Commercio e violenza
Il commercio è lo scambio di beni materiali, generalmente beni fisici, fra vari soggetti economici. Una persona o una comunità ha bisogno di alcuni beni posseduti da un’altra persona o da un’altra comunità e tali beni vengono ceduti dal secondo al primo soggetto, in cambio di altri beni, o di servizi (lavoro) o di qualche unità di valore che chiamiamo denaro.
Tali scambi sono certamente avvenuti, su una certa scala limitata, fin da tempi antichissimi, nella lunga storia dell’evoluzione degli esseri umani, ma appaiono in maniera ben riconoscibile a partire dalla rivoluzione agricola, databile, in Europa, circa 10.000 anni fa. In quel tempo alcune comunità, che fino allora si erano procurate il cibo raccogliendo frutti, bacche e radici e cacciando gli animali selvaggi, hanno scoperto che alcuni vegetali potevano essere riprodotti coltivando il terreno e che alcuni animali potevano essere addomesticati e allevati.
Le nuove comunità di coltivatori-allevatori ebbero presto dei bisogni nuovi: edifici duraturi, processi di conservazione della carne, processi di macinazione dei cereali, pietre dure o metalli per la macellazione e il trattamento degli alimenti. La conservazione della carne poteva essere realizzata col calore oppure per addizione di sale, che si trovava sulle rive del mare, per evaporazione dell’acqua marina, o in alcuni giacimenti. Alcune comunità prive di sale dovettero andare a chiederlo a coloro che ne possedevano e potevano ottenerlo offrendo in cambio altri beni.
Ben presto i rapporti commerciali furono governati da regole abbastanza semplici; il venditore era disposto a cedere i propri beni a condizione di averne un vantaggio o guadagno (sulla base di certe scale di valori), e il compratore era disposto ad ottenere i beni necessari cercando, a sua volta, di averne un vantaggio, anche in questo caso sulla base delle stesse o di altre scale di valori. Un compratore affamato era disposto ad acquistare cibo a qualsiasi prezzo.
Le predette regole presupponevano che i due soggetti del commercio fossero in grado di attribuire un “valore” ai beni scambiati. Nascono così i principi di una pratica, poi divenuta scienza, la merceologia, che si propone di stabilire il valore dei beni materiali. Per alcune merci si trattava di misurare il peso, la lunghezza, il sapore, l’odore, per altre merci, come gli schiavi, si trattava di riconoscere l’efficienza nel lavoro, la bellezza nel caso delle schiave.
Dalle regole sopra ricordate è sempre derivata la tentazione di vendere una merce facendo apparire un valore maggiore di quello che ha in realtà; nascono così le falsificazioni e frodi, di cui si hanno tracce fin dai tempi più antichi: la falsificazione dei pesi, in modo da far apparire che la merce venduta aveva un peso maggiore di quello reale, la miscelazione di materie inerti o di merci di minore valore ad una merce pregiata, come nel caso di leghe di basso valore al posto dell’oro. Tutte le religioni e le raccolte di leggi, fin dai tempi più antichi, denunciano e puniscono le frodi nel commercio.
A mano a mano che le prime comunità di coltivatori-allevatori si sono evolute ed è aumentata la massa di beni disponibili, si è anche formata una classe dominante più ricca, cioè capace di vendere e acquistare più beni (re, sacerdoti, comandanti militari, funzionari) e una molto più vasta classe di subalterni, dai piccoli contadini, ai lavoratori liberi, agli schiavi. La classe dominante ha cominciato ad esigere edifici più vasti, cibi raffinati, metalli e ornamenti preziosi, tessuti lussuosi, cosmetici. Alcuni beni potevano essere ottenuti da materie (minerali, pietre, prodotti agricoli) esistenti sul posto, altri beni potevano essere ottenuti soltanto andando ad acquistarli o conquistarli in terre lontane.
Fra la classe dominante e quella subalterna si è venuta così formando la classe dei mercanti, persone della classe subalterna che, per coraggio nell’intraprendere lunghi viaggi, per l’abilità e spregiudicatezza nelle trattative con popoli lontani, riuscivano a portare e vendere alle classi dominanti le merci, anche rare e preziose, che esse desideravano ed erano disposte a pagare con vantaggio per il mercante.
