioni future((L.Brezniev, rapporto al CC del Pcus al XXIV Congresso: “Nel promuovere iniziative atte ad accelerare il progresso tecnico-scientifico occorre fare tutto il possibile perché esso non sia disgiunto da un atteggiamento parsimonioso verso le risorse naturali, non sia fonte di pericolosi inquinamenti dell’aria e delle acque, di esaurimento del suolo.”.)).
Abbastanza curiosamente, era proprio un circolo di persone appartenenti alla borghesia industriale, intellettuale e politica internazionale che proponeva, nel nome della responsabilità verso il futuro, una soluzione che risultava in contrasto con gli stessi interessi della borghesia.
In Italia il dibattito fu particolarmente interessante: i comunisti italiani organizzarono nel novembre 1971 un seminario a Frattocchie per esaminare quello che veramente avevano scritto Marx ed Engels sui problemi della scarsità delle risorse e sui consumi((Istituto Gramsci, “Uomo natura società. Ecologia e rapporti sociali”, Editori Riuniti, Roma, 1972. Si veda anche il libro di G:Prestipino, Natura e società. Per una nuova lettura di Engels, Editori Riuniti, Roma, 1973.)).
Erano gli anni in cui veniva riscoperto e studiato il Marx giovane, quello dei “Manoscritti” del 1844((Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, traduzione di Norberto Bobbio, Einaudi, Torino, 1949, 1968, 1975.)) con la sua denuncia dei modi di produzione, dell’estraniazione dal lavoro e dalla natura, con la critica dei modelli di consumi imposti dalla società capitalistica.
“Ogni uomo – scrive Marx nel “terzo” dei manoscritti economico-filosofici – s’ingegna di procurare all’altro uomo un nuovo bisogno, per costringerlo ad una nuova dipendenza e spingerlo ad un nuovo modo di godimento e quindi di rovina economica.
Con la massa degli oggetti cresce quindi la sfera degli esseri estranei, ai quali l’uomo è soggiogato, ed ogni nuovo prodotto è un nuovo potenziamento del reciproco inganno e delle reciproche spogliazioni.”.
E più avanti Marx denuncia l’aria “viziata dal mefitico alito pestilenziale della civiltà”, la casa non esiste più per l’operaio, è un “sepolcro” che deve anche pagare. “La luce, l’aria, ecc., la più elementare pulizia, di cui anche gli animali godono, cessa di essere un bisogno per l’uomo…e diventa un suo elemento vitale il completo e innaturale abbandono, la natura putrefatta.”.
La critica della “società dei consumi” diventa così critica di una “società dei rifiuti”((Su questo termine e sul suo uso cfr., per esempio, il recente libro di G.Nebbia, La società dei rifiuti, Edipuglia, Bari, 1990.)) e molti studiosi cominciano a denunciare le relazioni fra modelli di consumi capitalistici e crisi ambientale e scarsità delle risorse naturali.
Il problema della popolazione viene esaminato non come un aggregato, ma riconoscendo che la maggioranza dei terrestri ha a disposizione una piccola frazione delle risorse della natura.
Non si può quindi dire che “siamo in troppi”, ma sullo sfruttamento della Terra “pesa” molto di più il miliardo di abitanti dei paesi industrializzati che i tre miliardi (oggi oltre quattro) degli abitanti dei paesi poveri((G.Maccacaro, “Siamo in troppi o siete in troppi?”, in Nora Federici e altri La popolazione in Italia, Boringhieri, Torino, 1976, 203-213.)).
La salvezza ecologica va cercata, quindi, in nuovi rapporti fra popolazione, risorse, merci e ambiente((Si vedano i vari saggi nel volume a cura di N.Federici, citato alla nota 16, fra cui quello di V.Bettini, “Popolazione, risorse, ambiente e potere”, p.128-162; quello di G.Nebbia, “Risorse naturali, rifiuti, inquinamenti e popolazione umana”, p. 163-171.)).
In questa atmosfera viene usata per la prima volta, per quanto ho potuto vedere, nel 1972 il termine “sviluppo sostenibile”, inteso come sviluppo per tutti gli abitanti della Terra, per la nostra e le future generazioni, sulla base della disponibilità delle risorse naturali del pianeta((Titolo di una conferenza di D.Pirages, ora professore nella University of Maryland, tenuta nella University of California a San Diego agli inizi del 1972. Il termine appare poi nel titolo del libro: D.C.Pirages (a cura di), The sustainable society. Implications for limited growth, Praeger, New York, 1977. Successivamente è apparso il libro di Erik Eckholm, The dispossessed of the Earth; Land Reform and Sustainable Development, Worldwatch Institute, Washington, giugno 1979. “Sustainable development” fu usato da Robert Prescott-Allen nel gennaio 1978 nella prima bozza della World Conservation Strategy, il documento sulla strategia della conservazione redatto dalla Unione Internazionale per la Conservazione della Natura e dal Wwf: International Union for Conservation of Nature and Natural Resources, World Conservation strategy: living resources conservation for sustainable development, Gland, Svizzera, 1980. Nella traduzione italiana pubblicata a cura del WWF nel 1981 il termine è tradotto come “sviluppo razionale e duraturo”. Nel corso degli anni 80 il concetto di sviluppo sostenibile è stato usato sempre più spesso. Quasi contemporaneo al rapporto Brundtland è il libro di J.Goldemberg, T.B.Johansson, A.K.N.Reddy e R.H.Williams, Energy for a sustainable world, Wiley Eastern Ltd., New Dehli, 1988. Vari commentatori italiani hanno suggerito che è preferibile il termine di “sviluppo compatibile”, anche se, in mancanza di una specificazione, si fa fatica a capire con che cosa debba essere compatibile. Forse nel concetto di sostenibilità si sente puzza di sovversione dell’“ordine” attuale”, che è insostenibile.)), cominciando col riconoscere le enormi diversità degli abitanti dei vari paesi, quanto ad accesso ai beni naturali e materiali.
Nel 1974 – subito dopo la prima crisi petrolifera – una economista cattolica inglese, Barbara Ward, in un articolo su The Economist scrisse che fino ad allora il mondo era stato diviso in un primo mondo, quello dei paesi industriali capitalistici, in un secondo mondo, quello dei paesi comunisti, e in un terzo mondo, quello dei paesi sottosviluppati o, come si diceva pudicamente, in via di sviluppo.
La Ward suggerì invece che esiste un primo mondo, quello dei paesi praticamente autonomi quanto a disponibilità di materie prime o addirittura esportatori di materie prime: Stati Uniti, Unione Sovietica e anche Canada e Australia.
Il secondo mondo è quello dei paesi industriali tecnologicamente avanzati, ma poveri di materie prima, come l’Europa occidentale e quella orientale, accomunate, come oggi appare ancora più chiaro, nella dipendenza dalle potenze imperiali del primo mondo.
Il terzo mondo è quello dei paesi poveri e sottosviluppati che possiedono soltanto alcune materie prime essenziali – petrolio, o minerali strategici, o abbondanti raccolti agricoli, o legname – che possono vendere tali materie ai paesi del secondo mondo e, col ricavato, possono avviare un qualche processo di sviluppo sociale e industriale, pur in mezzo a contraddizioni e ingiustizie interne.
I paesi del quarto mondo sono quelli privi di risorse naturali vendibili e che sono quindi poveri-poveri, praticamente senza speranza di sviluppo, uno o due miliardi di persone in Africa, Asia, America Latina, con rapidi tassi di crescita della popolazione, destinati a premere per avere un posto alla mensa dei paesi ricchi e destinati ad essere respinti senza pietà.
I recenti mutamenti nell’equilibrio politico dei paesi ex-socialisti mostrano quanto fosse giusta questa intuizione di sedici anni fa e come stia effettivamente nascendo un nuovo grande impero dei paesi industriali autonomi quanto a materie prime: i cinquecento milioni di russo-americani.
Quale è il destino dei paesi di questi quattro “mondi” nei prossimi decenni? Come è possibile immaginare una “società sostenibile” anche per un periodo breve, di venti anni, di appena una generazione? Quali possono essere i consumi di materie prime e di merci e quali soluzioni sono “sostenibili”?
Infine – ed è lo scopo principale di questo articolo – le regole del mercato capitalistico sono compatibili con la realizzazione di uno sviluppo sostenibile?
Cominciamo ad esaminare alcuni indicatori della crescita e dello sviluppo: la popolazione e i consumi di energia dai quali ultimi dipende, direttamente o indirettamente, la produzione delle altre merci, l’impoverimento delle riserve di materie prime, l’inquinamento e il degrado ambientale.
Nella tabella sono indicati la popolazione e il consumo di energia attuali nei “quattro mondi” e tre possibili alternative riferite al 2010, cioè, all’incirca, fra una generazione.
Il primo scenario prevede un costante aumento della crescita economica e dei consumi dei paesi del primo e del secondo mondo e una situazione praticamente stazionaria nella crescita del consumo di beni fisici dei paesi del terzo e del quarto mondo.
Questa situazione presuppone un forte aumento dei consumi totali di energia e dell’inquinamento planetario, e una forte pressione di protesta dei paesi del terzo e quarto mondo. Per tenerli in condizione di soggezione i paesi del primo e del secondo mondo sono destinati ad affrontare azioni repressive.
La seconda soluzione comprende un progetto di qualche benevolenza verso i consumi dei paesi del terzo e quarto mondo a cui, a parità di consumi dei paesi industrializzati rispetto allo scenario I, è “concesso” un aumento dei consumi di energia e beni materiali.
Nel caso del primo e del secondo scenario il consumo complessivo di energia nei prossimi venti anni varia fra 200 e 250 miliardi di tonnellate equivalenti di petrolio; non tutta questa domanda di energia può essere soddisfatta, naturalmente, dal petrolio, le cui riserve complessive mondiali variano fra 100 e 150 miliardi di tonnellate, ma si dovrà dipendere dal gas naturale (riserve mondiali di circa 100 miliardi di tonnellate) e dal carbone (riserve mondiali molto più grandi, fra 1.000 e 10.000 miliardi di tonnellate).
E con questo siamo arrivati appena alla prima generazione futura già con una situazione chiaramente insostenibile, anche perché l’aumento della combustione di petrolio, gas naturale e carbone porterebbe ad una forte modificazione della composizione chimica dell’atmosfera.
Una prospettiva meno drammatica potrebbe prevedere di tenere i consumi di energia nel 2010 a 9 miliardi di tep/anno, cioè ad un livello di poco superiore a quello attuale (8 miliardi di tep/anno), con una drastica ridistribuzione che privilegi i paesi sottosviluppati.
Una delle tante possibili combinazioni è indicata nella colonna III; i paesi del terzo mondo, la cui popolazione ragionevolmente aumenta da 2 a 2,5 miliardi di persone, passerebbero dagli attuali 1,6 a 3 miliardi di tep/anno; i paesi del quarto mondo, la cui popolazione passerebbe da 2 a 2,5 miliardi di persone, nel 2010 avrebbero a disposizione 2 miliardi di tep/anno, per cui il consumo individuale aumenterebbe del 60 per cento, rispetto a quello attuale.
Nei paesi del primo e del secondo mondo, con popolazioni sostanzialmente stazionarie, i consumi energetici dovrebbero passare dagli attuali 5,3 a 4 miliardi di tep/anno.
Si dovrebbe avere, cioè, una rivoluzione tecnica e merceologica e una inevitabile contrazione o modificazione dell’attuale qualità e quantità delle merci e dei servizi.
Comunque i consumi individuali di energia sarebbero ancora largamente a favore dei paesi industrializzati; da 2.000 a 2.200 tep/anno-persona rispetto agli 800 tep/anno-persona dei popoli del quarto mondo (il rapporto attuale è di 3.000-4.000 rispetto a 550, sempre tep/anno-persona).
In questo modo il consumo complessivo di energia nei prossimi venti anni sarebbe di circa 170 miliardi di tep, un po’ inferiore a quello degli scenari I e II, ma ancora molto elevato, tanto da provocare tensioni e crisi politiche e problemi ecologici.
Il discorso, naturalmente, potrebbe essere ripetuto per la distribuzione attuale, e prevedibile futura, dei consumi di calorie alimentari, di proteine, di frumento, di acciaio, di cromo, di grassi alimentari, di legname, di carta, ecc..
In tutti i casi una proposta di sviluppo sostenibile richiederebbe una diminuzione dei consumi dei paesi industriali e un modesto aumento, rispetto ai livelli attuali, dei consumi dei paesi poveri.
Ci si trova così di fronte a una domanda tecnica e ad una domanda politica, che è poi quella da cui siamo partiti, relativa alla compatibilità del capitalismo con questo cambiamento della crescita.
Dal punto di vista tecnico-scientifico lo scenario indicato come III è del tutto possibile se si accetta di riprogettare di sana pianta tutti i modi di vita e le merci a cui siamo abituati.
Si tratta di identificare i bisogni – di cibo, di abitazione, di movimento, di comunicazione, di lavoro, di sicurezza – e di progettare oggetti e merci che soddisfino tali bisogni con consumi di energia (per unità di peso o di servizio svolto) e con effetto inquinante minori degli attuali.
Ciò è possibile introducendo nuove scale di svalori((Vedi nota 15, op.cit.)), per esempio esprimendo il valore di un processo o di una merce sulla base dell’energia consumata o della quantità di risorse consumate o della quantità di rifiuti immessi nell’ambiente; varrà di più, così, indipendentemente dal prezzo monetario, una merce ottenuta con una minore richiesta di energia, o che provoca nella produzione e nell’uso un minore impatto ambientale.
E qui si arriva alla domanda sulla compatibilità del capitalismo a far fronte a queste nuove scale di valori. L’esperienza mostra che, dopo un periodo di crisi, il capitalismo saprebbe adattarsi anche a condizioni diverse da quelle attuali e saprebbe sopravvivere anche se diminuissero i consumi di energia nel primo e nel secondo mondo e aumentassero nel terzo e nel quarto mondo.
Il mercato capitalistico deve però fare forza su se stesso se è costretto a cambiare le regole fondamentali della sua stessa vita, basate sulla crescita, e c’è da aspettarsi che farebbe di tutto per non cambiare.
Soltanto una società pianificata e socialista può darsi nuove regole compatibili con i problemi di scarsità e di distribuzione secondo giustizia.
Il fallimento del “socialismo reale” e l’apparente trionfo del mercato capitalistico anche nei paesi ex-socialisti non esclude che questa nuova ondata di capitalismo debba scontrarsi con l’unica realtà che conta, ed è quella della scarsità delle risorse naturali.
Per questo motivo la diffusione di una cultura di “sviluppo sostenibile” può essere una occasione per mettere in crisi le radici stesse della società capitalistica e per riproporre nuovi modelli socialisti di rapporti produttivi e di rapporti internazionali, governati, questa volta, dalla soggezione alle uniche leggi che non si possono violare, quelle della natura.
No, non credo proprio che l’ideologia della società sostenibile sia una nuova invenzione della borghesia per tenere soggetti classi e popoli subalterni; mi sembra piuttosto una straordinaria occasione per avviare una nuova ricerca di socialismo e di giustizia, una nuova lotta di classe che veda contrapposte, questa volta, non solo le classi subalterne dei paesi ricchi e poveri alle rispettive classi dominanti, ma i paesi poveri ai paesi ricchi, gli inquinati agli inquinatori, con nuove contraddizioni per cui nei paesi ricchi e inquinatori le classi subalterne possono partecipare all’oppressione delle classi subalterne dei paesi poveri e inquinati.
Una società solare?
La profezia di Giacomo Ciamician
Nella prolusione all’anno accademico 1903-1904 dell’Università di Bologna, Giacomo Ciamician (1857-1922), professore di chimica in quella Università, disse: «Il problema dell’impiego dell’energia raggiante del Sole si impone e s’imporrà anche maggiormente in seguito. Quando un tale sogno fosse realizzato, le industrie sarebbero ricondotte ad un ciclo perfetto, a macchine che produrrebbero lavoro colla forza della luce del giorno, che non costa niente e non paga tasse!». E, vorrei aggiungere, non ha padrone! Pochi anni dopo, nel 1912, in una conferenza tenuta negli Stati Uniti, lo stesso professore affermava: “Se la nostra nera e nervosa civiltà, basata sul carbone, sarà seguita da una civiltà più quieta, basata sull’utilizzazione dell’energia solare, non ne verrà certo un danno al progresso e alla felicità umana!”.
Quando sono state pronunciate queste parole il consumo totale mondiale annuo di energia era di poco più di 40 EJ (40 exajoule è l’energia equivalente a quella «contenuta» in circa un miliardo di tonnellate di petrolio, cioè a circa un miliardo di tep); esso era salito a circa 80 EJ/anno nel 1950 ed è oggi all’inizio del XXI secolo, di circa 380 EJ/anno! L’odierno consumo di energia – e la produzione e il consumo delle macchine che divorano questa energia e delle merci fabbricate trasformando le risorse naturali con questa energia – sono accompagnati da conseguenze che si riconoscono non più soltanto a livello locale – la «nera e nervosa civiltà» – ma che si fanno sentire a livello planetario. L’impoverimento delle riserve di fonti di energia, di minerali, di foreste, l’usura delle terre coltivabili, l’inquinamento dell’aria e delle acque, inducono a chiederci se è possibile continuare su questa strada senza compromettere le condizioni di vita e di salute delle generazioni future. Sempre più spesso ci si interroga sulla possibilità di realizzare una società, uno sviluppo, capaci di soddisfare i bisogni di alimenti, abitazioni, energia, beni materiali, ma anche salute, libertà, dignità, indipendenza, bellezza, della nostra generazione attraverso un uso delle risorse naturali – minerali, combustibili fossili, acqua, foreste, terreno coltivabile, ecc. – che lasci alle generazioni future condizioni tali da assicurare loro una vita dignitosa e soddisfacente.
Benché molti auspichino l’avvento di un’organizzazione sociale capace di svilupparsi in modo meno insostenibile dell’attuale, le attuali tendenze dei consumi di risorse naturali sono tali da far pensare che le generazioni future dovranno far fronte a un impoverimento dei «beni ambientali» e addirittura a disastri ecologici di dimensioni non immaginabili.
Al fianco delle possibili crisi ambientali se ne prospettano altre, di carattere politico e sociale, dovute alla maniera ineguale e ingiusta con cui l’energia è usata nel mondo. Circa 1.500 milioni di terrestri consumano circa una metà dell’energia commerciale mondiale; ai restanti circa 4.500 milioni di abitanti della Terra rimangono a disposizione circa 190 EJ/anno. Sembra quindi abbastanza ragionevole che i paesi che finora hanno avuto a disposizione pochissima energia reclamino una proporzione maggiore dell’energia consumata complessivamente nel mondo.
È possibile tracciare vari scenari di tale più giusta distribuzione, ma tutti inevitabilmente portano a un aumento dei consumi totali di energia attraverso l’uso di crescenti quantità di combustibili fossili: carbone, petrolio, gas naturale. Ma il consumo di combustibili fossili produce gravi effetti ambientali, in parte locali (inquinamento dovuto a varie sostanze nocive, piogge acide con danni alla salute e alla vegetazione, inquinamento termico, ecc.), in parte planetari, soprattutto mutamenti climatici dovuti all’aumento della concentrazione dell’anidride carbonica atmosferica, all’«effetto serra».
Ci sono tutti i segni che il pianeta Terra non può sopportare le alterazioni climatiche ed ecologiche corrispondenti a un sensibile aumento (per esempio a un raddoppio) dell’uso di combustibili fossili. Tanto più che tale aumento porterebbe a un rapido impoverimento delle riserve di idrocarburi con conseguenti crisi economiche e politiche e comunque in contrasto con gli interessi delle generazioni future. E non è proponibile neanche un rilancio dell’energia nucleare.
Uno sviluppo umano può essere meno insostenibile dell’attuale soltanto ricorrendo in maniera crescente e determinante alle fonti di energia rinnovabili che tutte dipendono dal Sole. Dal punto di vista energetico e tecnico-scientifico l’avvento di una società solare è del tutto possibile, come mostrano poche cifre.
La costante solare, cioè la frazione dell’energia solare intercettata dalla Terra, ammonta a circa 1,4 kilowatt per metro quadrato, corrispondente, fatte le debite moltiplicazioni, a circa 44 GJ/anno.m2. La superficie della Terra è, come è ben noto, di circa 500 milioni di km2, ma l’insolazione media per ogni m2 della superficie esterna dell’atmosfera terrestre ammonta a circa un quarto del valore di intercettazione relativo a una circonferenza dello stesso raggio (si può utilmente vedere, fra l’altro, il libro di G. Righini e G. Nebbia, L’energia solare e le sue applicazioni, Feltrinelli, Milano 1966). Della precedente frazione circa la metà viene filtrata dall’atmosfera e circa la metà arriva sulla superficie dei continenti e degli oceani: circa 3.500.000 EJ/anno. Tale energia è circa 9.000 volte superiore a quella consumata ogni anno nel mondo e superiore anche a tutte le riserve di carbone, petrolio, gas naturale e uranio messe insieme. Di questi 3.500.000 EJ/anni circa 1.000.000 raggiungono le terre emerse e circa 2.500.000, sempre EJ/anno, raggiungono gli oceani.
L’energia solare tiene in moto il grande ciclo dell’acqua: il calore solare fa evaporare e condensare ogni anno 500.000 miliardi di tonnellate di acqua dalla, e sulla, superficie dei mari e dalle terre emerse. 100.000 miliardi di tonnellate ricadono sulle terre emerse e circa 40.000 miliardi di metri cubi scorrono sulla superficie dei continenti nel loro ritorno al mare superando talvolta grandi dislivelli (se ne parla nel capitolo dell’acqua).
Questo flusso ha un «contenuto» potenziale medio di energia di circa 55.000 miliardi di kilowattore all’anno, anche se, di tale energia solo una parte limitata può essere ricuperata come energia idroelettrica e solo una parte minima (circa 6 EJ/anno, pari a circa 1.500 miliardi di kilowattore/anno) è attualmente in effetti ricuperata come tale.
La seconda grande funzione «naturale» dell’energia solare è la «fabbricazione» per fotosintesi di biomassa vegetale: circa 50 miliardi di tonnellate di biomassa secca all’anno negli oceani e circa 100 miliardi di t di biomassa secca all’anno sulle terre emerse a spese di circa 300 miliardi di t/anno di anidride carbonica tratta dall’atmosfera; tale anidride carbonica quasi totalmente ritorna nell’atmosfera in breve tempo, nel corso del ciclo del carbonio. Ai fini dell’utilizzazione «umana» dell’energia solare va notato subito che l’intensità della radiazione solare è maggiore nei paesi meno abitati e in quelli del Sud del mondo e arretrati che sarebbero quindi favoriti da un crescente ricorso a questa fonte di energia: una società solare contribuirebbe quindi a ristabilire una forma di giustizia distributiva energetica fra i diversi paesi della Terra. Come affermò già nel 1912, nella conferenza già ricordata, il prof. Ciamician, «i paesi tropicali ospiterebbero di nuovo la civiltà che in questo modo tornerebbe ai suoi luoghi di origine». È possibile e ragionevole immaginare di progettare una società tutta solare con gli attuali consumi di energia? Calcolando un’intensità media della radiazione solare di circa 6.000 gigajoule all’anno per km2 di superficie delle terre emerse, l’attuale consumo globale di energia commerciale, circa 380 EJ/anno, equivale all’energia solare raccolta da una superficie terrestre di circa 60.000 km2. La superficie effettiva di raccolta dovrebbe essere almeno dieci volte superiore perché l’efficienza di trasformazione di molti dispositivi solari è abbastanza basso. A prima vista si tratta di superfici enormi, ma non è così.
