Carlo Doglio (1915-1995)
Il 25 aprile 1995, all’età di ottanta anni, è morto a Bologna Carlo Doglio, lo studioso che ebbe un ruolo importante nel far conoscere in Italia Lewis Mumford, oltre che molti altri, come Kropotkin e Geddes, ai quali ha dedicato tanti scritti e che da questi studiosi ha tratto ispirazione per tanta parte della sua vita e del suo lavoro.
È difficile classificare Doglio entro le categorie tradizionali: penso che forse lui stesso si definirebbe anarco-comunista, o forse rigetterebbe anche questa etichetta. Anarchico era uno dei suoi modelli di vita e di cultura, il principe russo Kropotkin; anarco-socialista era la cultura dello scozzese Patrick Geddes, dell’inglese Owen, dell’americano Mumford.
Arrestato come antifascista, poi partigiano, esponente del Movimento Anarchico di cui pubblicò il giornale clandestino “Il Libertario”, Doglio fu amico e collaboratore di Lelio Basso, del filosofo marxista Antonio Banfi, di Danilo Dolci.
Quando, dopo la Liberazione, Adriano Olivetti tornò in Italia raccolse intorno a sé giovani ingegni a cui chiese di tradurre e diffondere le opere degli autori che il lungo sonno culturale imposto dal fascismo aveva escluso dal nostro paese, e di applicarne il pensiero nel territorio, nell’impresa, nell’amministrazione pubblica.
Nella pattuglia degli olivettiani Doglio era in compagnia di Ferrarotti, Zevi, Volponi, Quaroni, De Carlo, e tanti altri, e contribuì al movimento di Comunità e alle pubblicazioni della casa editrice e della rivista omonima.
Doglio ha insegnato per molti anni, nelle Università di Palermo, Venezia e Bologna, ma parlare di Doglio come “cattedratico” universitario è limitativo: la cattedra da cui distribuiva a piene mani cultura e ironia, coraggio e speranza, si trovava, oltre che nelle aule, in qualsiasi luogo in cui potesse parlare – soprattutto alle generazioni più giovani, ai militanti dei movimenti di base, agli insegnanti, agli studenti – del passato, del presente e del futuro, in cui potesse propagandare una utopia rivoluzionaria a cui è rimasto fedele tutta la vita.
Doglio era uomo capace di “perdere” due giorni per parlare a dieci persone e disinteressato a cose che gli avrebbero garantito un po’ di lettori.
In un’epoca in cui viene fatto credere che si esiste soltanto se si ottiene un breve passaggio in qualche intervista televisiva, in cui gli autori, anche minimi, si fanno invitare a tenere conferenze per vendere i propri libri, tutta la vita di Doglio dimostra invece che si esiste soltanto se si apre il cuore e la mente anche ad una sola persona.
Sarebbe molto importante che venissero raccolti e ordinati i suoi libri e i suoi scritti e le registrazioni delle sue conferenze; scritti spesso pubblicati da case editrici minime o in giornali e riviste quasi sconosciuti: anche questo era tipico di Doglio. Avremmo tutti da imparare ancora molto leggendo gli scritti che ci ha lasciato.
Nel febbraio 1992 Chiara Mazzoleni, dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, ha curato e pubblicato il volume: “Carlo Doglio. Selezione di scritti 1950-1984”. La buona introduzione della Mazzoleni, la biografia e la bibliografia dei libri e degli articoli principali di Doglio, e soprattutto la rilettura delle sue parole, consentono di ripercorrere il suo cammino culturale, universitario, ma soprattutto umano.
Fra i molti contributi di Carlo Doglio vorrei ricordare quelli sui rapporti fra attività produttive, insediamenti umani e ambiente.
Negli anni cinquanta, quando è sorto il movimento di Adriano Olivetti e si è cominciato a considerare la necessità di una programmazione, era possibile vedere alcune analogie fra l’Italia uscita distrutta dal fascismo e l’America degli anni trenta, quella in cui Roosevelt aveva lanciato il suo nuovo corso.
Anche da noi in molti abbiamo pensato che la riprogettazione delle merci e dei processi produttivi, le opere di difesa del suolo e di regolazione del corso dei fiumi – qualcosa di simile alla Tennessee Valley Authority – avrebbero potuto assicurare al paese lavoro, acqua ed energia e avrebbero potuto allontanare i disastri, come l’alluvione del Polesine del 1951, figlia proprio della mancanza di una politica e di una cultura del territorio, della difesa del suolo, della regolazione dei bacini idrografici.
C’era anche da noi un “Sud” simile al sud degli Stati Uniti, in cui occorrevano dighe, acqua, fabbriche, strade, secondo un “piano”. Se si ripercorre la strada della “pianificazione” in Italia si vede come questa strada sia stata diversa da quella che gli “utopisti” come Doglio avevano auspicato.
L’ente elettrico pubblico ha ereditato i vizi politici e gestionali delle vecchie compagnie elettriche private; la speculazione edilizia ha impedito qualsiasi legislazione moderna sull’uso dei suoli; i grandi gruppi monopolistici dell’automobile, della chimica, del petrolio, dell’acqua, delle costruzioni, hanno pianificato – loro, si, nel proprio interesse e contro gli interessi della collettività italiana – con le loro opere e fabbriche e con i loro prodotti, la diffusione delle strade, l’aumento della congestione urbana, l’inquinamento dell’aria e delle acque, la sete e l’erosione del suolo.
Proprio per questo, e proprio in questi anni bui della fine del novecento, nella speranza che si possa un giorno realizzare una società come quella pensata da Doglio, per trarre coraggio nell’ardua impresa, è importante rileggere le sue parole profetiche.
Su come avrebbe potuto essere sviluppata la Sicilia, secondo direttrici basate sui bacini idrografici; come avrebbe potuto rinascere Gibellina, col volto di una moderna New Town.
Rileggere quanto Doglio ha scritto sulla “pianificazione della libertà” basata – sono parole del 1970 – sulla pianificazione dei modi di produzione, su una analisi critica del ‘perché’ si produca questo e quest’altro e in ‘che modo’, sull’interrogarsi in che modo e perché si vive come viviamo.
A rileggere queste parole e tanti altri scritti di Doglio viene una gran rabbia costatando che la strada della libertà era segnata, e che per decenni il potere politico ed economico hanno soffocato qualsiasi passo lungo tale strada.
Credo che l’unica cosa che possiamo fare per ricordare Carlo Doglio sia proprio partire dai suoi scritti, farne oggetto di pedagogia popolare, trarne un programma e un impegno di lotta politica e civile, al fine, come suggeriva Doglio, di smantellare il terrore “degli spazi aperti”, il terrore “della rinnovazione continua della nostra vita”, terrore che caratterizza il potere che ci domina. Senza tale cambiamento “si va diritti nel loculo mortuario che è poi, per le idee dominanti oggi, l’unico luogo sicuro”.