Talvolta i mercanti (che potevano anche essere i governanti di un paese) incontravano popoli che, per il fatto di possedere certe merci in forma quasi di monopolio, erano avidi ed esigevano prezzi esosi e troppo elevati. In questo caso gli acquirenti sottomettevano con la forza i venditori per conquistarne le fonti di approvvigionamento.
Le “guerre commerciali” non solo hanno segnato tutta la storia dell’umanità, ma si può dire che un gran numero di conflitti è stato originato dalla conquista di materie e di merci, anche se talvolta sono stati mascherati con motivi ideali o religiosi. Forse una delle prime testimonianze è rappresentata dalle guerre, descritte nella Bibbia, per la conquista delle città di Sodoma e Gomorra, sulle rive del Mar Morto, in Palestina, circondate da intere colline di sale, le quali possedevano una specie di monopolio della preziosa materia.
Il commercio veicolo di conoscenze e cultura
D’altra parte la ricerca di merci rare in paesi lontani ha fatto sì che i mercanti venissero a contatto con popoli, conoscenze e tecniche che arricchivano, al di là del valore delle merci trasportate, i paesi di provenienza dei mercanti. Le proprietà “elettriche” dell’ambra sono state scoperte in seguito all’arrivo di questa resina trasportata dai mercanti mediterranei che si spingevano fin nel Baltico; la seta, la carta, la bussola, sono state conosciute in Occidente grazie ai mercanti che le avevano conosciute durante i viaggi in Oriente. Ma ancora più importante è stato lo scambio di conoscenze scientifiche e di lingue e culture reso possibile dai viaggi dei mercanti.
Fra i grandi motori di commerci e di spedizioni commerciali si possono ricordare l’impero egiziano, da 5.000 a 2.000 anni fa; l’impero assiro babilonese (da 4.000 a 2.000 anni fa); il mondo greco-romano (da 3.000 a 1.500 anni fa); l’impero dell’Islam (da 1500 a 200 anni fa), l’impero cinese da 4.000 a 100 anni fa); i grandi imperi europei (da 1500 a 100 anni fa); gli imperi centro e sud-americani (da 1.000 a 500 anni fa); gli imperi africani, che pure sono stati grandi centri di commercio.
Per molte di queste società relativamente poco è noto sulla storia e sui caratteri dei commerci, come se i mercanti occupassero una posizione subalterna nelle grandi storie umane. Eppure i grandi commerci fin da tempi antichissimi avevano un carattere internazionale, simile a quello dell’attuale globalizzazione.
Si può anzi dire che alcune innovazioni tecniche e scoperte scientifiche sono derivate dalla necessità di estendere le aree geografiche dei commerci: si possono citare le innovazioni nel campo della navigazione, che consentivano alle navi mediterranee di raggiungere la Malesia attraverso l’Oceano indiano 2000 anni fa e ai cinesi di raggiungere, nello stesso periodo, la Somalia. Più tardi i perfezionamenti delle navi transoceaniche a vela e, più recentemente, a motore, hanno permesso di trasportare maggiori quantità di merci in ciascun viaggio; i perfezionamenti delle tecniche di conservazione col freddo hanno permesso di trasportare derrate alimentari deperibili, come carne e frutta, dalle Americhe in Europa.
A mano a mano che si sono intensificati, specialmente negli ultimi mille anni, i traffici lungo le varie “vie della seta” e delle spezie fra Oriente e Occidente e i commerci con le Americhe, è anche cresciuta la curiosità per la conoscenza delle merci: anzi la chimica e la botanica sono nate proprio per comprendere meglio la composizione dei prodotti commerciali e il loro valore, a fini, quindi, merceologici. Nella metà del XVIII secolo le grandi enciclopedie stampate in Occidente contengono informazioni sui prodotti di commercio, ma già in precedenza nel mondo cinese e in quello islamico erano state “pubblicate” delle opere che, direttamente o indirettamente, trattavano le merci e i loro caratteri.