Prendiamo il caso dell’Italia, con la sua superficie di 300.000 km2. Il fabbisogno energetico italiano in questo inizio del XXI secolo, poco più di 190 milioni di tep/anno (circa 8 EJ/anno), corrisponde all’energia solare che raggiunge circa 1.200 km2. La superficie di raccolta, calcolando una resa di trasformazione del 10%, dovrebbe essere circa 12.000 km2; la sola superficie delle terre coltivate in passato e ora abbandonate ammonta a circa 40.000 km2. Per ottenere mediante celle fotovoltaiche – i sistemi che trasformano direttamente l’energia solare in elettricità con un rendimento di circa 100 kilowattore all’anno per ogni m2 di superficie esposta di fotocelle (che occupano circa 2 m2 di spazio) – tutta l’elettricità usata attualmente (nel 2000) in Italia (circa 300 miliardi di kilowattore/anno, di cui però 40 di origine idroelettrica) occorrerebbero circa 6.000 km2 di campi di fotocelle, il doppio della superficie della Murgia in Puglia.
Non si tratta di superfici enormi neanche per un paese industrializzato e ad alta densità di popolazione come l’Italia. Più in generale si vede che esistono sul pianeta ampi spazi disabitati, con alto irraggiamento solare, che potrebbero essere utilizzati per la trasformazione della radiazione solare nelle forme di energia utili per fini umani e trasportabile nelle zone di utilizzazione. La radiazione solare, e le fonti di energia da essa derivate, si prestano a fornire energia in tutte le forme a cui siamo abituati: si può ottenere calore a bassa, media e alta temperatura direttamente dal Sole; con questo calore è possibile scaldare l’acqua, le abitazioni, è possibile azionare frigoriferi e condizionatori d’aria, è possibile distillare l’acqua di mare per ottenere acqua dolce, con un contributo decisivo, così, del Sole alla sconfitta della sete che affligge molte zone tropicali e equatoriali costiere.
Ancora l’energia solare, mettendo in moto il ciclo dell’acqua e scaldando diversamente le varie parti del pianeta, crea le condizioni per cui è possibile ottenere energia meccanica e elettrica utilizzando lo scorrere delle acque sulla superficie terrestre; o utilizzando le differenze di temperatura fra gli strati superficiali caldi e quelli profondi freddi dei mari tropicali; o utilizzando la forza del vento o il conseguente moto ondoso, anch’essi alimentati dalle differenze di temperatura provocate dal Sole sulle varie parti della Terra.
È possibile con i sistemi fotovoltaici già ricordati, ottenere energia elettrica direttamente dalla radiazione solare; è possibile trasformare l’energia elettrica di origine solare in altre forme, per esempio in idrogeno utilizzabile come combustibile o come materia prima per prodotti chimici. La radiazione solare, attraverso la fotosintesi, produce nella biomassa sostanze chimiche utili come materie prime o carburanti. Molte invenzioni risalgono a decenni fa e vanno dissepolte dall’oblio e sperimentate di nuovo alla luce dei progressi nei materiali e nelle tecniche. Se il Sole è davvero il nostro grande amico e alleato verso uno sviluppo meno insostenibile, i nemici della transizione stanno nella pigrizia delle idee correnti. L’energia solare ha comunque vari limiti; è distribuita irregolarmente nelle varie parti della Terra, nelle varie parti del giorno e dell’anno, è molto diluita rispetto alla concentrazione delle attuali società industriali. Ma proprio qui potrebbe stare anche la sua forza: è ormai chiaro che molti squilibri ecologici derivano proprio dalla concentrazione in spazi ristretti delle attività umane, dal superamento violento, in molti territori, della carrying capacity, per cui una società solare offrirebbe l’occasione per una ridistribuzione e diffusione delle attività umane, per un uso più razionale dei grandi spazi che pure il pianeta Terra ancora offre.
Calore e acqua dolce dal Sole
La più facile fra le forme di utilizzazione dell’energia solare è sotto forma di calore e la produzione di calore col Sole è stata la prima e la più sperimentata applicazione. Una piastra metallica di colore nero, coperta con una lastra di vetro ed esposta al Sole raccoglie la parte visibile della radiazione solare e la trasforma in radiazione infrarossa che resta «intrappolata» al di sotto del vetro, sulla piastra. Questo «effetto serra» consente di portare la piastra, d’estate, a temperatura fino a 80 o 90 gradi Celsius; con particolari accorgimenti è possibile scaldare un collettore solare anche a temperatura un po’ superiore a 100 gradi Celsius. Se il calore della piastra nera viene trasferito a una massa di acqua, che, per esempio, viene fatta circolare entro tubi appoggiati sulla piastra stessa, d’estate è possibile, con ogni metro quadrato di superficie del collettore solare, scaldare 100 litri di acqua da 20 a 45 gradi, oppure 50 litri di acqua da 20 a 70 gradi Celsius. D’inverno il riscaldamento ottenibile è molto più modesto. L’acqua può essere scaldata a circa 80 gradi Celsius anche entro vasche o «stagni» poco profondi, contenenti sul fondo uno strato di acqua ad alta salinità. Stagni solari di questo tipo funzionano da anni e sono stati sperimentati anche in Italia, sia pure con grande ritardo e poco entusiasmo, tanto da essere ben presto abbandonati. Ci sono sempre delle resistenze psicologiche all’innovazione! Per il riscaldamento dell’aria all’interno degli edifici più che i sistemi «attivi» come quelli basati su collettori solari, si prestano bene i sistemi «passivi» realizzati progettando gli edifici in modo da massimizzare la quantità di radiazione solare che, anche d’inverno, entra nell’edificio, facendola eventualmente assorbire da speciali materiali capaci di immagazzinare calore anche a bassa temperatura. Una società solare dovrà inventare nuovi modi di progettazione degli edifici; con un’appropriata esposizione al Sole, con la creazione di spazi esposti al Sole e di spazi in ombra, è possibile ottenere spazi ventilati d’estate e caldi d’inverno, è possibile migliorare molto l’illuminazione dei locali. Gli alti sprechi di elettricità per l’illuminazione e di elettricità e di combustibili per il riscaldamento sono il risultato di una scadente progettazione. Il passaggio ad una società solare si traduce quindi anche in una diminuzione degli sprechi di energia, a parità di servizi, e comporta una revisione della diffusione nel territorio e della tipologia degli spazi di abitazione e di lavoro. Con la radiazione solare è possibile trasformare per distillazione l’acqua del mare in acqua potabile. Milioni di kilometri di coste sono toccate dall’acqua dei mari e non hanno acqua dolce e in generale la situazione è tanto peggiore quanto più ci si trova nella fascia centrale della Terra dove è maggiore l’energia solare disponibile. I distillatori solari sono dispositivi relativamente semplici nei quali, in uno spazio chiuso coperto da lastre trasparenti, l’acqua marina viene esposta alla radiazione solare ed evapora, condensandosi poi sotto forma di acqua priva di sali che viene ricuperata. I distillatori solari hanno il vantaggio di utilizzare il calore solare a mano a mano che diventa disponibile e, nei dispositivi più efficienti, è possibile utilizzare il 50% di tale calore per far evaporare l’acqua. Con un distillatore solare della superficie di un metro quadrato è possibile ottenere circa 1.000 litri di acqua dolce all’anno. Meno favorevole si presenta, invece, la possibilità di ottenere calore ad alta temperatura con sistemi a specchi per la concentrazione del calore solare; i tentativi di far funzionare delle centrali termoelettriche con collettori a specchi non hanno finora avuto successo; il Sole dà il massimo di sé se gli si fanno fare su scala umana le cose che sa già fare bene su larga scala e male si adatta alle dimensioni e ai caratteri delle macchine (per esempio le centrali termoelettriche) sviluppate per forme più concentrate di energia, come sono i combustibili fossili.
Elettricità dal Sole
La maniera migliore per ottenere elettricità dal Sole è quella basata sulle celle fotovoltaiche che consentono di produrre, come si è ricordato, circa 100 kilowattore di elettricità all’anno per ogni metro quadrato di superficie di fotocelle esposte al Sole; ogni anno nel mondo aumenta il numero di impianti fotovoltaici e la loro potenza. Sono ormai normali centrali di decine di migliaia di kilowatt di potenza e il costo di tali centrali sta continuamente diminuendo, avvicinandosi al costo della centrali elettriche tradizionali. E, a differenza di queste ultime, le centrali fotovoltaiche solari non hanno bisogno di combustibili e non producono effetto serra o scorie radioattive. Una piccola centrale, però da appena 600 kilowatt, è in funzione da alcuni anni anche in Italia, in Puglia, vicino a Foggia. Altri piccoli impianti sono installati in varie parti del nostro paese, ma siamo ancora molto arretrati rispetto ad altri paesi, fra cui gli Stati Uniti, dove addirittura le società elettriche «solari» (come del resto quelle che gestiscono impianti eolici) vendono elettricità alle grandi reti di distribuzione. Il governo americano ha di recente lanciato un grande piano per «un milione di tetti solari». Un milione di abitazioni potrà dotarsi di sistemi fotovoltaici che le rende autonome dall’acquisto di elettricità; le compagnie elettriche e petrolifere, invece di lamentarsi per la conseguente diminuzione delle vendite di combustibili e di elettricità, si sono impegnate nella produzione industriale di celle fotovoltaiche e dei relativi sistemi ausiliari, creando nuovi posti di lavoro e nuove fabbriche localizzate nelle zone meno congestionate del paese.
Il vento rappresenta un’altra delle fonti di energia derivate dal Sole. L’energia solare riscalda le varie parti delle terre emerse e dei mari in maniera disuguale che dipende dalle stagioni, dalla latitudine, dalle condizioni della superficie del terreno. Le masse d’aria che sovrastano territori a differenti temperature scorrono da una zona all’altra e generano i venti che si possono così considerare l’effetto meccanico del funzionamento di giganteschi collettori solari naturali. Un’elica o un sistema di pale rotanti esposti al vento si mettono in moto quando la velocità del vento supera un valore minimo, in genere di una decina di kilometri all’ora. Da questa velocità in avanti un motore a vento ricupera l’energia del vento con un rendimento che dipende dalla superficie delle pale e dalla terza potenza della velocità del vento. I motori eolici possono andare da delicate macchine con eliche di grande diametro, a piccoli rotori fabbricabili con tecnologie intermedie. A titolo di esempio si producono e sono installate, anche in Italia, motori eolici con pale del diametro di 30 o 60 metri e con una potenza, rispettivamente, di 300 e 3.000 kilowatt, con una produzione di elettricità di circa 1.200-1.400 kilowattore all’anno per ogni kilowatt di potenza ottenibile, nelle condizioni di vento esistenti in Italia, con una superficie di rotazione della parte offerta al vento di circa 2-2,5 m2. I motori eolici sono diffusissimi in varie zone degli Stati Uniti e dell’Europa e rappresentano oggi una delle forme più concrete di utilizzazione delle fonti energetiche rinnovabili e continuamente disponibili, derivate dal Sole.
La forza del vento si manifesta non soltanto come moto di grandi masse d’aria, ma anche come moto di grandi masse d’acqua superficiali sotto forma di onde derivanti anch’esse, quindi, dall’energia solare. La quantità di energia ricuperabile dipende dalla differenza di altezza fra la cresta e l’avvallamento dell’onda: nelle coste di fronte ai grandi oceani si ha un moto ondoso ampio e regolare la cui forza può essere «catturata» con vari dispositivi, alcuni dei quali stanno già superando il collaudo dell’applicazione industriale. Si è già detto che il più grande collettore solare è costituito dagli oceani; in molte zone della Terra la radiazione solare scalda la superficie dei mari al punto da determinare una differenza di temperatura, che può arrivare anche a 20 gradi Celsius, fra gli strati superficiali caldi e quelli freddi profondi. Sono già stati costruiti dispositivi nei quali l’acqua fredda viene sollevata dagli strati profondi degli oceani e portata a contatto con l’acqua superficiale più calda in una macchina termica capace di trasformare, con un rendimento del 2-3%, questo piccolo salto termico in energia elettrica.
Più volte si è pensato di ricuperare una parte dell’energia meccanica incorporata nel moto delle acque sulla superficie terrestre sotto forma di energia idroelettrica, rinnovabile, più di quanto si faccia attualmente. In genere i grandi fiumi e le grandi montagne sono nelle zone disabitate come le zone tropicali ed equatoriali, la Groenlandia, l’Asia centrale. Una parte dell’energia di queste risorse potrebbe essere trasformata in energia elettrica che potrebbe essere trasportata nelle zone dove è maggiore la richiesta, o potrebbe essere trasformata per elettrolisi in idrogeno da trasportare con condotte, o che potrebbe essere utilizzata sul posto attraendo nuove attività dai paesi già oggi congestionati. Anche in questo caso si può andare da grandi impianti idroelettrici al ricupero dell’energia da piccoli salti di acqua con turbine idrauliche relativamente semplici. Finora spesso l’energia idroelettrica è stata ricuperata con interventi sul territorio – dighe, laghi artificiali – sconsiderati dal punto di vista ecologico. Le proposte dalla società solare presuppongono di utilizzare il Sole in maniera compatibile con i suoi caratteri e con le grandi leggi della natura. Il Sole per il XXI secolo. La cosa comunque che il Sole sa già fare bene, senza macchine, su larga scala e con notevole efficienza, è «fabbricare» materia organica attraverso i processi di fotosintesi: la materia organica è costituita da zuccheri, amido, cellulosa, lignina, sostanze proteiche, grassi, ecc., una straordinaria varietà di molecole su molte delle quali abbiamo ancora conoscenze appena approssimative e quasi nulle per quanto riguarda le potenziali applicazioni umane.
La biomassa vegetale ha dentro di sé, «incorporata», l’energia che il Sole ha messo a disposizione per la sua sintesi e tale energia restituisce bruciando. Nei climi temperati da un ettaro di foresta o di terreno coltivato è possibile ricavare ogni anno l’equivalente di circa 10.000 kg di idrocarburi sotto forma di sostanza organica – e senza alcuna macchina. Ciascuna delle sostanze presenti nella biomassa è utilizzabile direttamente come combustibile o trasformabile in fonti di energia commerciali (come gas o liquidi combustibili) e sempre più spesso si parla di coltivazioni o piantagione energetiche, progettate proprio per ottenere combustibili o materie alternative a quelle ricavate dal petrolio, anche se questi progetti vanno sottoposti ad attento scrutinio per verificarne la compatibilità ecologica.
Per la maggior parte dei problemi tecnico-scientifici associati alla transizione ad una società solare esiste già una risposta: altre possono essere pensate e inventate.
Alle proposte di costruzione di una società solare viene obiettato sempre che il calore, o l’elettricità, o i combustibili ottenuti dal Sole e dalle fonti rinnovabili hanno un costo eccessivo rispetto a quello delle corrispondenti forme di energia ricavate dalle fonti non rinnovabili, scarse, esauribili. Secondo le regole della contabilità tradizionale ciò in genere è oggi vero, ma dipende dal fatto che nell’analisi dei costi delle fonti energetiche attuali non viene contabilizzato né il costo dell’inquinamento per la nostra generazione, né il costo, per le generazioni future, dell’impoverimento delle riserve di combustibili fossili. Inoltre non si tiene conto che quanto maggiore sarà la diffusione delle tecnologie solari, tanto minore sarà, per effetto di scala, il loro costo e il costo dell’energia.
L’avvento di una nuova economia capace di integrare la contabilità monetaria con quella «naturale» mostrerà che esiste una convenienza anche in termini contabili a ricorrere alle fonti di energia derivate dal Sole. La transizione a una società solare, inoltre, è la grande occasione per razionalizzare macchinari, processi, mezzi di trasporto, strutture urbane, in modo che siano meno consumatori e distruttori di energia, a parità di servizio «umano» fornito. Vi è una sola osservazione importante che deve guidare i progettisti di una futura società solare: proprio per il carattere diffuso e diluito della fonte di energia, le opere di raccolta dell’energia in forma utile su scala umana per forza richiedono superfici molto grandi e possono provocare anch’esse effetti ambientali negativi.
Molti sostenitori dell’energia solare pensano alla possibilità di regolare il corso dei grandi fiumi con la creazione di laghi artificiali, dighe, centrali idroelettriche; tali opere, coerenti con il progetto solare, possono peraltro avere effetti disastrosi – come è già avvenuto – sugli equilibri delle foreste pluviali o delle valli montane, o sull’afflusso dell’acqua a valle, se non sono progettate in maniera del tutto diversa da quella finora seguita per le grandi centrali idroelettriche.
È possibile utilizzare la forza del moto ondoso con opere di captazione negli estuari o lungo le coste, ma tali opere possono provocare effetti erosivi e alterazioni ambientali quando la loro dimensione diventa molto grande ed estesa, come è richiesto dalla bassa densità dell’energia del moto ondoso per kilometro di costa. È possibile trarre carburanti e materie prime per l’industria chimica dalla biomassa e da colture «energetiche», ma sarebbe un errore pensare a tali colture con i criteri della agricoltura intensiva che richiede un uso intensivo e inquinante di concimi e antiparassitari, o a spese delle foreste, come si propone oggi; è possibile coltivare i deserti, dove è elevata la radiazione solare, ma occorre evitare gli effetti ecologici negativi che si sono già osservati nell’introduzione di monocolture «economiche» al margine dei deserti. Distruggere le foreste per creare coltivazioni di canna da zucchero da cui trarre alcol etilico carburante sarebbe una vera follia!
Se da una parte occorre preparare l’avvento di uno sviluppo umano basato sul crescente ricorso all’energia solare, attraverso perfezionamenti e innovazioni tecnico-scientifici sui processi e sui materiali, occorre far crescere una cultura ecologica e territoriale capace di verificare e anticipare i danni che alcuni di tali processi possono arrecare al pianeta nel suo complesso.
Anche nel caso del Sole e delle fonti energetiche non rinnovabili, il criterio della corsa al minore costo monetario o al successo tecnico-commerciale o consumistico può far cadere in trappole che vanificano il progetto guida che deve essere quello del carattere umano dello sviluppo. E uno sviluppo umano sarà possibile soltanto adottando nuovi rivoluzionari tipi e forme di energie, di merci, di consumi, di città, di regole economiche, attingendo a piene mani alle grandissime risorse del Sole, del vento, delle acque, della biomassa, realizzando quella società neotecnica e biotecnica auspicata da Lewis Mumford (1895-1990), inascoltato, oltre settant’anni fa.
Manifesto per un’ecologia socialista (per un socialismo ecologico)
“La proposta di Manifesto sotto riportata, redatta da Giorgio Nebbia in preparazione della Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo del giugno 1992, venne discussa dalle riviste del network di CNS (Italia, Spagna, Francia e Stati Uniti) nel seminario di Valencia, nel marzo dello stesso anno 1991. La proposta puntava a una soluzione dei problemi mondiali ambientali e di sviluppo sulla base di una articolazione dei paesi fondata sulla dotazione di risorse naturali minerarie, energetiche, forestali, agricole, di acqua, etc. Questa proposta, che riprendeva quella formulata nel 1974 da Barbara Ward, un’economista cattolica inglese, era molto avanzata per i tempi di allora. Fu criticata a Valencia su aspetti marginali, e non venne pertanto portata a Rio de Janeiro. Sarebbe più che attuale anche oggi, visto che le questioni ambientali sono ancora trascurate dai politici contemporanei, nonostante i danni sempre maggiori prodotti dal cambiamento climatico”.
Manifesto per un’ecologia socialista (Proposta)
Gli ultimi anni del XX secolo hanno visto eventi di drammatica importanza in relazione alla conservazione di condizioni di vita accettabili, umane e ambientali, sul nostro pianeta.
Il passaggio dei paesi socialisti industriali (oltre 300 milioni di persone) dall’economia pianificata all’economia di mercato, con una crescente produzione di beni materiali e una rapida conversione ai modi di consumo dei paesi capitalistici, provoca una crescente domanda di risorse naturali e un crescente inquinamento locale e planetario.
Alcuni Stati, come la Russia, sono in gran parte autonomi quanto a disponibilità delle principali risorse naturali economiche – prodotti forestali, minerali, fonti di energia, prodotti agricoli, spazio, risorse idriche – una condizione simile a quella degli Stati Uniti, dell’Australia, del Canada.
Si sta delineando un nuovo “primo mondo” (con oltre mezzo miliardo di abitanti) non più diviso da barriere ideologiche, potenziale struttura imperiale nei confronti degli altri paesi del pianeta.
Esiste poi un “secondo mondo” rappresentato dai paesi sviluppati, altamente industrializzati, ma poveri di materie prime, che devono dipendere dai paesi in via di sviluppo per le importazioni necessarie per tenere in moto la loro macchina produttiva; essi producono grandi quantità di merci per il proprio mercato interno, per i paesi in via di sviluppo, con tentativi di invasione commerciale dei paesi del primo mondo.
Il secondo mondo comprende i paesi dell’Europa occidentale e orientale, il Giappone e alcuni paesi industriali emergenti asiatici, con circa 600 milioni di abitanti.
Gli abitanti del primo e del secondo mondo, poco più di un miliardo di persone, circa il 20% della popolazione mondiale, consumano circa il 70% delle risorse minerarie, energetiche, forestali, agricole, di acqua, estratte dalle riserve di risorse naturali del pianeta e producono un’equivalente quantità di agenti inquinanti dell’aria, delle acque, del suolo, del mare.
Le regole dell’economia capitalistica – l’unica ormai dominante – fanno coincidere l’idea di “sviluppo” con quella della crescita della produzione dei beni materiali e con la conseguente produzione di scorie e di agenti inquinanti e di violenza urbana.
In mancanza di una pianificazione e di controlli sulla produzione e sul consumo di merci il prodotto nazionale lordo – l’unico indice ufficialmente riconosciuto del “benessere” – aumenta soltanto se aumenta il numero e il peso delle merci in circolazione e dei residui e delle scorie, per cui lo stesso indice finisce per indicare lo stato di “malessere” complessivo di una società.
Tale malessere è reso più complesso dal fatto che nei paesi del primo e del secondo mondo aumenta rapidamente il numero di anziani e la dipendenza, per molti lavori, dall’importazione di lavoratori stranieri che, peraltro, sono male tollerati da una cultura sostanzialmente razzista e coloniale.
