Chernobyl, la madre di tutta la comunicazione ambientale
Chernobyl: incertezze, confusione, balletti di cifre nel “racconto” del disastro
L’incidente nucleare di Chernobyl ha rappresentato, senza ombra di dubbio, un punto di svolta per la comunicazione ambientale: è stato non solo il primo incidente ecologico su scala globale, ma anche il primo grande caso di comunicazione ambientale. Per la prima volta in Italia (e non solo, ovviamente) si è visto l’inquinamento “entrare” nelle case e diventare un problema quotidiano con riflessi negli atti più semplici quali fare la spesa o decidere una passeggiata in campagna.
La misura dell’incidente di Chernobyl, e la comunicazione relativa, è stata tale da produrre una ripercussione pesante sulla produzione di energia nucleare. In Italia, in particolare, ha prodotto -come è noto- lo stop alla costruzione di centrali nucleari così come la quasi totale chiusura del dibattito sull’energia nucleare, che solo nel 2008 ha ripreso vigore e coraggio ((Il 22 maggio 2008, improvvisamente, un ministro del IV governo Berlusconi ha annunciato, davanti all’assemblea di Confindustria, che il governo italiano “prevede la costruzione di un gruppo di centrali nucleari di nuova generazione” capaci di “produrre energia su larga scala, in modo sicuro, a costi competitivi e nel rispetto dell’ambiente”, la cui “prima pietra dovrebbe essere posta entro il 2013”. Successivamente, e più recentemente, il Senato ha approvato una legge che consente la costruzione, ad opera dell’Enel, di 6-8 centrali che dovrebbero entrare in funzione -secondo gli ottimistici piani del governo Berlusconi- dal 2018.)). Alcune radici stanno proprio nei modi di comunicare assunti in quel periodo.
Salta immediatamente agli occhi, analizzando la ricostruzione dei fatti, il lasso di tempo che passa tra l’incidente e la sua comunicazione. Il reattore sfugge di mano ai tecnici della centrale, che stavano conducendo un esperimento azzardato, alle ore 1.25 di sabato 26 aprile 1986. Si devono aspettare le ore 21.00 del 29 aprile perché un telegiornale sovietico, con uno scarno comunicato di quattro righe, dia la notizia (in parte “costretto” dal fatto che in Nord Europa era già evidente la gravità della radioattività dell’aria). Già a questo livello di sviluppo della notizia si evidenziano le due caratteristiche che faranno di Chernobyl un caso mondiale. La prima riguarda, appunto, i tempi di comunicazione: ci sono volute 70 ore per trasmettere un’informazione essenziale per la sicurezza di milioni di persone, con ritardi e reticenze che si manifestano sin dal primo momento. La seconda è data dal clamoroso contrasto tra le varie valutazioni delle conseguenze dell’incidente: secondo un comunicato della Tass del 29 aprile le vittime a Chernobyl sono due, secondo il lancio di un’agenzia di stampa americana dello stesso giorno i morti sono 2000. Ecco alcune premesse per il caos informativo che dominerà per mesi, rendendo diffidente l’opinione pubblica ((Cfr. Carlo Degano – Antonio Ferro, Dar voce all’ambiente. Dieci anni di comunicazione ambientale, Milano, Sperling & Kupfer Editori, 1998, pp. 72-79.)).
Le misure di sicurezza decise in maniera molto tormentata -e comunicate ancora peggio- dal governo italiano, nei giorni successivi all’incidente, sono state la prova lampante per ogni italiano che l’inquinamento può causare dei danni diretti. In termini di comunicazione e percezione del pericolo ha fatto di più il divieto di mangiare insalata a foglia larga che cento conferenze sulla fissione nucleare. Vale la pena ricostruire la storia delle settimane in cui è maturata la consapevolezza di ciò che era realmente successo nell’esplosione nucleare di Chernobyl attraverso la lente dei media e quindi, in seconda battuta, dell’opinione pubblica.
La più tremenda catastrofe nucleare di ogni tempo (che ora però, a distanza di soli 25 anni, deve “temere” la concorrenza di Fukushima), incastonata nella memoria collettiva come la realizzazione inconcepibile di un incubo a lungo sottovalutato, avviene nella notte del 26 aprile 1986. Una catena di gravi errori umani conduce all’esplosione nel reattore numero quattro della centrale termonucleare di Chernobyl. Doveva essere un semplice esperimento elettrotecnico, che non riguardava il reattore: senza l’autorizzazione degli organi competenti, gli ingegneri della centrale decidono di procedere ad una verifica del sistema di sicurezza in caso di totale mancanza di corrente elettrica ((Le pompe per il raffreddamento ad acqua del nocciolo funzionano infatti grazie all’energia elettrica.)). Si tratta di ricreare una situazione di allarme per sincerarsi dell’efficienza del turbogeneratore che, nel caso di interruzione dell’alimentazione dell’impianto, deve provvedere a fornire energia elettrica per alcuni secondi, finché i generatori diesel d’emergenza non sono attivati. Presupposto necessario alla riuscita dell’esperimento, nondimeno, risulta l’arresto temporaneo del sistema di raffreddamento del reattore e del sistema automatico d’interruzione. Il super Gau simulato (“Grosser Anzunehmender Unfall”, cioè “il massimo incidente ipotizzabile”, ovvero la fusione del nocciolo e il suo sprofondamento nel suolo) diviene reale. Una serie quasi incredibile di violazioni delle norme di funzionamento, ricostruite nella versione accreditata dal Cremlino, sottraggono il controllo del reattore ai tecnici: innescatasi una reazione a catena, la temperatura del combustibile nucleare balza da 4000 a 5000 gradi, il rivestimento di zirconio delle barre d’uranio si spezza; il materiale radioattivo esplode, l’acqua di raffreddamento evapora e la pressione così creatasi devasta il rivestimento di calcestruzzo del nocciolo. Una seconda esplosione distrugge la piastra di copertura del reattore; l’ingresso d’aria nel nucleo, ormai esposto al cielo, provoca l’incendio della grafite: dal cuore d’uranio della centrale si alzano così in cielo particelle radioattive e gas che, imprigionati dalle correnti d’aria spiranti verso nord ovest, vengono trascinati in direzione del Nord Europa.
L’Unione Sovietica non dirama immediatamente la notizia dell’incidente, nonostante l’evacuazione della zona prossima all’impianto atomico venga intrapresa già a partire dal 27 aprile: soltanto i valori insoliti dei rilevamenti di radioattività in Svezia rivelano a tutta l’Europa il pericolo di contaminazione incombente e, per induzione inevitabile, si risale al disastro nucleare consumatosi in Ucraina. Il primo comunicato ufficiale, diffuso dall’agenzia Tass il 28 aprile, informa laconicamente: “Uno dei reattori atomici è stato danneggiato. Sono state prese misure per eliminare le conseguenze dell’incidente. E’ stato prestato aiuto a coloro che sono stati feriti”, senza precisare l’entità del sinistro, il numero e la gravità delle condizioni dei feriti, l’evoluzione dell’emergenza. A distanza di 24 ore, una seconda dichiarazione sovietica ammette che un’esplosione nel reattore del quarto blocco ha provocato “la distruzione di parte delle strutture della costruzione”, consentendo così la fuga di “una certa quantità di sostanze radioattive”; in merito alla situazione sanitaria, il comunicato, dopo l’annuncio della morte di due persone, rassicura circa la normalizzazione della quota radioattiva nella centrale e nelle adiacenze, ribadendo la prontezza dei soccorsi ai colpiti e lo svolgimento ordinato delle operazioni di evacuazione. Presso l’opinione pubblica occidentale le dichiarazioni confortanti del governo sovietico vengono accolte con scetticismo e incredulità, mentre l’accavallarsi delle congetture e delle previsioni (soprattutto di parte americana) sull’entità della contaminazione radioattiva e sulla reale situazione a Chernobyl alimenta l’inquietudine generale.