Le fiere e le botteghe
Finora si è sommariamente accennato al grande commercio internazionale; con la diffusione dei villaggi e delle strutture urbane una crescente massa di acquirenti non poté accedere direttamente ai produttori o agli importatori, ma dovette dipendere da intermediari commerciali che acquistavano all’ingrosso le merci e le distribuivano alle singole famiglie.
Le prime strutture di distribuzione “al minuto” sono state rappresentate dai “mercati”, riunioni di venditori che si tenevano in alcune città e in cui si trovavano, anche in concorrenza, venditori di merci simili. Talvolta si trattava di strutture stabili, talvolta di strutture mobili che si spostavano da una città all’altra, in occasione di feste religiose, o di eventi importanti: erano le “fiere” di cui esistono esempi ancora oggi in molti paesi e città italiani.
Il commercio al minuto si è poi trasformato con la creazione di negozi stabili, talvolta gestiti da piccoli commercianti, talvolta gestiti dai proprietari dei campi o delle fabbriche della zona i quali, in questo modo, vendevano merci, eventualmente a credito, ai propri dipendenti, spesso con speculazioni e ad alto prezzo.
Il commercio al minuto si prestava a speculazioni e frodi da parte dei negozianti che potevano sfruttare la poca conoscenza merceologica dei clienti, spesso appartenenti alle classi povere del proletariato. Nella metà dell’Ottocento le frodi erano così diffuse, con danni per gli acquirenti sia economici, sia per la salute, da stimolare delle inchieste prima giornalistiche poi parlamentari sulla qualità e sulle frodi delle merci, specialmente alimentari; in Inghilterra e in Francia i governi crearono delle strutture pubbliche di controllo merceologico dei prodotti di commercio.
Simili uffici si sono diffusi in altri vari paesi industriali; in Italia, agli inizi del Novecento, sono state emanate le prime leggi sanitarie organiche nelle quali una vasta parte era dedicata alla regolamentazione della qualità dei prodotti alimentari e al loro controllo. In ogni provincia sono stati istituiti dei laboratori di “igiene e profilassi”: dal nome stesso si vede che già i primi legislatori italiani ritenevano giustamente che la prevenzione delle malattie, la profilassi, appunto, era possibile anche attraverso il controllo della qualità e dei caratteri igienici dei prodotti di commercio.
I negozi “a buon mercato”
La grande svolta nel commercio al minuto urbano si è avuta con i “grandi magazzini”, negozi nei quali era disponibile una grande quantità di prodotti e nei quali l’acquirente, spesso entrato per un solo acquisto, finiva per essere attratto da altri prodotti aumentando la propria spesa. Intorno al 1870 furono creati in Francia i magazzini “a buon mercato”, la tecnica si è rapidamente estesa in altri paesi europei fin dai primi anni del Novecento. La possibilità di acquistare grandi quantità di merci da rivendere al dettaglio, permetteva ai venditori di praticare prezzi vantaggiosi; nati come negozi di articoli di abbigliamento e mercerie, si sono diffusi ben presto portando, in molte grandi città, alla chiusura di molte piccole botteghe che non riuscivano a resistere alla concorrenza. “Il paradiso delle signore”, di Zola, è un romanzo che descrive questa svolta di grande importanza storica e sociale
In Italia i primi grandi magazzini vendevano abiti confezionati e furono realizzati nel 1865 col nome “Alle città d’Italia” dall’industriale milanese Bocconi. L’impresa fu rilevata nel 1917 dall’industriale Borletti e fu ribattezzata, da Gabriele D’Annunzio, “la Rinascente”. Nel 1928 sono stati creati i negozi “Upim”, a prezzo unico.
La grande crisi economica degli anni trenta del Novecento ha portato in tutto il mondo ad una ristrutturazione dei commerci al minuto, come risposta alla mancanza di denaro e alla diffusa povertà. L’amministrazione Roosevelt negli Stati uniti organizzò un servizio di merci a basso prezzo per consentire la ripresa della produzione industriale e dei consumi delle famiglie. Il marchio dell'”Aquila blu” (“Blue Eagle”), assegnato ad alcuni negozi, assicurava i consumatori che le aziende contribuivano, anche con sacrificio dei propri profitti, allo sforzo di ricostruzione del paese e che pertanto i loro prodotti andavano preferiti.