Esiste un “terzo mondo” che comprende i paesi che possiedono alcune delle risorse naturali economiche pressantemente richieste dai paesi del primo e del secondo mondo: petrolio, prodotti alimentari e forestali, minerali, eccetera. Questi paesi del terzo mondo (con circa tre miliardi di abitanti e con rapidi tassi di aumento della popolazione) aspirano soltanto a diventare “potenze” industriali ed economiche simili ai paesi del primo e del secondo mondo, con simili modelli di produzione e di consumi.
Per ora i paesi del terzo mondo dipendono dai paesi del primo e del secondo mondo per le importazioni di merci e tecnologie che possono pagare soltanto attraverso un sempre più intenso sfruttamento delle loro risorse naturali, con effetti disastrosi di inquinamento interno, di impoverimento della fertilità del suolo, e con i conseguenti effetti negativi sull’ambiente planetario.
I paesi del primo e del secondo mondo esercitano una pressione imperialista sulle classi dominanti dei paesi del terzo mondo al fine di ottenere le loro risorse naturali a prezzi bassi e di assicurarsi un monopolio nella vendita di merci industriali, armi comprese.
D’altra parte nei paesi del terzo mondo le classi dominanti opprimono le classi povere dei loro stessi paesi e altri paesi poveri, con la complicità di discriminazioni religiose e razziali interne ed esterne.
Infine circa un altro miliardi di terrestri abitano i paesi del “quarto mondo”, poveri e poverissimi, scarsi di risorse naturali da vendere, incapaci di sviluppare una classe dirigente capace di avviare un reale processo di sviluppo umano, anche utilizzando razionalmente le risorse naturali economiche che pure alcuni hanno.
Gli abitanti dei paesi del quarto mondo, anch’essi con alti e altissimi tassi di aumento della popolazione, si offrono sul mercato internazionale come mano d’opera a basso prezzo, esposta a ricatti e violenze e al miraggio di una lotta di liberazione dalla miseria politica ed economica.
Il pianeta Terra non è povero di risorse naturali, di spazio abitabile e coltivabile, ma le regole dell’economia dominante impongono di occupare e sfruttare le zone più ricche con conseguente superamento della carrying capacity in molti territori.
Lo sfruttamento capitalistico dei popoli e delle risorse del pianeta Terra si manifesta in varie forme. Talvolta nella forma della congestione urbana, provocata dai grandi proprietari fondiari che hanno interesse a concentrare la popolazione in spazi ristretti e dagli industriali del petrolio e dell’automobile che hanno interesse a orientare i modi di trasporto verso soluzioni che, pur violente e inquinanti, assicurano loro i massimi profitti.
Le regole del massimo profitto impongono il superamento della capacità produttiva dei terreni più fertili, al fine di rendere massime le rese e i profitti per ettaro coltivato; le stesse regole impongono, al fine di evitare i costi della depurazione e del riutilizzo delle scorie, o i costi di produzione di merci e processi alternativi, di superare la capacità ricettiva dei fiumi, dell’aria di particolari zone, dell’intera atmosfera per i prodotti di rifiuto delle attività di produzione e di consumi.
Stiamo assistendo ad un graduale disarmo degli arsenali nucleari dell’impero russo-americano, ma non vengono valutati adeguatamente i pericoli per la biosfera conseguenti la circolazione dei materiali fissili e radioattivi estratti dalle bombe e quelli relativi alla loro sepoltura per millenni al riparo da tentazioni di furti per fini militari
Alcuni paesi del terzo e anche del quarto mondo hanno ancora la tentazione di costruirsi un proprio arsenale di bombe nucleari come strumenti di ricatto e di violenza e oppressione verso i loro nemici.
La salvezza del pianeta per la nostra e le future generazioni non può contare esclusivamente su soluzioni tecnico-scientifiche, come l’introduzione di filtri o di depuratori o delle pratiche di riciclaggio, ma è possibile soltanto attraverso una profonda revisione delle regole dell’economia capitalistica e di mercato.
La salvezza può venire soltanto da una ridefinizione di “sviluppo”, ben distinto dalla “crescita” di beni materiali, a da una conseguente ridefinizione della qualità, della quantità e della priorità fra le merci prodotte e disponibili.
L’ecologia mostra che la salvezza può venire soltanto dalla riscoperta dei valori di cooperazione e di limite e dall’elaborazione di un’economia socialista capace di pianificare l’uso delle risorse scarse e della carrying capacity del pianeta, senza soluzioni violente e autoritarie, intrinsecamente instabili.
È difficile immaginare la costruzione di una società capace di anteporre i valori della solidarietà interna e internazionale a quelli del profitto e del successo privato, i valori della natura e della biosfera a quelli del possesso individuale di merci.
Solo una tale società ecologicamente sostenibile e economicamente pianificata può affrontare in maniera credibile i problemi degli squilibri della popolazione, rapidamente crescente nei paesi più poveri, in rapido invecchiamento nei paesi industriali, in questi ultimi con crescenti sacche di povertà e di emarginazione pur in mezzo all’opulenza delle merci.
La soluzione dei problemi che i governi mondiali dovranno affrontare nell’imminente Conferenza su “ambiente e sviluppo” si può avere soltanto con una profonda trasformazione delle regole economiche, con l’elaborazione di una “neo-economia” socialista, unica compatibile con le regole dell’ecologia.
CNS, Capitalismo Natura, Socialismo, n.4, 1992
La lezione di Roosevelt vale ancora?
Un uomo di cinquant’anni, colpito dodici anni prima da un attacco di poliomielite, scende dalla carrozzella e, pallidissimo, percorre faticosamente a piedi, appoggiandosi al braccio del figlio, i trenta metri che lo separano dal podio in cui lo attende il Presidente della Corte Suprema degli Stati Uniti per accogliere il suo giuramento di Presidente degli Stati Uniti.
È il 4 marzo del 1933, una fredda e piovosa mattinata di Washington, e il nuovo presidente è Franklin Delano Roosevelt. L’America – che lo ha eletto più per sfiducia nei confronti del suo predecessore, il repubblicano Hoover, che per convinta ammirazione per il democratico Roosevelt – è un paese senza fiducia.
Rigurgiti di consumismo sfacciato si alternano con la disperazione di milioni di disoccupati pieni di debiti; l’agricoltura è allo sbando, con i granai pieni di cereali e di cotone che nessuno compera e con le famiglie rurali alla fame; il divieto di consumo degli alcolici ha dato vita a bande di criminali organizzate di spacciatori, di distillatori clandestini di alcol, di importatori di bevande alcoliche che prosperano con la copertura della diffusa corruzione di funzionari e uomini politici.
L’America lasciata da Hoover non era soltanto quella delle banche e delle borse dissestate, del debito pubblico avanzante, ma si presentava con il suolo impoverito da decenni di sfruttamento, esposto all’erosione dovuta alle piogge e al vento, con le foreste devastate da incendi, con paesi e città senza fogne e senza discariche dei rifiuti, con città violente e inquinate, solcate da lunghe code di disoccupati pieni di debiti.
Nell’America ereditata da Roosevelt era crollata la produzione di acciaio, di alimenti, di automobili, di petrolio. I negozi contenevano merci contaminate con residui di pesticidi e con sostanze velenose, al punto che due giornalisti, Kalleth e Schlink, potevano scrivere un libro di successo, intitolato: Cento milioni di cavie, per denunciare le frodi alimentari. Roosevelt aveva impostato la sua campagna promettendo un “nuovo corso” – il “New Deal” – per sconfiggere depressione e sfiducia, e cominciò il suo discorso di investitura con le celebri parole “L’unica cosa di cui si deve avere paura è la paura stessa”.
Gli eventi di quel 4 marzo 1933, raccontati da Arthur Schlesinger nei tre volumi del libro Il New Deal, pubblicati da Il Mulino nel 1959-65, ritornano alla mente a sessant’anni di distanza, in questo 1993, primo anno dell’Europa unita e della nuova amministrazione democratica americana, presieduta da un Clinton che si è insediato, in gennaio, con uno stile tanto diverso.
Ma il ricordo dell’avvento del New Deal presenta anche interesse perché la situazione dell’America del 1933 ha molte analogie con quella dell’Italia del 1993 e perché forse le azioni politiche – nei settori dell’agricoltura, della produzione industriale, delle merci, dell’ambiente – dell’amministrazione Roosevelt negli anni trenta potrebbero suggerire qualche idea sulle cose da fare per far uscire il nostro paese dalla crisi.
Roosevelt e le risorse naturali
Il programma ecologico di Roosevelt, riletto a sessanta anni di distanza, pensando che allora non si parlava di ecologia, di ambientalismo e di verdi, ha molti aspetti sorprendenti. Intanto va ricordato che agli inizi del secolo Teodoro Roosevelt (solo un lontano parente di Franklin Delano), presidente dal 1901 al 1908, nel 1905 aveva già varato un grande programma governativo americano di conservazione della natura.
F.D.Roosevelt capì che la salvezza dell’America dipendeva anche dalla regolazione del corso dei fiumi e dalla lotta all’erosione, dalla ricostruzione della fertilità dei suoli agricoli e dei pascoli e dalla regolamentazione dell’estrazione di minerali, carbone e petrolio, da una nuova politica urbanistica e da un nuovo rapporto città-campagna, da un controllo della produzione delle merci e dalla lotta alle frodi contro i consumatori, dalla salvaguardia delle foreste e dall’estensione dei parchi. Tutte le competenze nel campo delle risorse naturali – acqua, foreste, difesa del suolo, opere pubbliche, urbanistica, parchi, miniere, rifiuti, eccetera – furono concentrate in due ministeri, quello dell’agricoltura e quello dell’interno, affidati a due persone H.A.Wallace e Harold L.ickes, singolari come competenze e devozione al loro mandato.
E quanto sia opportuna una politica coordinata nel campo delle risorse naturali lo dimostrano la lentezza e l’inefficacia delle azioni dei nostri governi, sparpagliate fra le competenze dei ministeri dell’ambiente, dei lavori pubblici, dell’agricoltura, delle aree urbane, dei trasporti, della marina mercantile, dispersione comoda al fine di moltiplicare uffici e appalti, ma catastrofica per la difesa della natura e dell’ambiente.
Acqua
Gli anni che precedono la vittoria di Roosevelt erano stati caratterizzati da un seguito di siccità e di degrado del suolo. I lavori intrapresi dalle amministrazioni precedenti per la regolazione del corso dei fiumi andavano a rilento: era stata completata soltanto la grande diga Hoover sul Colorado.
La nuova amministrazione affrontò subito il problema della regolazione del corso dei fiumi. L’aumento e la razionale utilizzazione delle risorse idriche, la lotta alla siccità e all’erosione, potevano essere condotti soltanto per grandi bacini idrografici: poiché questi si stendevano attraverso i confini di vari stati, le relative opere erano di competenza e responsabilità federale. Uno dei più grandi fiumi e bacini idrografici del Nord America è il Tennessee che scorre dalle montagne innevate ai campi esposti all’erosione, fino a immettersi nell’Ohio poco prima che questo si getti nel Mississippi. Sul Tennessee erano state costruite, durante la prima guerra mondiale, delle dighe per la produzione di energia idroelettrica che serviva a produrre acido nitrico sintetico per l’industria degli esplosivi.
Il governo del New Deal decise di affrontare la regolazione delle acque della valle del Tennessee costruendo una serie di dighe e di centrali idroelettriche, realizzando la prima industria elettrica di proprietà del governo federale. Il 18 maggio 1933, due mesi dopo l’insediamento di Roosevelt alla Casa Bianca, fu creata una speciale agenzia, la Tennessee Valley Authority, il più noto esempio di pianificazione territoriale e industriale del New Deal.
La costruzione delle dighe attirò nella zona lavoratori disoccupati da tutta l’America; fu rettificato il corso del fiume, furono fatte opere per fermare l’erosione del suolo e per il rimboschimento delle valli. L’elettricità “governativa” permise di alimentare fabbriche, pure di proprietà del governo federale, per il trattamento dei minerali fosfatici e per la produzione di concimi: concimi di stato da distribuire agli agricoltori a prezzi politici per ridare fertilità alle terre impoverite dall’erosione.
Curiosamente il New Deal fece uscire l’America dalla crisi, fra l’altro con iniziative di “nazionalizzazione” proprio in direzione contraria alla privatizzazione delle industrie statali che si pratica oggi in Italia.
Boschi e occupazione
Lo stato di erosione del suolo dell’America richiedeva interventi immediati e le opere di regolazione del corso dei fiumi sarebbero state vanificate se non fossero state accompagnate da una vasta azione di rimboschimento delle valli.
Roosevelt aveva sottolineato, fin dalla campagna elettorale, l’importanza delle foreste. Gli alberi – disse – trattengono la terra fertile sui declivi e l’umidità del suolo, regolano il fluire delle acque dei ruscelli, moderano i grandi freddi e i grandi caldi: sono i “polmoni” dell’America perché purificano l’aria e danno nuova forza agli Americani. Il 14 marzo 1933, dieci giorni dopo essersi insediato alla Casa Bianca, Roosevelt predispose un grande progetto per impiegare un esercito di giovani disoccupati al lavoro nelle foreste.
Nell’estate del 1933 300.000 americani, celibi, dai 18 ai 25 anni, figli di famiglie assistite, erano nei boschi, impegnati nei lavori di difesa del suolo che da molti anni erano stati trascurati. Negli anni successivi, in varie campagne, due milioni di giovani lavoratori, complessivamente, piantarono 200 milioni di alberi, ripulirono il greto dei torrenti, prepararono laghetti artificiali per la pesca, costruirono dighe, scavarono canali per l’irrigazione, costruirono ponti e torri antincendio, combatterono le malattie dei pini e degli olmi, ripulirono spiagge e terreni per campeggi.
Nell’aprile 1935 fu creato il Soil Conservation Service col compito di difendere il suolo, anche se era di proprietà privata, per conto della collettività.
Terreni demaniali
All’inizio del New Deal l’America aveva ancora vasti terreni demaniali; nei decenni precedenti il governo non aveva esitato a vendere a prezzi irrisori molti terreni di proprietà federale a chi voleva aprire miniere, installare pozzi petroliferi, utilizzare i pascoli. Nelle terre demaniali residue gli allevatori dell’ovest da sempre avevano portato a pascolare il bestiamo senza alcun controllo né pagamento, con la conseguenza che l’eccessivo pascolo aveva distrutto l’erba e aveva fatto avanzare l’erosione e il deserto.
Nel 1933 il governo decise di far pagare un affitto a coloro che usavano risorse naturali – pascoli o miniere – demaniali e di fermare la svendita dei terreni collettivi. Ancora una volta una azione che va in direzione esattamente contraria a quella in corso oggi in Italia, caratterizzata proprio dalla svendita ai privati dei beni collettivi, come sono gli spazi demaniali o le terre soggette a usi civici.
Agricoltura e materie prime
Nell’America della grande crisi c’era sovrabbondanza di raccolti, ma prezzi così bassi che gli agricoltori soffrivano la fame. L’erosione del suolo dovuto alle acque e al vento aveva spinto milioni di piccoli proprietari o affittuari ad abbandonare le proprie terre per andare a lavorare come miserabili salariati nelle terre ancora fertili. Le grandi compagnie finanziarie compravano a prezzi stracciati i terreni dei piccoli coltivatori soffocati dai debiti. La drammatica situazione è descritta, fra l’altro, nel libro Furore di Steinbeck, del 1939, da cui l’anno dopo fu tratto un celebre film.
Il 12 marzo 1933 il governo Roosevelt propose una serie di incentivi finanziari intesi a trattenere nei campi i piccoli coltivatori e a difendere i prezzi.
“Distruggere un raccolto va contro i migliori istinti della natura umana”, sosteneva il ministro dell’agricoltura Wallace, e così furono organizzate le distribuzioni, alle classi meno abbienti e povere urbane, di cibo acquistato dal governo e furono incentivati i mezzi per risollevare il mercato. Fra questi ultimi va ricordato lo sforzo per la utilizzazione industriale dei prodotti e sottoprodotti agricoli. La chimica avrebbe avuto un ruolo fondamentale e William Hale coniò il termine “chemiurgia” per indicare le tecniche capaci di trasformare le materie di origine agricola, zootecnica e forestale in merci: dall’alcol etilico, da usare come carburante e come materia prima per la gomma sintetica, alla cellulosa e alle proteine per ottenere fibre artificiali, dall’amido alle materie plastiche.
Le stesse proposte di manufatti di plastica “ecologica”, a base di amido, oggi di moda, erano già state elaborate sessant’anni fa. Il successo delle merci ottenute dal petrolio ha oscurato un insieme di realizzazioni che ancora oggi potrebbero dare lavoro e reddito all’agricoltura. Il Dipartimento dell’agricoltura fin dal 1933 creò una serie di stazioni di sperimentazione che furono all’avanguardia nelle tecniche di chemiurgia e incoraggiarono nuove coltivazioni e industrie.
Furono studiate nuove materie agro-industriali, che vengono “riscoperte “adesso, alla luce dell’ecologia: dalle cere ricavate dalla jojoba, alla gomma guayule, dalle fibre tessili cellulosiche naturali ottenute da ginestra, canapa, yucca, a nuove materie cellulosiche industriali, eccetera.
In questo periodo venne lanciata la campagna per ridare orgoglio agli agricoltori, ridivenuti consci del ruolo primario del loro lavoro: “I’m proud I’m a farmer” (Sono orgoglioso di essere un agricoltore), si leggeva nelle fattorie in quegli anni. Questo orgoglio era indispensabile per coinvolgere gli agricoltori nelle opere di difesa del suolo, di rimboschimento, di innovazione nelle colture.
La lotta alle frodi
Il Dipartimento dell’agricoltura assunse anche un ruolo vigoroso nella lotta contro le frodi. Proprio come nel 1906 il libro La giungla dello scrittore Upton Sinclair aveva denunciato le drammatiche condizioni di lavoro nelle grandi fabbriche di carne in scatola, il libro Cento milioni di cavie denunciava i pericoli per la salute dei prodotti alimentari, dei medicinali, dei cosmetici. Uno degli autori, F.J.Schlink, pochi anni prima aveva fondato la Consumers’ Research Inc., per effettuare analisi delle merci nell’interesse dei consumatori, che cominciarono a diventare soggetti e protagonisti politici. Tugwell, sottosegretario all’agricoltura del governo Roosevelt, subito nella primavera del 1933 decise di abbassare da 1,3 a 0,9 milligrammi la massima quantità di arseniato di piombo, un antiparassitario, tollerata negli alimenti.
La Food and Drug Administration, una agenzia del Dipartimento dell’agricoltura fino allora sonnacchiosa, organizzò, per ordine di Tugwell, una mostra delle frodi e dei veleni che finivano sulla tavola degli americani. Naturalmente le proposte di riforme merceologiche incontrarono la forte opposizione dei produttori industriali e solo nel 1938 fu approvata la nuova legge su purezza di alimenti, cosmetici e medicinali, il Pure Food, Drug and Cosmetic Act.
La comunità e la città
La rinascita delle città fu un altro dei punti importanti del New Deal: come risposta alla congestione urbana e alla sua violenza fu avviato un progetto per portare al di fuori dei ghetti urbani la popolazione povera, in modo che gli abitanti potessero vivere alla luce del sole, respirare aria buona e anche avere una piccola superficie di terreno da coltivare.
Furono così proposti quartieri residenziali autosufficienti nei quali le famiglie, ridotte sul lastrico dalla povertà urbana e rurale, potessero trovare rifugio occupandosi di artigianato, di coltivazione della terra anche per trarne il proprio cibo.
Il progetto prevedeva di localizzare le fabbriche in zone aperte e distanti fra loro, di sviluppare un nuovo tipo di città industriale suburbana, resa possibile dall’era dell’automobile.
Queste idee ebbero fra l’altro il sostegno di un architetto-pensatore come Lewis Mumford che, proprio nel 1934, scrisse Tecnica e cultura, proponendo la transizione ad una società “neotecnica”, meno violenta ed inquinata. Il programma rimase in gran parte sulla carta, ma mostra l’ambiente culturale dei primi anni dell’amministrazione Roosevelt e la vivacità degli studiosi, urbanisti, progettisti che riuscì a mobilitare.
Comunque il governo del New Deal avviò un processo di bonifica urbana, opere di edilizia popolare, sia nelle città, sia nelle campagne, per eliminare le abitazioni malsane e fatiscenti e ridare così, con case adeguate, anche una dignità alle famiglie dei diseredati.
Merci e ambiente
Roosevelt capì che la crisi economica e dell’occupazione dipendeva anche dalla mancanza di un coordinamento e di pianificazione nella produzione delle merci.
Negli anni venti una scelta merceologica ispirata ad un finto moralismo aveva provocato, con il divieto della vendita di bevande alcoliche, un commercio clandestino di alcolici e quindi la crescita della più grande organizzazione criminale e di corruzione pubblica mai vista fino allora, e certamente lontana progenitrice di quella criminalità organizzata con cui ci dobbiamo confrontare oggi in Italia. Roosevelt comprese che solo mettendo un freno a questa violenza il paese avrebbe potuto affrontare la crisi. Il lunedì 13 marzo 1933, nove giorni dopo il suo insediamento, propose una legge che autorizzava la produzione e la vendita della birra a 3,2 gradi alcolici.
Il venerdì successivo la proposta era già approvata dal Congresso; non era ancora la legalizzazione delle bevande alcoliche, ma l’inizio e il segnale di una politica antiproibizionistica che diede un grave colpo alla criminalità e alla corruzione.
Il 16 giugno 1933 fu approvata la legge che creava la National Recovery Administration, un organismo con funzioni di studio e di proposta nel campo della pianificazione delle opere pubbliche e della produzione industriale.
Per sconfiggere la povertà e la disoccupazione occorreva concordare con gli imprenditori orari di lavoro e salari tali da consentire la ripresa della produzione dell’industria e dei consumi delle famiglie. Le aziende che aderivano all’accordo potevano contrassegnare i loro prodotti e merci con l’“Aquila blu” (“Blue Eagle”), un marchio che assicurava i consumatori che le aziende stesse contribuivano, anche con sacrifici dei propri profitti, allo sforzo di ricostruzione del paese e che pertanto i loro prodotti andavano preferiti.
La ripresa della produzione, industriale ed agricola, assicurata dalla politica di pianificazione, diede di nuovo fiducia anche alla ricerca e all’innovazione. Attraverso una simbiosi con la ricerca universitaria, negli anni dell’amministrazione Roosevelt furono fatte alcune scoperte industriali di grande importanza. Solo per citarne alcune: furono messi a punto dei processi per la produzione della gomma sintetica partendo sia da sottoprodotti agricoli, sia da prodotti petroliferi. Furono messe a punto benzine ad alto numero di ottani che consentirono lo sviluppo dell’aviazione e dei trasporti aerei civili. Furono messi a punto processi per la produzione di tessili artificiali, dalle proteine del latte, della soia e dell’arachide, dai residui della lavorazione del cotone, e furono inventate fibre tessili sintetiche destinate a rivoluzionare l’industria e il modo di vivere e di consumare di tutto il mondo, come il nylon presentato ai consumatori nel 1938.
