Carla Ravaioli: un pensiero ecologico profondo
Ho avuto la fortuna di conoscere Carla, agli inizi del secolo, forse nel 2003, in un casale toscano, presso San Gimignano, dove si riunirono una ventina di neofiti, in maggioranza giovani, di una Associazione antiutilitarista di critica sociale, che, poi, l’anno successivo, sarebbe diventata l’Associazione per la decrescita, una realtà che si stava organizzando in Italia sulla scia dei primi saggi pubblicati da Serge Latouche e del francese mauss (Movimento antiutilitarista nelle scienze sociali). Credo che Carla, pur impegnandosi con generosità nell’interloquire con noi, avesse percepito una certa distanza con il suo modo di considerare la crisi ecologica e soprattutto le urgenze del che fare politico. Probabilmente era venuta a quella strana riunione, già quasi ottantenne, perché attratta dalla scoperta che la sua convinzione da tempo maturata dell’impossibilità della crescita economica infinita fosse condivisa anche da altri. Da qui la sua curiosità per quell’incontro, con il quale però, credo, non si sia trovata in perfetta sintonia, perché Carla non si accontentava di riflessioni teoriche, pretendeva anche che si cercasse come queste potessero trasformarsi in pratica politica di massa. E, forse, aveva percepito che da quel consesso, a questo proposito, non potesse scaturire gran che. Ed in effetti dopo oltre venti anni, l’Associazione per la decrescita, a cui peraltro appartengo, il passo ulteriore, caro a Carla, non l’ha mai compiuto rimanendo una preziosa nicchia di pensiero critico.
A quei tempi aveva appena pubblicato Un mondo diverso è necessario((C. Ravaioli, Un mondo diverso è necessario,Roma, Editori Riuniti, 2002.)), con un capitolo lapidario e dirompente, L’insostenibile crescita. Ma in verità, come vedremo, a differenza di noi neofitipotenziali obiettori della crescita, già vent’anni prima, ovvero quarant’anni fa, nel suo Il quanto e il quale((C. Ravaioli, Il quanto e il quale. La cultura del mutamento, Roma-Bari, Laterza, 1982.)),aveva posto nell’ultimo capitolo il quesito retorico con un efficace gioco di parole: Fine di una crescita senza fine?
È quindi comprensibile che in quell’occasione Carla sia stata vissuta, forse, come una che faceva troppo valere il suo patrimonio di elaborazione e di conoscenze, in un contesto di incerta e, diciamo pure, ingenua circolazione, alla pari tra di noi, di curiosità, suggestioni, intuizioni, interrogativi. A ripensarci, forse, sarebbe stato per tutti utile darle la parola per un’approfondita relazione sul tema, avendo, lei, davvero tante cose da dire. Sta di fatto che fu un incontro, a mio parere, non ben riuscito e comunque, il movimento ambientalista in generale non seppe accogliere con la dovuta attenzione la produzione intellettuale di Carla Ravaioli, come anche buona parte della sinistra politica. E uno spesso velo si è depositato sullo straordinario patrimonio che ci ha lasciato, per nostra fortuna ora custodito nella sua fisicità, grazie alla lungimiranza di Giorgio Nebbia e Pier Paolo Poggio, negli archivi della Fondazione Luigi Micheletti con cui da anni collaboro.
Ed è sempre stimolante riscoprire un pensiero profondo e per molti aspetti pionieristico sul cuore della crisi ambientale, oggi fin troppo di moda: il rapporto tra ecologia ed economia, tra natura e tecnica, tra risorse della biosfera limitate e mito di una crescita infinita della produzione e dei “consumi”. Dunque Carla Ravaioli, come nei primi decenni della sua attività di giornalista e saggista ha offerto dei contributi straordinariamente originali al movimento femminista, così, negli ultimi trent’anni, ha messo a fuoco con un’efficacia e una lucidità sorprendenti le questioni ancora oggi cruciali ed irrisolte della crisi ecologica. Per questo rileggere i suoi testi è a mio avviso di grande utilità per chi vuole capirne di più e non farsi suggestionare dal fuorviante chiacchiericcio in cui siamo quotidianamente immersi in cui tutto appare green, sostenibile, ad impatto zero.
