Cloro

La prima merce ottenuta dal riciclo di un agente inquinante

Fra tutte le merci il cloro occupa una posizione particolare. Il cloro – un gas molto irritanti per gli esseri viventi, corrosivo per i  metalli, con forte potere ossidante, al punto da uccidere i microrganismi e da distruggere molte sostanze organiche – è diventato un prodotto commerciale quasi per caso.

Nella prima metà del 1800 nasceva l’industria chimica moderna con la fabbricazione dell’acido solforico e del carbonato di sodio, la “soda”, quest’ultimo richiesto principalmente per il lavaggio dei tessuti.

Il primo processo per produrre la soda, inventato dal medico francese Nicola Leblanc (1742-1806), era complicato, ma geniale: la materia prima era il cloruro di sodio, il comune sale ottenuto per evaporazione dell’acqua di mare o estratto dalle miniere di salgemma, che veniva trattato con acido solforico. Dalla reazione si forma solfato di calcio e acido cloridrico; il solfato di calcio veniva poi trasformato in carbonato di sodio e l’acido cloridrico veniva scaricato nell’atmosfera.

Il processo Leblanc rappresentò il primo caso di massiccio inquinamento atmosferico industriale e anche uno dei primi esempi di depurazione che genera merci vendibili.

L’acido cloridrico immesso nell’atmosfera non solo arrecava  irritazione e danni alla salute umana, ma distruggeva la vegetazione e i raccolti al  punto da provocare una forte protesta popolare da parte dei cittadini e dei contadini: anzi si può ben dire che la contestazione ecologica nacque proprio in Inghilterra nei primi decenni del 1800.

Ci  sono pervenuti gli atti di inchieste  parlamentari, dei  processi che portarono alla condanna degli industriali, di interventi degli studiosi a favore degli inquinatori o in difesa dei cittadini inquinati, come sempre avviene in tutte le controversie relative ai casi di inquinamento.

Nel 1863 il Parlamento inglese approvò una  legge – l’Alkali  Act – che istituiva uno speciale ufficio per la lotta all’inquinamento industriale – l’Alkali Inspectorate – e imponeva alle fabbriche di soda di non immettere più l’acido cloridrico nell’atmosfera e di farlo assorbire in acqua. Gli industriali venivano così ad avere grandi serbatoi pieni di soluzioni di acido cloridrico che non sapevano però dove mettere o scaricare.

Per continuare a lavorare gli industriali si guardarono intorno e scoprirono che il chimico svedese Karl Scheele (1742-1786) aveva descritto, quasi un secolo prima, una reazione che consentiva di trasformare l’acido cloridrico in cloro. Ai tempi di Scheele non c’era un mercato per  il cloro, che pure aveva mostrato di possedere proprietà ossidanti e disinfettanti, ma nella metà del 1800 queste caratteristiche del cloro erano richieste dall’industria tessile, dall’industria della carta, dai primi impianti di disinfezione delle acque potabili e di trattamento delle acque di fogna.

Fra il 1866 e il 1874 i chimici Walter Weldon (1832-1885) e Henry Deacon (1822-1876) inventarono due processi per la trasformazione industriale dell’acido cloridrico in cloro, e il cloro, nato come prodotto di ricupero per risolvere un caso di inquinamento, fece il suo ingresso fra i grandi prodotti industriali.

Per alcuni decenni il suo uso principale fu limitato alla sbianca della carta e dei tessuti e al trattamento e depurazione delle acque, ma, con i progressi della chimica organica, si vide ben presto che il cloro “si attaccava” a un gran numero di molecole: nacque  così la  chimica organica del cloro, con conseguente rapido aumento della sua richiesta.

Tale aumento si verificava troppo tardi per assicurare la sopravvivenza del processo Leblanc che fu  sostituito, a partire dal 1880, dal processo inventato dal belga Ernest Solvay (1838-1922), meno costoso e meno inquinante, che produceva il carbonato di sodio – ancora oggi noto come “soda Solvay” – senza formazione di acido cloridrico come sottoprodotto.

Mentre aumentavano gli usi del cloro, veniva così a mancare la disponibilità della materia prima, l’acido cloridrico; fu allora messo a punto un processo che produceva cloro per elettrolisi del sale (il cloruro di sodio è la materia di partenza per la complessa famiglia delle sostanze alcaline e del cloro); insieme al cloro si forma idrato di sodio, una sostanza richiesta per la produzione di saponi e per le sintesi chimiche.