In questa atmosfera ebbe sviluppo anche la ricerca universitaria “pura”; gli scienziati ebrei sfuggiti alle persecuzioni razziali in Europa trovarono in America non solo libertà d’insegnamento, ma anche apparecchiature e mezzi finanziari che portarono a scoperte destinate ad avere effetti lontani.
Non tutto, nell’era di Roosevelt, andò liscio. Molti progetti non furono realizzati, ma di certo l’epoca del New Deal fu un periodo di speranza e di fiducia nel futuro.
Il New Deal e l’Italia
Il New Deal di Roosevelt fu seguito con attenzione in Italia fin dai tempi fascisti. Gli anni trenta sono stati anni di crisi anche in Europa e in Italia, e gli economisti e gli studiosi che conoscevano l’America prestarono attenzione a questo strano esperimento di pianificazione nella democrazia, di intervento dello stato nel rispetto della libera iniziativa.
Non si deve dimenticare che sono gli anni della pianificazione sovietica e Roosevelt fu accusato, dalle forze conservatrici americane, di essere un comunista, o, peggio, un bolscevico.
Anche sotto l’influenza sollecitata dal New Deal americano nel 1933 fu creato in Italia l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) con fini di coordinamento e di intervento statale nei settori disastrati dell’industria. Ma l’interesse scientifico e politico per il New Deal si fecero sentire soprattutto negli anni dopo la Liberazione, quando si trattava di ricostruire l’Italia uscita dalla guerra e di colmare gli squilibri fra nord industriale e sud agricolo.
Gli intellettuali radicali e socialisti antifascisti, rientrati in Italia dagli Stati Uniti portarono la conoscenza e l’interesse per il New Deal in un’Italia rimasta, anche nella sua nuova classe dirigente, provinciale ed esclusa dal grande giro internazionale. Adriano Olivetti, con il suo movimento di “Comunità”, fece conoscere in Italia le opere del New Deal e di Mumford, le nuove correnti di pensiero sulla pianificazione democratica e su una nuova urbanistica.
Al New Deal si ispirarono coloro che proposero i grandi programmi di opere pubbliche e una struttura di finanziamento e pianificazione dell’uso delle risorse naturali nel Mezzogiorno, quella che divenne poi, nel bene e nel male, la Cassa per il mezzogiorno. Al New Deal si ispirarono coloro che, nel primo centro-sinistra, si batterono per la nazionalizzazione delle imprese elettriche e per l’estensione al ministero del bilancio di competenze anche nel campo della programmazione, con la creazione di un apposito ufficio.
A dire la verità le attività della programmazione italiana (il più celebre documento è il “progetto ottanta”, predisposto alla fine degli anni sessanta) erano più attente agli aspetti economici che alla salvaguardia e alla valorizzazione delle risorse naturali o alle scelte produttive e merceologiche. Ciò forse perché la classe dominante era costituita da economisti e avvocati, più che da studiosi di agricoltura, chimici, forestali, urbanisti, ingegneri.
In anni anche recenti gli economisti e alcuni uomini politici hanno dichiarato l’opportunità di fare di nuovo riferimento al New Deal, che sarebbe necessario un New Deal italiano, ma le buone intenzioni non hanno fermato il degrado morale ed economico, e anche ambientale, quest’ultimo, del resto, figlio dei primi due e della crisi del senso dello stato.
Il successo del New Deal di Roosevelt era invece proprio basato sul ricupero del senso della comunità e dello stato.
Si potrebbe pensare adesso, alle soglie del XXI secolo – mancano appena 2500 giorni! – di far uscire l’Italia dalla crisi economica e morale con un “nuovo corso”? Se nascesse una nuova classe dirigente con un nuovo senso dello stato, quali azioni dovrebbe intraprendere?
Immaginiamo che improvvisamente le autorità centrali e regionali mettano da parte i cavilli giuridici e “istituzionali” (dietro cui spesso si nascondono gelosie di centri di potere e di affari) ed avviino un grande programma di sistemazione delle acque, di difesa del suolo contro l’erosione, di rimboschimento.
Tale programma non può essere condotto altro che nell’ambito dei bacini idrografici che devono diventare – come del resto prescrive la legge italiana – le nuove unità geografico-politiche in cui svolgere le azioni di pianificazione territoriale e di difesa delle risorse naturali. In ciascun bacino idrografico la “autorità” prevista dalla legge dovrebbe predisporre opere per fermare l’erosione attraverso la pulizia e la sistemazione degli argini e del greto dei fiumi, il rimboschimento dei pendii delle valli.
La forza delle acque fluenti potrebbe essere utilizzata per ottenere energia idroelettrica – una fonte di energia rinnovabile attraverso la costruzione di bacini artificiali e centrali progettati non per massimizzare i profitti delle imprese elettriche, ma a fini multipli, per regolare il moto delle acque, assicurare riserve di acqua nei mesi di scarse piogge e creare spazi per attività ricreative- una pianificazione di questo genere presuppone di far cessare l’appropriazione privata delle golene e delle rive dei fiumi, di regolare (e anche vietare, in certe zone) i prelevamenti di sabbia e ghiaia dal greto dei fiumi; una vera autorità di bacino dovrebbe avere il potere di intervenire sulla proprietà privata e sull’iniziativa privata quando queste assumano carattere speculativo e di rapina e danneggiano i beni collettivi.
Difesa del suolo significa soprattutto ricostruzione del manto vegetale nelle sue varie forme, attraverso il rimboschimento con alberi, la ricostruzione della macchia, attraverso tecniche colturali che impediscano l’asportazione della terra fertile e consentano la protezione e formazione dell’humus, che è l’unico modo in cui può essere rallentato il moto violento ed erosivo delle acque. La difesa del suolo presuppone una lungimirante politica di riutilizzo delle zone in cui sono state sospese o sono scoraggiate le coltivazioni agricole tradizionali. Significa una nuova cultura forestale popolare diffusa.
Eserciti di “forestali” sono stati messi, nei decenni passati, al lavoro in varie zone d’Italia, soprattutto nel Mezzogiorno, spesso tollerando che gli stessi disoccupati, per poter essere ingaggiati l’anno successivo, lasciassero degradare o magari divorare dal fuoco le giovani piante.
In un New Deal italiano alle soglie del XXI secolo l’agricoltura dovrebbe tornare ad essere il settore “primario” dell’economia. La libera circolazione delle merci e dei servizi in Europa e una nuova disciplina contro gli sprechi imposta dalla Comunità europea porteranno a limitare le sovvenzioni alle produzioni agricole eccedentarie. Invece di continuare a piagnucolare per ottenere la proroga delle protezioni, un New Deal agricolo potrebbe pensare ad un ritorno dell’agricoltura al suo ruolo primario nella gestione delle risorse naturali.
Le opere di razionale sistemazione delle risorse idriche e di difesa del suolo contro l’erosione potrebbero creare proprio nella collina e nella montagna disponibilità di materie prime agricole, zootecniche e forestali suscettibili di trasformazione sul posto, grazie anche a nuove fonti di energia idroelettrica, con operazioni di “chemiurgia”, in nuove materie prime e merci: carburanti alternativi al petrolio (come l’alcol etilico), fibre tessili artificiali, materie prime per la produzione della carta, materiali da costruzione ottenuti dal legno, fonti di proteine alimentari. Chi sa che un giorno non si legga anche nelle case di campagna italiane la scritta <<Sono orgoglioso di essere un agricoltore>>?
Ad un New Deal di questo genere aveva del resto pensato Adriano Olivetti negli anni cinquanta col suo progetto di integrazione della fabbrica e dell’agricoltura nelle zone povere di collina o nel Mezzogiorno; e qualcosa sta già avvenendo, in questa direzione, anche se in forma spontanea e non pianificata, in certe zone (Veneto, Marche) del cosiddetto NEC (Nord-Est-Centro).
L’operazione sarebbe di particolare importanza nel Mezzogiorno e nelle isole dove solo il lavoro e la produzione agricola e industriale di merci, basata sulle risorse naturali locali, può sconfiggere la criminalità organizzata che attecchisce solo nello sconforto.
In senso contrario ad un New Deal vanno le iniziative per far abbandonare la coltivazione di grandi estensioni delle nostre colline e montagne, addirittura finanziando l’abbandono con soldi della Comunità; oppure i grandi insediamenti – dalla centrale termoelettrica (e per poco non era anche un inutile grande centro siderurgico) a Gioia Tauro, alla FIAT a Melfi – con effetti sconvolgenti sull’agricoltura, sulle acque, sulle colline, con avanzata dell’erosione del suolo. Nel senso del New Deal andrebbe una nuova moralità nell’uso dei beni collettivi; la privatizzazione, in corso in Italia, di coste, spiagge, rive dei fiumi, spazi demaniali, non fa invece che accelerare il degrado territoriale, l’erosione delle spiagge, la distruzione delle foreste e delle dune, che sono poi le protezioni naturali dell’entroterra.
Un New Deal dovrebbe ricuperare all’uso pubblico e pianificato proprio pascoli, terre e spazi demaniali e collettivi, oggi ancora soggetti ad usi civici, le acque. La salvezza potrebbe essere cercata in un ministero delle risorse naturali, con competenze ben diverse da quelle dell’attuale ministero dell’ambiente, che finisce per essere il ministero dei depuratori e delle discariche.
Un nuovo corso italiano richiederebbe il ricupero della cultura e del gusto dell’urbanistica, intesa come scienza della pianificazione degli insediamenti, delle vie di comunicazione, dei modi di trasporto.
Ad una politica della città e della mobilità, oggi governata dalle case automobilistiche e dalle compagnie petrolifere, dovrebbe essere contrapposto un reale potenziamento dei trasporti collettivi basati non sullo spreco – come l’“alta velocità” – ma sui reali bisogni della popolazione, anche ai fini del decentramento delle attività produttive e dei servizi.
Un New Deal ecologico presuppone dei controlli e una pianificazione sulla produzione, sulla quantità e sul tipo delle merci, alla luce dei vincoli posti dalla necessità di diminuire sprechi di risorse naturali scarse, inquinamenti e rifiuti. Da qui la necessità di uffici governativi per gli standard di qualità delle merci, per il controllo di tale qualità, di uffici di analisi e di controllo contro le frodi, di attività di previsione e di scrutinio delle scelte anche legislative.
Negli Stati Uniti nel 1970 è stato creato, presso il Congresso, un ufficio per lo scrutinio tecnologico (l’Office for Technology Assessment) che avverte i parlamentari e l governo sugli effetti tecnici, ecologici, sociali delle scelte legislative. Ad esempio: il finanziamento di una rete ferroviaria ad alta velocità quali conseguenze può avere sul territorio, sul trasporto aereo, sulla sicurezza delle persone?
Scrutinio tecnologico è molto più della semplice valutazione dell’impatto ambientale, da noi ridotta a mascheratura di scelte prese al di fuori del governo e del Parlamento.
Infine il New Deal qui prospettato – o sognato? – comporterebbe il coinvolgimento dell’Università e della ricerca in progetti socialmente ben definiti e compatibili con la difesa e la valorizzazione delle risorse naturali. Inutile dire che i progetti sopra accennati richiedono lavoratori e specialisti dall’ingegneria all’ecologia, dall’economia alla chimica, alle scienze agrarie e forestali. Sarebbe anche questo un modo per sollecitare nei giovani laureati un senso di servizio alla collettività, oggi così labile, per farli sentire, come i giovani intellettuali del 1933, orgogliosi di lavorare per lo stato e non per un governo o per una struttura di partito e di clientele.
CNS Capitalismo Natura Socialismo, n.7, 1993
La nostra sinistra ecoresistente
La contestazione ecologica è nata come protesta contro l’uso distorto e violento della tecnica e del territorio. Ci sono esempi di tale protesta già nel sei-settecento: allora si trattava per lo più della protesta di singoli individui che venivano danneggiati dai fumi dei forni metallurgici, dalle fabbriche di prodotti chimici, dalle attività minerarie.
In genere la protesta partiva da chi aveva qualcosa da perdere: piccoli agricoltori, piccoli proprietari, membri di una classe “media” che sarebbe poi diventata classe borghese. Il proletariato, avendo poco da perdere, anzi in un certo senso qualcosa da guadagnare, dalle fabbriche e dalle miniere, aveva altre cose a cui pensare: l’occupazione, la sopravvivenza.
A poco a poco della protesta si sono fatte interpreti persone, per lo più di cultura borghese anch’esse, ma che non erano direttamente danneggiate, che riconoscevano nell’inquinamento, nella congestione urbana, nella distruzione della natura, le violazioni di diritti collettivi che andavano al di là delle offese al diritto individuale, alla proprietà privata.
Gli stessi Marx ed Engels, che hanno scritto le pagine fondamentali sulla violenza e sporcizia delle città e delle fabbriche, erano persone di cultura borghese che hanno avviato una battaglia, insieme al proletariato, per liberarsi dalla violenza, la cui fonte essi hanno correttamente riconosciuto nel modo capitalistico di produzione.
Una vera e propria contestazione ecologica comincia però più tardi, con la protesta contro la contaminazione radioattiva conseguente l’esplosione delle bombe atomiche nell’atmosfera (1950-1963), con la scoperta degli effetti dannosi e mortali, su scala planetaria, dei pesticidi persistenti, eccetera.
Sono ancora intellettuali e “borghesi” che riconoscono e propagandano nuovi “valori”: il valore della pace; il diritto ad un ambiente naturale in cui sia possibile, insieme, la vita vegetale e animale e umana (da qui il richiamo all’“ecologia”); il diritto di qualsiasi abitante della Terra a non essere contaminato o danneggiato da azioni compiute da altri, in terre lontane, a sua insaputa; il diritto delle generazioni future a non essere danneggiate da azioni (ad esempio l’immissione nella biosfera di elementi radioattivi artificiali a vita lunga) compiute da persone vissute decenni o secoli prima.
Emerge così una estensione della solidarietà “di classe”, per includere la solidarietà internazionale, la solidarietà planetaria, la solidarietà intergenerazionale.
Già nelle prime analisi era facile riconoscere che le fonti della violenza erano rappresentate dal potere, dal complesso militare-industriale, dal complesso industria-potere politico, avevano le radici, in una parola, nelle leggi del capitale e del profitto privato.
Queste prime forme di contestazione ecologica (che si possono collocare negli anni fra il 1950 e il 1970) sono parallele, ma indipendenti, da altre forme di protesta come quelle dei lavoratori per le condizioni di lavoro nelle fabbriche, o le lotte “di sinistra” degli studenti per una maggiore partecipazione al processo di elaborazione e diffusione della conoscenza.
La difficoltà di comprensione e di assorbimento, da parte della sinistra, fra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta, della contestazione ecologica è dimostrata dal fatto che per anni la contestazione di sinistra ha considerato la protesta “ecologica” più come un lusso o capriccio borghese – l’“ecologia delle contesse” – che come una reale occasione di lotta contro il vero comune nemico, ancora una volta il modo capitalistico di produzione.
La sinistra ha fatto cioè fatica a riconoscere che una parte della borghesia, sostenendo nuovi diritti e denunciando nuove forme di violenza, contribuiva, spesso “senza saperlo” a mettere in discussione le basi stesse del capitalismo, le radici della propria stessa “classe”.
La stessa discussione sulla fallacia del prodotto interno lordo come indicatore del “progresso” economico – elaborata da scrittori e anche economisti “borghesi” negli anni sessanta – implicitamente metteva in discussione, anzi erodeva, uno dei pilastri dell’economia capitalistica: la moneta come misuratore di valori.
Ricordo lo scandalo suscitato da un articolo di Virginio Bettini, scritto nel 1970 e intitolato “Il colore dell’ecologia”, che concludeva che “l’ecologia è rossa”, in polemica con altri militanti della sinistra che consideravano, come ho sopra ricordato, l’ecologia come una nuova forma di difesa di privilegi e valori essenzialmente borghesi, antioperai – e naturalmente in polemica anche con i fondatori e protagonisti “borghesi” delle prime organizzazioni ambientaliste (Italia Nostra, WWF).
Erano, del resto, gli anni in cui la borghesia imprenditoriale, l’unica ad avere capito bene e subito il potenziale eversivo delle lotte in difesa della natura e dell’ambiente, andava spiegando che la difesa degli uccelli, delle acque, la pretesa di avere aria trasparente, si sarebbe tradotta in disoccupazione e in perdita di posti di lavoro. Con questa abile operazione il capitale cercava, e trovava, l’alleanza di una parte della classe operaia contro gli “ecologisti”.
Era di moda, allora (nei primi anni settanta) far credere che l’ecologia è reazionaria, tanto è vero che Marx ed Engels non si occupano degli effetti ambientali della produzione e considerano la produzione delle merci una via di liberazione del proletariato, tanto è vero che i paesi del socialismo realizzato – Unione Sovietica e Cina – basavano i loro piani economici sull’espansione della produzione, sul raggiungimento e anzi superamento, sul piano economico e produttivo, di quell’odiato impero americano che l’ecologia criticava – da “destra”, secondo i portavoce del potere industriale – proprio perché produceva troppe merci e macchine.
In questa interpretazione dell’ecologia come forma reazionaria, molte frange dell’estrema sinistra sono state fuorviate da campagne ben orchestrate dal mondo capitalistico e industriale.
Ci sarebbero voluti gli anni delle lotte per la salute in fabbrica (che hanno visto protagonisti dei “professori” come Giovanni Berlinguer, Giulio Maccacaro, Gianni Moriani) per capire che la violenza che il capitale esercitava dentro la fabbrica (e nei campi) contro i polmoni e la salute e la vita dei lavoratori, era la stessa che il capitale esercitava fuori dalla fabbrica, con i fumi dei camini e con le merci contaminate, contro la parte della natura vivente e inanimata da cui dipendeva la salute dei figli e delle famiglie dei lavoratori, e dei lavoratori stessi in quanto cittadini e consumatori.
Ad una certa presa di coscienza dei valori di lotta impliciti nella contestazione ecologica ha contribuito la “rilettura” anche in Italia di Marx ed Engels: ma davvero i due grandi vecchi non sapevano e non avevano capito niente di ecologia? davvero erano i filosofi dell’industrialismo, un po’ nipotini di Francesco Bacone?
Alla fine è arrivata anche in Italia la corrente di pensiero che in Germania e in Francia aveva sollecitato nuova attenzione sulle opere – dai Manoscritti del 1844 alla Situazione della classe operaia, alla Dialettica della Natura, alle pagine meno lette dello stesso Capitale – di Marx ed Engels.
È stato così possibile ricordare che essi sono vissuti negli stessi decenni di Darwin, di Haeckel (colui che ha inventato il nome di “ecologia”), di Liebig, che con le “leggi della nutrizione vegetale” ha riconosciuto l’esistenza di un “limite” nella fertilità del suolo in seguito ad un eccessivo sfruttamento.
Il seminario su “Uomo Natura Società”, organizzato nel novembre 1971 dal Pci a Frattocchie, fu un momento importante di riscoperta – o scoperta – che i padri del comunismo avevano chiaramente individuato nel capitalismo la fonte di tutte le violenze, anche ecologiche: la lotta per la salute e per l’ambiente avrebbe potuto tradursi in una nuova grande occasione di denuncia del, e di lotta contro, il capitale.
Purtroppo, nonostante l’elevata capacità pedagogica del Pci nei confronti dei militanti, questa analisi (a cui Giuseppe Prestipino ha dato un contributo fondamentale) è rimasta limitata ad un ristretto circolo di persone. Si pensi alla lentezza con cui è stato riconosciuto il contenuto – implicitamente e inconsciamente – sovversivo dello studio sui “limiti alla crescita”, partito da un circolo borghese, come il Club di Roma, ma che avrebbe potuto fornire indicazioni per una politica “di sinistra” verso la revisione critica dei modelli di produzione e di consumo delle merci e di uso del territorio.
I pochi tentativi di lettura “rivoluzionaria” dell’attenzione ecologica furono vanificati dalla prima crisi petrolifera del 1973: le occasioni successive, come il dibattito sulla “austerità”, le lotte contro il “nucleare”, le prime feste de l’Unità sull’ambiente, non hanno di fatto trovato una risposta di base. La stessa fondazione, nel 1980, della Lega per l’ambiente (ora Legambiente), da una costola dell’Arci è stata seguita da un graduale processo di rinnegamento delle origini comuniste.
Per aumentare la base associativa la Legambiente si è trasformata in una grande associazione ambientalista di massa, svuotata di genuino contenuto rivoluzionario.
La Legambiente, come più o meno le altre associazioni, implicitamente riconoscono che la salvezza ecologica deriva da un cambiamento del “modello di sviluppo”, da nuovi comportamenti nella produzione e nel consumo, da nuovi “stili di vita”, dalla necessità di “conciliare economia e ecologia”, dalla diffusione di una “cultura della sostenibilità”, nuova versione della solidarietà planetaria e intergenerazionale; resta peraltro sfumata o inesistente l’analisi se il tipo capitalistico di società, le regole del libero mercato e della proprietà privata, siano compatibili con tale aspirazione alla sostenibilità.
D’altra parte il capitale sa bene come svuotare e sventare i pericoli di una critica ecologica “di classe”; lo dimostrano le crescenti dichiarazioni che una società sostenibile richiede il contributo decisivo delle imprese capitalistiche.
Mentre nel Nord del mondo centinaia di milioni di abitanti dei paesi ex-comunisti si stanno avviando felici verso la società del libero mercato e dei consumi e verso un crescente disastro ecologico, una ecologia “comunista”, libertaria, rivoluzionaria, attecchisce, pur con molte contraddizioni, nel Sud del mondo anche come reazione e protesta di una nuova grande aggregazione di classe proletaria contro il capitalismo imperialistico del Nord del mondo.
Nuovo impero che vede uniti, nel progetto di oppressione e sfruttamento umano e ecologico, i due imperi maggiori – Stati Uniti e Russia – con i loro satelliti europei Canada e Australia, e Giappone, quest’ultimo con i suoi satelliti asiatici di nuova industrializzazione.
Naturalmente il Sud del mondo comprende situazioni economiche ed ecologiche molto differenziate che vanno dalla pura assimilazione dei modelli “insostenibili” occidentali, spesso considerati unica via per liberarsi dalla miseria (il caso della “vendita” delle foreste tropicali, del petrolio e delle risorse minerarie, la diffusione delle monocolture agricole che richiedono massiccio impiego di concimi e pesticidi), ad una crescente coscienza di solidarietà ecologica femminile e femministe, ad aspirazioni rivoluzionarie di liberazione dallo stato di neocolonialismo imposto dal Nord del mondo.
Nello stesso tempo nell’“impero” del Nord del mondo l’ecologia viene continuamente svuotata del suo contenuto rivoluzionario. Il trionfo della logica del mercato e della privatizzazione impedisce qualsiasi politica pubblica, statale, di difesa dei beni naturali e ambientali che sono tipicamente beni collettivi, di pianificazione della produzione e dell’uso del territorio.