La ripresa economica dopo la grande crisi e la II guerra mondiale portò molte innovazioni anche nella distribuzione e nel commercio al minuto.
Negli Stati uniti i grandi magazzini si sono trasformati nei “supermercati” che si sono diffusi anche in Italia a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso. Il supermercato permette all’acquirente di trovare e prendere quanto desidera, senza la intermediazione del venditore, pagando, prima dell’uscita, ad una cassa. In genere si tratta di grandi catene di supermercati, spesso internazionali, con un’elevata standardizzazione dei prodotti; la mancanza di un rapporto “umano” diretto fra venditore e acquirente comporta una diminuzione del personale e una forma di isolamento dell’acquirente, compensati solo parzialmente da prezzi vantaggiosi.
Commercio e solidarietà
Si è già accennato che, nel corso di tutta la sua storia, il commercio è stato caratterizzato da un rapporto conflittuale fra venditore e compratore. Una svolta si è avuta nella metà dell’Ottocento quando sono sorte le prime “cooperative di consumo”, organizzazioni in cui i singoli clienti diventavano soci del negozio che poteva così disporre di qualche capitale per l’acquisto, più conveniente, delle merci all’ingrosso e poteva così garantire ai clienti-soci prezzi equi e anche eventualmente un piccolo dividendo. Le cooperative di consumo hanno avuto un ruolo importante per la crescita di una coscienza sociale, motivate da una etica religiosa o da una cultura socialista.
La prima cooperativa di consumo è stata creata nel 1844 dai “pionieri” nella cittadina operaia di Rochdale in Inghilterra. Ben presto sono sorte imprese commerciali cooperative in Svizzera intorno al 1850 e poi a poco a poco nelle zone agricole e industriali in molti paesi e anche in Italia. In Piemointe nel 1854, in Lombardia ed Emilia per iniziativa socialista e repubblicana, nel Trentino, sotto l’Austria, esistevano cooperative “cattoliche” nel 1899.
A poco a poco le cooperative di consumo si sono collegate fra loro diventando delle grandi reti di rapporti economici che, in questo inizio del Duemila, rappresentano delle vere grandi imprese con interessi anche nelle costruzioni, nella produzione agricola, nel settore agroalimentare. Con la loro struttura e finalità le cooperative possono anche orientare la produzione delle merci verso scelte sociali, per esempio incoraggiando prodotti “ecologici” (spray senza clorofluorocarburi CFC, detersivi senza fosfati, alimenti prodotti con agricoltura “organica” senza concimi e pesticidi, eccetera).
Il tele-commercio
Il negozio è nato come struttura essenzialmente urbana; nel corso dell’Ottocento negli Stati uniti una vasta proporzione della popolazione viveva sparsa in piccole comunità agricole, in case isolate nelle campagne e per queste era difficile accedere ai negozi, soprattutto prima dell’avvento dell’automobile.
Una iniziativa importante per raggiungere questi clienti lontani si è avuta nel 1872 quando Montgomery Ward, un rappresentante di commercio, aprì a Chicago la prima ditta di vendite per corrispondenza; il suo nome è diventato quello di una catena di depositi, sparsi in tutti gli Stati uniti. La ditta spediva per posta un catalogo contenente un elenco di merci col relativo prezzo; l’acquirente indicava per posta quello che desiderava e lo riceveva, sempre per posta, in breve tempo, con treni che solcavano tutto il grande continente. L’operazione funzionava sulla base della fiducia e aveva quindi anche una funzione pedagogica: abituava alla correttezza e al rispetto reciproco. L’acquirente sapeva che avrebbe ricevuto la merce offerta; il venditore sapeva che il compratore l’avrebbe pagata, per contanti, al prezzo pattuito. Montgomery Ward si vantava di essere “l’amico degli agricoltori e delle massaie”. Il primo catalogo delle merci offerte da Montgomery Ward nel 1872 consisteva in un solo foglietto e molte merci avevano il prezzo di un dollaro; il catalogo del 1875 comprendeva 3900 merci, alcune illustrate con disegni; nel 1904 la società spedì ai clienti 3 milioni di cataloghi, ciascuno del peso di due chili.