La notizia del disastro di Chernobyl approda sulla stampa italiana il 29 aprile, in apertura di prima pagina, con articoli molto simili e identiche cartine contenenti le indicazioni del probabile raggio di diffusione della nube radioattiva dall’Ucraina verso l’Europa ((Una puntuale analisi dell’attivazione delle maggiori testate nazionali sull’episodio di Chernobyl e sui suoi immediati sviluppi è in Francesca Tellone, L’evoluzione del messaggio ecologico su alcuni quotidiani italiani negli ultimi vent’anni, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università Cattolica di Milano, a.a. 1997-1998.)). L’omogeneità dell’informazione tra il 29 e il 30 aprile si giustifica con la scarsità di fonti relative all’evento, per cui l’impegno comune dei media è quello di integrare le rivelazioni omissive del governo sovietico con le supposizioni più attendibili sull’incidente e sullo spostamento delle correnti radioattive. Il taglio dei primi articoli è pertanto cauto nei contenuti, con sovrabbondanza della forma condizionale e di sfumature probabilistiche; i primi titoli, che acquistano presto la misura delle nove colonne e l’imponenza dei caratteri cubitali, esprimono peraltro l’immanità della catastrofe e la concitazione dell’emergenza ((Il primo annuncio è dato in forma assai simile su tutti i quotidiani: Esplode centrale nucleare in Urss, La Stampa, 29 aprile 1986; Sciagura nucleare in Unione Sovietica / Allarme radioattivo nell’Europa del Nord, Il Giornale, 29 aprile 1986; Sciagura nucleare in Urss, Corriere della Sera, 29 aprile 1986; Disastro nucleare in Urss, La Repubblica, 29 aprile 1986.)).
Le indicazioni grafiche suggeriscono tuttavia immediatamente, al di là dell’uniformità contenutistica, la diversa impostazione di stile, linguaggio ed atteggiamento che dispone le testate in un duplice ordine: laddove i quotidiani di più sincera fede filonucleare preferiscono mitigare i toni, smorzare l’allarme, trattenere il taglio informativo entro una misura di compostezza rassicurante, La Repubblica e Il Corriere, invece, più critici sull’oltranzismo atomico e connotati da uno stile opposto, propendono per la testimonianza drammatica, l’impatto violento del titolo, il racconto enfatico che restituisca il clima inquieto dell’emergenza. La divergenza si palesa peraltro soprattutto dopo il primo allarme, condiviso da tutti i quotidiani per l’incertezza delle notizie e l’impossibilità di una seria valutazione dei fatti: ancora il 30 aprile la stampa italiana si interroga sulle proporzioni dell’avvenimento ((I titoli sono davvero inquietanti. Anche Il Giornale, fortemente schierato su posizioni filonucleari, è costretto a titolare su nove colonne: L’Urss non riesce a spegnere il rogo nucleare / Morti, gente in fuga, richiesta d’aiuto all’Occidente, Il Giornale, 30 aprile 1986; gli fa eco La Stampa che annuncia: Divampa l’incendio nucleare in Urss, La Stampa, 30 aprile 1986. Preoccupate invece soprattutto per il diffondersi del veleno radioattivo, le altre testate dedicano l’apertura al dilagare del terrore in Europa: Paura nucleare sull’Europa, Corriere della Sera, 30 aprile 1986, in una prima pagina padroneggiata dalle notizie su Chernobyl, e Europa, allarme atomico, Repubblica, 30 aprile 1986.)), affidandosi a fonti disparate quali le rilevazioni dei satelliti spia americani, le comunicazioni governative degli altri paesi europei, le dimensioni della paura rivelate dalle misure d’emergenza prese nella Scandinavia contaminata. La discontinuità delle informazioni e la parzialità dei dati disponibili rendono i giornali vulnerabili alla sproporzione catastrofica (tutte le testate riportano il calcolo americano di duemila morti, rivelatosi poi errato) e all’inesattezza ((Come avviene, ad esempio, per la fotografia d’archivio della centrale di Novovoronary che, in mancanza di documentazione effettiva, viene utilizzata per illustrare le cronache dall’Urss e spacciata dal Corriere come immagine autentica dell’impianto accidentato.)).
Profilandosi in modo più concreto il rischio radioattivo anche per l’Italia, la stampa nazionale offre un certo risalto alle dichiarazioni rassicuranti del ministro della Protezione Civile, Giuseppe Zamberletti, e degli esperti dell’Enea ((Franco Foresta Marin, La nube sarà nei prossimi giorni in Italia / “Ma non corriamo pericoli” dice il ministro, Corriere della Sera, 30 aprile 1986; il pezzo cita la dichiarazione del ministro Zamberletti: “Non esistono preoccupazioni di sorta per il nostro paese. Il sistema dei controlli radioattivi ha dato finora misure assolutamente rassicuranti e si può prevedere che, anche nel caso di un passaggio della nube radioattiva sul nostro territorio, i livelli di radioattività non andrebbero al di là di quelli misurati in queste ore in Svezia, e cioè 5 volte superiori al fondo naturale”, precisando che “un’oscillazione del fondo naturale di fattore 5 la subiamo tutte le volte che passiamo dalla Valle d’Aosta alla Campania”. Tutte le testate citano le rassicurazioni dell’Enea (Direzione Sicurezza e Protezione Sanitaria), le quali certificano che “le reti nazionali di rilevamento della radioattività ambientale non hanno segnalato alcun aumento rispetto al fondo naturale”. All’acme dell’emergenza, invece, tecnici dissenzienti di parte ambientalista dimostreranno con chiarezza che l’innalzamento dei valori era giunto sino a 10 volte il livello consueto.)). Le principali fonti scientifiche consultate dai media, in questa prima fase, sono rappresentati principalmente dai tecnici della Commissione Grandi Rischi della Protezione Civile e dagli studiosi della Disp – Enea, i quali tentano di fornire un quadro di efficienza assoluta e prontezza nei sistemi di controllo radioattivo. Voci dissonanti come quelle del fisico Carlo Rubbia e degli ambientalisti Gianni Mattioli e Massimo Scalia rimangono inizialmente confinate in una posizione subalterna; ciò alimenterà le polemiche successive sulle inesattezze diffuse nel computo radioattivo((Sono quasi esclusivamente Il Corriere della Sera e La Repubblica ad ospitare le obiezioni del fronte ambientalista al quadro scientifico offerto dai tecnici accreditati dal governo. Il 1 maggio, in coda ad un pezzo che riassume le considerazioni dei tecnici dell’Enea, Foresta Martin aggiunge: “Più preoccupati sono i pareri di alcuni esperti di movimenti ecologisti e ambientalisti, fra questi “Greenpeace” e “Italia Nostra”, i quali paventano effetti cancerogeni a lungo termine a causa dell’ingresso nel ciclo alimentare (terreno agricolo, vegetali, animali, uomo) dei prodotti della fissione”. E’ uno dei primi accenni delle perplessità ambientaliste sull’assenza di rischio in Italia.)).