In queste condizioni un progetto di “sviluppo sostenibile” risulta abbastanza irrealistico e impensabile e la crescita si avvia verso livelli “insostenibili”, il che significa verso tensioni, guerre locali, malattie, guerre di conquista delle materie prime, insomma verso la “insostenibilità” e insopportabilità dei rapporti locali e internazionali.
Uno sviluppo sostenibile non può che venire altro che da un’analisi critica e rivoluzionaria del tipo di crescita. La crescita delle produzione e del consumo è, inevitabilmente, crescita capitalistica e può avvenire soltanto attraverso l’usura di risorse naturali che sono limitate e che, per essere disponibili ad un paese o ad un blocco di paesi, devono inevitabilmente essere rapinate e portate via, secondo i modelli capitalistici di appropriazione, ad altri popoli.
Da qui una occasione di ripensamento e di analisi per la sinistra, specialmente per quella che guarda ancora all’insegnamento di Marx ed Engels. Forse bisognerebbe ricominciare a rileggere alla luce delle conoscenze e degli eventi di questi ultimi venticinque anni, gli scritti del comunismo sui rapporti uomo-natura, e anche il contributo del pensiero anarchico al decentramento, al “comunismo di base”.
Soltanto adesso, per esempio, si comincia ad avere informazioni e documenti sul pensiero geografico ed ecologico russo, sulla conservazione della natura nell’Urss, sulle speranze e sugli errori associati alla pianificazione sovietica.
Per chiarire molti punti sarebbe anche utile ricostruire la storia delle lotte ecologiche come momenti di una lotta di classe ed analizzare le incomprensioni fra sinistra, e specialmente sinistra operaia e sinistra rivoluzionaria, e le proposte di nuovi valori e nuovi diritti avanzate dal movimento “ecologico”.
Impresa tutt’altro che facile perché, a differenza di quanto avviene per altri grandi movimenti di massa e rivoluzionari (il movimento di Liberazione, il movimento operaio, o socialista, o anarchico), manca un archivio storico delle lotte ecologiche e della partecipazione di massa.
Un altro punto importante da esplorare riguarda le radici dell’accusa, formulata nei confronti del movimento ambientalista o di sue componenti, di essere un movimento reazionario, “di destra”. Certi comportamenti “ecologici” si possono riconoscere nella stessa proprietà feudale, nei latifondisti; certi comportamenti della stessa politica, soprattutto agraria, nazista e fascista, avevano aspetti “ecologici” dal punto di vista dei boschi e dei campi, benché l’anti-cultura razzista dei fascismi fosse e sia esattamente il contrario dell’ecologia – che è solidarietà e rispetto delle diversità.
Una corretta analisi dei rapporti “di classe” dell’ecologia mi sembra che indichi che non ci si può salvare senza la collaborazione della classe operaia e del proletariato.
A complemento dell’analisi sulla sostenibilità può essere interessante approfondire i rapporti della contestazione ecologica con i modelli di “modernità”, progressista e reazionaria.
Infine la ricerca di modelli “sostenibili” richiede una analisi spregiudicata dei rapporti fra “crescita” – della popolazione mondiale, delle merci, del PIL – e limiti fisici delle risorse planetarie. Esiste davvero una “carrying capacity” planetaria per le attività umane? Ci sono segni di saturazione di tale capacità ricettiva con manifestazioni di crescita caotica, violenta, insostenibile?
Forse sarebbe il caso di procedere ad una rilettura di sinistra della proposta di porre dei limiti “alla crescita”, alla ricerca di indicatori del valore che includano i diritti umani violati attraverso lo sfruttamento e la violenza alle risorse naturali.
Il valore, e il diritto dell’uso, dei beni collettivi può portarci a mettere in discussione i diritti della proprietà privata e dei beni privati: in una parola a riprendere, con gli occhi del ventunesimo secolo, la critica al “capitale” iniziata 150 anni fa da Marx ed Engels e approfondita dal comunismo internazionale.
A 150 anni dai Manoscritti economico-filosofici
Cadono, in questo 1994, 150 anni dalla redazione degli appunti, scritti in tedesco a Parigi dal ventiseienne Carlo Marx, su tre “quaderni”, pubblicati a Berlino nel 1932 col titolo Manoscritti economico-filosofici del 1844. I Manoscritti furono conosciuti in Italia subito dopo la Liberazione ed attrassero grande attenzione, anzi ebbero presto una certa celebrità. Due traduzioni parziali in italiano erano apparse nel 1947, una a Bologna a cura di Galvano Della Volpe e l’altra a Pisa a cura di Delio Cantimori; una traduzione completa a cura di Norberto Bobbio fu pubblicata da Einaudi nel 1949, seguita da un’altra traduzione di Della Volpe pubblicata nel 1950 dalle Edizioni Rinascita, con varie ristampe a cura degli Editori Riuniti (Opere filosofiche giovanili di Marx). Nel 1968 Bobbio pubblicò un’altra traduzione, tenendo conto delle edizioni critiche apparse nel frattempo. Delle edizioni pubblicate da Einaudi e dagli Editori Riuniti sono fortunatamente ancora disponibili varie ristampe.
I Manoscritti del 1844 furono uno dei libri di culto di varie generazioni di marxisti, anche perché possono essere letti sotto vari punti di vista dal filosofo, dallo studioso dell’evoluzione del pensiero di Marx e infine dai militanti della contestazione ecologica. È da quest’ultimo punto di vista che voglio qui parlarne, anche nel quadro di un dibattito, mai placato, sulla compatibilità fra l’“ecologia” e il pensiero comunista e marxiano. Nella breve primavera che va dal 1968 al 1973, ci fu un vivace scontro fra i comunisti e la contestazione ecologica, accusata di origine e posizioni “borghesi” ((Per alcune considerazioni sui problemi storici ancora aperti e da affrontare si può vedere, per esempio: G.Nebbia, “Breve storia della contestazione ecologica”, Quaderni di Storia Ecologica (Milano), n.4, 19-70 (giugno 1994))).
È vero che la denuncia del degrado ambientale, della speculazione, dell’inquinamento, è arrivata in Italia sull’onda della contestazione e della protesta giovanile nata in America, e che ha trovato ascolto presso insegnanti, intellettuali, studenti – borghesi, se vogliamo così chiamarli – attenti alla salvaguardia dei beni e dei valori collettivi, critici nei confronti di un mondo imprenditoriale e affaristico che aveva costruito un miracolo economico sull’assalto alle città, sulla distruzione del verde, sull’avvelenamento dei fiumi e dell’aria.
Da una parte i “padroni” furono abili nel denunciare le proposte di cambiamento – una maniera diversa di produrre e consumare – avanzate dalla contestazione ecologica, come ubbie di una classe media ormai sazia nei suoi bisogni più importanti, che andava propagandando nuovi valori come i diritti degli animali, il diritto a respirare aria pulita, la salvaguardia del verde e dei monumenti, chiedendo interventi che avrebbero rallentato o frenato “il progresso”, creato disoccupazione e che ben mostravano perciò il loro carattere antioperaio.
Dall’altra parte anche la sinistra se la prese con la contestazione ecologica borghese: l’“ecologia delle contesse”. Solo una grande rivoluzione proletaria, non le assemblee di Italia Nostra o del Wwf, avrebbero potuto rovesciare i rapporti di produzione, avrebbero potuto portare al soddisfacimento dei bisogni di tutti senza inquinamenti.
Fu un periodo di grandi contraddizioni, la cui storia è ancora tutta da scrivere ((
A 150 anni dai Manoscritti economico-filosofici
Cadono, in questo 1994, 150 anni dalla redazione degli appunti, scritti in tedesco a Parigi dal ventiseienne Carlo Marx, su tre “quaderni”, pubblicati a Berlino nel 1932 col titolo Manoscritti economico-filosofici del 1844. I Manoscritti furono conosciuti in Italia subito dopo la Liberazione ed attrassero grande attenzione, anzi ebbero presto una certa celebrità. Due traduzioni parziali in italiano erano apparse nel 1947, una a Bologna a cura di Galvano Della Volpe e l’altra a Pisa a cura di Delio Cantimori; una traduzione completa a cura di Norberto Bobbio fu pubblicata da Einaudi nel 1949, seguita da un’altra traduzione di Della Volpe pubblicata nel 1950 dalle Edizioni Rinascita, con varie ristampe a cura degli Editori Riuniti (Opere filosofiche giovanili di Marx). Nel 1968 Bobbio pubblicò un’altra traduzione, tenendo conto delle edizioni critiche apparse nel frattempo. Delle edizioni pubblicate da Einaudi e dagli Editori Riuniti sono fortunatamente ancora disponibili varie ristampe.
I Manoscritti del 1844 furono uno dei libri di culto di varie generazioni di marxisti, anche perché possono essere letti sotto vari punti di vista dal filosofo, dallo studioso dell’evoluzione del pensiero di Marx e infine dai militanti della contestazione ecologica. È da quest’ultimo punto di vista che voglio qui parlarne, anche nel quadro di un dibattito, mai placato, sulla compatibilità fra l’“ecologia” e il pensiero comunista e marxiano. Nella breve primavera che va dal 1968 al 1973, ci fu un vivace scontro fra i comunisti e la contestazione ecologica, accusata di origine e posizioni “borghesi”.
È vero che la denuncia del degrado ambientale, della speculazione, dell’inquinamento, è arrivata in Italia sull’onda della contestazione e della protesta giovanile nata in America, e che ha trovato ascolto presso insegnanti, intellettuali, studenti – borghesi, se vogliamo così chiamarli – attenti alla salvaguardia dei beni e dei valori collettivi, critici nei confronti di un mondo imprenditoriale e affaristico che aveva costruito un miracolo economico sull’assalto alle città, sulla distruzione del verde, sull’avvelenamento dei fiumi e dell’aria.
Da una parte i “padroni” furono abili nel denunciare le proposte di cambiamento – una maniera diversa di produrre e consumare – avanzate dalla contestazione ecologica, come ubbie di una classe media ormai sazia nei suoi bisogni più importanti, che andava propagandando nuovi valori come i diritti degli animali, il diritto a respirare aria pulita, la salvaguardia del verde e dei monumenti, chiedendo interventi che avrebbero rallentato o frenato “il progresso”, creato disoccupazione e che ben mostravano perciò il loro carattere antioperaio.
Dall’altra parte anche la sinistra se la prese con la contestazione ecologica borghese: l’“ecologia delle contesse”. Solo una grande rivoluzione proletaria, non le assemblee di Italia Nostra o del Wwf, avrebbero potuto rovesciare i rapporti di produzione, avrebbero potuto portare al soddisfacimento dei bisogni di tutti senza inquinamenti.
Fu un periodo di grandi contraddizioni, la cui storia è ancora tutta da scrivere1: un periodo in cui una parte del mondo operaio e della sinistra anticipò lotte, soprattutto per la salute in fabbrica, che erano “ecologiche” anche se non venivano chiamate così; in cui il Partito comunista fu stretto fra posizioni lungimiranti e un mito della produzione industriale – sprezzantemente chiamato dagli avversari “industrialismo” – nel quale la difesa dell’ambiente era un bene secondario rispetto all’occupazione; in cui alcuni, a sinistra, riconoscevano che “l’ecologia è rossa” in quanto una lotta per l’ecologia avrebbe potuto accelerare la lotta contro l’arroganza del potere economico e politico dominante; in cui molti rappresentanti dell’ecologia borghese credevano di riconoscere la causa della scarsa attenzione ambientalista dei comunisti e degli operai nel fatto che Marx ed Engels, a cui essi si riferivano, non avevano capito niente dell’ecologia e dei nuovi diritti di cui l’ecologia si faceva portatrice.
Quest’ultima obiezione derivava dall’ignoranza del pensiero marxiano, come apparve quando, nel novembre 1971, il Partito comunista italiano organizzò a Frattocchie, sul tema “Uomo natura società”, un celebre seminario nel corso del quale fu fatto uno sforzo per “rileggere” le opere di Marx ed Engels alla luce della nuova ondata di contestazione. Gli atti del seminario furono pubblicati dagli Editori Riuniti e sono, sfortunatamente, ormai, una rarità bibliografica. Erano i tempi in cui c’era, fra l’altro, una grande attenzione proprio per gli scritti del “giovane Marx” e per i Manoscritti; una rilettura delle opere di Marx ed Engels mostrò che esse anticipavano profeticamente molti dei temi della contestazione ecologica.2
E del resto non c’era niente da meravigliarsi. Marx (1818-1883) ed Engels (1820-1895) vissero in un’epoca straordinaria, attraversata da grandi rivoluzioni politiche e culturali, e la vissero nel cuore stesso di tali rivoluzioni, fra Germania, Francia e Inghilterra. Marx ed Engels furono contemporanei di Liebig (1803-1873), di Darwin (1809-1882), dello stesso Haeckel (1834-1919), l’inventore della parola “ecologia”; furono contemporanei di Dickens (1812-1870) e di Owen (1771-1858); videro e denunciarono le condizioni di lavoro degli operai, le frodi alimentari, il degrado urbano e tutte le distorsioni violente nei rapporti fra gli esseri umani e la natura e l’ambiente circostante, e fra gli esseri umani, provocati dal modo capitalistico di produzione.
Nel 1845, l’anno successivo alla redazione dei Manoscritti di Marx, Engels aveva scritto il libro sulla Situazione della classe operaia in Inghilterra, la drammatica descrizione della città industriale e delle sue condizioni di vita, della Coketown illustrata da Dickens nell’Oliver Twist del 1837-38, in Tempi difficili del 1854.
Come è ben noto, il tema dell’alienazione degli esseri umani, dei lavoratori, dal loro lavoro e dalla natura, pervade tutti e tre i Manoscritti. Il primo tratta il salario, il profitto del capitale, la rendita fondiaria, il lavoro estraniato, con quel lungo brano che spiega come, nella società capitalistica, il lavoratore sia espropriato della sua attività. Come conseguenza dell’estraniazione dal lavoro, l’uomo viene privato anche del suo rapporto con la natura, che è il suo corpo inorganico, anzi il suo corpo stesso, con cui deve stare in costante rapporto per non morire: “L’animale costruisce soltanto secondo la misura e il bisogno delle specie, a cui appartiene, mentre l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e sa ovunque predisporre la misura inerente a quel determinato oggetto; quindi l’uomo costruisce anche secondo le leggi della bellezza.”. Questo passo è uno dei pochi in cui Marx si lascia andare a considerare la bellezza come valore e frutto del lavoro umano, e che anticipa quello, ben più noto, dell’“ape e l’architettura” che si trova nel qunto capitolo del primo libro nel Capitale.
L’origine, la fonte e, nello stesso tempo, il prodotto, il risultato e la conseguenza necessaria del lavoro alienato è la proprietà privata, il cui carattere e ruolo sono ripresi nel secondo, il più breve, dei Manoscritti. Come la proprietà privata condizioni non solo il lavoro, ma anche i bisogni umani è descritto in modo suggestivo nel terzo dei Manoscritti, di cui riproduco alcuni passi nella traduzione di Norberto Bobbio (i corsivi sono nel testo):
“Abbiamo visto quale risultato abbia, facendo l’ipotesi del socialismo, la ricchezza dei bisogni umani, e quindi tanto un nuovo modo di produzione quanto anche un nuovo oggetto di produzione…”.
“Nell’ambito della proprietà privata il significato è opposto. Ogni uomo s’ingegna di procurare all’altro uomo un nuovo bisogno, per costringerlo ad un nuovo sacrificio, per ridurlo ad una nuova dipendenza e spingerlo ad un nuovo modo di godimento e quindi di rovina economica. Ognuno cerca di creare al di sopra dell’altro una forza essenziale estranea per trovarvi la soddisfazione del proprio bisogno egoistico.”.
“Con la massa degli oggetti cresce quindi la sfera degli esseri estranei, ai quali l’uomo è soggiogato, ed ogni nuovo prodotto è un nuovo potenziamento del reciproco inganno e delle reciproche spogliazioni. L’uomo diventa tanto più povero come uomo, ha tanto più bisogno del denaro, per impadronirsi dell’essere ostile, e la potenza del suo denaro sta giusto in proporzione inversa alla massa della produzione; in altre parole, la sua miseria cresce nella misura in cui aumenta la potenza del denaro. Perciò il bisogno del denaro è il vero bisogno prodotto dall’economia politica, il solo bisogno che essa produce…”.
“Così si presenta la cosa anche dal punto di vista soggettivo: in parte l’estensione dei prodotti e dei bisogni si fa schiava – schiava ingegnosa e sempre calcolatrice – di appetiti disumani, raffinati, innaturali, e immaginari…”.
“Il produttore, al fine di carpire qualche po’ di denaro e di cavare gli zecchini dalle tasche del prossimo cristianamente amato, si adatta ai più abietti capricci dei propri simili, fa la parte di mezzano fra i propri simili e i loro bisogni, eccita in loro appetiti morbosi, spia ogni loro debolezza per esigere poi il prezzo dei suoi buoni uffici…”.
Lo stile e i termini sono quelli di uno scrittore di un secolo e mezzo fa, ma l’immagine che viene data della società corrisponde perfettamente a quella che abbiamo sotto gli occhi anche oggi: vengono inventate merci non per soddisfare bisogni, ma per asservire ogni persona a nuovi acquisti; vengono creati, con le più raffinate tecniche, nuovi bisogni per mettere in concorrenza gli esseri umani fra loro, fin dalla più tenera età, colpendo in questo maggiormente le classi meno abbienti che sono costrette a cercare più guadagni, leciti e illeciti, per ridursi a sempre nuove dipendenze.
Nel terzo Manoscritto seguono poi alcuni passi sulla città e sulle abitazioni, che spiegano bene come la conquista della casa non solo debba essere pagata, ma pagata a caro prezzo dalla speculazione che assicura case in zone affollate, con l’aria e le acque contaminate; il tema del degrado urbano si ritroverà tante volte nelle opere di Marx e di Engels, fino all’Antidühring di Engels del 1878.
“Lo stesso bisogno dell’aria aperta – continua il terzo dei Manoscritti del 1844 – cessa di essere un bisogno dell’operaio; l’uomo ritorna ad abitare nelle caverne, la cui aria però è ormai viziata dal mefitico alito pestilenziale della civiltà, e ove egli abita ormai soltanto a titolo precario, rappresentando esse per lui ormai una estranea potenza che può essergli sottratta ogni giorno e da cui ogni giorno può essere cacciato se non paga. Perché egli questo sepolcro lo deve pagare.”.
“La casa luminosa, che, in Eschilo, Prometeo addita come uno dei grandi doni con cui ha trasformato i selvaggi in uomini, non esiste più per l’operaio. La luce, l’aria, ecc., la più elementare pulizia, di cui anche gli animali godono, cessa di essere un bisogno per l’uomo. La sporcizia, questo impantanarsi e putrefarsi dell’uomo, la fogna (in senso letterale) della civiltà, diventa per l’operaio un elemento vitale. Diventa un suo elemento vitale il complesso e innaturale abbandono, la natura putrefatta.”.
Dopo avere esaminato come l’economia politica governa ed orienta i bisogni umani al servizio del guadagno e del profitto dei capitalisti, Marx parla dell’organizzazione della produzione:
“Il senso che la produzione ha relativamente ai ricchi, si mostra manifestamente nel senso che essa ha per i poveri: verso l’alto la sua manifestazione è sempre raffinata, dissimulata, ambigua, pura e semplice apparenza; verso il basso è grossolana, scoperta, leale, vera e propria realtà. Il bisogno rozzo dell’operaio è una fonte di guadagno assai maggiore che il bisogno raffinato del ricco. Le abitazioni nel sottosuolo di Londra rendono ai loro padroni più che i palazzi, cioè rappresentano per loro una ricchezza maggiore, e quindi per usare il linguaggio dell’economia politica, una maggiore ricchezza sociale.”.
“E così, come l’industria specula sul raffinamento dei bisogni, specula altrettanto sulla loro rozzezza; sulla loro rozzezza in quanto è prodotta ad arte, e di cui pertanto il vero godimento consiste nell’autostordimento, che è una soddisfazione del bisogno soltanto apparente, una forma di civiltà dentro la rozza barbarie del bisogno. Le bettole inglesi sono perciò una rappresentazione simbolica della proprietà privata. Il loro lusso mostra il vero rapporto del lusso e della ricchezza dell’industria con l’uomo. E sono quindi anche a ragione i soli divertimenti domenicali del popolo trattati per lo meno con mitezza dalla polizia inglese.”.
Sono tutti temi che Marx riprenderà molte volte nelle sue opere, ma che qui mi sembra vengano formulati con un’ironia e un vigore che non sempre si trovano nelle opere più mature. C’è una soluzione? Il giovane Marx l’individua nel “…comunismo come soppressione positiva della proprietà privata intesa come autoestraniazione dell’uomo, e quindi come reale appropriazione dell’essenza dell’uomo mediante l’uomo e per l’uomo, perciò come ritorno dell’uomo per sé, dell’uomo come essere sociale, cioè umano. Questo comunismo…è la vera risoluzione dell’antagonismo fra la natura e l’uomo, fra l’uomo e l’uomo,…tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie…”.
“L’essenza umana della natura esiste soltanto per l’uomo sociale; infatti soltanto qui la natura esiste per l’uomo come vincolo con l’uomo, come esistenza di lui per l’altro e dell’altro per lui, soltanto qui essa esiste come fondamento della sua propria esistenza umana. Dunque la società è l’unità essenziale, giunta al proprio compimento, dell’uomo con la natura, la vera resurrezione della natura, il naturalismo compiuto dell’uomo e l’umanismo compiuto della natura.”.
Le analisi degli ultimi decenni hanno mostrato bene che la radice della crisi ecologica sta proprio nello sfruttamento privato della natura, bene collettivo per eccellenza, per ricavarne quantità sempre maggiori di merci, progettate e propagandate non per soddisfare bisogni umani, ma per costringere sempre più vaste fasce della popolazione umana a vendere il proprio lavoro per ottenere il denaro necessario per acquistare l’“essere estraneo” di cui parla Marx.
Proprio alla nostra epoca è toccata la sorte di vedere attuata l’anticipazione di Marx, grazie all’asservimento di uno straordinario mezzo di comunicazione come la televisione – un mezzo che avrebbe potuto essere liberatorio, strumento di diffusione di conoscenze e di solidarietà – alla pubblicità e alla vendita delle merci, alla moltiplicazione dei bisogni, alla creazione di bisogni inutili sempre meno duraturi.
E non destino meraviglia le lotte per la conquista di una maggiore fetta del potere televisivo, il più efficace strumento che oggi consente di incantare sempre nuovi acquirenti di merci, capace di creare nuovi miti e modelli da scimmiottare, moltiplicando le merci inutili a scapito della conoscenza, della attitudine critica, dei rapporti sociali, tarpando le ali a qualsiasi lotta per l’emancipazione.