Nel 1886, quando il catalogo Montgomery Ward aveva già 280 pagine e conteneva 10 mila illustrazioni, un altro imprenditore americano, Richard Sears, decise di mettersi nell’affare delle vendite per corrispondenza. Sears aprì la sua ditta e spedì il suo primo catalogo nel 1887, e anche lui rivolse l’attenzione al grande mercato potenziale rappresentato dalle fattorie e dai villaggi agricoli e impostò la pubblicità garantendo la propria personale serietà e solvibilità, assicurando al consumatore la possibilità di vedere un’illustrazione della merce prima di comprarla e puntò su prezzi estremamente bassi. La società “Sears, Roebuck and Company” ebbe tanto successo da superare, nel 1900, come volume di vendite, con dieci milioni di dollari, il fatturato della Montgomery Ward.
La grande impresa delle vendite per corrispondenza in America richiese iniziativa, ma anche incentivi come tariffe agevolate per la distribuzione dei cataloghi e delle merci; nel 1896 fu emanata una legge sul Rural Free Delivery, che consentiva alle comunità rurali di ricevere gratuitamente cataloghi e pubblicazioni che potevano contribuire ad innalzare la loro cultura e il loro livello di vita.
Le vendite per corrispondenza per molti decenni hanno rappresentato una forma di tele-commercio che ha liberato dall’isolamento milioni di persone, soprattutto nelle zone rurali. L’importanza del commercio per corrispondenza è andato declinando col diminuire della popolazione agricola e col diffondersi delle reti di comunicazioni stradali. Tale forma di commercio non ha mai avuto grande fortuna in Italia dove le strutture urbane, anche piccole, avevano numerosi negozi che offrivano una sufficiente varietà di prodotti e dove le città più grandi erano in genere abbastanza facilmente raggiungibili.
Una ulteriore svolta nel commercio al minuto a distanza si è avuta con la diffusione delle reti televisive e telematiche, soprattutto a partire dagli ultimi anni del Novecento. Per via Internet è possibile ordinare in luoghi anche molto lontani un gran numero di oggetti che vengono spediti direttamente a casa dei consumatori. Un interessante esempio è offerto dalle librerie telematiche che possiedono o possono procurare libri e riviste anche rari, pagati con carte di credito. Anche questa forma di commercio può rappresentare una forma di liberazione dall’isolamento e di accesso a beni prima difficilmente reperibili.
Mutamenti nei rapporti commerciali internazionali
Con la formazione delle “grandi potenze” – Francia, Inghilterra, Germania, Spagna, Portogallo – a partire dalla metà dell’Ottocento, i paesi imperiali europei importavano merci e materie prime dalle loro colonie come se tali prodotti fossero di loro proprietà.
Nella prima metà del Novecento si sono lentamente formati dei movimenti di ribellione dei paesi coloniali che hanno cominciato a considerare “propri” i prodotti della loro terra e hanno cominciato a chiedere l’indipendenza. Fra tali movimenti di indipendenza commerciale si possono ricordare quello di Gandhi in India (boicottaggio dei tessuti di cotone prodotti e colorati in Inghilterra) e altri che sono sfociati nel processo di decolonializzazione cominciato dopo la II guerra mondiale (1939-1945).
I paesi ex-coloniali, divenuti indipendenti, potevano chiedere dei prezzi più elevati per le proprie materie e anzi consideravano che il commercio delle materie prime o dei manufatti era condizione per il proprio sviluppo economico e sociale. Tale richiesta si scontrò ben presto con gli interessi dei paesi ex-imperiali. Al fine di arrivare ad accordi sulle tariffe e sui prezzi nel 1947 è stata creata una organizzazione denominata Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade), che faceva capo ai governi e che ha tenuto numerose sessioni per cercare di regolare i prezzi e le quantità di merci da immettere sui mercati mondiali. L’ultima delle faticose e controverse iniziative di accordi commerciali internazionale è stata quella denominata “Uruguay Round”, durata dal 1986 al 1994, alla fine del quale, nel 1995, l’agenzia Gatt si è trasformata in Organizzazione per il commercio mondiale Wto (World Trade Organization), con sede a Ginevra (<www.wto.org>).