Dunque partiamo da quel testo, già citato, del 1982, che occorre innanzitutto contestualizzare. Siamo due anni dopo la sconfitta del movimento sindacale alla Fiat, che chiude il ciclo virtuoso di lotte e conquiste sociali degli anni Sessanta e Settanta, all’inizio della restaurazione neoliberista imposta all’Occidente dalla nuova Presidenza Reagan insediatosi nel 1981 e ispirata alle teorie ultraliberiste della scuola economica dell’Università di Chicago, diretta da Milton Friedman. Ebbene, in generale, nel nostro Paese, quella fase venne letta a sinistra solo in chiave di restaurazione sociale, ovvero di tentativo, rivelatosi poi pienamente riuscito, di ridimensionare drasticamente la forza del movimento operaio, i diritti dei lavoratori, le conquiste da poco raggiunte di uno stato sociale capace di tutele davvero universali, liberando nel contempo l’iniziativa economica privata dai “lacci e laccioli”, ovvero dai vincoli sociali previsti dalla Costituzione, demolendo buona parte della presenza pubblica sia nella gestione dei flussi finanziari e nel governo della moneta, sia direttamente nell’economia, con la famigerata stagione delle privatizzazioni, e addirittura nei servizi sociali, come la sanità. Il tutto con la promessa, in realtà mai verificatesi, di determinare così in Occidente un nuovo “miracolo economico”, un lungo periodo di crescita, come si era realizzato nei precedenti trenta anni gloriosi. Come sappiamo, una parte importante della sinistra italiana ed europea da quella narrazione si fece irretire, con i risultati che abbiamo oggi sotto i nostri occhi, se questi hanno conservato un barlume di discernimento critico e non sono obnubilati da pensiero unico dominante.
Bisogna, però, ammettere che anche la sinistra critica, quella che cercò di opporsi alla restaurazione sociale in corso, in gran parte non aveva colto un altro decisivo aspetto di quella fase, ovvero l’esplodere della crisi ecologica e il tipo di risposta messa in atto dall’Occidente. E lo dico anche facendo personalmente autocritica avendo vissuto quegli anni con qualche responsabilità come dirigente della Cgil.
I primi anni Settanta avevano visto il fiorire nel mondo di quella che Giorgio Nebbia avrebbe chiamato la “primavera ecologica”: una fase in cui ricercatori, scienziati, movimenti, istituzioni, perfino l’Onu, acquisirono piena consapevolezza della crisi ecologica e delinearono le iniziative e le politiche necessarie per farvi efficacemente fronte((P. P. Poggio, M. Ruzzenenti, “Primavera ecologica” mon amour. Industria e ambiente cinquant’anni dopo, Milano, Jaca Book, 2020. Si veda anche il Dossier, 1970: sboccia la primavera ecologica, un passato che può essere prologo per un nuovo inizio, in “Altronovecento. Ambiente Tecnica Società”, n. 43, https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/dossier-1970-sboccia-la-primavera-ecologica-un-passato-che-puo-essere-prologo-per-un-nuovo-inizio/.)). Poi ci fu l’oil shock la crisi petrolifera del 1973-1974, che rese chiaro all’Occidente la possibile portata di quel problema evocato dagli ecologisti, cioè i limiti naturali dell’economia umana e la necessaria profonda revisione dei presupposti fondamentali della stessa economia. E lo shock mentale in coloro che governavano la megamacchina globale fu tremendo. Dunque la restaurazione neoliberista che seguì, segnata anche da involuzioni autoritarie feroci, come il golpe in Cile e la strategia delle tensione neofascista in Italia, si accompagnò alla negazione delle cause profonde della crisi energetica ed ecologica ed all’illusione di poterla aggirare con nuovi grandiosi salti tecnologici: cosicché invece di avviarsi verso una società solare sviluppando tecnologie dolci e “democratiche” in gran parte già individuate ed in cui il nostro paese era stato all’avanguardia((G. Righini e G. Nebbia, L’energia solare e le sue applicazioni, Milano, Feltrinelli, 1966.)), l’Italia e l’Occidente (e ahimè la stessa Unione sovietica) si gettarono sull’energia nucleare da fissione, parente stretta, non casualmente, della bomba atomica e foriera di quegli incidenti disastrosi ora ben noti. Ebbene di questo aspetto cruciale di quella fase di generale restaurazione Carla Ravaioli fu una delle poche menti ad esserne pienamente avvertita mettendolo con estrema lucidità a tema in quel testo profetico del 1982.