Si pensi alla “perfezione” delle tecniche per produrre rumore che sovrasta le parole, alle chat lines in cui vengono scambiate banalità per indurre a evitare di parlare (chat lines immaginate già nel 1951 da Ray Bradbury in Fahrenheit 451, come strumento inventato dal “Governo” per impedire la lettura, per impedire di pensare “ai fiori dei campi, ai gigli sereni”). E poiché la crisi ecologica è proprio il risultato dell’espansione dei bisogni artificiali e dei consumi, non c’è da meravigliarsi che i governi di destra rimuovano i controlli e i divieti sui rifiuti, sull’inquinamento, sulla speculazione sui suoli, su qualsiasi cosa che possa rallentare i consumi e gli sprechi.
La rilettura dei Manoscritti marxiani di un secolo e mezzo fa potrebbe fornire anche qualche nuova idea sulle linee di lotta di un efficace movimento ambientalista. Certo: è possibile sporcare un po’ meno il mare costruendo depuratori, o smaltire un po’ di rifiuti con qualche inceneritore, o salvare qualche milione di uccelli disturbando i cacciatori, e ciascuna di queste azioni è in sé lodevole, anche se alcune si limitano a spostare la violenza alla natura da una zona all’altra, dall’aria al suolo, dai paesi ricchi a quelli poveri. Un diverso rapporto con la natura si può cercare soltanto in una critica profonda dei rapporti di proprietà, di produzione, di lavoro, di uso della scienza e della tecnica. Una rivoluzione culturale tutta da inventare e di cui non abbiamo finora modelli a cui riferirci. Le poche società che si spacciano come socialiste e comuniste sono state spesso segnate da catastrofi ecologiche e da violenze umane perché, in realtà, esse operavano secondo le stesse regole – dell’espansione della produzione e del potere – “copiate” dalle società capitalistiche, e praticavano qualsiasi cosa fuorché quel comunismo di cui parla Marx.
La grande svolta a destra dei paesi vetero-capitalistici e di quelli neo-capitalistici, sorti dalle ceneri del falso comunismo e dall’avvio all’emancipazione del Sud del mondo, sta rapidamente aggravando la crisi delle risorse naturali, la pressione demografica, la carica di egoismo, violenza e competizione che mette popoli contro popoli, persone contro persone.
Forse un giorno, forse presto, la situazione ambientale dei terrestri sarà così grave da indurli a ripensare al proprio futuro in termini completamente nuovi e diversi dagli attuali: forse la rilettura di Marx, un giorno, ci aiuterà a ricordare e capire le radici della crisi e ci suggerirà qualche soluzione. E speriamo che non sia necessario aspettare altri 150 anni!
1 Per alcune considerazioni sui problemi storici ancora aperti e da affrontare si può vedere, per esempio: G.Nebbia, “Breve storia della contestazione ecologica”, Quaderni di Storia Ecologica (Milano), n.4, 19-70 (giugno 1994)
2 Fra i molti scritti di autori italiani che hanno analizzato il pensiero “ecologico” di Marx e Engels vorrei ricordare i seguenti: G.Prestipino, Natura e società, Roma, Editori Riuniti, 1973; G.Mazzetti, Politica ed ecologia (1973), Ecologia Acqua, Aria, Suolo, n.4, 268-287, maggio 1975; n.5, 333-347, giugno 1975; T.Bagarolo, Marxismo ed ecologia, Milano, Nuove edizioni internazionali, 1989; F.Dubla, “Ecologia sociale, capitalismo reale, comunismo possibile”, Quaderni del Centro Gramsci, Leporano, Taranto, 1993; M.Nobile, Merce-natura ed ecosocialismo, Roma Coop. Erre-emme, 1993.
CNS Capitalismo Natura Socialismo n.12, 1994
: un periodo in cui una parte del mondo operaio e della sinistra anticipò lotte, soprattutto per la salute in fabbrica, che erano “ecologiche” anche se non venivano chiamate così; in cui il Partito comunista fu stretto fra posizioni lungimiranti e un mito della produzione industriale – sprezzantemente chiamato dagli avversari “industrialismo” – nel quale la difesa dell’ambiente era un bene secondario rispetto all’occupazione; in cui alcuni, a sinistra, riconoscevano che “l’ecologia è rossa” in quanto una lotta per l’ecologia avrebbe potuto accelerare la lotta contro l’arroganza del potere economico e politico dominante; in cui molti rappresentanti dell’ecologia borghese credevano di riconoscere la causa della scarsa attenzione ambientalista dei comunisti e degli operai nel fatto che Marx ed Engels, a cui essi si riferivano, non avevano capito niente dell’ecologia e dei nuovi diritti di cui l’ecologia si faceva portatrice.
Quest’ultima obiezione derivava dall’ignoranza del pensiero marxiano, come apparve quando, nel novembre 1971, il Partito comunista italiano organizzò a Frattocchie, sul tema “Uomo natura società”, un celebre seminario nel corso del quale fu fatto uno sforzo per “rileggere” le opere di Marx ed Engels alla luce della nuova ondata di contestazione. Gli atti del seminario furono pubblicati dagli Editori Riuniti e sono, sfortunatamente, ormai, una rarità bibliografica. Erano i tempi in cui c’era, fra l’altro, una grande attenzione proprio per gli scritti del “giovane Marx” e per i Manoscritti; una rilettura delle opere di Marx ed Engels mostrò che esse anticipavano profeticamente molti dei temi della contestazione ecologica. ((Fra i molti scritti di autori italiani che hanno analizzato il pensiero “ecologico” di Marx e Engels vorrei ricordare i seguenti: G.Prestipino, Natura e società, Roma, Editori Riuniti, 1973; G.Mazzetti, Politica ed ecologia (1973), Ecologia Acqua, Aria, Suolo, n.4, 268-287, maggio 1975; n.5, 333-347, giugno 1975; T.Bagarolo, Marxismo ed ecologia, Milano, Nuove edizioni internazionali, 1989; F.Dubla, “Ecologia sociale, capitalismo reale, comunismo possibile”, Quaderni del Centro Gramsci, Leporano, Taranto, 1993; M.Nobile, Merce-natura ed ecosocialismo, Roma Coop. Erre-emme, 1993.))
E del resto non c’era niente da meravigliarsi. Marx (1818-1883) ed Engels (1820-1895) vissero in un’epoca straordinaria, attraversata da grandi rivoluzioni politiche e culturali, e la vissero nel cuore stesso di tali rivoluzioni, fra Germania, Francia e Inghilterra. Marx ed Engels furono contemporanei di Liebig (1803-1873), di Darwin (1809-1882), dello stesso Haeckel (1834-1919), l’inventore della parola “ecologia”; furono contemporanei di Dickens (1812-1870) e di Owen (1771-1858); videro e denunciarono le condizioni di lavoro degli operai, le frodi alimentari, il degrado urbano e tutte le distorsioni violente nei rapporti fra gli esseri umani e la natura e l’ambiente circostante, e fra gli esseri umani, provocati dal modo capitalistico di produzione.
Nel 1845, l’anno successivo alla redazione dei Manoscritti di Marx, Engels aveva scritto il libro sulla Situazione della classe operaia in Inghilterra, la drammatica descrizione della città industriale e delle sue condizioni di vita, della Coketown illustrata da Dickens nell’Oliver Twist del 1837-38, in Tempi difficili del 1854.
Come è ben noto, il tema dell’alienazione degli esseri umani, dei lavoratori, dal loro lavoro e dalla natura, pervade tutti e tre i Manoscritti. Il primo tratta il salario, il profitto del capitale, la rendita fondiaria, il lavoro estraniato, con quel lungo brano che spiega come, nella società capitalistica, il lavoratore sia espropriato della sua attività. Come conseguenza dell’estraniazione dal lavoro, l’uomo viene privato anche del suo rapporto con la natura, che è il suo corpo inorganico, anzi il suo corpo stesso, con cui deve stare in costante rapporto per non morire: “L’animale costruisce soltanto secondo la misura e il bisogno delle specie, a cui appartiene, mentre l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e sa ovunque predisporre la misura inerente a quel determinato oggetto; quindi l’uomo costruisce anche secondo le leggi della bellezza.”. Questo passo è uno dei pochi in cui Marx si lascia andare a considerare la bellezza come valore e frutto del lavoro umano, e che anticipa quello, ben più noto, dell’“ape e l’architettura” che si trova nel qunto capitolo del primo libro nel Capitale.
L’origine, la fonte e, nello stesso tempo, il prodotto, il risultato e la conseguenza necessaria del lavoro alienato è la proprietà privata, il cui carattere e ruolo sono ripresi nel secondo, il più breve, dei Manoscritti. Come la proprietà privata condizioni non solo il lavoro, ma anche i bisogni umani è descritto in modo suggestivo nel terzo dei Manoscritti, di cui riproduco alcuni passi nella traduzione di Norberto Bobbio (i corsivi sono nel testo):
“Abbiamo visto quale risultato abbia, facendo l’ipotesi del socialismo, la ricchezza dei bisogni umani, e quindi tanto un nuovo modo di produzione quanto anche un nuovo oggetto di produzione…”.
“Nell’ambito della proprietà privata il significato è opposto. Ogni uomo s’ingegna di procurare all’altro uomo un nuovo bisogno, per costringerlo ad un nuovo sacrificio, per ridurlo ad una nuova dipendenza e spingerlo ad un nuovo modo di godimento e quindi di rovina economica. Ognuno cerca di creare al di sopra dell’altro una forza essenziale estranea per trovarvi la soddisfazione del proprio bisogno egoistico.”.
“Con la massa degli oggetti cresce quindi la sfera degli esseri estranei, ai quali l’uomo è soggiogato, ed ogni nuovo prodotto è un nuovo potenziamento del reciproco inganno e delle reciproche spogliazioni. L’uomo diventa tanto più povero come uomo, ha tanto più bisogno del denaro, per impadronirsi dell’essere ostile, e la potenza del suo denaro sta giusto in proporzione inversa alla massa della produzione; in altre parole, la sua miseria cresce nella misura in cui aumenta la potenza del denaro. Perciò il bisogno del denaro è il vero bisogno prodotto dall’economia politica, il solo bisogno che essa produce…”.
“Così si presenta la cosa anche dal punto di vista soggettivo: in parte l’estensione dei prodotti e dei bisogni si fa schiava – schiava ingegnosa e sempre calcolatrice – di appetiti disumani, raffinati, innaturali, e immaginari…”.
“Il produttore, al fine di carpire qualche po’ di denaro e di cavare gli zecchini dalle tasche del prossimo cristianamente amato, si adatta ai più abietti capricci dei propri simili, fa la parte di mezzano fra i propri simili e i loro bisogni, eccita in loro appetiti morbosi, spia ogni loro debolezza per esigere poi il prezzo dei suoi buoni uffici…”.
Lo stile e i termini sono quelli di uno scrittore di un secolo e mezzo fa, ma l’immagine che viene data della società corrisponde perfettamente a quella che abbiamo sotto gli occhi anche oggi: vengono inventate merci non per soddisfare bisogni, ma per asservire ogni persona a nuovi acquisti; vengono creati, con le più raffinate tecniche, nuovi bisogni per mettere in concorrenza gli esseri umani fra loro, fin dalla più tenera età, colpendo in questo maggiormente le classi meno abbienti che sono costrette a cercare più guadagni, leciti e illeciti, per ridursi a sempre nuove dipendenze.
Nel terzo Manoscritto seguono poi alcuni passi sulla città e sulle abitazioni, che spiegano bene come la conquista della casa non solo debba essere pagata, ma pagata a caro prezzo dalla speculazione che assicura case in zone affollate, con l’aria e le acque contaminate; il tema del degrado urbano si ritroverà tante volte nelle opere di Marx e di Engels, fino all’Antidühring di Engels del 1878.
“Lo stesso bisogno dell’aria aperta – continua il terzo dei Manoscritti del 1844 – cessa di essere un bisogno dell’operaio; l’uomo ritorna ad abitare nelle caverne, la cui aria però è ormai viziata dal mefitico alito pestilenziale della civiltà, e ove egli abita ormai soltanto a titolo precario, rappresentando esse per lui ormai una estranea potenza che può essergli sottratta ogni giorno e da cui ogni giorno può essere cacciato se non paga. Perché egli questo sepolcro lo deve pagare.”.
“La casa luminosa, che, in Eschilo, Prometeo addita come uno dei grandi doni con cui ha trasformato i selvaggi in uomini, non esiste più per l’operaio. La luce, l’aria, ecc., la più elementare pulizia, di cui anche gli animali godono, cessa di essere un bisogno per l’uomo. La sporcizia, questo impantanarsi e putrefarsi dell’uomo, la fogna (in senso letterale) della civiltà, diventa per l’operaio un elemento vitale. Diventa un suo elemento vitale il complesso e innaturale abbandono, la natura putrefatta.”.
Dopo avere esaminato come l’economia politica governa ed orienta i bisogni umani al servizio del guadagno e del profitto dei capitalisti, Marx parla dell’organizzazione della produzione:
“Il senso che la produzione ha relativamente ai ricchi, si mostra manifestamente nel senso che essa ha per i poveri: verso l’alto la sua manifestazione è sempre raffinata, dissimulata, ambigua, pura e semplice apparenza; verso il basso è grossolana, scoperta, leale, vera e propria realtà. Il bisogno rozzo dell’operaio è una fonte di guadagno assai maggiore che il bisogno raffinato del ricco. Le abitazioni nel sottosuolo di Londra rendono ai loro padroni più che i palazzi, cioè rappresentano per loro una ricchezza maggiore, e quindi per usare il linguaggio dell’economia politica, una maggiore ricchezza sociale.”.
“E così, come l’industria specula sul raffinamento dei bisogni, specula altrettanto sulla loro rozzezza; sulla loro rozzezza in quanto è prodotta ad arte, e di cui pertanto il vero godimento consiste nell’autostordimento, che è una soddisfazione del bisogno soltanto apparente, una forma di civiltà dentro la rozza barbarie del bisogno. Le bettole inglesi sono perciò una rappresentazione simbolica della proprietà privata. Il loro lusso mostra il vero rapporto del lusso e della ricchezza dell’industria con l’uomo. E sono quindi anche a ragione i soli divertimenti domenicali del popolo trattati per lo meno con mitezza dalla polizia inglese.”.
Sono tutti temi che Marx riprenderà molte volte nelle sue opere, ma che qui mi sembra vengano formulati con un’ironia e un vigore che non sempre si trovano nelle opere più mature. C’è una soluzione? Il giovane Marx l’individua nel “…comunismo come soppressione positiva della proprietà privata intesa come autoestraniazione dell’uomo, e quindi come reale appropriazione dell’essenza dell’uomo mediante l’uomo e per l’uomo, perciò come ritorno dell’uomo per sé, dell’uomo come essere sociale, cioè umano. Questo comunismo…è la vera risoluzione dell’antagonismo fra la natura e l’uomo, fra l’uomo e l’uomo,…tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie…”.
“L’essenza umana della natura esiste soltanto per l’uomo sociale; infatti soltanto qui la natura esiste per l’uomo come vincolo con l’uomo, come esistenza di lui per l’altro e dell’altro per lui, soltanto qui essa esiste come fondamento della sua propria esistenza umana. Dunque la società è l’unità essenziale, giunta al proprio compimento, dell’uomo con la natura, la vera resurrezione della natura, il naturalismo compiuto dell’uomo e l’umanismo compiuto della natura.”.
Le analisi degli ultimi decenni hanno mostrato bene che la radice della crisi ecologica sta proprio nello sfruttamento privato della natura, bene collettivo per eccellenza, per ricavarne quantità sempre maggiori di merci, progettate e propagandate non per soddisfare bisogni umani, ma per costringere sempre più vaste fasce della popolazione umana a vendere il proprio lavoro per ottenere il denaro necessario per acquistare l’“essere estraneo” di cui parla Marx.
Proprio alla nostra epoca è toccata la sorte di vedere attuata l’anticipazione di Marx, grazie all’asservimento di uno straordinario mezzo di comunicazione come la televisione – un mezzo che avrebbe potuto essere liberatorio, strumento di diffusione di conoscenze e di solidarietà – alla pubblicità e alla vendita delle merci, alla moltiplicazione dei bisogni, alla creazione di bisogni inutili sempre meno duraturi.
E non destino meraviglia le lotte per la conquista di una maggiore fetta del potere televisivo, il più efficace strumento che oggi consente di incantare sempre nuovi acquirenti di merci, capace di creare nuovi miti e modelli da scimmiottare, moltiplicando le merci inutili a scapito della conoscenza, della attitudine critica, dei rapporti sociali, tarpando le ali a qualsiasi lotta per l’emancipazione.
Si pensi alla “perfezione” delle tecniche per produrre rumore che sovrasta le parole, alle chat lines in cui vengono scambiate banalità per indurre a evitare di parlare (chat lines immaginate già nel 1951 da Ray Bradbury in Fahrenheit 451, come strumento inventato dal “Governo” per impedire la lettura, per impedire di pensare “ai fiori dei campi, ai gigli sereni”). E poiché la crisi ecologica è proprio il risultato dell’espansione dei bisogni artificiali e dei consumi, non c’è da meravigliarsi che i governi di destra rimuovano i controlli e i divieti sui rifiuti, sull’inquinamento, sulla speculazione sui suoli, su qualsiasi cosa che possa rallentare i consumi e gli sprechi.
La rilettura dei Manoscritti marxiani di un secolo e mezzo fa potrebbe fornire anche qualche nuova idea sulle linee di lotta di un efficace movimento ambientalista. Certo: è possibile sporcare un po’ meno il mare costruendo depuratori, o smaltire un po’ di rifiuti con qualche inceneritore, o salvare qualche milione di uccelli disturbando i cacciatori, e ciascuna di queste azioni è in sé lodevole, anche se alcune si limitano a spostare la violenza alla natura da una zona all’altra, dall’aria al suolo, dai paesi ricchi a quelli poveri. Un diverso rapporto con la natura si può cercare soltanto in una critica profonda dei rapporti di proprietà, di produzione, di lavoro, di uso della scienza e della tecnica. Una rivoluzione culturale tutta da inventare e di cui non abbiamo finora modelli a cui riferirci. Le poche società che si spacciano come socialiste e comuniste sono state spesso segnate da catastrofi ecologiche e da violenze umane perché, in realtà, esse operavano secondo le stesse regole – dell’espansione della produzione e del potere – “copiate” dalle società capitalistiche, e praticavano qualsiasi cosa fuorché quel comunismo di cui parla Marx.
La grande svolta a destra dei paesi vetero-capitalistici e di quelli neo-capitalistici, sorti dalle ceneri del falso comunismo e dall’avvio all’emancipazione del Sud del mondo, sta rapidamente aggravando la crisi delle risorse naturali, la pressione demografica, la carica di egoismo, violenza e competizione che mette popoli contro popoli, persone contro persone.
Forse un giorno, forse presto, la situazione ambientale dei terrestri sarà così grave da indurli a ripensare al proprio futuro in termini completamente nuovi e diversi dagli attuali: forse la rilettura di Marx, un giorno, ci aiuterà a ricordare e capire le radici della crisi e ci suggerirà qualche soluzione. E speriamo che non sia necessario aspettare altri 150 anni!
DA ECOLOGIA POLITICA (1996-1997)
Contro la resurrezione del nucleare
Le centrali nucleari non sono sicure
Si sono ormai spente le luci sulle affrettate rievocazioni della catastrofe di Chernobyl, di cui cadeva, il 26 aprile 1996, il decimo anniversario. In quella ormai lontana primavera ci si rese conto che era vero quello che alcuni andavano ripetendo da anni, che, cioè, “l’energia nucleare non è sicura, né pulita, né economica” e che non si trattava soltanto di tecnica costruttiva dei reattori, o di efficienza degli operatori.
La dinamica della catastrofe di Chernobyl e i successivi eventi sono stati ricostruiti più volte a livello internazionale, anche alla luce dei dati raccolti nel corso di ben dieci anni.
Il 26 aprile del 1986 l’interruzione della circolazione dell’acqua di raffreddamento di uno dei quattro reattori nucleari (del tipo a uranio-grafite) della centrale di Chernobyl, nell’Unione Sovietica (oggi Ucraina), provocò un forte aumento della temperatura del nocciolo del reattore.
Molte delle parti metalliche e strutturali – travi e contenitori di acciaio, pareti di cemento – fusero o crollarono; la grafite che circondava il nocciolo prese fuoco; la corrente di fumo trascinò in sospensione nell’aria le polveri contenenti gran parte dei prodotti di fissione dell’uranio: gli isotopi radioattivi di stronzio, cesio, iodio, eccetera.
La maggior parte dei prodotti ricadde al suolo, contaminando vaste estensioni di suolo ucraino, occupate da campi, villaggi, piccole città, scuole. Decine di migliaia di persone furono esposte a dosi di radioattività tali da provocare la morte, danni genetici irreversibili, in moltissimi casi danni genetici a lungo termine che faranno sentire i loro effetti tutta la vita.
Una parte dei prodotti radioattivi fu trascinata nell’atmosfera dapprima verso il nord, poi verso ovest e l’Europa centrale, poi verso l’Europa sud occidentale, fino in Italia. Oggi si conosce abbastanza bene la quantità di sostanze radioattive uscite dal reattore e cadute nelle varie parti del continente europeo.
Tutti i centri economici che ruotavano intorno alla fabbricazione e vendita di centrali nucleari presero, allora, un grande spavento davanti al rischio di vedere sfumare lucrosi affari internazionali. Tanto più in Italia, dove esisteva già un forte movimento popolare di protesta contro i programmi nucleari governativi.
“Per fortuna” si trattava di roba “comunista” e fu facile far credere che il reattore era di tecnologia superata, che gli operatori erano ubriachi e che nei paesi capitalistici mai e poi mai sarebbe successa una cosa simile. Per inciso nel 1979 si era avuta la fusione del nocciolo del reattore americano di Three Mile Island (sia pure di un tipo diverso e senza fuoriuscita di grandi quantità di prodotti radioattivi), e molti reattori inglesi, e anche quello che ha funzionato per alcuni anni a Latina, erano del tipo moderato a grafite, anche se raffreddati a gas, anziché ad acqua come a Chernobyl.
Non voglio stare a rivangare – una pagina, peraltro, tutta da scrivere, della storia della contestazione ecologica – le viltà e l’opportunismo di molti uomini politici italiani che, in fretta e furia, si convertirono al partito antinucleare per compiacere un’opinione pubblica arrabbiata e spaventata; né le ridicole incertezze sulla quantità di radioattività caduta al suolo in Italia; né le contraddittorie decisioni su quanta verdura o mozzarella poteva essere mangiata senza pericolo; né le pressioni dei mercanti di verdura e mozzarella preoccupati per i loro commerci e le relative giravolte dei decreti e dei divieti.
Voglio invece ricordare gli atti di generosità e di altruismo. Gli eroi che, esponendo la propria vita a sicura morte, sono volati sul reattore per gettare cemento e piombo sui ruderi fusi del reattore e quelli che hanno lavorato, a contatto con intensissime dosi di radioattività, per spegnere l’incendio, riuscendo così a fermare la fuoriuscita dei fumi radioattivi e a salvare milioni di vite, anche in Italia; eppure non una città italiana ha dedicato una strada a ricordo dei martiri di Chernobyl a cui tanti di noi devono la sopravvivenza.