In anticipo rispetto alle previsioni, la nube radioattiva giunge improvvisamente in Italia il 1 maggio: soltanto Repubblica e Corriere della Sera danno risalto alla notizia, ripetendo comunque le rassicurazioni di Zamberletti; La Stampa minimizza l’evento attribuendogli il taglio medio della prima pagina ed uno spazio di tre mezze colonnine e privandolo del rilievo dell’attualità ((Bruno Ghibaudi, La nube da ieri in Italia, La Stampa, 1 maggio 1986.)), mentre Il Giornale allontana ancora l’emergenza, annunciando: La Nube verso l’Italia ma non c’è pericolo. Se l’opinione pubblica italiana, per quanto allarmata e confusa, dimostra di prestare fede alle pacate dichiarazioni degli esperti scientifici, la prima incrinatura della fiducia avviene con l’ordinanza firmata dal ministro della Sanità Costante Degan nella serata del 2 maggio. Il divieto di vendita e somministrazione di verdure in foglia e di latte fresco per i bambini fino a dieci anni e per le donne incinte, imposto per quindici giorni, diffonde in maniera concreta la paura radioattiva. Ad acuire lo sconcerto popolare si aggiunge lo scoppio di un contenzioso tra il ministero della Protezione Civile e quello della Sanità: poche ore prima dell’ordinanza, Zamberletti convoca una conferenza stampa per esortare la popolazione al rispetto di alcune norme precauzionali (lavare la verdura prima di consumarla); poco dopo Degan tramuta in divieto i suggerimenti di cautela.
A nulla valgono le dichiarazioni di Zamberletti, riportate dai giornali, nelle quali nega ogni conflittualità interministeriale e minimizza: “I consigli che abbiamo dato equivalgono alle misure preventive che si prendono quando si vuole limitare il rischio di incidenti stradali” e Degan assicura che il provvedimento serve solo a tutelare chi non è raggiunto dall’informazione giornalistica e televisiva: il dubbio di una reticenza governativa sull’entità reale del rischio s’insinua nell’opinione pubblica. Tra le varie testate, Il Giornale è quella che manifesta il maggiore allineamento alle giustificazioni politiche, precisando il carattere meramente precauzionale del divieto e commentando: “La prudenza non è mai troppa. Non c’è rischio di allarme atomico, ma la nube aleggia ancora sulle nostre teste” ((La nube sull’Italia, cautele ma nessun pericolo / Il governo: non mangiate verdura e non date latte ai bambini, Il Giornale, 3 maggio 1986.)). La Repubblica, al contrario, coglie la contraddizione nelle decisioni governative e s’interroga:
Perfino la cautissima Svezia, perfino l’altrettanto prudente Polonia si sono limitate a “raccomandare” – e non già a vietare – l’uso del latte fresco e ad invitare a lavar bene la verdura fresca e la frutta, non già ad impedirne il consumo.
Che cosa dobbiamo dedurne? Che le autorità degli altri paesi hanno peccato d’imprudenza? Che il ministro Zamberletti, pur di tenere tranquilli gli italiani, non fornisce notizie esatte circa il tasso di radioattività e quindi di pericolo sul territorio nazionale? O che il ministro Degan adotta provvedimenti eccessivi, ottenendo il risultato di preoccupare la gente? ((“Disinformazione di casa nostra”, Repubblica, 3 maggio 1986.)).
Confrontando i valori dell’inquinamento nucleare segnalati dai vari quotidiani il lettore rischia di trarre un’impressione confusa e contraddittoria, sfuggendogli la piena comprensione della situazione in atto. Nell’avvicendarsi di opinioni e interventi di patologi, fisici, radiologi e autorevoli detentori di altri titoli accademici che la stampa interpella a ritmo serrato per un’analisi del rischio sanitario, l’informazione tecnica alimenta le oscurità e l’inquietudine dell’opinione pubblica, non riuscendo a centrare l’obiettivo di divulgazione e rassicurazione prepostasi. Nondimeno, i lettori vengono guidati alla padronanza di concetti specialistici (unità di misura, particelle radioattive, elementi di genetica e medicina nucleare) attraverso articoli costruiti appositamente oppure rapidi “vocabolari dell’emergenza”. La catastrofe di Chernobyl incide anche sul linguaggio comune, tanto che anche la gente comune, intervistata nelle cronache dalla strada, disserta di isotopi, rem e millirem, e segue con apprensione l’andamento della concentrazione radioattiva nelle tabelle che, con solerzia, i quotidiani continuano ad aggiornare. Le testimonianze mediche pubblicate dalla stampa mirano essenzialmente a dimostrare l’assenza di pericolo concreto per la popolazione esposta alla nube atomica; tuttavia il nodo più controverso, ovvero la soglia di rischio connesso all’assorbimento radioattivo, resta insoluto: nonostante la volontà di dissipare la paura, gli esperti sono costretti a riconoscere che “la soglia della pericolosità è una delle incognite maggiori”; al massimo, gli esperti più ottimisti tentano di ridurre l’angoscia dovuta all’incertezza sulla minaccia radioattiva ricordando che “in ogni caso sempre conviviamo con un fondo radioattivo, derivante dal suolo terrestre, dalla radiazione cosmica, dai cibi, dalle radiografie, dai televisori” ((Piero Biancucci, Le radiazioni, un maglio sulle molecole della vita, La Stampa, 1 maggio 1986.)). Nella coscienza popolare la percezione di un sottile avvelenamento legato alla nube non si attenua ((È il giornalista del Corriere Foresta Martin ad interpretare, in un articolo di prima pagina, la comune consapevolezza dell’esposizione reale ad una forma di inquinamento dai contorni inafferrabili. Prestandosi al monitoraggio radioattivo, il cronista osserva: “Quanti isotopi di Iodio 131 avrei se non fosse caduta nei cieli d’Italia la pioggia radioattiva? Zero, mi è stato risposto. E allora devo confessare che, a parte l’irrilevanza sanitaria della mia contaminazione, il fatto di portarmi dentro una manciata di atomi che avrebbero fatto bene a restare nel nocciolo della centrale di Chernobyl mi provoca un certo fastidio. E ritengo che così la pensino tutti gli italiani che, chi più chi meno, si trovano nella mia stessa condizione”. Franco Foresta Martin, Quanto iodio ha in corpo un italiano dopo Chernobyl, Il Corriere della Sera, 13 maggio 1986.)) e viene semmai rafforzata dalle testimonianze dei contro-esperti ambientalisti, che contestano la tranquillità sparsa a piene mani dagli scienziati governativi. Il puntello argomentativo degli ecologisti è legato all’inesistenza di un limite sicuro nella definizione del pericolo radioattivo:
“E’ falso che la nube radioattiva sia al di sotto dei limiti di rischio per la salute umana. Non esiste una soglia tollerabile. Anche dosi minime di radiazioni possono innescare processi di mutagenesi, provocando cancro, leucemia, alterazioni che abbreviano la vita. Se la nube arrivasse sull’Italia, portando un tasso di radioattività inferiore a quello registrato in Svezia, ma presumibilmente superiore 2 o 3 volte al normale (e sul Corriere della Sera il 4 maggio Zamberletti afferma: “le radiazioni non sono mai andate oltre 10 volte i valori normali”, n.d.r.), si avrebbero alcune centinaia o migliaia di vittime nel corso dei prossimi anni. Gli effetti della radioattività si valutano nel giro di anni, anche di decenni, come insegna Hiroshima” ((Mario Fazio, Gli ecologi: “Non c’è soglia tollerabile”, La Stampa, 1 maggio 1986.)).