In quel testo si rivolge alle sinistre, in particolare al partito comunista, ai travagli interni che lo sta attraversando dopo l’esperienza contrastata di unità nazionale, al dibattito sul Programma a medio termine per una “terza via” e al richiamo accorato di Berlinguer alla questione morale come segno che dovrebbe distinguere i comunisti dalla degenerazione della politica italiana. Carla invoca una “rivoluzione culturale” capace di affermare la “qualità” della convivenza sociale rispetto alla “quantità” del pil e dei consumi materiali, criticando l’economicismo della sinistra storica e riprendendo molti dei temi della sua riflessione sulla questione femminile. Ma, a mio parere, è nell’ultimo capitolo che rivela la sua dirompente originalità, capitolo preceduto da una fulminante critica non solo al sistema capitalistico ma anche al socialismo reale, accomunati appunto dal culto del “quanto”:
Su queste basi si tratta allora di rivedere le motivazioni al rifiuto dei due modelli di vita dominanti. I quali sono ambedue inaccettabili non benché diversissimi, ma perché, al di là delle diversità, sono in realtà molto simili. Non perché l’Occidente garantisce le libertà civili all’interno però di una insuperabile divisione classista, mentre all’Est la dittatura che ha abolito le classi nega la libertà; ma perché una vera libertà e anche una vera giustizia non sono possibili dovunque la società ruota esclusivamente attorno al dato economico, dovunque le categorie produttive sono il referente primario di ogni valore collettivo e individuale, dovunque il “quanto” [è] assunto come alibi e succedaneo del “quale” […] Il consumismo che, certo in misura finora assai più limitata e in modi assai meno sofisticati che in Occidente, ma certo con altrettanta capacità di suggestione, va rapidamente prendendo piede anche nei paesi del “socialismo reale”, sta a dimostrarlo((C. Ravaioli, Il quanto e il quale, cit.,p. 234.)).
Fin dall’inizio mette le carte in tavola di una critica che investe l’economia tout court, un tema su cui negli ultimi anni insiste Serge Latouche sempre più convinto che per salvare il Pianeta e l’umanità sia proprio necessario liberarsi dal giogo dell’economia, in tutte le sue varianti teoriche((S. Latouche, “Vi spiego perché dobbiamo abbandonare l’economia”, “EconomiaCicolare.com”, 24.1.2022, https://economiacircolare.com/serge-latouche-economia-circolare-decrescita/.)).
Paradossalmente dunque proprio quello economico, luogo classico e prioritario della politica tradizionale, è forse il terreno su cui dare battaglia per “un nuovo modo di far politica”. Il che ovviamente non significherebbe un ritorno alla “struttura” quale condizione e motore della trasformazione “sovrastrutturale”, quindi ai “due tempi della rivoluzione”, e a tutto il vecchio apparato ideologico del marxismo volgare. Ma sarebbe viceversa un intervento condotto sulla “struttura” alla luce di un mutamento maturato nella sfera della “sovrastruttura”; un modo di entrare nell’ottica consueta della politica convenzionale ma solo per capovolgerla, muovendo dalla “centralità dell’economico” per dimostrarla non più praticabile((C. Ravaioli, Il quanto e il quale, cit.,pp. 240-241.)).