Voglio ricordare la mobilitazione di medici sovietici e internazionali per alleviare i dolori delle popolazioni; l’ospitalità offerta da tante associazioni di volontariato ai bambini di Chernobyl.
La catastrofe di Chernobyl sembrò segnare un punto di ripensamento e di ravvedimento dell’umanità, avviata sulla strada di una tecnologia incontrollabile. In Italia nell’autunno-inverno del 1986 si svolsero i lavori di una commissione sulla sicurezza nucleare e sul futuro energetico del nostro paese; nel novembre 1987 si tenne un referendum che di fatto impegnava il governo a interrompere la costruzione di centrali nucleari; quelle ancora avventurosamente sopravvissute furono definitivamente chiuse. Tale referendum sembrò cancellare almeno in Italia, i grossi affari e appalti che circolavano intorno al nucleare. La catastrofe di Chernobyl segnò, del resto, un rallentamento della diffusione dell’energia nucleare anche negli altri paesi.
Ma i potenti interessi economici e politici che ruotano intorno al nucleare non si sono quietati e, nei dieci anni trascorsi, anche in Italia si sono fatte sentire, prima timidamente, poi sempre più rumorose, le voci di coloro che chiedono la risurrezione di una tecnologia ormai dovunque agonizzante.
Le centrali nucleari non sono pulite
Gli avvocati del nucleare fanno notare, per esempio, che le centrali elettro-nucleari non immettono nell’atmosfera l’anidride carbonica responsabile dell’“effetto serra”.
È vero che dobbiamo fare i conti con le modificazioni climatiche dovute alla crescente immissione nell’atmosfera dell’anidride carbonica che si libera nella combustione di crescenti quantità di combustibili fossili: ogni anno circa 10 miliardi di tonnellate di carbone, petrolio e gas naturale; ogni anno 25 miliardi di tonnellate d anidride carbonica finiscono nell’atmosfera.
Ma la soluzione non è certo offerta da un nuovo crescente ricorso all’energia nucleare perché essa, se non provoca immissione di “gas serra” nell’atmosfera, comporta però pericoli e danni ambientali ben più gravi nelle fasi di funzionamento dei reattori e di trattamento e sepoltura dei prodotti di fissione e di attivazione, le code avvelenate di tutto il ciclo nucleare.
Come è ben noto, i reattori nucleari commerciali, quelli che producono elettricità (oltre quattrocento nel mondo) sono alimentati, quasi dovunque, da uranio, separato dai suoi minerali, con formazione di grandi quantità di scorie (anche se poco radioattive), un problema che riguarda Canada, Russia, Niger, Cina, Australia, e pochi altri paesi.
Prima di entrare nei reattori e generare elettricità l’uranio viene trattato in impianti che separano la parte “fissile” (l’uranio-235, quello che fornirà l’energia nel reattore) da un residuo, anch’esso (sia pure poco) radioattivo.
L’uranio viene caricato nel reattore dove una parte libera energia, sotto forma di calore, subendo “fissione”: i principali “prodotti di fissione” sono atomi comuni, cesio, stronzio, iodio, in una forma, però, che emette radioattività per anni o per decenni o secoli e che sono facilmente assorbiti da vegetali e animali e quindi anche dagli esseri umani, nel cui corpo continuano a emanare radioattività. Sono gli stessi isotopi radioattivi che ricaddero anche in Italia dopo la catastrofe di Chernobyl.
Durante la liberazione di energia, al fianco di questi “frammenti”, si formano altri elementi radioattivi (“prodotti di attivazione”), fra cui il plutonio, sottoprodotti pericolosi e tossici, dal punto di vista della salute umana e della natura, ma molto ricercati come materiali per la fabbricazione di bombe atomiche: il plutonio, soprattutto, che a sua volta può subire “fissione” liberando energia anche esplosiva.
A questo punto l’uranio, accompagnato dai “prodotti di fissione” e dai “prodotti di attivazione” (plutonio, eccetera), può essere conservato come tale dentro i “tubi” estratti dal reattore nucleare dopo alcuni anni di funzionamento. Questi “elementi di combustibile”, pur essendo pieni di materiale radioattivo, possono essere sepolti, sia pure con grandi precauzioni per evitare che vengano, nei futuri secoli, a contatto con acqua o esseri viventi, e con speciali accorgimenti per smaltire il calore che si libera continuamente per decadimento radioattivo degli atomi contenuti al loro interno.
Ma per i potenti affari che circolano intorno al nucleare questo è uno spreco, perché il plutonio si può “vendere bene” alle imprese che fabbricano bombe atomiche, e anche come materiale fissile per altri reattori commerciali. A condizione che il plutonio venga separato chimicamente dall’uranio, dai “prodotti di fissione” e da altri “prodotti di attivazione” mediante complicati processi chimici industriali.
I “prodotti di fissione” e quelli “di attivazione” sono le vere e proprie “scorie radioattive”. Ne abbiamo anche in Italia e per una curiosa storia, in gran parte dimenticata, che sta a dimostrare la incultura con cui ci si è avventurati sulla via del nucleare, specialmente in Italia.
Negli anni sessanta l’allora Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare costruì a Rotondella, in Basilicata, un impianto per separare chimicamente i “prodotti di fissione” dai “prodotti di attivazione” contenuti nel “combustibile irraggiato” di un reattore americano, situato a Elk River (nel Minnesota), praticamente l’unico che funzionava sottoponendo a fissione una miscela di uranio e torio, anziché solo uranio, come tutti gli altri reattori.
La soluzione era sbagliata e inefficiente tanto che il reattore di Elk River funzionò solo dal 1963 al 1969 e fu poi chiuso, ma ormai la lavorazione a Trisaia era avviata ed è continuata, imperterrita. La bella idea di costruire, con pubblico denaro, un impianto di separazione la cui esperienza non serviva a niente, ci ha lasciato, in eredità, in Basilicata, alcuni metri cubi di liquido altamente radioattivo, con una radioattività di alcune decine o centinaia di migliaia di curie (equivalente a quella di qualche decina o centinaia di chilogrammi di radio), e altro materiale radioattivo. Un gran girare di numeri contradditori: perché non ci dicono mai la verità, lasciando aperta la porta al legittimo sospetto che chi ha le informazioni, per minimizzare la paura del “popolo”, ci prenda sempre in giro? Ci sono state perdite di radioattività sul suolo, scarichi nel mare? Quale è la condizione dei contenitori? Ci sono corrosioni e pericoli di fughe? E, per inciso, nessuno paga mai per le scelte tecniche ed economiche sbagliate, come questa?
D’altra parte dove si possono mettere, correttamente, i prodotti di fissione e le scorie radioattive che sono gli inevitabili sottoprodotti di qualsiasi reattore nucleare? La domanda è senza risposta. Alcuni propongono di trasformarli in materiali vetrosi da seppellire in caverne rigorosamente isolate dal contatto con l’acqua e con gli esseri viventi, continuamente ventilate per eliminare il calore e la radioattività. Altri propongono di seppellirli nel fondo degli oceani; altri di caricarli su razzi da spedire nello spazio. La fantasia e sconsideratezza umana non hanno confini, come dimostra il fatto che, per decenni, francesi, inglesi, russi e americani, senza andare tanto per il sottile, e per risparmiare soldi, hanno versato le soluzioni di queste “scorie” radioattive, allo stato liquido, nel Mediterraneo e negli oceani, con effetti biologici di cui forse ci accorgeremo in futuro.
Infine c’è un traffico internazionale, per terra, per mare, con aerei, di combustibile nucleare irraggiato, di “prodotti di fissione” alla ricerca di qualche discarica, di plutonio, ricercato da possibili clienti – paesi dittatoriali, criminalità organizzata, affaristi che speculano sull’ignoranza – per avventure di bombe atomiche o a fini di ricatto.
L’energia nucleare non è economica
L’energia nucleare non solo non è pulita, come si è visto, ma non è neanche economica: non è vero che il costo aziendale dell’elettricità nucleare è inferiore a quello dell’elettricità ottenuta da altre fonti, come appare se si effettuano correttamente i calcoli, includendo i costi dello smantellamento delle centrali nucleari, alla fine della loro vita utile, i costi di sistemazione nel lungo periodo del combustibile nucleare irraggiato e delle scorie radioattive.
I propagandisti del nucleare affermano allora che gli attuali costi verrebbero abbassati in futuro dalla diffusione dei reattori “veloci”, che consentono la trasformazione di parte dell’uranio non fissile in plutonio e la progressiva “fissione” del plutonio stesso.
In realtà i pochi reattori “autofertilizzanti” finora realizzati (il più celebre è il reattore veloce francese Superphenix) si sono dimostrati difettosi e pericolosi; inoltre la scelta dei reattori “veloci” comporta la formazione di ancora più grandi quantità di scorie radioattive e mette in circolazione grandi quantità di plutonio, il più “comodo” materiale “utile” per la fabbricazione di bombe nucleari, il che fa aumentare le tentazioni di furti e di proliferazione delle bombe nucleari, anche in violazione dei trattati internazionali.
Il sogno dei reattori “sicuri” e della fusione
Davanti agli incidenti ai reattori nucleari esistenti – i casi di Three Mile Island (1979) e di Chernobyl (1986) sono stati solo i due più vistosi episodi di una innumerevole serie di incidenti più o meno gravi, alcuni con fuoriuscita di materiale radioattivo nell’ambiente – le industrie nucleari si stanno sforzando di proporre progetti di reattori nucleari intrinsecamente “sicuri”, in grado cioè di far fermare automaticamente la reazione di fissione quando la temperatura del nocciolo del reattore diventa troppo elevata.
Ma anche nei reattori nucleari a fissione “sicuri” o in quelli a ciclo torio-uranio o nelle altre numerose “varianti” rispetto agli attuali reattori a ciclo uranio-plutonio, la produzione di elettricità inevitabilmente genera frammenti radioattivi a vita più o meno lunga che rappresentano un pericolo per la vita e per l’ambiente dell’attuale e delle future generazioni.
Altre persone ancora, nel mondo nucleare, consce del fallimento dell’attuale tecnologia nucleare basata sulla fissione, cercano di tenerla in vita sostenendo che si tratta di una transizione verso lo sviluppo di reattori a fusione sicuri e puliti. Anche se, riconoscono, comunque, tale transizione richiederà ancora “decenni”.
Eppure essi sanno bene che i reattori a fusione – quelli veri, non la barzelletta della “fusione fredda” – se funzionassero, non sono affatto “puliti” perché gli alti flussi neutronici che si verificano durante la fusione provocano la formazione, nelle strutture del reattore, di prodotti radioattivi di attivazione, diversi dai frammenti della fissione, ma di altrettanto elevata pericolosità per gli esseri umani e per la biosfera e di altrettanto difficile smaltimento.
Non bisogna infine dimenticare gli stretti e diretti legami fra nucleare commerciale e armamenti nucleari, come conferma il grande interesse per l’acquisto di centrali elettronucleari da parte di paesi con tentazioni militari, l’ostinazione delle attuali potenze dotate di bombe atomiche (Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia) a tenere in vita l’uso dell’energia nucleare commerciale che mette a disposizione tecniche di lavorazione dell’uranio e del plutonio e di produzione di trizio, necessari per rinnovare e tenere in efficienza gli arsenali nucleari.
Non sarà il nucleare a salvarci dalla scarsità
L’ultimo apparente punto di forza degli avvocati dell’energia nucleare consiste nel presentare questa fonte di energia come l’alternativa al possibile esaurimento delle riserve – non certo illimitate – di combustibili fossili, soprattutto idrocarburi.
L’alternativa va cercata altrove: in una revisione dei consumi energetici ed elettrici – in una revisione dei modelli consumistici e merceologici dell’umanità – e in un crescente ricorso alle fonti energetiche rinnovabili.
Tale revisione e transizione richiede ricerche scientifiche di base, innovazioni tecniche e attività manifatturiere su una scala senza precedenti, tali da innescare un eccezionale aumento dell’occupazione, sia nei paesi industriali, sia in quelli del Sud del mondo.
Il giorno in cui ci si deciderà ad abbandonare l’uso dell’energia nucleare, inoltre, si dovrà cominciare ad affrontare i giganteschi problemi scientifico-tecnici della sistemazione del combustibile irraggiato e dei materiali nucleari formatisi nelle attività passate; dello smantellamento delle centrali e dei reattori nucleari ancora esistenti, tutte operazioni che richiedono crescenti conoscenze, innovazioni e attività e l’impegno di decine di migliaia di specialisti nel campo della fisica, chimica, biologia, ingegneria.
Ma nel frattempo come possiamo evitare nuove catastrofi? Occorre rendersi conto che gli effetti devastanti delle catastrofi dipendono dalle condizioni sociali e politiche che consentono alla tecnologia di sfuggire ai controlli umani e collettivi. Tali condizioni sono rappresentate dal potere e dall’arroganza dei produttori, dalla complicità fra potere economico e governi, dalla debolezza o inesistenza di una cultura popolare nei confronti dei processi tecnico-scientifici, produttivi, merceologici, della società moderna.
I grandi mezzi di comunicazione parlano di tutto, fuorché delle poche cose importanti della vita moderna: come sono fatti gli oggetti e le merci – e l’energia e l’elettricità sono fra le merci più pervasive che si conoscano – dove e da chi vengono fabbricati, come sono controllati.
E non c’è da meravigliarsene perché i mezzi di comunicazione sono per la quasi totalità controllati dal potere politico-affaristico, dai fabbricanti e venditori di merci che inducono i “consumatori” ad acquistare le merci parlandone attraverso la pubblicità che ha raggiunto vette incredibili di banalità e tende ad escludere qualsiasi informazione su che cosa le merci sono e come sono fatte. La scuola e l’Università sono in genere assenti nella diffusione di una cultura popolare e critica sulle innovazioni e sulla produzione.
Val la pena di continuare una corsa verso merci che portano verso il nulla, o proviamo a cominciare a chiederci – e a spiegare – che cosa produciamo, che cosa succede dentro la centrale o la fabbrica che troviamo vicino al nostro paese, che cosa acquistiamo, a che cosa servono le merci che spesso hanno un così elevato contenuto di violenza?
Scopriremmo, così, che un controllo pubblico degli atti dei governanti e degli imprenditori, oltre a ridurre le morti e i danni umani, diventa un formidabile stimolo per l’innovazione, la ricerca scientifica, per nuovi processi e per merci meno violente, capaci di soddisfare, molto meglio delle merci attuali, l’unica cosa che conta, i bisogni umani, che comprendono anche la sicurezza, il diritto alla vita, la dignità. E su questa strada non c’è posto per l’energia nucleare.
Ecologia Politica-CNS, nn.16-17, 1996
A un quarto di secolo dal Club di Roma
È passato ormai un quarto di secolo da quando “esplose”, letteralmente, il dibattito sui “limiti alla crescita”. Quella primavera del 1972 era anche la primavera dell’ecologia, intesa come ondata di speranza per un mondo più pulito, per rapporti economici più giusti, per una revisione dei consumi e degli sprechi.
Il movimento di contestazione ecologica nasceva in un fertile terreno che comprendeva la protesta contro le esplosioni delle bombe atomiche e contro l’avvelenamento planetario ad opera dei pesticidi, la protesta contro l’uso dei diserbanti americani nel Vietnam, le lotte studentesche contro l’autoritarismo dell’insegnamento universitario, le lotte operaie per il miglioramento del salario e delle condizioni di lavoro.
In questa atmosfera il Club di Roma, fondato da Aurelio Peccei, un imprenditore illuminato, e composto da altri intellettuali, uomini politici e dirigenti di molti paesi, aveva commissionato ad un gruppo di specialisti di analisi dei sistemi del Massachusetts Institute of Technology la ricerca di una risposta alla seguente domanda: che cosa succederebbe se la popolazione mondiale continuasse ad aumentare (allo stesso ritmo di quegli anni settanta), se continuasse ad aumentare la produzione industriale e agricola?
Con alcune modifiche delle equazioni matematiche con cui gli ecologi descrivono la “crescita” delle popolazioni animali in un ecosistema di dimensioni limitate, Forrester, prima, poi i suoi collaboratori Meadows, marito e moglie, “tracciarono” dei grafici che mostravano quanto segue: se non si fossero modificate le tendenze in corso in q<uel tempo, l’aumento della produzione di merci agricole e industriali avrebbe provocato un impoverimento delle riserve di materie prime, un crescente inquinamento, una perdita di fertilità del suolo e la popolazione mondiale avrebbe dovuto affrontare catastrofiche guerre per la conquista delle risorse naturali scarse (materie prime, ma anche acqua, suolo coltivabile, foreste), sarebbe stata colpita da epidemie e fame al punto che il suo tasso di crescita avrebbe cominciato a declinare e la popolazione stessa sarebbe diminuita in modo traumatico.
La soluzione andava cercata in u rallentamento della “crescita” (growth, croissance, Wachstum), anzi nel porre dei limiti alla crescita sia della popolazione mondiale, sia della produzione e dell’uso delle merci, dello sfruttamento delle risorse non rinnovabili, in modo da rallentare l’inquinamento planetario e da lasciare risorse disponibili alle generazioni future. Un principio che, in forma meno brutale, sarebbe stato alla base della proposta, più politically correct, di sostenibilità.
Ripeto che il concetto di “limite” è implicito nelle leggi fondamentali dell’ecologia delle popolazioni: in natura, infatti, la vita si svolge in un ecosistema che è fisicamente limitato, che ha una disponibilità limitata di cibo e acqua e spazio, e il numero degli individui, vegetali o animali, aumenta di meno e poi si stabilizza a mano a mano che si avvicina l’esaurimento dello spazio, dell’acqua e del cibo, che si raggiunge la carrying capacity, la capacità dell’ecosistema di sopportare la presenza e la pressione degli abitanti.
Del resto la prospettiva di un “limite” alla crescita della popolazione umana era presente nelle opere demografiche i Malthus; la prospettiva di un impoverimento delle risorse naturali era stata descritta negli scritti agrari di Liebig, nell’analisi dell’economista Jevons sullo sfruttamento delle miniere inglesi di carbone; la prospettiva di uno stato stazionario dell’economia era stata sostenuta da economisti di tutto rispetto come Stuart Mill e Pigou, e da tanti altri.
Eppure nei felici e “spensierati” anni settanta l’idea stessa di porre dei “limiti alla crescita” (un concetto che fu malamente tradotto in italiano come “limiti dello sviluppo”) destò innumerevoli reazioni.
Gli economisti “seri” rilevarono che l’economia, per definizione, è scienza capace di far fronte ai problemi di scarsità e avrebbe trovato ricette adeguate. Gli “ingegneri” fecero presente che la tecnica avrebbe, come era sempre avvenuto, trovato nuove fonti di energia (nel 1972 si credeva ancora all’energia nucleare), nuove materie prime, nuovi pozzi petroliferi, e adeguati filtri e macchinari avrebbero lavato i fiumi e le acque contaminate. A sinistra fu denunciato che l’analisi del Club di Roma non teneva conto delle enormi disuguaglianze fra quelli che allora erano i tre mondi: la popolazione di chi, avrebbe dovuto essere fermata: quella dei paesi poveri e più prolifici (e, si credeva allora, più potenzialmente rivoluzionari)? Quali consumi avrebbero dovuto smettere di crescere, tutti? in modo da lasciare i ricchi con quello che già hanno e i poveri con la loro povertà?
In un convegno tenutosi a Milano il 17 e 18 aprile 1997 sulla “storia dell’ambiente”, e nella successiva tavola rotonda proprio sui 25 anni dal libro del Club di Roma, è stato messo in evidenza come la ricostruzione storica del dibattito sui “limiti” darebbe un importante contributo alla comprensione di quello che fu capito e che non fu capito, in quel 1972, sul destino dell’umanità.
Nella speranza che qualcuno affronti questo compito vorrei qui esaminare se c’è ancora qualcosa da imparare da quel vecchio libro che fu “rivisitato”, cinque anni fa, dagli stessi coniugi Meadows con un altro libro intitolato Beyond the limits: una analisi di quello che è successo “dopo” il libro del 1972 e una esplorazione di quello che potrebbe succedere andando “al di là” dei limiti imposti dall’ecosistema planetario. (La traduzione italiana apparve col titolo Oltre i limiti dello sviluppo, fu pubblicata da il Saggiatore nel 1992 e recensita da Bruno Morandi su questa rivista, n.3/1993, fascicolo 9).
Al di là delle approssimazioni che le curve che un calcolatore elettronico può “scrivere” quando gli sono fornite informazioni statistiche sui parametri economici (popolazione, prelievo di petrolio, carbone, di merci agricole e industriali, produzione di rifiuti gassosi, liquidi e solidi, eccetera), non c’è dubbio che un aumento della crescita economica, cioè merceologica, lascia alle spalle una natura più povera e meno capace di ricevere e metabolizzare le scorie a loro volta generate in quantità crescente.
Penso che nessuno seriamente creda che con la tecnica e la scienza applicata sia possibile cancellare o dilatare i limiti fisici del pianeta. Sarà possibile trovare nuovi, più profondi e meno accessibili giacimenti di petrolio o di gas, estrarne meglio il petrolio che oggi viene lasciato nei pozzi perché costerebbe troppo ricuperarlo, sarà possibile modificare geneticamente le piante per aumentarne le rese, sarà possibile trasportare più informazioni, più merci e più persone con meno rame, acciaio ed energia (quest’ultima è la tesi dei sostenitori della “dematerializzazione” dell’economia).
Ma tutto questo non consente di sfuggire ai vincoli dell’impoverimento della fertilità dei suoli, delle modificazioni chimiche dell’atmosfera e delle acque. È vero che alcuni sostengono che non è chiaro se le modificazioni della composizione dell’atmosfera, dovute all’inquinamento, faranno aumentare o diminuire la temperatura terrestre o modificheranno, e come, il clima planetario, ma l’inquinamento atmosferico planetario esiste e tende ad aumentare rapidamente. Solo per limitarsi al caso dell’anidride carbonica, in corrispondenza agli attuali consumi mondiali di combustibili fossili e di cemento, ogni anno vengono immessi nell’atmosfera circa 25 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, di cui oltre la metà restano in modo irreversibile nell’atmosfera.
Le più moderate previsioni di consumi energetici mondiali indicano un aumento continuo della massa di anidride carbonica immessa nell’atmosfera di almeno 100-150 miliardi di tonnellate al decennio. Si tenga presente che l’atmosfera contiene complessivamente circa 2500 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, per cui i nuovi apporti prevedibili comportano rilevanti cambiamenti della composizione chimica dell’atmosfera.
Si tenga presente, inoltre, che oggi le economie mondiali mettono in moto una massa di materiali (vegetali, animali, combustibili, minerali economici, pietre, eccetera, acqua esclusa) dell’ordine di grandezza di circa 50 miliardi di tonnellate all’anno, un valore che si avvicina drammaticamente a quello della produttività primaria netta terrestre (cioè della biomassa vegetale “fabbricata” ogni anno sulle terre emerse) di circa 100 miliardi di tonnellate all’anno.