L’inconveniente  sta nel fatto che il cloro e l’idrato di sodio si formano, insieme, in quantità quasi uguali, e il processo elettrolitico ha successo se il mercato richiede uguali quantità dei due prodotti, ciò che raramente avviene. Se il mercato richiede più idrato di sodio, una parte di questo può essere fabbricato dal carbonato di sodio; se il mercato richiede più cloro, l’eccesso di idrato di sodio può essere trasformato in carbonato di sodio. Insomma esiste uno stretto rapporto fra le tre sostanze: cloro, idrato di sodio, carbonato di sodio.

Fortune e sventure del cloro

Strano destino, quello del cloro e dei suoi derivati: salutati, alla loro nascita, come scoperte rivoluzionarie e liberatorie, hanno spesso svelato, dopo  qualche tempo, di nascondere delle trappole tecnologiche da cui è stato faticoso e costoso uscire.

Non c’è dubbio che, come disinfettante delle acque, il cloro ha contribuito a debellare molte malattie portate da batteri e virus; solo dopo un secolo si è visto che il cloro provocava anche la formazione di sostanze indesiderabili.

Uno dei primi derivati organici del cloro fu il  cloroformio, salutato con entusiasmo come sostituto dell’etere per le sue proprietà narcotiche ed anestetiche nelle operazioni chirurgiche; solo più tardi sarebbe stato scoperto che il cloroformio è velenoso e ne sarebbe stato vietato l’uso in anestesia.

I composti organici del cloro sono in genere  non  infiammabili e la scoperta che molti derivati del cloro – trielina, tetracloruro di carbonio, percloroetilene, eccetera – sono buoni solventi, non infiammabili, dei grassi permise di sostituire altri solventi infiammabili, come il solfuro di carbonio e la benzina, usati nell’industria olearia.

Il cloro e i suoi derivati cominciarono ad avere cattiva stampa durante la prima guerra mondiale (1914-1919). I tedeschi, che avevano in quel tempo la più progredita industria chimica del mondo, usarono il cloro come gas asfissiante già nel 1915 a Ypres, nel Belgio; si vide ben presto, però, che, se cambiava il vento, il cloro, un gas pesante che tendeva a stratificarsi vicino al suolo, poteva intossicare gli stessi soldati tedeschi che lo avevano lanciato; il “perfezionamento” arrivò subito sotto forma di fosgene (cloruro dell’acido carbonico), un gas asfissiante molto “migliore”  del cloro, e di iprite, altro composto clorurato, usato contro i franco-italiani a Ypres nel 1917.

L’uso dei gas asfissianti sollevò una protesta generale che portò, nel 1925, al primo trattato che vietava l’uso in  guerra di aggressivi  chimici; l’iprite fu tuttavia usata dagli italiani durante la guerra contro l’Abissinia  nel 1936. I gas asfissianti non furono usati durante la seconda guerra mondiale (1939-1945) sui campi di battaglia, benché gli eserciti in guerra ne avessero  delle scorte pronte all’uso (una  nave americana carica di fusti di iprite esplose nel porto di Bari nel 1943 in seguito a un  bombardamento tedesco). Certamente gas di guerra clorurati sono stati usati occasionalmente nei conflitti locali nella seconda metà del Novecento, anche se le notizie sono contraddittorie.

Alcuni successi e le loro ombre

Negli anni venti e trenta del Novecento la chimica dei composti organici clorurati fece grandi progressi: fu scoperto che il cloro modificava numerosi idrocarburi  fornendo composti clorurati suscettibili di impiego come solventi, per la preparazione di materie plastiche, di  gomme sintetiche, di insetticidi. Nello stesso tempo aumentava la richiesta di cloro nelle industrie tessili e della carta e nel trattamento delle acque.

Fra i successi del cloro vi fu la scoperta del cloruro di vinile, un derivato clorurato ottenuto dall’acetilene o dall’etilene, che poteva essere  facilmente trasformato in  una materia plastica destinata a grandi fortune e ad altrettanto grandi polemiche.

La  produzione industriale del cloruro di vinile e  del cloruro di polivinile (PVC) cominciò nel 1928 negli Stati Uniti e nel 1933 in Germania; la loro fortuna era dovuta al fatto che con il PVC potevano essere fabbricati tubi, lastre, oggetti stampati, sacchetti per imballaggi, rivestimenti per fili elettrici, duraturi, non infiammabili, elastici.