Pur constatando che da sinistra molti criticano l’attuale sistema economico, Ravaioli lamenta una generale titubanza a trarne le logiche conseguenze: “Nessuno finora certo si è spinto fino a quella che a me sembra esserne la necessaria conclusione. Nessuno ha osato dire che bisogna produrre meno”((Ibid., p. 241.)). E Carla Ravaioli non solo lo dice a chiare lettere, ma si impegna ad argomentarne le ragioni e le conseguenze, incurante del fatto che una simile proposta verrebbe giudicata risibile o scandalosa e nel migliore dei casi accantonata come irrealistica. E gli effetti della sua proposta sarebbero a dir poco “rivoluzionari” sul piano sociale e della convivenza umana:
Produrre meno (cioè adire a una selezione dei prodotti di imprescindibile utilità sociale, e abbassare gradualmente la produzione del superfluo) comporterebbe innanzitutto progressivamente una forte riduzione della giornata lavorativa 27. Sarebbe cioè la realizzazione di quell’auspicio al “lavorare meno lavorare tutti che, avanzato inizialmente dai movimenti giovanili più estremizzanti, è ormai divenuto rivendicazione più o meno dichiarata, sebbene in formulazioni molto ridimensionate, delle organizzazioni sindacali((Ibid., p. 248)); […] Questo fatto di per sé avrebbe un’incidenza enorme sul modello sociale dominante, secondo il quale un individuo per procurarsi il necessario a soddisfare i propri bisogni, o quelli che crede essere tali, è praticamente costretto a consumare l’intera esistenza nel lavoro, o comunque a organizzarla in ogni sua parte in funzione della propria attività lavorativa. Sarebbe la possibilità di avvio non solo di un uso diverso, ma di una diversa concezione di quello che non a caso è stato chiamato “tempo libero” (in subordine e in contrapposizione al tempo “imprigionato” nel lavoro) e che, pure non a caso, recentemente si è incominciato a chiamare “tempo di vita” (ancora in contrapposizione, ma non più in subordine, al tempo di lavoro, che anzi viene implicitamente dato come tempo perduto per la vita, tempo di non-vita). Tempo cioè in cui cercare la vera realizzazione di sé, impostare e sperimentare con agio i rapporti più ricchi, e anche – perché no – produrre, ma secondo la propria inclinazione, i propri ritmi e il proprio estro, secondo una dimensione non utilitaristica, separata dalla logica dello scambio e dall’obiettivo del reddito((Ibid., p. 249.));
E ridurre la pressione sociale sul perseguimento di risultati economici in nome della competitività, dato caratterizzante in particolare il “maschile”, sarebbe la base più sicura per il recupero e la valorizzazione del “femminile” dell’intero genere umano:
Ridurre fortemente la produzione, e dividere la quantità di lavoro ad essa necessaria tra tutti gli individui in età lavorativa, uomini e donne, cioè lavorare tutti un numero assai limitato di ore al giorno, e tutti avere una grande disponibilità di tempo libero, cancellerebbe ogni ragione per l’attribuzione dell’intero carico familiare alla sola donna: creando l’oggettiva possibilità di un’equa spartizione di tale compito tra i coniugi o tra tutti i membri della famiglia, aprendo spazi per un rapporto assai più ricco tra genitori e figli, e soprattutto tra padri e figli, secondo quella riscoperta di valori finora esclusivamente attribuiti alla donna che tanti giovani oggi vanno facendo […] Ma produrre meno provocherebbe anche altre conseguenze di senso analogo a quanto appena detto. Spendere solo una parte modesta del proprio tempo in attività produttive inevitabilmente condurrebbe infatti alla caduta o a una forte diminuzione di quella pressione culturale che oggi tende a conformare tutti i comportamenti umani (in particolare quelli maschili) alla cifra di competitività propria dei rapporti economici((Ibid., p. 250.)).
Basterebbero queste citazioni per chiarire la portata della provocazione di Carla Ravaioli. Occorre annotare che non si sottrae neppure ad affrontare i risvolti più problematici della stessa. Scontati gli effetti benefici sulla crisi ecologica ed energetica, uno dei punti controversi è certamente il paventato crollo occupazionale.
Ma ciò non è più vero se si accetta l’idea, di cui s’è detto, di una forte riduzione dell’orario di lavoro calcolata in base alla divisione tra tutti i cittadini adulti del tempo occorrente a produrre ciò di cui la società ha bisogno; e se si prevede inoltre lo sviluppo di “un’ampia zona di attività non mercificabili”, appartenenti alla sfera dei servizi civili e sociali, dell’organizzazione partecipativa, dell’integrazione conoscitiva, e così via((Ibid., p. 252.)).