Un interessante articolo di E.M.Pizzoli, “Effetto delle attività umane sulle risorse naturali”, presentato al congresso di Merceologia di Pavia del 1974 (purtroppo rimasto sepolto nei relativi introvabili atti), ha messo in evidenza che la tecnosfera, il mondo delle merci, “si gonfia” e si dilata in ragione di qualcosa come 10 miliardi di tonnellate all’anno.
Si tenga infine presente che un quarto della popolazione terrestre (circa 1500 milioni su 6000 milioni di persone) contribuisce a oltre la metà di questo flusso di materiali mentre gli altri tre quarti della popolazione terrestre oggi contribuiscono solo in piccola o minima parte all’appropriazione umana dei materiali, all’inquinamento dell’aria, delle acque, del suolo, dei mari, all’impoverimento della biosfera.
Quando anche per i “meno abbienti” aumenterà, anche solo di poco rispetto ai valori attuali, il possesso e “consumo” di merci e “beni” materiali, la domanda di risorse naturali e la modificazione negativa della natura e dell’ambiente diventeranno molto più grandi di quanto non siano oggi.
Del resto la “insostenibilità” della (la impossibilità fisica che continui la) “attuale crescita” economica era indicata in un articolo apparso nel n.1 di CNS, marzo 1991. tale articolo sosteneva che, se si fosse voluto non fermare, ma solo “rallentare” un poco, l’attuale impoverimento e degrado delle risorse naturali, in modo da assicurarne una maggiore quota agli abitanti dei paesi poveri (il cui numero dal 1991 ad oggi è aumentato di mezzo miliardo) e da lasciarne una scorta ai terrestri dei prossimi venti o trent’anni, i paesi industriali avrebbero dovuto affrontare una dura e ferma diminuzione della quantità fisica di merci e materiali usati ed estratti dai corpi naturali e delle scorie generate e immesse nella biosfera. Questa stessa tesi era esposta in una proposta di “manifesto” per un’ecologia socialista, presentato nel n.4, marzo 1992, della stessa rivista CNS, che fu molto criticato e rimase comunque senza seguito.
Ai lettori di EP-CNS, in un momento in cui la “crescita” è imperativo dominante in tutte le economie, avanzate ed emergenti e sottosviluppate, comprese quelle che si presentano con una tinta progressista o verde, vorrei chiedere ancora una volta di contribuire all’elaborazione di una teoria dello sviluppo economico e delle società mondiali che tenga conto dei limiti fisici del pianeta, delle leggi ineludibili della natura – all’elaborazione, insomma, di una politica ecologica, o di una ecologia politica, per restare al titolo di questa rivista.
Si tratta di scoprire un nuovo diverso uso dei beni della Terra, dei beni collettivi che non hanno padrone – come l’aria o l’acqua, o gli oceani – e dei beni della Terra, altrettanto essenziali, ma che sono diventati proprietà “privata”, degli stati, delle imprese, dei singoli.
Il libro dei Meadows Oltre i limiti dello sviluppo ripropone, come l’altro libro di venti anni prima, i valori della solidarietà, dell’amore, dell’educazione come importante ricetta per evitare il collasso del sistema popolazione-risorse-ambiente, inevitabilmente implicito nella “crescita”, che oggi è soltanto crescita capitalistica delle merci e dei soldi.
Il fallimento, finora, dei tentativi di pianificazione socialista della produzione delle merci e dei servizi, il rigetto di qualsiasi proposta di austerità nei consumi o di cambiamento degli “stili di vita”, che anch’essi presuppongono una pianificazione delle scelte produttive e un controllo o orientamento delle scelte merceologiche individuali, potrebbero indurre allo scoraggiamento, a pensare che niente potrà mai cambiare, se non sotto la pressione di eventi catastrofici.
Il fatto è che le crisi raramente si annunciano in forma catastrofica, come il brusco aumento del prezzo del petrolio nel 1974 o la catastrofe di Chernobyl nel 1986. i segnali della crisi sono in genere lenti e difficilmente riconoscibili: pressioni migratorie in alcune zone; guerre locali; limitati aumenti del prezzo di alcune materie prime; invecchiamento della popolazione nei paesi industrializzati; spostamenti delle fabbriche verso zone in cui la mano d’opera costa meno e viene maggiormente tollerato l’inquinamento; conflitti locali contro l’inquinamento dovuto a discariche o fabbriche; naufragi di navi con carichi tossici, eccetera.
Il tamponamento, con rimedi tecnici ed economici estemporanei, delle singole situazioni di crisi ha fatto finora pensare che, dopo poco, tutto possa continuare come prima. Questa è un’illusione, come è un’illusione credere che le Nazioni unite o le sue polizie, o gli accordi internazionali, abbiano una qualche efficacia per la difesa degli oppressi, dei poveri, dell’ambiente dallo strapotere delle società multinazionali, o dalla spregiudicatezza di imprenditori avventurieri, o dalla prepotenza dei paesi più forti.
Purtroppo è così fragile l’analisi dei fenomeni e quasi inesistente un movimento critico e di lotta per il cambiamento! Sconfitto un internazionalismo socialista e comunista, soffocata la lotta di classe con la droga della pubblicità e dell’incanto merceologico e consumistico, sfumata l’originale aggressività dei movimenti “verdi”, sembrerebbe impossibile cambiare. l’unica speranza viene da qualche movimento ecomarxista, ecofemminista, di contestazione ecologica, che fermenta nel Sud del mondo, più che nel Nord del mondo.
Ma tutto resterà vano fino a quando questi zampilli non si trasformeranno in un grande movimento popolare di critica all’attuale crescita della produzione e dei consumi e di domanda di merci e servizi che soddisfino i bisogni umani più che i bilanci delle aziende, di critica e controllo popolare delle merci e delle fabbriche.
L’attuale stordimento delle masse nei consumi e nel rumore viene realizzato ad arte dal potere economico per impedire che il silenzio, le conoscenze critiche e la riflessione generino voglia di rivoluzioni, questa volta nel nome dell’ecologia.
Ecologia Politica-CNS, nn.20-21, 1997
DA ECOLOGIA POLITICA-CNS (1999-2000), TELEMATICA
Produzione di merci a mezzo di natura
“Questo contributo affronta un vasto arco di problemi inerenti la contabilità nazionale espressa in unità fisiche anziché in termini monetari, partendo dall’esperienza del Gosplan sovietico, dalle tavole input-output elaborate dall’economista russo Leontief negli Stati Uniti, alla doppia contabilità nazionale in unità fisiche e monetarie degli anni 1970, alla ricerca realizzata a Bari dallo stesso Giorgio Nebbia nella sua università. È una proposta su cui lavorano oggi gli economisti ecologici di tutto il mondo, che rendono noto il loro lavoro attraverso la rivista in lingua inglese “Ecological Economics.”.
Gli anni venti sono stati, nell’Unione Sovietica, un periodo di grandi fermenti e speranze; il governo bolscevico instaurato da Lenin doveva ricostruire un paese devastato dalla guerra e della crisi economica, con industria e agricoltura arretrate, con una popolazione dilaniata da divisioni e odi interni. Non sarebbe stato possibile risollevare l’industria del grande paese, ricco di risorse naturali, non sarebbe stato possibile riportare gli alimenti e le merci nei negozi, senza una pianificazione capace di indicare le priorità produttive: elettricità, carbone, concimi, acciaio, grano, eccetera. E la pianificazione richiedeva la conoscenza di un quadro completo delle produzioni e dei loro rapporti: quanti concimi e trattori occorrono per aumentare la produzione di grano; quanto carbone per aumentare la produzione di acciaio; quanto acciaio per produrre i trattori?
Per dare una risposta a tali domande Lenin nel 1921 creò il Gosplan, lo speciale ufficio per la pianificazione, in cui raccolse i migliori ingegni economici, matematici, tecnico-scientifici del paese, per costruire il primo bilancio economico dell’Urss. In questa atmosfera lavorò un giovanotto, Vassily Leontief, che nel 1925, ad appena 19 anni, scrisse il primo dei numerosi articoli che lo avrebbero portato al premio Nobel per l’economia. Leontief si trasferì successivamente negli Stati uniti dove fu assunto, negli anni trenta, dall’ufficio di ricerche economiche col compito di redigere, per l’America, un bilancio delle interrelazioni tecniche ed economiche simile a quello a cui aveva lavorato nell’URSS.
Visto in prospettiva si trattava di un lavoro gigantesco; occorreva avere attendibili informazioni statistiche, comprendere come ciascun settore economico “vende” merci a tutti gli altri settori e rifornisce, con le proprie tasse, le tasche dello stato; come le famiglie “vendono” il proprio lavoro ai vari settori economici e col ricavato acquistano i beni e i servizi necessari.
Una grande circolazione di denaro e di beni materiali che può essere “scritta” in una grande “tabella” di interdipendenze settoriali o, come si dice, di rapporti input-output. Ciascun settore produttivo e di consumi finali e di servizi ha una entrata (input), proveniente da tutti gli altri settori e a tutti gli altri settori cede qualcosa (output): materie prime, energia, metalli, grano, automobili, concimi, tessuti, carne, lavoro, servizi di trasporti, eccetera. E questa gran massa di dati doveva essere rappresentata in una forma matematica adatta a rispondere alla domanda: per far aumentare del 10 percento la produzione di acciaio, di quanto deve aumentare la produzione di minerali, la richiesta di mano d’opera, di quanto aumenteranno i consumi delle famiglie?
L’idea originale del Gosplan fu di scrivere una contabilità nazionale in unità fisiche; tale idea discendeva dalla trattazione marxiana della “circolazione” e della “riproduzione” dei beni, fu teorizzata da Bucharin e Preobrazenski, nel celebre “ABC del comunismo”, del 1922, e suscitò un vivace dibattito anche teorico e politico. Molte testimonianze sono contenute nel libro (ormai raro) curato da Nicolas Spulber, “La strategia sovietica per lo sviluppo economico, 1924-1930. La discussione degli anni venti nell’Urss”, pubblicato nel 1954 e tradotto in Italia da Einaudi nel1970.
Apparve però subito che una contabilità fisica comportava la necessità di confrontare e sommare “cose” estremamente eterogenee, ferro con patate, macchine con legname, carbone con zucchero, eccetera. Infine si andava incontro a problemi di duplicazioni contabili: lo stesso chilo di ferro va contato quando il minerale viene venduto alle acciaierie, quando le acciaierie vendono acciaio alle fabbriche dei trattori, quando l’industria meccanica vende i trattori al settore dell’agricoltura, eccetera: il chilo di ferro è sempre lo stesso ma viene contato quattro (e magari molte altre) volte.
Ben presto l’ambizioso progetto – pur concettualmente corretto – fu abbandonato e le prime tavole intersettoriali dell’economia sovietica furono scritte in unità monetarie; quanti rubli ciascun settore economico cedeva a, o riceveva da, tutti gli altri. Il bilancio dell’economia sovietica per il 1923-24, elaborato da P.I. Popov, era rappresentato con una “matrice” intersettoriale, o input-output nella forma che sta alla base, ancora oggi, dei bilanci economici nazionali in tutto il mondo. Anzi, proprio sulla base delle tavole intersettoriali redatte in ciascun paese viene elaborato, con opportuni artifizi contabili, il “prodotto interno lordo”, quel PIL di cui i governanti seguono con ansia l’aumento o la diminuzione. Bisogna anche qui evitare duplicazioni contabili – gli stessi mille euro sono pagati dall’industria saccarifera al coltivatore di barbabietola, dal negoziante all’industria saccarifera, e dalle famiglie al negoziante quando comprano lo zucchero, e sono gli stessi mille euro che i componenti delle famiglie ricevono in cambio del loro lavoro dalle fabbriche o dagli uffici, eccetera.
Il PIL annuo, perciò, come è ben noto, è dato dalla somma della quantità di denaro che arriva ai settori dei “consumi” finali delle famiglie e dei servizi, più la quantità di denaro che viene investita per macchinari, edifici, eccetera, a vita media e lunga, più il costo delle merci e dei servizi esportati, meno il prezzo delle merci e dei servizi importati.
A partire dagli anni sessanta, con la “scoperta dell’ecologia”, vari studiosi hanno cominciato a spiegare che il PIL era un ben povero indicatore dello stato di salute di una economia. Tutti i “processi” di produzione e di consumo, descritti come scambi monetari, anche quelli apparentemente immateriali, sono accompagnati non solo dal movimento di migliaia o milioni di tonnellate di minerali, fonti energetiche, prodotti agricoli e forestali, metalli, merci, eccetera, per cui si paga un prezzo, ma anche dal movimento di una quantità, molte volte maggiore, di molti altri beni materiali tratti dalla natura. Dalla natura “si acquista” senza pagare niente, l’ossigeno indispensabile per la respirazione animale e per le combustioni industriali, o i sali del terreno necessari per la crescita delle piante; inoltre, nei vari processi vengono generate molte altre cose, come l’anidride carbonica e gli altri gas che finiscono nell’atmosfera, o le sostanze liquide e solide che finiscono nelle acque o sul suolo alterando i caratteri e la futura utilizzabilità di questi corpi naturali, spesso senza che venga pagato alcun risarcimento a nessuno.
È così apparso chiaro che il carattere fondamentale dell’economia è la “produzione di merci a mezzo di natura”, e non solo a mezzo di soldi o di altre merci, ed è apparso il ruolo fondamentale della analisi della “storia naturale delle merci”. Ci si è allora accorti che per qualsiasi politica ambientale – l’applicazione di strumenti come imposte sui rifiuti (la carbon tax è un esempio), o di divieti alle emissioni, o di incentivi per tecnologie pulite – è indispensabile sapere da dove ciascun agente inquinante viene e dove va a finire. Ciò possibile soltanto integrando le contabilità nazionali in unità monetarie, con una contabilità in unità fisiche che indichi non solo le tonnellate di materia o i chilowattora di energia che passano da un settore economico all’altro, dall’agricoltura, all’industria, ai consumi finali, ma anche i flussi di materiali tratti dalla natura senza pagare niente e utilizzati nei processi di produzione e di consumo, e i flussi di materiali che, provenienti da tali processi economici, finiscono come scorie o rifiuti nei corpi riceventi naturali.
La redazione di tavole intersettoriali (sovrapponibili a quelle redatte in unità monetarie) in cui i flussi da un settore all’altro siano indicati in unità fisiche, di peso e di energia, comporta, ingigantiti, i problemi di evitare la duplicazione degli scambi e quelli ancora più grandi di sommare e moltiplicare cose tanto eterogenee, come acciaio e conserva di pomodoro, automobili e carta, latte e vetro, eccetera.
Comunque dei passi cominciano ad essere fatti: tavole intersettoriali in unità fisiche sono stati redatti per la Germania e per la Danimarca. Una tavola input-output per l’Italia è stata elaborata di recente nell’Università di Bari.
È stato così possibile vedere che il PIL annuo italiano è accompagnato dal movimento di circa 4.000 milioni di tonnellate all’anno di materiali: grano e benzina, zucchero e acciaio, carta e plastica; e inoltre “beni” tratti dalla natura senza pagare niente (l’ossigeno dell’aria, i sali del terreno, esclusa l’acqua che viene usata in ragione di circa 50.000 milioni di tonnellate all’anno, ed esclusa quella parte dell’aria che non entra nei processi di fotosintesi, respirazione, combustione, produzione) – e si formano scorie e rifiuti gassosi (come l’anidride carbonica o gli ossidi di azoto e zolfo), liquidi e solidi che finiscono nell’ambiente naturale.
Una grande circolazione natura-merci-natura dal regno della natura, ai vari settori dell’agricoltura, della zootecnia, dell’industria, fino ai consumi delle famiglie, tornando più o meno rapidamente, come scorie e rifiuti, nell’aria, nelle acque, sul suolo. Depurando la massa totale dei materiali che attraversano l’economia italiana, quello che in un certo senso è il “costo fisico totale” dell’economia del paese, dalle numerose duplicazioni contabili, è possibile misurare un “prodotto interno materiale lordo”, calcolato con accorgimenti simili a quelli cui viene calcolato il PIL in unità monetarie.
Il prodotto interno materiale lordo, cioè la massa di materiali che alimenta i consumi finali e i servizi, e che viene immobilizzata in beni a vita lunga, tenuto conto delle importazioni ed esportazioni, ammonta per l’Italia, nel 1995, a poco più di 500 milioni di tonnellate all’anno, poco più di 280 tonnellate per miliardo di lire (1995) di PIL, cioè circa 9 tonnellate per persona all’anno. Questo significa che ogni persona in Italia, per mangiare, abitare, muoversi, lavorare, guardare la televisione o andare a spasso, richiede ogni anno 9000 chili di materiali (acqua ed aria escluse), quasi duecento volte il proprio peso, provenienti dall’aria, dalle cave, dalle attività agricole e industriali e dalle importazioni, poi restituiti come gas, liquidi o rifiuti solidi nell’ambiente naturale.
Purtroppo i precedenti dati sul “prodotto interno materiale lordo” sono basati largamente su stime perché mancano dati statistici attendibili. Ci sono carenze e silenzi nelle statistiche delle produzioni, delle importazioni ed esportazioni delle merci in unità fisiche. La legge istitutiva dell’Istituto Nazionale di Statistica prevede che molti dati statistici, relativi a produzioni industriali che pure ammontano a milioni di tonnellate all’anno, debbano essere tenuti segreti per ragioni di riservatezza industriale. Ugualmente restano segreti molti dati del commercio estero che pure coinvolgono rilevanti masse di materiali.
Ci sono carenze nelle informazioni sul flusso di materiali, anche “economici”, estratti dalla natura; solo per fare un esempio, non si conosce la massa dei materiali estratti nelle attività di cava (sabbia, ghiaia, calcari, pietre, eccetera) il cui rilevamento è compito delle regioni da quando ad esse sono state trasferite le “competenze” dei vecchi servizi minerari centrali dello stato. Nei volumi delle “Relazioni sullo stato dell’ambiente” ci sono tabelle con desolanti vuoti su queste informazioni: eppure si tratta di una massa di materiali che supera i trecento milioni di tonnellate all’anno.
Ci sono carenze nella misura dei flussi di scorie, residui, agenti inquinanti dai processi di produzione e di consumo verso i corpi riceventi ambientali. La prima legge sui rifiuti solidi, che imponeva anche l’obbligo di rilevamenti statistici di questa ingente massa di materiali, è stata emanata nel 1985, ma le relazioni sullo stato dell’ambiente apparse fino ad ora contengono soltanto “stime” sulla produzione dei rifiuti solidi in Italia, con valori che oscillano fra 60 e 100 milioni di tonnellate all’anno.
Una soluzione potrebbe essere offerta dalla ricostruzione dei flussi di materiali che attraversano singoli processi produttivi: il ciclo della produzione dei metalli., della raffinazione del petrolio, della costruzione di strade ed edifici, della produzione agricola e zootecnica e dei relativi cicli produttivi agroindustriali. Ma qui la situazione è ancora peggiore. La carenza di dati derivano da “riservatezze” aziendali, che spesso nascondono la vera e propria non-conoscenza di quello che attraversa i loro stabilimenti, del loro “metabolismo industriale”. La cultura dell’analisi dei flussi fisici nei processi produttivi manca nelle Università; l’unica disciplina che se ne occupava, la merceologia, è stata espulsa in quasi tutte le Facoltà economiche. Altrettanto gravi sono i silenzi della pubblica amministrazione a cui per legge molti dati aziendali, anche se più o meno attendibili, dovrebbero essere avviati. A tutto questo si aggiungano i mutamenti delle classificazioni delle attività economiche, conseguenti ad accordi europei e internazionali, per cui si può ben dire che negli ultimi venti anni i dati sui flussi fisici nell’economia sono ben poco confrontabili da un anno all’altro.
Ma vale poi la pena di fare tanta fatica? Altro che ! Soltanto una contabilità nazionale in unità fisiche consente di conoscere quanta materia deve essere movimentata per ottenere una unità di valore monetario; oppure da quale branca di attività economica proviene una certa quantità di rifiuti. Se una legge impone di diminuire le emissioni di un certo agente inquinante (è il caso della normativa sui rifiuti o sulle emissioni dei “gas serra”) quali settori economici saranno influenzati? di quanto diminuirebbe la produzione di plastica, o di automobili, o di acciaio? di quanto diminuirebbe (o aumenterebbe) l’occupazione? Solo un confronto, settore per settore, della contabilità nazionale monetaria con quella materiale permette di capire, per esempio, di quanto l’imposta sulle emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera farà aumentare il costo dei manufatti dei vari settori economici che usano combustibili fossili, e del cemento e delle costruzioni, e quanto peserà sui bilanci familiari – e, d’altra parte, di quanto farà (potrebbe fare) aumentare l’occupazione per l’invenzione e la costruzione di nuovi macchinari e processi che producono meno anidride carbonica? Se venisse incentivato il riciclo della carta usata, di quanto diminuirebbero le importazioni di pasta da carta e la richiesta di acqua e energia, e di quanto aumenterebbero il fatturato dei processi di raccolta differenziata e di riciclo, e la relativa occupazione? Se aumentano le importazioni di materie prime probabilmente aumenta l’occupazione nelle industrie di trasformazione, ma può peggiorare, in seguito alla produzione di una maggiore quantità di scorie, la qualità dell’aria o delle acque: è come se, col minerale di ferro o di alluminio, importassimo anche rifiuti inquinanti in cambio di lavoro.
Una accurata contabilità fisica può svelare se certe azioni, propagandate come “ecologiche”, si traducono invece in un peggioramento delle condizioni ambientali o in un aumento dei rifiuti: per esempio la politica di rottamazione degli autoveicoli, degli elettrodomestici e dei macchinari fa forse diminuire l’inquinamento dell’aria e fa aumentare l’occupazione dell’industria meccanica, ma di quanto fa aumentare la massa dei rottami metallici da smaltire e il relativo effetto inquinante.
Perché allora tante lentezze nei rilevamenti e nella diffusione delle informazioni sulle uniche cose che contano, le materie e le merci che attraversano l’economia e la vita di ogni cittadino e delle imprese ? come se ci fosse un deliberato disegno di evitare e nascondere tali informazioni, lasciando tutto alla misura di quelle fumose grandezze che sono i numeri dei soldi.
La ricerca presentata a Bari ha indicato che, nel caso migliore, i dati sui flussi materiali nell’economia italiana sono afflitti da una incertezza del dieci per cento. Poiché anche la contabilità monetaria e i flussi finanziari dipendono dai flussi fisici e dai loro mutamenti nel tempo, c’è seriamente da chiedersi quale credibilità abbiano i numeri sulla base dei quali vengono fatte le scelte di politica economica o viene misurato il PIL in unità di denaro, se “mancano” all’appello decine di milioni di tonnellate di sabbia e ghiaia che nessuno misura, se dalle statistiche “spariscono” 40 milioni di tonnellate all’anno di rifiuti solidi, se sono coperti dal segreto industriale o militare i movimenti di milioni di tonnellate di merci prodotte, importate ed esportate?
Ecologia Politica-CNS, nn.1-2, gennaio-agosto 1999