Nello stesso tempo le Nazioni unite avevano creato una organizzazione col fine di cercare accordi internazionali sui rapporti fra commerci e sviluppo economico dei paesi emergenti. L’agenzia Unctad (United Nations Conference on Trade and Development), creata nel 1964 e con sede a Ginevra (<www.unctad.org>), tiene ogni quattro anni una conferenza che si conclude con una serie di dichiarazioni e indicazioni su come i commerci possono contribuire allo sviluppo dei paesi aderenti, a condizione che siano praticati prezzi equi e che siano vietate pratiche che possono arrecare danno allo sviluppo dei paesi arretrati. A differenza del Wto, che è l’agenzia più attenta agli interessi dei paesi industrializzati (e da qui le contestazioni che ne hanno accompagnato gli incontri nei primi anni del Duemila), l’agenzia Unctad è più attenta agli interessi dei paesi poveri ed è stata anche l’occasione per incontri, anche negli anni della “guerra fredda”, fra paesi a economia di libero mercato e paesi ad economia pianificata.
Per alcune merci, per esempio per il petrolio, esistono accordi fra alcuni paesi produttori per regolare la quantità immessa sul mercato e i prezzi. La Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, Opec (<www.opec.org>), creata nel 1960 e con sede a Vienna, ha avuto un ruolo politico importante negli ultimi tre decenni del Novecento.
Alla necessità di accordi fra paesi esportatori e importatori di alcune merci sono state ispirate le iniziative di “unificazione”, dei commerci e poi anche politiche, che hanno caratterizzato la seconda metà del Novecento. La comunità europea, nata come comunità di alcuni paesi che si scambiavano carbone, acciaio e mano d’opera, è stata la base di un grande progetto di unione europea di paesi che avrebbero dovuto avere una sola moneta, un solo mercato e regole commerciali e merceologiche comuni, oltre che regole sociali e di difesa dei diritti dei cittadini. Simili accordi sono stati realizzati fra Messico, Stati uniti e Canada, fra paesi dell’America latina, fra paesi africani, talvolta solo con successi parziali.
Una forte evoluzione si è avuta con la fine, nel corso degli anni novanta del Novecento, dell’economia pianificata in molti paesi (Russia, Europa orientale). Nuove merci e materie prime sono diventate più accessibili con vantaggio per i paesi industrializzati e si sono delineati nuovi rapporti con i paesi arretrati, esportatori soprattutto di minerali, prodotti agricoli e forestali. Negli ultimi anni del Novecento si è venuta così a configurare una diversa struttura commerciale che vede una contrapposizione merceologica fra “Nord del mondo” (Nord America, Europa occidentale e orientale, Russia, Australia, Giappone), paesi con elevati consumi, ma spesso dipendenti da altri per il rifornimento di materie prime, e “Sud del mondo” (paesi economicamente arretrati o in via di industrializzazione in America meridionale, Africa, Asia). La contrapposizione, per motivi commerciali, fra Nord e Sud del mondo si è fatta sempre più forte se si considera che i paesi del Nord del mondo hanno circa un quarto della popolazione mondiale, ma sono interessati a circa i tre quarti dei commerci mondiali di materie prime e manufatti.
Le guerre commerciali
Tale contrapposizione ha esacerbato i conflitti commerciali (e spesso anche militari) che, come si è prima ricordato, sono antichissimi. Per restare ai tempi recenti si possono ricordare, nella metà dell’Ottocento, le guerre fra Cile e Bolivia per il salnitro e fra Brasile e Bolivia per la gomma; la stessa prima “grande guerra” (1914-1918) era partita dalla contesa per i ricchi giacimenti di carbone e di minerali di ferro dell’Alsazia-Lorena; durante la seconda guerra mondiale (1939-1945) i giapponesi miravano alla conquista militare del petrolio e della gomma del Sud-est asiatico e i nazisti alla conquista dei giacimenti petroliferi sovietici del Mar Caspio.
Ma anche il mezzo secolo recente, dal 1945, anno della fine della seconda “grande guerra”, ad oggi, è stato segnato da centinaia di guerre locali, con milioni di morti, qua e là per il pianeta e anche tutte queste sono motivate dalla conquista delle materie prime che si trovano in alcuni paesi e non in altri.