Per quanto riguarda, infine, il quadro internazionale, i rapporti Nord-Sud del mondo, il pericolo di conflitti armati, non c’è dubbio che l’umanità avrebbe tutto da guadagnarci:
E infatti lo sviluppo senza fine, modello dell’economia capitalistica, mentre spinge fino allo spreco i consumi nei paesi a industrializzazione avanzata, non garantisce in alcun modo una produzione capace di alleviare la penuria dei paesi sottosviluppati, ancora al di sotto della possibilità di soddisfare i bisogni primari, bensì opera alacremente per introdurre anche in queste società affamate il modello consumistico, l’ideologia del superfluo e il suo mistificante edonismo. Viceversa, un’economia impostata sull’abbassamento della produzione comporterebbe innanzitutto un’inversione di tendenza, bloccando una produzione produttrice di bisogni sulla misura della propria crescita, di fatto capovolgendo l’attuale rapporto tra bisogni e consumi, e dunque tra domanda e offerta: non abolendo il mercato, ma sovvertendone le regole attuali. In questa prospettiva non sarebbe più così irrealistica l’ipotesi del produrre altro e altrimenti, in modo da indurre nel terzo mondo la produzione autonoma dei manufatti di cui realmente quei paesi necessitano e dall’altro lato eliminare lo sfruttamento cui ora sono soggetti. [..] Vale tuttavia ricordare che l’accumulo di giganteschi quantitativi di armi ad altissimo potenziale distruttivo non solo appartiene con perfetta coerenza al modello della crescita senza fine, ma, secondo teorie tutt’altro che nuove e mai smentite, ne rappresenta la necessaria conseguenza: la guerra – oggi, cioè, la distruzione dell’umanità – è il naturale complemento dell’attuale forma produttiva((Ibid., p. 255-256.)).
Rileggere queste parole mentre incombe la minaccia di una guerra nucleare innescata dal conflitto in Ucraina fa una certa impressione.
Mi sono soffermato in particolare su questo testo perché dà pienamente il senso della profondità anticipatrice del pensiero ecologico di Carla Ravaioli e quindi della sua unicità originale. Mentre in generale la sinistra si soffermava solo sulla giusta critica delle modalità brutalmente antisociali della restaurazione neoliberista, Carla metteva a fuoco l’inganno della stessa promessa di una futura crescita, in nome della quale quelle restrizioni dei diritti sociali si sarebbero legittimate (argomentazione che una parte della sinistra avrebbe peraltro fatta propria). Invece, proprio quella crescita, secondo Carla, non solo non era possibile (come si è dimostrato), ma neppure desiderabile, e quindi a maggior ragione era insensato tutto il corollario di politiche economiche e sociali neoliberiste che si stavano imponendo. Insomma il neoliberismo, ovvero il primato dell’economico, veniva così colpito al cuore, nella sua ragione d’essere.
Per cui appare oggi in tutta evidenza la carica retorica dell’interrogativo con cui conclude il suo straordinario lavoro: “È possibile continuare a cullarsi nell’illusione che la crisi prima o dopo passerà, e torneranno i tempi belli e incontrastati della crescita senza fine?”
Ma Carla Ravaioli preso per le corna il limite strutturale e se vogliamo epistemologico dell’economia, con straordinaria pervicacia torna sul tema con un’operazione unica nella pubblicistica nazionale e non solo. Decide di porre i quesiti che le girano in tesa da tempo direttamente ai più quotati economisti del mondo, appartenenti alle più diverse scuole. Così, dieci ani dopo, pubblica il risultato di questo lavoro, Il pianeta degli economisti, ovvero l’economia contro il pianeta((C. Ravaioli, Il pianeta degli economisti, ovvero l’economia contro il pianeta, Torino, ISEDI, 1992.)), titolo che non lascia alcun margine a possibili fraintendimenti: è l’economia, in tutte le sue varianti((Ci si riferisce qui agli esponenti “di sistema” delle principali scuole di economia. In realtà vi sono stati, anche nell’economia classica, pensatori dissonanti che si sono confrontati con il vincolo delle risorse naturali, come John Stuart Mill, teorico di una “società stazionaria” e Thomas Robert Malthus, preoccupato di come alimentare una popolazione in crescita esponenziale; ma oggi si sta rileggendo in chiave ecologica anche Marx, in particolare le sue opere giovanili: H. Peña-Ruiz, Karl Marx penseur de l’écologie, Paris, Syllepse, 2021.)), il tarlo che sta minando la terra e l’umanità che vi è ospitata.
Dare conto di questo testo è impossibile per la ricchezza e complessità delle argomentazioni. Basti ricordare che innanzitutto pone il tema dell’insensatezza di un sistema che deve sempre produrre crescita, quindi, se davvero l’economia che pretende di governare il mondo sia una scienza esatta, se alla quantità da rincorrere all’infinito non sia desiderabile contrapporre la qualità da coltivare in decelerazione rispettando i limiti naturali, ed, infine, se il capitalismo sia per sua natura incapace di questa necessaria inversione di rotta per salvare il pianeta e l’umanità.