Le testimonianze scientifiche del fronte ambientalista, pur non allarmistiche negli intenti, sortiscono un effetto inquietante -e dirompente- sull’opinione pubblica; l’ambientalismo scientifico si pone come interlocutore attendibile e alternativo alla rassicurante ma confusa comunicazione istituzionale ((Si veda, a titolo d’esempio, quanto scrive Franco Pratico in Identikit del veleno nucleare, La Repubblica, 4 maggio 1986: “La percentuale di mutazioni dovute a sorgenti naturali è già molto alta, dato che già oggi provoca vistose anormalità in circa il tre per cento delle nascite. Ogni aumento della dose sulla popolazione si traduce in un aumento di mutazioni e il più evidente risultato consiste in un aumento delle malformazioni neurologiche. […] Gli organi maggiormente in pericolo sono la pelle, la tiroide, i reni, i polmoni e gli organi genitali. Le sostanze radioattive possono agire sulla pelle direttamente per contatto. Se si tratta di radiazioni “beta”, emesse da quasi tutti i prodotti di fissione nucleare, il contatto esterno può provocare piccole ustioni, lacerazioni, ulcere: ma la radiazione ha una portata di pochi millimetri, non penetra oltre gli strati superficiali della pelle. I tessuti organici, invece, sono trasparenti ai raggi gamma. L’assorbimento di un “quanto” di radiazione può quindi distruggere completamente una cellula”. Si vedano utilmente anche Nicola Loprieno, Solo una mappa della radioattività può dirci il vero rischio sanitario, Corriere della Sera, 13 maggio 1986 e Gianni Mattioli – Massimo Scalia, L’incerto confine della “quota pericolo”, Corriere della Sera, 13 maggio 1986.)). L’acme del clima di emergenza viene toccato il 4 maggio, allorché la prima giornata di applicazione dell’ordinanza Degan genera sconcerto e confusione tra la cittadinanza, gettando contemporaneamente lo sconforto nei mercati ortofrutticoli e tra i produttori di latte fresco. Mentre il governo, attraverso le principali testate giornalistiche, incoraggia l’opinione pubblica alla pazienza, anticipando la vicina liberalizzazione delle vendite alimentari per lo scemare del rischio ((Il Governo ci ripensa, La Stampa, 4 maggio 1986; La nube fa meno paura, Il Corriere, idem; Cala la radioattività ma le restrizioni restano, Il Giornale, idem.)), il “tranquillo week end radioattivo” vede l’esplosione della polemica tra i ministri Zamberletti e Degan, non più trattenuta. Le ripercussioni economiche del provvedimento cautelativo voluto dalla Sanità acquistano rilievo su tutti i quotidiani, mentre la tensione in Italia scavalca per interesse giornalistico l’evoluzione delle vicende in Urss. All’indomani dell’ordinanza, i mercati registrano il crollo delle vendite ortofrutticole, mentre si innesca una “corsa alla scatoletta” e ai surgelati ((Luca Goldoni, dalle colonne del Corriere, ironizza sulla corsa all’accaparramento e sulla fobia che induce la gente a fare incetta di surgelati e scatolame: “Se penso che il costo della vita riprenderà a salire anche perché milioni di casalinghe si stanno accapigliando di fronte a questa terrificante carestia di latte e insalata per due settimane […], concludo che c’è qualcosa di molto peggio della radioattività che ci ha sfiorato. Ed è questa rapace stupidità, questo panico pret – à – porter sempre in balia di un ortaggio che scarseggia. Ingozzatevi pure con la vostra dannatissima erba salita alle stelle, ma non stupitevi dello sciacallaggio, della speculazione, dell’inflazione che contribuite a provocare con la vostra schizofrenia”. Luca Goldoni, Quell’assurda corsa alla scatoletta, Corriere della Sera, 10 maggio 1986.)), con le inevitabili speculazioni di mercato, che fa gonfiare il prezzo degli ortaggi consentiti. L’assenza di chiarezza nell’ordinanza e nelle informazioni governative provoca una confusione dilagante e disquisizioni aggrovigliate sui margini della legalità degli ortaggi, con esiti amaramente esilaranti ((“Nella notte tra venerdì e sabato, i dirigenti dei più importanti mercati ortofrutticoli italiani si sono scervellati per ore e ore per tentare di risolvere un drammatico dilemma: i finocchi debbono essere considerati verdure fresche a foglie, o no? […] Sul filo del telefono sono nate discussioni bizantine. Il direttore del mercato ortofrutticolo di Roma, ad esempio, sosteneva che i finocchi debbono essere considerati verdure a foglie e debbono quindi essere vietati; e infatti ieri, nella capitale, i finocchi non sono stati messi in vendita. A Milano, invece, ha prevalso la tesi opposta, e i finocchi sono stati regolarmente venduti. Per risolvere la questione, i dirigenti dei maggiori mercati ortofrutticoli si sono rivolti al ministero della Sanità, e hanno chiesto lumi sull’interpretazione autentica dell’ordinanza… La circolare precisa, con involontario umorismo, che per «verdure fresche a foglie devono intendersi prodotti quali insalate varie, cime di rapa, bietola, spinaci, cicoria, scarola, indivia, broccoli, cavoli, cavolfiore, verza, agretti, asparagi varietà verde, carciofi e similari». Ma per i finocchi, continuavano a domandarsi i dirigenti dei maggiori mercati ortofrutticoli italiani, come dobbiamo regolarci?” C.M, Mercati chiusi, confusione nei negozi, “bruciati” cento miliardi, Corriere della Sera, 13 maggio 1986.)).
Feroci polemiche, che oppongono personalità politiche e autorità scientifiche, esplodono parallelamente sull’opportunità delle cautele previste dall’ordinanza Degan. Il balletto delle cifre, oscillanti tra la rassicurazione e l’allarme, rivela la confusione istituzionale. Un esempio illuminante è fornito dalla Stampa: il 4 maggio il quotidiano pubblica in prima pagina un’intervista a Zamberletti, il quale si scaglia contro l’inutilità del provvedimento firmato dal collega della Sanità, ritrattando le precedenti dichiarazione di accordo:
“Noi ci siamo limitati a impartire soltanto consigli ai cittadini perché sapevamo che la situazione critica avrebbe avuto una rapida evoluzione. E i dati di oggi confermano che avevamo visto giusto. In tutto il Centro – Sud, dove la nube è arrivata più tardi e riparte prima, grazie alle correnti che hanno ricominciato a soffiare, è praticamente cominciato il count down. E anche nel resto del Paese c’è una forte riduzione della radioattività a terra. Dunque non è proprio il caso di allarmarsi. Quelli della Protezione Civile erano consigli di tipo igienico, nient’altro. Io infatti non ho riscontrato nessuna situazione di emergenza, tale da consigliarmi di adottare norme rigide attraverso un’ordinanza” ((Ezio Mauro, Il balletto dei contrasti, La Stampa, 4 maggio 1986.)).