Per tenere bassi i prezzi delle materie prime, i paesi compratori intervengono o con colpi di stato per abbattere i governi ostili, o con la corruzione, o organizzando una guerriglia locale fra gruppi, alcuni dei quali difendono gli interessi delle popolazioni locali e altri sono finanziati per difendere gli interessi dei compratori del Nord del mondo. Si potrebbe scrivere una storia del mondo attraverso le guerre e i conflitti per la conquista delle materie prime di importanza commerciale.
L’Afghanistan è in guerra dal 1979 perché possiede lapislazuli e smeraldi e produce e commercia oppio; l’Angola è stata travagliata dalla guerra dal 1975 a oggi per i diamanti e il petrolio; la Birmania è terra di guerre e guerriglie dal 1949 ad oggi per i legnami pregiati, il gas naturale, le pietre preziose e perché anche lei è una fonte per il rifornimento dell’oppio alle attività criminali. La Cambogia è stata investita da guerriglie dal 1988 al 1997 per il legname, i rubini e gli zaffiri; la Colombia è in guerra dal 1948 fra fazioni e gruppi che si contendono il petrolio e la produzione della coca.
La Repubblica democratica del Congo è travagliata da guerre motivate dalla conquista delle pietre preziose, di diamanti, oro, coltan (il minerale da cui si ricava il tantalio, indispensabile per i circuiti dei telefoni cellulari e di simili apparecchiature), e poi rame, cobalto, tungsteno, legname, caffè e altre materie; le varie parti dell’Indonesia sono sede di conflitti per la conquista del gas naturale, del legname, dell’oro; la Liberia è in guerra dal 1989 per i diamanti e il legname; la Nigeria da dieci anni per il petrolio; la Papua Nuova Guinea per il rame; la Sierra Leone per i diamanti; il Sudan per il petrolio.
L’anatomia delle guerre per le risorse naturali di valore economico consente anche di fare un bilancio del valore delle merci che costano sangue e dolore, emigrazioni forzate e malattie: si tratta, nell’inizio del XXI secolo, di un “fatturato” di circa 2.000 miliardi di euro all’anno, più o meno il doppio del prodotto interno lordo dell’Italia.
Nei paesi esportatori del Sud del mondo prevalgono le politiche e le decisioni commerciali dei poteri forti come i proprietari terrieri, le multinazionali che operano nei settori agricoli, zootecnici e forestali, minerari, che traggono profitti compensando con bassi salari le classi più povere impiegate in tali settori. Per far fronte a queste ingiustizie si è sviluppato, soprattutto nei paesi del Nord del mondo, un movimento detto di “commercio equo e solidale” che si propone di approvvigionarsi di merci direttamente dai piccoli produttori, in genere organizzati in cooperative, scavalcando la costosa ed esosa intermediazione dei grandi capitalisti. La vendita di materie prime e manufatti, per lo più di artigianato, avviene in piccole “botteghe” specializzate, che sono spesso anche centri di diffusione delle culture dei paesi del Sud del mondo.
Commercio e ambiente
A partire dagli anni sessanta del Novecento si è andato sviluppando nel mondo un vasto movimento di protesta contro gli effetti negativi, per la salute umana e per gli equilibri ecologici, di azioni, produzioni industriali e dell’uso di merci che, convenienti dal punto di vista commerciale, si sono rivelati ben presto nocivi. I pesticidi clorurati introdotti in commercio negli anni quaranta del Novecento, hanno permesso di proteggere le colture agricole dai parassiti, ma si sono rivelati, dopo qualche tempo, dannosi per la salute dei consumatori dei prodotti agricoli, oltre che su molti animali allo stato naturale. La “contestazione” ecologica ha investito, col passare degli anni, vari apparenti successi commerciali, come la produzione di elettricità nucleare, l’uso eccessivo di concimi in agricoltura, l’uso di clorofluorocarburi CFC che fanno diminuire la concentrazione dell’ozono stratosferico, l’uso di processi industriali che generano scorie e rifiuti tossici, l’impiego dell’amianto cancerogeno, lo scarico nell’aria dei prodotti risultanti dalle combustioni associate al traffico automobilistico, al riscaldamento degli edifici, eccetera.