Elencare gli interlocutori sarebbe pure altrettanto significativo, ma sono ben ventotto, compresi premi Nobel, provenienti dalle più diverse parti del mondo, dagli Usa alla Russia, e dalle diverse scuole; cito a mo’ di esempio alcuni nomi noti: Milton Friedman, caposcuola del neoliberismo duro e puro, John K. Galbraith, neokeynesiano, Nicolao Georgescu-Roegen, teorico della bioeconomia, Juan Martinez-Alier, teorico dell’economia ecologica, e James O’Connor, teorico dell’ecomarxismo. Mi limito a dire che è un testo assolutamente da leggere anche oggi per capire a fondo perché in mezzo secolo, dominato dall’economia e negli ultimi quarant’anni dal neoliberismo, comunque sempre dal mito della crescita, non siamo riusciti a porre rimedio alla crisi ecologica.
È un testo tanto importante che ha meritato di essere pubblicato in inglese da una delle più prestigiose case editrici internazionali((C. Ravaioli, Economists and the Environment. What the top economists say about the Environment, London, Zed Books, 1995.)).
Carla, nonostante sia poco ascoltata dalla sinistra, insiste nel voler dialogare con questo che ritiene il suo popolo di riferimento. Così nel 2000 pubblica un lungo dialogo con uno dei massimi dirigenti della Cgil, Bruno Trentin, Processo alla crescita((C. Ravaioli, Processo alla crescita. Ambiente, occupazione, giustizia sociale nel mondo neoliberista, Roma, Editori Riuniti, 2000.)). Il testo è interessante, non tanto per quello che può aggiungere sul piano dell’elaborazione depositata nei suoi precedenti lavori, ma per l’insistenza di Carla nel tentare di smuovere il punto di vista tradizionalmente improntato al produttivismo, ancorché di qualità diversa, di una delle menti più vivaci del sindacato italiano.
Mi affido per commentare questo testo alla bella recensione scritta all’epoca da Giorgio Nebbia:
Questa volta il colloquio è con Bruno Trentin il quale, da sinistra, spiega la inevitabilità della crescita che egli fa coincidere con lo sviluppo umano. Dal colloquio emergono tutte le contraddizioni fra crescita e natura: i limiti fisici della natura possono essere superati governando lo sviluppo, la sua qualità, rendendolo ‘sostenibilÈ, come è di moda dire adesso. Ma la ‘sostenibilità’ non sarà una nuova parola magica per evitare di mettere in discussione la crescita merceologica e non sarà destinata anch’essa a scontrarsi con i limiti fisici della natura? L’altro punto importante riguarda la democrazia: è possibile evitare o rallentare lo sfruttamento delle risorse naturali e dell’ambiente senza ricorrere a tentazioni autoritarie, ‘reazionariÈ, di destra, senza condannare le classi povere e i paesi poveri a restare con la propria miseria, nel nome della salvaguardia di valori che sono tali per le (o che sono percepiti come tali soltanto dalle) classi agiate? Può una sinistra chiedere oggi ai lavoratori di accettare minori salari, meno automobili, di consumare meno benzina, per salvare i boschi o lo strato di ozono, perché la distruzione delle foreste e dello strato di ozono, imposta dalla crescita del capitale internazionale è destinata a provocare domani ricadute negative più gravi proprio sulle classi povere e sui paesi poveri? Dal colloquio Ravaioli-Trentin emergono anche le linee per alcune proposte: uno scrutinio della qualità delle merci e delle materie prime, alla luce dei vincoli ambientali; una nuova cultura nei bisogni e nei consumi individuali; una educazione critica verso le merci oscene come le armi; un intervento pubblico verso la standardizzazione delle merci perché durino di più, siano più facilmente riciclabili alla fine della loro vita utile; lo sviluppo di tecniche e processi che, invece di moltiplicare merci e bisogni futili, aiutino i paesi poveri ad attenuare la loro cronica mancanza di cibo, salute, acqua potabile, abitazioni decenti, energia, istruzione, libertà. Tutto questo non risolve il problema di fondo: non frena la crescita, non allarga i limiti delle risorse naturali, ma almeno richiede innovazione, crea occupazione, alleggerisce la pressione migratoria e può anche mettere in discussione i dogmi della competitività, dello sfruttamento, del capitalismo, cioè delle condizioni intrinsecamente incompatibili con le leggi della natura. Troveremo una sinistra capace di affrontare una tale sfida((Cfr. la recensione di Giorgio Nebbia in “Altronovecento. Ambiente Tecnica Società”, n. 3, 1.6.2000, https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/processo-alla-crescita/))?