Soltanto a partire dagli anni 50 è stato scoperto che il cloruro di vinile monomero, la materia prima per le resine PVC, è tossico; a partire dal 1970 fu  scoperto che è anche cancerogeno e che i manufatti di PVC, quando sono bruciati negli inceneritori di rifiuti, provocano la formazione di acido cloridrico corrosivo e inquinante.

Il DDT e la primavera silenziosa

Un altro successo del cloro si ebbe negli anni  quaranta,  quando fu scoperto che un idrocarburo clorurato – il dicloro-difenil-tricloroetano, o DDT, noto da molti decenni – presentava eccezionali proprietà insetticide. Con massicci impieghi di questa polvere i soldati americani riuscirono a sopravvivere nelle paludi e nelle giungle asiatiche, nelle zone europee infestate dalla malaria, a impedire la diffusione dei parassiti nei campi di prigionia, fra i popoli affamati, nelle città devastate dai bombardamenti.

Già negli  anni cinquanta del Novecento fu però scoperto che il miracoloso DDT e altri simili pesticidi clorurati, grazie alla loro eccezionale stabilità chimica, restavano inalterati nel suolo, nei raccolti, negli animali; anzi, essendo solubili nei grassi, passavano attraverso le catene alimentari dal suolo, ai vegetali, agli animali, alle acque, agli uccelli, ai pesci.

Quasi subito furono stabilite delle dosi massime per i residui di DDT ammessi nei prodotti alimentari. Nella seconda metà degli anni cinquanta, però, la diffusione del DDT nelle catene alimentari cominciò ad apparire un fatto non più locale, ma planetario; residui di DDT e dei suoi prodotti di trasformazione furono scoperti addirittura negli oceani lontani dai campi coltivati e dalle zone antropizzate. Ciò indicava che il DDT dai campi e dagli escrementi si diffondeva negli oceani e veniva trasferito da un animale all’altro fino a diventare un contaminante di tutta la biosfera.

Il DDT fu trovato nel latte delle madri, che lo avevano assorbito dal latte e dalla carne delle mucche e dai cereali e dalla verdura, con un continuo effetto di accumulo; in certi periodi la concentrazione del  DDT nel latte materno è risultata superiore a quella massima ammessa per il latte in commercio.

La svolta decisiva si ebbe nel 1962 quando una  biologa del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati uniti, Rachel Carson (1907-1964), pubblicò un libro-denuncia intitolato “Primavera silenziosa”. Il libro spiegava che, se si fosse continuato nell’uso agricolo indiscriminato degli insetticidi clorurati, questi si sarebbero diffusi in tutti  gli esseri viventi al punto che un giorno, morti anche gli uccelli, la primavera sarebbe divenuta, appunto, silenziosa.

Il libro ebbe un enorme successo e portò  rapidamente, nonostante l’irritata opposizione dell’industria chimica e gli innegabili vantaggi di un pesticida efficace e a basso costo, al divieto dell’uso del DDT e di altri simili pesticidi clorurati.

Il caso diossina

Un  nuovo  punto a sfavore del cloro fu offerto dalla guerra nel Vietnam (1963-1975); per snidare i partigiani Vietcong dalla giungla in cui si nascondevano, protetti dalla popolazione locale, gli Stati uniti per anni hanno distrutto vasti tratti di foresta tropicale irrorandola con grandi quantità di erbicidi, principalmente dell'”efficace” 2,4,5-T. Si trattava di un sale dell’acido tricloro-fenossi-acetico, a sua volta derivato dal triclorofenolo, altro composto clorurato usato per preparare anche prodotti cosmetici tipo il disinfettante esaclorofene.

Intorno al 1970 cominciarono ad apparire degli studi che rivelarono nella popolazione vietnamita, e poco dopo anche nei soldati americani reduci dal Vietnam, varie malattie dovute all’assorbimento di una sostanza fino allora quasi sconosciuta, la diossina (chimicamente 2,3,7,8-tetraclorodibenzo-para-diossina), un contaminante dell’erbicida.

Per farla breve si scoprì che le industrie che fornivano l’erbicida 2,4,5-T all’esercito americano vendevano una qualità merceologica impura, contenente piccole quantità di diossina che si forma come impurità nella fabbricazione del triclorofenolo. Il cloro si trovò così coinvolto non solo come ingrediente di un processo industriale che genera una sostanza altamente tossica, ma  anche, di nuovo, in una polemica sull’uso in guerra delle armi chimiche (uso da anni illegale) contro un territorio abitato dalla popolazione civile; anzi di armi chimiche i cui effetti colpivano gli stessi soldati americani.