All’interno del quotidiano, Felice Ippolito -membro del Comitato tecnico-scientifico del ministero della Protezione Civile e uno dei principali sponsor del nucleare italiano- rafforza l’accusa di superfluità e inutile allarmismo rivolta al ministero della Sanità:
“Le misure prese sono eccessive. Io in questo momento sto mangiando insalata. Voglio dire: si tratta di disposizioni cautelative. Di fronte alle pressioni dell’opinione pubblica, bisognava far vedere che qualche iniziativa veniva presa. Ma dagli esperti vengono consigli, non ordini. Zamberletti, come ministro della Protezione Civile, giustamente ha dato dei consigli. L’ordinanza di Degan invece crea soltanto panico e disordine nel mercato” ((Piero Biancucci, Ippolito: bastano i consigli / Eccessive le misure prese, La Stampa, 4 maggio 1986.)).
Se, sempre nell’approfondimento della Stampa del 4 maggio, l’unica difesa delle scelte della Sanità viene affidata ad un elenco frettoloso di giustificazioni scientifiche esibite dallo scienziato Paolo Volpe ((Paolo Volpe, Pericolose nei cibi le dosi d’accumulo, La Stampa, 4 maggio 1986.)), è però l’editoriale di Mario Fazio che, districandosi tra le ragioni conflittuali, esprime il bisogno diffuso di chiarezza informativa, mettendo bene in luce la parzialità e gli opportunismi delle dichiarazioni governative:
Il senso d’angoscia che Chernobyl ha portato dentro di noi è acuito dalla nostra condizione di sudditi disarmati e disinformati ai quali ogni giorno vengono offerte certezze consolatorie. Gli esperti e i consiglieri dei ministri che ci informano dagli schermi televisivi non conoscono il dubbio, proprio dello scienziato o del vero sapiente. Con disinvolta sicurezza ci hanno detto che la nube, se fosse arrivata sull’Italia, sarebbe stata innocua. Poi ci hanno ripetuto che la radioattività era trascurabile anche se la nube stava sostando sui cieli italiani. Infine, sempre con certezza non sorretta da alcun dato preciso, ecco il divieto di vendita di certe verdure e il riconoscimento di accumulo di radioattività nel suolo. Divieto che nel frattempo già vacilla. […] Chiediamo soltanto di essere informati correttamente, confrontando fonti diverse. La miscela di reticenze, di contraddizioni, di certezze sempre meno credibili, accresce la paura che speriamo ingiustificata. Ingenera un rassegnato fatalismo che potrebbe portarci a dimenticare la nube senza trarne alcun insegnamento” ((Mario Fazio, Nel regno delle incertezze, La Stampa, 4 maggio 1986.)).
La stagione delle polemiche divampa feroce, sui quotidiani si intrecciano ragioni, apologie ed invettive; l’unico tema di confronto è rappresentato dalla valutazione della quota radioattiva accumulatasi e della capacità degli organismi preposti al controllo; nascono sospetti ed illazioni su presunti ritardi, irregolarità ed omissioni, e la stampa gestisce ancora una volta il ruolo di pubblica tribuna per l’accusa o l’assoluzione. Si fronteggiano due schieramenti scientifici: il Laboratorio di Fisica Sanitaria di Ivrea, i docenti dell’Università di Bologna e Roma, gli esperti del centro di Ispra, pretori e fisici come Carlo Rubbia convergono con l’allarme Cee, rigettando la sicumera tranquillizzante della Protezione Civile e dell’Enea. Se Il Giornale denuncia l’infondatezza dei presupposti cautelativi su cui si reggono le restrizioni impartite dal ministero della Sanità ((“L’Italia ha decretato il bando di certi ortaggi e del latte fresco, seguendo la strada già percorsa dai primi Paesi toccati dalla nube russa, come la Danimarca. Per la verità, il latte è stato sconsigliato solo ai bambini e alle gestanti, ma ovviamente ciò ha indotto tutti i consumatori a sospenderne l’uso. Non è stata fatta alcuna distinzione tra ortaggi di una regione o dell’altra, anche se l’inquinamento della Sicilia e della Sardegna è stato ben poco di fronte a quello del Friuli o della Lombardia, così come tra un latte e l’altro. Forse, le autorità sanitarie non lo sanno, ma la grande prevalenza delle vacche da latte in Italia viene alimentata con foraggi secchi o insilati, conservati sotto capannoni i primi, entro fosse coperte da teli di plastica i secondi. Allora, quale inquinamento può verificarsi?” Girogio Amadei, E’ giunta l’ora delle eccedenze, Il Giornale, 7 maggio 1986.)), Il Corriere ricostruisce la disputa tra Enea e Sanità, concedendo ampia risonanza alle accuse contro il primo ente:
“Il tentativo di minimizzare la vicenda non è avvenuto per disonestà intellettuale. In realtà, i filonucleari hanno sempre sostenuto che le centrali sono arcisicure, e che un incidente a carattere catastrofico è pressoché impossibile. Invece, l’incidente, il “meltdown”, cioè la fusione del nocciolo, è realmente avvenuto, e la loro teoria è andata in crisi” ((Gianfranco Ballardini, In Italia misteri e accuse sui divieti alimentari e sui dati del fall out, Corriere della Sera, 7 maggio 1986.)).
L’intreccio polemico raggiunge la sua massima intensità sui quotidiani il 10 maggio, quando il giudizio giornalistico sull’inspiegabile “balletto delle cifre” si precisa, calandosi preferibilmente nella forma dell’editoriale oppure dell’articolo commentativo. Apre il processo alla “lotteria nucleare”, inscenata dagli scienziati con il loro fluttuare di misure e dati, un rigoroso elenco di capi d’accusa stilato proprio dai fisici Gianni Mattioli e Massimo Scalia, che già avevano introdotto i semi di una dissidenza scientifica in opposizione alle prime rassicurazioni di Zamberletti. Assieme a Legambiente e al direttore di Fisica dell’atmosfera del Cnr, i due ambientalisti denunciano il Comitato Tecnico Scientifico istituito dalla Protezione Civile per la sua reticenza, parzialità ed incompetenza ((Franco Foresta Martin, Soglie di rischio, una “lotteria nucleare”, Corriere della Sera, 10 maggio 1986.)). Una difesa della “prudenza” dei ministri italiani arriva, al contrario, da un accorato editoriale del vicedirettore del Giornale ((“Non possiamo accusarli di reticenza anche quando non avrebbero nessun interesse a nascondere la gravità di un accadimento del quale nessuno può addossargli la colpa. E però, proprio perché viviamo in un Paese dove ciascuno si sente autorizzato a dire sugli altri, e specie su chi governa, le scempiaggini che vuole, chi detiene le responsabilità maggiori farà bene ad usarle sempre in modo che non gratifichino le tendenze nazionali – sempre in agguato – al disfattismo e al panico. La viltà, in questo paese, è l’unica cosa che non ha bisogno d’incoraggiamento”. Federico Orlando, Il giorno dopo all’italiana, Il Giornale, 10 maggio 1986.)). Una cruda riflessione di Giorgio Bocca sulla Repubblica individua nei balbettamenti della scienza il segno di un’irrimediabile perdita di attendibilità:
C’è un altro prezzo umano da pagare alla rivoluzione tecnologica: l’inattendibilità della scienza. Dopo Chernobyl, ma anche prima, è tutto un così è se vi pare, un può darsi di sì come di no. […] Si è assistito in questi giorni a un balletto tragicomico: traditi nelle loro certezze e nelle loro sentenze, gli scienziati arretravano di trincea in trincea, trovando sempre nuove giustificazioni rassicuranti alla presenza dei “nanocurie” e dei “becquerel”, tutte basate, purtroppo, su una premessa non dimostrata, che esista un livello accettabile di radioattività. E infatti non erano d’accordo neppure sulla sua definizione. Diceva uno: livello di sicurezza è quello basato sulla radioattività normale moltiplicata in misura ragionevole. Già, ma cosa vuol dire ragionevole se non si sa bene cosa sia normale? Diceva un altro: livello di sicurezza è quello oltre il quale può intervenire l’allarme sociale. Curiosa definizione, come a dire che la definizione scientifica di un pericolo viene desunta dalla paura che può manifestarsi far la gente. […] Per anni abbiamo accettato la rivoluzione tecnologica come irresistibile e indiscutibile. Ora cominciamo a capire che la sua necessità non può essere esente da controlli” ((Giorgio Bocca, Questi scienziati così inattendibili, La Repubblica, 10 maggio 1986.)).