Tale contestazione in molti paesi ha indotto i governi ad emanare leggi che vietano la produzione e l’impiego di alcune merci, più rigorose norme per il trattamento dei rifiuti. Qualsiasi vincolo “ecologico” comporta maggiori costi di produzione e fa aumentare il prezzo delle merci; queste distorsioni commerciali sono accettabili se esistono regole comuni fra tutti i paesi, ma possono tradursi in distorsioni nel mercato che ricadono maggiormente sulle classi povere e sui paesi poveri.
Ad esempio, gli accordi internazionali per evitare le alterazioni climatiche planetarie dovute al crescente consumo di combustibili fossili impongono una limitazione nei consumi energetici e un aumento del prezzo dell’energia. Poco gradite agli interessi economici dei paesi industriali, queste limitazioni – ispirate ad evitare mutamenti climatici che possono far sentire i loro effetti sulle generazioni future – sono rigettate dai paesi poveri che considerano che il proprio sviluppo economico e sociale dipende invece da un crescente disponibilità e consumo di energia. La diffusione di organismi geneticamente modificati che promettono maggiori rese agricole a spese di probabili danni ecologici o alla salute, è accettata dai paesi arretrati che sperano di alleviare la scarsità di alimenti che affligge oggi la loro popolazione.
Nei paesi industriali regole sempre più severe rendono difficile e costoso lo smaltimento dei rifiuti tossici, per cui si è sviluppato un commercio clandestino e illegale di rifiuti verso discariche che alcuni paesi arretrati offrono, in cambio di denaro, senza tenere conto delle possibili conseguenze negative future. Altre attività illegali riguardano il commercio di animali o di parti (per esempio le zanne di elefante) di animali in via di estinzione che sopravvivono in alcuni paesi del Sud del mondo e la cui caccia e uccisione è vietata da norme internazionali.
Più equi rapporti commerciali presuppongono maggiore solidarietà internazionale
Le precedenti brevi considerazioni hanno cercato di mettere in evidenza il carattere conflittuale esistente, da sempre, fra venditori e compratori di merci, dal livello individuale a quello di commerci planetari; tali conflitti, in un mondo così integrato, “globalizzato”, fanno sentire i loro effetti negativi non solo su singoli soggetti, ma ormai su interi paesi e continenti.
Gli effetti negativi si manifestano in scontri militari, in diffusione della povertà e di epidemie, in crescente instabilità dei rapporti sociali. Un passo avanti per la diminuzione dei conflitti internazionali sarà facilitato da coraggiose iniziative verso più equi rapporti commerciali che assicurino maggiori guadagni ai paesi del Sud del mondo che vendono materie e merci richiesti dai paesi del Nord del mondo; sarebbe così possibile ai paesi poveri una diffusione di istruzione, migliori condizioni di vita igienica e di abitazioni e di salute, condizioni per migliorare la stessa utilizzazione dei beni commerciali locali. La transizione probabilmente comporterebbe un transitorio periodo di minori profitti per i paesi ricchi compensato, ragionevolmente, in futuro da minori conflitti e tensioni che comportano distruzione di ricchezza, oltre che di vite umane.
Sul commercio fra Mediterraneo e Baltico cfr.: Bibby G., “Quattromila anni fa. Un quadro della vita nel mondo durante il secondo millennio a.C.”, Torino, Einaudi, 1966
Sul commercio fra Mediterraneo e India e Ceylon di duemila anni fa si veda, fra molti altri scritti, K.P. Charlesworth, “Le vie commerciali dell’Impero romano”, Milano, Bompiani, 1941
Sul commercio fra Oriente e Occidente nel Medioevo ancora fondamentale è l’opera di G. Heyd, “Storia del commercio col Levante nel Medio-evo”, Biblioteca dell’Economista, V Serie, Vol. 10, Torino, UTET, 1913, con una lunga appendice sui prodotti di commercio.
Sui conflitti commerciali internazionali si veda, fra gli altri: Michael Renner, “The anatomy of resource wars”, Washington, Worldwatch Institute, 2002.