Si potrebbe chiudere qui, ma non è possibile non aggiunger qualcosa sul testo, citato all’inizio, che è un po’ la summa degli ultimi decenni del suo lavoro, Un mondo diverso è necessario((C. Ravaioli, Un mondo diverso, cit.)).L’ultimo capitolo è particolarmente denso.
Fondamentale è l’indicazione dei sei “valori” negativi da rifiutare per ricostruire una nuova sinistra all’altezza delle sfide XXI secolo:
Il primo “valore” da rifiutare dovrebbe essere il dominio incontrastato della ragione economica((Ibid., p. 199.)); il secondo “valore” da rifiutare, d’altronde in piena coerenza col primo, è la “quantità” come misura di tutto il “positivo”, su cui fonda la propria certezza la crescita produttiva illimitata, assunta come prioritario obiettivo economico((Ibid., p. 200.)); il terzo “valore” che le sinistre non possono permettersi di accettare è “il danaro come religione”((Ibid., p. 200.)); quarto “valore” da condannare senza riserve é quello espresso nel popolare aforisma che afferma: “il tempo è danaro”, […] perché il tempo è una categoria al cui interno si colloca il vivere umano in tutte le sue espressioni((Ibid., p. 201.)); quinto “valore” non più accettabile è l’illusione della inesauribilità della natura, e la presunzione del diritto umano al suo illimitato sfruttamento, […] “valore” su cui si è impiantata e continua a reggersi l’evoluzione economica degli ultimi due secoli, e di cui (occorre ripeterlo e senza mezzi termini) anche le sinistre sono state pienamente e irresponsabilmente partecipi((Ibid., p. 202.)); sesto “valore” da abiurare è quella tenacissima fede nel progresso che pervade l’intera nostra cultura, e che le sinistre hanno abbracciato nel modo più acritico, […] in gran parte identificato con l’evoluzione scientifica e tecnologica((Ibid., p. 203.)).
Giustamente Carla Ravaioli ritiene l’obiezione a questi falsi “valori” dominanti la precondizione per progettare, quindi, un “mondo diverso”, consapevole che l’impresa non è di poco momento, straordinariamente impegnativa e complessa, da costruire con pazienza e gradualità. Lei stessa non si sottrae ad offrire nelle pagine conclusive indicazioni che si potrebbero ancor oggi assumere come programma a medio termine per una sinistra, purtroppo, a mio parere, in gran parte anch’essa da ricostruire.
Mi piace, a questo punto concludere con il paragrafo che apre l’ultimo capitolo su cui mi sono qui soffermato, L’insostenibile crescita:
Finché la crescita del prodotto sarà l’obiettivo primo del nostro agire economico, anzi dell’intera nostra esistenza, è inutile sperare uguaglianza, o anche solo meno disuguaglianza: più sfruttamento, più povertà, più esclusione, sono i soli strumenti che ancora (non sappiamo per quanto) possono garantire aumento del pil. È inutile sognare un ambiente risanato o anche solo un po’ meno inquinato e dissestato, perché l’attività produttiva non può cessare di crescere, e insieme alla produzione cresce la quantità di rifiuti ch’essa rovescia sul mondo mentre diminuiscono le risorse non rinnovabili. È inutile illudersi che ogni scoperta scientifica e tecnologica venga debitamente testata e controllata nella sua possibile nocività prima di trovare applicazione industriale e diffusione commerciale, perché questo andrebbe a lederne la capacità competitiva e l’immediato aumento della profittabilità. È inutile attendere una reale parità tra uomini e donne perché l’organizzazione industriale planetaria non può rinunciare all’attività di “produzione e manutenzione della forza lavoro” dovunque erogata a costo zero dalle donne e integrata nei meccanismi di accumulazione. È inutile auspicare pace: nell’attuale situazione di crisi dell’accumulazione come categoria portante del sistema, le guerre, grandi e piccole, sono necessarie per far quadrare i conti del mondo.