Tra le certezze smarrite nell’incubo di Chernobyl, il direttore di Repubblica Eugenio Scalfari include anche quella del ruolo della scienza quale strumento di comprensione che imbriglia il reale ((“Scienza e tecnologia hanno dovuto confessare la loro ignoranza per quanto riguarda il controllo delle forze che si sprigionano dalla scissione dell’atomo e i loro effetti sulla natura circostante. Abbiamo assistito in questi giorni ad una specie di balbettamento da parte di scienziati, tecnici, medici, agrimensori, nonché alla più assoluta impreparazione dei governi, delle istituzioni, delle burocrazie”. Eugenio Scalfari, Fatti non foste a viver come bruti…, La Repubblica, 11 maggio 1986.)). Una certa delusione per il comportamento farsesco degli scienziati, assorti nel bisticcio ed incapaci di offrire una risposta salda ed affidabile ai cittadini disorientati, trapela anche da alcuni aspri commenti apparsi su La Stampa((Si veda, a titolo d’esempio, Gianfranco Piazzesi, I conti non tornano mai, La Stampa, 13 maggio 1986, che scrive: “Molti professori (fisici in buona parte) hanno ridimensionato e talvolta minimizzato l’effetto dei “nanocurie”, e hanno ricordato che l’energia nucleare non rappresenta il pericolo più grave cui è sottoposto il genere umano. La chimica piuttosto… E proprio tra i chimici, invece, si annoveravano coloro che con più eloquenza hanno parlato di catastrofi nucleari. Insieme alle polemiche è ricomparsa la guerra delle cifre. Dopo la contingenza, il debito pubblico e il tasso d’inflazione, anche la lettura e perfino l’esattezza degli indici di radioattività sono stati oggetto di contestazione. E’ vero che in Italia chi non imbroglia sbaglia, e che per una ragione o per l’altra i conti non tornano mai; però si sperava che in un’occasione come questa, personaggi tanto austeri come gli scienziati facessero a meno di accusarsi, a vicenda, di truccare le carte”.)).
La polemica e la ridda di pareri dissonanti sulla contaminazione radioattiva accenna a placarsi solo con il rientrare dell’emergenza in Italia, ciò che consente progressivamente la liberalizzazione degli alimenti proibiti, prima al Sud (13 maggio), poi nell’Italia centrale. Nondimeno, anche lo strascico finale della vicenda si presenta turbolento e paradossale, nell’annullarsi reciproco dei provvedimenti e nella curiosa mappa di divieti confusi e diversi regione per regione, di cui i quotidiani non mancano di fare menzione. L’emergenza radioattiva si muta infine in un’inchiesta della magistratura, documentata dalla Stampa, sulla speculazione economica e lo spaccio presunto di latte contaminato nei giorni della paura. Ma in queste ultime cronache l’incubo di Chernobyl non è che un pretesto evanescente.
Reticenza, scalpore e distorsioni (tra silenzio sovietico e frastuono occidentale)
L’incidente di Chernobyl solleva in maniera del tutto inedita il dibattito sull’informazione, costituendone un nodo problematico davvero peculiare. L’evento catastrofico, infatti, si offre come occasione ineludibile per una riflessione sulle storture, le ingenuità e la vocazione autentica dell’informazione, nel conflitto tra due sistemi di comunicazione (quello sovietico, dominato dalla censura, dalla manipolazione e dalla concezione di un giornalismo tessuto di veline da un lato, e quello occidentale, soggetto ai condizionamenti del sensazionalismo dall’altro) che gestiscono la notizia con modalità opposte.
Come già sottolineato, la diffusione dell’allarme sia all’interno dell’Unione Sovietica sia all’estero avviene con un certo ritardo rispetto all’accadimento; la popolazione russa viene informata infatti nella sera del 28 aprile -due giorni dopo l’incidente- da un secco e brevissimo comunicato della Tass, e dalla televisione il giorno successivo; la notizia si dirama all’estero sull’onda dell’emergenza esplosa nei paesi scandinavi in seguito ai rilevamenti dell’incremento radioattivo. Nei giorni seguenti la cortina del silenzio sovietico non viene scalfita né dall’eco della protesta internazionale né dalle ripetute pressioni governative dei paesi occidentali che reclamano informazioni complete sulle cause dell’incidente, sull’entità del disastro e ulteriori ragguagli sull’evoluzione dell’emergenza.
In Italia la denuncia veemente del silenzio del Cremlino accomuna sin dall’inizio tutte le testate. Di fronte al carattere internazionale del pericolo nucleare e allo spostamento della nube gravida di radionuclidi, l’ostinata reticenza assume agli occhi dell’opinione pubblica occidentale la gravità di un crimine deliberato contro l’umanità. La carenza informativa dei primi giorni alimenta voci infondate, calcoli grossolani ed iperbolici (il numero azzardato delle vittime oscilla tra le duemila persone e le imprecisate “migliaia” di cui riferiscono fonti americane e tedesche), e impronta le cronache giornalistiche ad un registro eclatante e allarmistico. All’inizio di maggio l’Organizzazione Mondiale della Sanità denuncia la trasgressione del dovere d’informazione da parte dell’Unione Sovietica, ma soltanto ad una settimana dalla catastrofe. Il primo racconto giornalistico, su una testata sovietica -la Pravda-, viene pubblicato solo a undici giorni di distanza dall’incidente, e rimbalza immediatamente sulla stampa italiana; i mezzi di comunicazione locali finalmente si mobilitano, pur nel rispetto delle imposizioni governative, sugli sviluppi dell’emergenza ((Le cronache dalla regione contaminata insistono sull’eroismo dei soccorritori, confermano l’esodo della popolazione di Kiev e dei territori limitrofi, elogiano l’accanimento di scienziati, esperti e alti funzionari impegnati sul luogo dell’incidente a fianco di migliaia di uomini.)). Nondimeno, le fonti informative sovietiche rivelano ancora un atteggiamento schizofrenico: a fronte infatti delle prime ammissioni sulla drammaticità della situazione, televisione e altri organi di stampa descrivono la normalità della vita nelle zone colpite, il regolare svolgersi degli appuntamenti sportivi, la spensieratezza della gente per strada onde bilanciare l’allarmismo diffuso in Occidente ed evitare il panico generalizzato. Contemporaneamente, a partire dal 9 maggio, compaiono sulle testate italiane le prime corrispondenze dirette firmate dai giornalisti occidentali ammessi in Unione Sovietica. La realtà del disastro umano di Chernobyl inizia così a filtrare con il vigore delle immagini in presa diretta e la pregnanza veridica delle testimonianze degli sfollati. Anche il bilancio sovietico delle vittime finalmente si adegua all’esigenza di trasparenza informativa; dopo la prima stima che il 29 aprile parlava di due morti, il 12 maggio il Consiglio dei ministri aggiorna la cifra dei colpiti, giungendo ad ammettere i precedenti errori di valutazione. Non si poteva agire diversamente, dal momento che i medici occidentali intervenuti a soccorrere le vittime russe, intervistati dai quotidiani esteri, forniscono dati sempre più inquietanti sulle condizioni sanitarie in Urss.