La  polemica si sarebbe fermata ai danni  ecologici ed umani delle armi chimiche da parte di una grande potenza – che in quegli anni, per inciso, si vantava di essere all’avanguardia nella battaglia ecologica – se la diossina non avesse fatto la sua vistosa comparsa, qualche anno dopo, il 10 luglio 1976, nelle cronache di tutto il mondo.

Quel giorno, un sabato, in una piccola  fabbrica di triclorofenolo a Meda, a nord di Milano, la ICMESA, si ebbe un’esplosione che fece uscire dal  camino una “nube”  contenente, in finissima dispersione, circa 2 chilogrammi di diossina che ricadde su alcuni ettari del territorio del vicino comune di Seveso, con danni alle persone e morte di numerosi animali. Il nome Seveso divenne così sinonimo della presenza di fabbriche pericolose, in zone densamente popolate, all’insaputa degli abitanti.

L’uso degli erbicidi e dell’esaclorofene, derivati dal triclorofenolo, fu gradualmente ridotto o vietato, ma il tutto contribuì ulteriormente a mettere in discussione l’utilità del cloro.

L’incidente alla ICMESA provocò un eccezionale interesse per la diossina, per la sua chimica, per la sua diffusione nell’ambiente. Ci si ricordò che altri incidenti, con fuoriuscita di diossina, si erano  verificati in altre fabbriche di clorofenolo; la necessità di misurare la contaminazione del suolo e degli edifici spinse a mettere a punto nuovi metodi di analisi della diossina. Anzi “delle diossine” perché i composti clorurati della dibenzo-diossina sono molte decine, con diverse proprietà e tossicità.

Si  vide allora che la diossina si formava anche  negli inceneritori  di  rifiuti  solidi urbani a causa  di reazioni fra il PVC o altre molecole clorurate con altri componenti dei rifiuti; che la diossina si formava nel corso dell’uso e della distruzione dei bifenili policlorurati (o PCB), i fluidi isolanti elettrici dei trasformatori, che tanto favore avevano fino allora incontrato proprio per la loro resistenza agli incendi.

Si scoprì che la diossina si formava nella combustione delle traversine ferroviarie di legno impregnate di pentaclorofenolo, eccetera. Ciascuna di queste scoperte provocò nuove leggi più rigorose nella progettazione degli inceneritori, nuovi divieti.

Il buco dell’ozono

Negli  anni  trenta i frigoriferi usavano come  fluido frigorifero ammoniaca o anidride solforosa,  sostanze irritanti e tossiche; si era ancora all’alba, anche negli Stati Uniti, della diffusione dei piccoli  frigoriferi domestici per i quali occorreva qualche fluido frigorifero non tossico, poco costoso, non  corrosivo, non puzzolente, non infiammabile.

La  risposta fu  offerta da  alcuni  composti  gassosi contenenti cloro e fluoro, i vari clorofluorocarburi, o CFC, inventati prima del 1940, ma  divenuti di uso comune dal 1950  in avanti nei frigoriferi (alcuni miliardi di unità) che hanno invaso le case in tutti i paesi industriali.

La produzione di CFC salì rapidamente, tanto più che si rivelarono preziosi anche come  fluidi propellenti nei preparati spray (vernici, cosmetici,  insetticidi), come solventi industriali, come agenti per il rigonfiamento  delle materie plastiche espanse usate come isolanti termici, nelle imbottiture di divani e sedili per autoveicoli, eccetera.

Intorno al 1980 alcuni studiosi osservarono una graduale diminuzione della concentrazione del sottile  strato di  ozono che si trova nella stratosfera, fra 20 e 30 kilometri  di  altezza;  l’ozono stratosferico ha la preziosa funzione di filtrare una parte, quella  biologicamente nociva, della radiazione ultravioletta inviata dal Sole verso la Terra. Dopo lunghe polemiche si è scoperto che la decomposizione dell’ozono è dovuta a reazioni complicate che coinvolgono i gas clorurati come i CFC o i solventi clorurati liberati dalle attività antropiche sulla superficie terrestre e diffusi nella troposfera e poi nella stratosfera.