L’accusa contro la pratica della disinformazione sovietica sferrata dalla stampa italiana assume sfaccettature diverse. Mentre è evidente e scontata la volontà di attacco politico dei quotidiani di centrodestra, la stampa moderata si attiene più strettamente all’apostrofe contro le storture deprecabili di un sistema informativo retto sulla censura e la reticenza ((Le sfumature sono diverse e variegate. Se Ugo Stille sul Corriere si limita a riconoscere lo scacco diplomatico, economico e politico rappresentato dal disastro di Chernobyl per l’immagine di “uomo nuovo” che Gorbaciov intende accreditare presso l’opinione pubblica mondiale, Fernando Mezzetti sul Giornale radicalizza il giudizio, sconfessando la politica della “trasparenza” inaugurata dal leader sovietico, riconoscendovi solamente un’operazione di promozione esteriore. Ugo Stille, Una lezione per Gorbaciov, Corriere della Sera, 5 maggio 1986; Fernando Mezzetti, L’Urss non abbandona la via delle menzogne, Il Giornale, 1 maggio 1986. Si vedano anche Enzo Bettiza, Apprendisti stregoni, Corriere della Sera, 4 maggio 1986; Lucio Colletti, Quel silenzio di Stato, Corriere della Sera, 1 maggio 1986; Giuliano Zincone, E se l’URSS la smettesse di dare lezioni al mondo, Corriere della Sera, 14 maggio 1986.)). Si individua la reticenza informativa sovietica nel radicamento di un’ideologia totalitaria, negazione della libertà ((Su questa linea interpretativa, Luigi Firpo analizza il nodo verità – menzogna in rapporto alla differente impronta ideologica che sorregge le democrazie occidentali e il regime sovietico. Luigi Firpo, Non poter dire la verità, La Stampa, 4 maggio 1986.)). Nonostante concordi con la denuncia della disinformazione sovietica, la stampa di centrosinistra vi affianca, non meno veemente, la stessa accusa rivolta ai mezzi di comunicazione americani, morbosamente solleciti sulla sciagura ucraina quanto mendaci e occultatori di fronte alle contaminazioni radioattive di casa propria ((Caso emblematico, ricordato in un’accurata inchiesta di Vittorio Zucconi, è rappresentato dal comportamento delle autorità statunitensi in seguito all’incidente di Three Mile Island o ai numerosi esperimenti atomici condotti in gran segreto: la pubblicizzazione del disastro, tanto vantata dagli americani in contrasto con il silenzio sovietico, non corrisponde alla rivelazione totale della verità. Vittorio Zucconi, Terrore all’ombra d’“un vulcano”, Repubblica, 11 maggio 1986.)).
Le distorsioni informative di cui si rendono colpevoli gli organi di comunicazione sono testimoniate da due episodi significativi, che ne rappresentano i due eccessi simmetrici. Il caso dell’informazione francese sull’incidente di Chernobyl risulta emblematico di una propaganda condotta attraverso la strategia del silenzio: la pressione della lobby nucleare all’interno del paese, infatti, impedisce a lungo la diffusione delle notizie provenienti dall’Ucraina e frena l’allarme atomico, nonostante le garanzie democratiche della nazione europea ((Il massimo risalto al caso francese è dato da Repubblica, che insiste sull’accusa di disinformazione per trasformarla nell’emblema eloquente della manipolazione di notizie da parte dei paladini del nucleare. Si veda Franco Fabiani, Nessun allarme in Francia / I parigini vivono in un’oasi criticando l’isteria dei vicini, La Repubblica, 10 maggio 1986; La Francia si ribella: “Ci avete mentito, la radioattività è salita fino a quattrocento volte”, La Repubblica, 13 maggio 1986; Bernardo Valli, Francia, la menzogna nucleare, La Repubblica, 14 maggio 1986.)). Sul versante opposto, solo a partire dal frastuono mediatico che tutto uniforma diventa concepibile la truffa informativa scoperta intorno a Chernobyl, allorché una ripresa audiovisiva, spacciata per testimonianza diretta dal luogo della catastrofe, si rivela in realtà fasulla: come nel celebre caso dell’immagine del cormorano imbrattato di petrolio, il finto scoop giornalistico si nutre dell’ingordigia di informazioni sempre più nuove e sensazionali, infrangendo il limite tra reale e verosimile.
Un commento dello scrittore Pietro Citati riassume l’essenza profonda delle due alternative informative adottate nel resoconto della vicenda di Chernobyl:
“Invidio Stalin e Gorbaciov… Oltre a produrre fatti, essi possono annullare i fatti accaduti: con uno straccio minuzioso e accurato possono cancellarli completamente dalla lavagna troppo gremita della storia, in modo da non farli apparire mai più nella memoria degli uomini, nei libri di storia, nelle enciclopedie dove la storia viene raccolta e registrata. Se un fatto non piace, non esiste. […] Se l’Oriente annulla i fatti, l’Occidente li inventa. Nei paesi dell’Europa occidentale da qualche decina d’anni non succede niente: benessere, esportazioni, importazioni, elezioni, supermercati, Mitterrand invece di Giscard, Chirac invece di Mitterrand – niente che abbia la gravità e l’orrore della storia. Ma ci sono la televisione e i giornali. Gli eventi sono sottolineati, esagerati, ingigantiti, drammatizzati, esasperati, nevrotizzati. […] Compaiono i titoli a nove colonne: la pagina della cultura viene cacciata in quinta, settima, nona, undicesima pagina, perché si vergogni di esistere. Poi vengono chiamati alla ribalta gli specialisti: cioè coloro che non capiscono mai le cose di cui si stanno occupando. […] Inebetiti dalla vertigine dell’improvvisa aria alpina, storditi dai fuochi della modernità, estatici per aver raggiunto le prime pagine dei giornali, gli specialisti balbettano, incespicano, dicono banalità che l’ultimo dei giornalisti si vergognerebbe di dire” ((Pietro Citati, Come si inventa l’Apocalisse, Corriere della Sera, 11 maggio 1986.)).
Chernobyl, un caso mediatico emblematico
Chernobyl ha rappresentato, come si è sottolineato, un momento di svolta decisiva per le politiche energetiche italiane. Il ruolo della comunicazione è stato fondamentale per stabilire la sconfitta del partito nucleare, sancita dal referendum dell’anno successivo. Due esempi illustrano alcuni dei motivi della secca sconfitta dei filonuclearisti. Il primo è la già citata intervista concessa da Felice Ippolito due giorni dopo l’ordinanza del ministero della Sanità che vietava la vendita di verdure fresche a foglia larga. Al giornalista che gli chiede cosa pensa della situazione, Ippolito, consulente del ministero della Protezione Civile e uno dei principali sponsor del nucleare italiano, risponde un po’ supponente: “In questo momento sto mangiando insalata”. Il secondo episodio è il confronto televisivo tra i fisici Gianni Mattioli, leader tecnico del fronte ambientalista, e Edoardo Amaldi, uno degli allievi di Enrico Fermi. Di fronte alle incalzanti contestazioni tecniche del collega ambientalista, Amaldi lo apostrofa con un clamoroso “imbecille!” in diretta: una scena scioccante in un periodo in cui l’insulto televisivo non era ancora contemplato nel codice di comunicazione ((I due episodi sono citati in Carlo Degano – Antonio Ferro, Dar voce all’ambiente. Dieci anni di comunicazione ambientale, cit., pp. 72-79.)). L’effetto di questi due episodi è un boomerang per i nuclearisti. Le posizioni di chi difende a oltranza l’energia atomica, negando gli effetti dell’incidente, suonano – agli occhi dell’opinione pubblica – false, arroganti e pericolose. L’immagine proiettata all’esterno pare quella di un gruppo deciso ad andare avanti costi quel che costi, indipendentemente dai problemi creati dall’esplosione di Chernobyl. Il sospetto dell’opinione pubblica, che va al di là del giudizio sui singoli individui, è che la lobby nucleare possa avere interessi troppo forti per poter accettare la portata della catastrofe in Ucraina, e che questi interessi non rappresentino più quelli del paese.
Un secondo aspetto, già sottolineato, innesca il disastro informativo che si tradusse più tardi nella disfatta del partito nuclearista: le istituzioni pubbliche, cui spetta il compito di fornire quadri attendibili della situazione, giocano in ordine sparso. Manca un qualsiasi coordinamento e i messaggi risultano non solo frammentari ma anche contraddittori. Mentre una parte di esse, quella più legata alla lobby nucleare, minimizza l’accaduto e le sue ripercussioni, l’Istituto Superiore di Sanità ricava dall’elaborazione dei dati la necessità di ridurre l’esposizione agli isotopi radioattivi della popolazione: da qui nascono i divieti sui cibi da consumare che provocano l’irritazione dei fisici impegnati nello schieramento filonucleare. La diversità di opinioni di ministeri, enti energetici e gruppi universitari sulle conseguenze della nube radioattiva non giova a tranquillizzare l’opinione pubblica. Non solo. La fiducia nella totale capacità di controllo della macchina atomica aveva spinto a sottovalutare le misure di precauzione necessarie: sviluppo delle attività di radioprotezione, piani d’emergenza, e così via. In assenza di questo retroterra culturale, le istituzioni si trovarono prive degli strumenti necessari per affrontare l’emergenza nonché della capacità di interpretare i dati. A completare il quadro si aggiunse la reticenza di molte istituzioni nella diffusione dei dati. La somma di queste reazioni contraddittorie e errate produsse una lacerazione profonda nell’immagine di chi avrebbe avuto invece bisogno della massima credibilità per sostenere il peso della comunicazione durante la fase dell’emergenza.
Uno dei motivi che spiegano lo straordinario successo referendario ottenuto dal movimento ecologista italiano è proprio il ruolo da esso svolto nei giorni della crisi. Mentre le istituzioni cercano di minimizzare i pericoli ma, con deficit di credibilità, si contraddicono e litigano, il movimento ambientalista produce informazioni attendibili, mette in campo tecnici affidabili e competenze scientifiche. Ciò porterà, accoppiato alla capacità di mobilitazione sia nelle piazze delle città sia davanti ai cantieri delle centrali elettronucleari, a centrare un’impresa straordinaria nel campo della comunicazione: far trionfare un messaggio -quello dello stop alla costruzione di impianti nucleari- avversato dalla quasi totalità dei mezzi di comunicazione ((All’epoca del referendum sul nucleare, svoltosi l’8 novembre 1987 e risoltosi con la vittoria degli antinuclearisti, buona parte della stampa italiana è schierata su posizioni nucleariste (come Il Giornale e Il Corriere, che con il cambio della direzione da Piero Ostellino a Ugo Stille diventa molto critico nei confronti del movimento ambientalista) o astensioniste.)) e dei partiti politici: la Democrazia Cristiana era infatti, prima del referendum del novembre 1987, saldamente schierata a favore dell’atomo, mentre il Partito Comunista Italiano proprio alla vigilia dell’incidente di Chernobyl aveva visto prevalere, in un infuocato dibattito tenutosi a Firenze, l’ala nuclearista. Sulle stesse posizioni erano quasi tutti gli altri partiti, dal Partito Liberale al Partito Repubblicano ((Gli unici partiti a risultare fortemente contrari all’opzione nucleare risultano Democrazia Proletaria, i Radicali e i Verdi, da poco costituitisi in movimento federale. Il PSI, dapprima favorevole al nucleare, si schiererà strumentalmente su posizioni critiche, prevalentemente per ragioni di opportunità elettorale e in funzione di critica ai due maggiori partiti, DC e PCI.)). Nonostante tale schiacciante rapporto di forze, il piccolo gruppo di ambientalisti riesce a diventare maggioritario, vincendo il referendum del 1987, poiché è in grado di rovesciare con successo i ruoli comunicativi. Le istituzioni, reticenti, divise, impegnate a difendere una posizione -quella della sicurezza dell’industria nucleare- smentita dai fatti, risultano ideologiche ed inaffidabili. Gli ambientalisti, seri, documentati, ragionevoli, risultano invece pragmatici e affidabili. Così l’opinione pubblica italiana finisce per sottoscrivere le posizioni espresse da Mario Pirani su Repubblica, il quale l’8 maggio 1986 così inizia un suo editoriale: “Fino a due settimane fa ero un sostenitore della scelta nucleare. Oggi non lo sono più” ((Mario Pirani, La nube sopra di noi, il dubbio dentro di noi, Repubblica, 8 maggio 1986.)).
Il caso Chernobyl rappresenta un caso mediatico emblematico: mostra come un preciso messaggio comunicazionale possa rovesciare rapporti di forza schiaccianti. Nella fase calda del dopo – Chernobyl il movimento ecologista ha vinto la battaglia della comunicazione poiché non si è limitato a giocare di rimessa, approfittando degli errori dell’avversario, ma ha fornito -nell’anno e mezzo intercorso tra l’incidente al reattore ucraino e il referendum sul nucleare, passando per la conferenza nazionale sull’energia- dati a volte inediti, evidenziando problemi sanitari spesso minimizzati ed elaborando una proposta di modello energetico alternativo al nucleare. Questo mix di competenza, affidabilità, sintonia con l’opinione pubblica ha prodotto il risultato di assegnare al movimento ambientalista il ruolo di portavoce degli interessi generali, relegando il fronte favorevole all’industria filonucleare nella posizione dell’avvocato di parte.