Attualmente vi sono norme internazionali per il graduale divieto della fabbricazione e dell’uso dei  CFC;  sono stati vietati come propellenti per prodotti spray, ma vengono ancora usati, e si trovano presenti, in innumerevoli merci da cui si libereranno lentamente in futuro. Tanto che sono prevedibili, ancora per molti anni, una progressiva diminuzione della concentrazione dell’ozono stratosferico e un lento graduale aumento del flusso di radiazione ultravioletta dannosa (UV-B) sulla superficie della Terra.

La domanda di “carta ecologica”

Negli anni recenti, col crescere dell’attenzione per il cloro  e  i suoi effetti nocivi, sono state condotte indagini più accurate anche nel campo degli usi  più antichi e apparentemente consolidati del cloro.  Alcuni studiosi hanno cominciato, per esempio, a guardare  che cosa  succede durante la sbianca della carta che, come è noto, è costituita da fibre di cellulosa ricavata dal legno; nel legno la cellulosa è accompagnata da altre sostanze, come emicellulose e lignine, che vengono separate con vari processi chimici e meccanici.

La carta è poi resa più bianca per trattamento con cloro: ebbene si è visto che il cloro, durante questo trattamento, provoca la formazione di composti clorurati, di composizione non ben chiara, che finiscono nelle acque e sono nocivi per la fauna.

In molti paesi l’uso del cloro  nell’industria  della carta  è scoraggiato o vietato; alcune cartiere usano biossido di cloro al posto del cloro, altre usano acqua ossigenata  o ozono; vi sono ormai in commercio delle carte dichiarate “ecologiche” e “senza cloro”, il che mostra che i fabbricanti sono consci della crescente sensibilità dei consumatori per i trattamenti ecologicamente meno nocivi.

Altre sostanze clorurate  inquinanti  e nocive sono risultate presenti nelle acque usate depurate con cloro e anche, talvolta, dopo il trattamento con cloro di alcune acque potabili.

Il contestato albero del cloro

I pochi precedenti fatti hanno fatto nascere un  vasto movimento  che comincia a mettere in discussione  tutto intero il “sistema cloro”. Vari rami del grande albero del  cloro hanno già cominciato ad essere  potati:  il ramo  degli  insetticidi  clorurati, quelli di molti solventi  clorurati, dei clorofluorocarburi,  di  molti usi  del  fosgene,  il ramo dei  clorofenoli, e altri ancora.  Come  se ciò non bastasse,  alcuni  incidenti stradali e ferroviari sono stati accompagnati da fuoriuscite di cloro, di cloruro di vinile e di altri composti clorurati tossici.

La polemica è ormai così vivace che varie associazioni ambientaliste, specialmente Greenpeace (la sezione italiana ha un sito a: “www.greenpeace.it”), stanno sostenendo una campagna perché il cloro sia vietato in tutti i suoi usi.Naturalmente la grande industria chimica ha mobilitato i suoi scienziati per sventare il pericolo.

Come spesso avviene, il potente cartello internazionale dei produttori di cloro sta spiegando che, se corresse dietro alle fanfaluche degli ecologisti e non si usasse più il cloro, per esempio, nella  depurazione delle acque, milioni di persone morirebbero di infezioni intestinali: una  difesa d’ufficio che convince poco perché le acque possono essere disinfettate con  ipocloriti, con acqua ossigenata, con ozono.

I difensori d’ufficio dell’industria del cloro hanno allora scoperto che le sostanze organiche clorurate, non associate ad attività antropiche, sono estremamente diffuse in natura: si formano nei processi biologici naturali, si trovano nelle emanazioni dei vulcani, eccetera. Anche questa obiezione vale poco perché, ai fini della difesa della salute umana e  dell’ambiente, interessano le sostanze tossiche di origine antropica, che coinvolgono gli esseri umani come lavoratori e consumatori.

Più sensata è l’obiezione che il cloro è richiesto anche nella fabbricazione di alcune sostanze utili come medicinali. È comunque ragionevole pensare che  molti usi dei composti clorurati vengano gradualmente eliminati e che la richiesta di cloro diminuisca. Ci sarà il problema della messa a punto di processi alternativi per a fabbricazione dell’idrato di sodio – attualmente il co-prodotto del cloro da parte dell’industria elettrolitica – ma anche questi problemi possono essere superati sul piano sia tecnico sia economico.

È comunque molto probabile che i consumatori trovino, in  molte merci, in futuro, un avvertimento che sono state fabbricate senza impiegare il cloro. Sono così avvertiti che alcuni danni alla salute sono stati evitati e che ci hanno guadagnato la salute dei lavoratori, la loro stessa salute e quella dell’ambiente.