Con che cosa hanno inquinato?

Le società industriali hanno, e avranno sempre di più in futuro, a che fare con la bonifica di aree contaminate dalle scorie e rifiuti di attività industriali. Da noi il problema si è posto in maniera rilevante in seguito all’incidente all’Icmesa di Meda, che ha contaminato una vasta zona del territorio della vicina cittadina di Seveso. Ma non si è trattato certo del primo incidente grave né del più grave. A poco a poco è cresciuta l’attenzione per l’esistenza di zone contaminate, in genere non certo nel nome dell’ecologia o della salute, ma nel nome dei danni monetari provocati dalle richieste di risarcimento di cittadini danneggiati.

Una zona contaminata rappresenta un territorio non più abitabile, non più vendibile e per questo viene chiesto il ripristino in condizioni almeno accettabili, una operazione, appunto di bonifica. Ma la bonifica costa: in via di principio dovrebbe essere l’inquinatore a pagare per i danni arrecati dal suo operare economico, ma spesso si costata che i danni si manifestano ad anni di distanza dalla attività inquinante, talvolta le imprese inquinanti sono fallite o si sono trasferite.

Gli inquinati chiedono allora l’intervento dello stato per i costi richiesti dalla bonifica e qui sorgono complessi problemi giuridici ed economici. Negli Stati Uniti una speciale agenzia procede all’analisi della situazione e alle opere di bonifica, a spese in parte delle comunità locali, in parte delle imprese inquinanti. La lunga controversia per la bonifica della zona contaminata di Love Canal, vicino le cascate del Niagara, è un esempio di controversie fra la popolazione contaminata, l’industria responsabile dell’inquinamento (Hooker, poi Occidental), le autorità dello stato di New York. Altri esempi sono offerti dalla contaminazione, sfollamento e bonifica della cittadina di Times Beach, nel Missouri.

In Italia ci sono state soluzioni miste; nel caso di Seveso la Hoffman La Roche ha pagato un risarcimento agli inquinati e alla Regione Lombardia per mettere a tacere tutto; in altri casi la bonifica è stata limitata al grattamento dello strato superficiale di terra e la zona contaminata è stata ben presto riutilizzata; in altri casi l’inquinamento resta al suo posto.

Gli inquinamenti dovuti a discariche di scorie industriali hanno la caratteristica di fare sentire in genere i loro effetti a distanza nel futuro, quando in parte si è perfino dimenticato che cosa è successo, quali sostanze sono state sversate nel terreno, da dove provenivano.

Si tratta di un campo di indagine in cui il chimico, l’ingegnere, il biologo e le stesse autorità giudiziarie e amministrative hanno bisogno non soltanto di laboratori e di tecnologie, ma anche di storia. Solo la storia delle industrie e delle produzioni può indicare quali materie prime sono state usate, quali prodotti sono stati fabbricati, quali scorie sono state prodotte. Solo così è possibile identificare le trasformazioni che le scorie hanno subito in un determinato ambiente terrestre o marino, quali sostanze vanno oggi cercate e richiedono azioni di depurazione e distruzione.

Un esame della letteratura mostra che relativamente poco è stato scritto sui grandi casi di contaminazione ambientale, con speciale riferimento al suolo e alle acque, e che, nella maggior parte dei casi considerati, ben poco sono stati indagati  aspetti manifatturieri e merceologici delle attività contaminanti.

Un progetto di ricerca sui rapporti fra industria e ambiente è stato avviato anni da dalla Fondazione Micheletti di Brescia che organizzò un seminario sulla storia dell’industrializzazione nella fase iniziale, dalla metà del 1800 all’avvento del fascismo. Purtroppo gli atti non sono stati pubblicati.

In questa breve nota mi limiterò ad indicare alcune linee di quello che potrebbe essere un “piano quinquennale” di sostegno storico e scientifico alle operazioni di bonifica delle aree industriali contaminate in Italia, con particolare riferimento alle attività chimiche, siderurgiche, conciarie. Anche le industrie tessili e la produzione del cemento sono fonti di inquinamento, ma le loro conseguenze sulla contaminazione del suolo sono relativamente minori.

La prima fase dovrebbe comprendere un inventario di geografia industriale: nelle varie regioni italiane dovrebbero essere individuate le zone in cui sono state insediate e sono ancora insediate attività produttive e per ciascuna dovrebbe essere ricostruita la storia merceologica: materie prime e loro caratteristiche, processi produttivi, merci prodotte, quantità e composizione delle scorie, luogo in cui le scorie sono state immesse.

A titolo di molto parziale esempio citerò, oltre alle due zone considerate in questo breve cointributo – Marghera e Bagnoli – la zona della valle Bormida (San Giuseppe di Cairo, Cengio, Ferrania), oggetto del fondamentale studio di Pier Paolo Poggio, “Una storia ad alto rischio: l’ACNA e la Valle Bormida”, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1996 – la zona industriale di Massa Carrara, la zona di Terni-Narni, le zone di Bussi, Augusta e Siracusa, Cagliari e Porto Torres, Manfredonia, Brindisi e Taranto, Crotone, eccetera.

Le fonti sono numerose, anche se molto sparse. Può trattarsi di documenti presenti nelle pratiche amministrative, nei piani regolatori, nelle denunce relative alle attività inquinanti (come quelle rese obbligatorie dalla legge Seveso), possono essere utili fonti aziendali e anche di propaganda, articoli pubblicati nelle riviste tecniche, atti di inchieste parlamentari (quella sull’inquinamento dei fanghi della fabbrica di biossido di titanio di Scarlino, e quella sull’incidente di Seveso contengono utili informazioni anche tecniche e merceologiche).

Fondamentale il libro del dott.Giuseppe Trinchieri., “Industrie chimiche in Italia. dalle origini al 2000”, Mira (VR), Arvan editore, 2001, 373 pp.

Una seconda fase dovrebbe ricostruire le storie di zone contaminate straniere e della relativa bonifica, con particolare attenzione alle reazioni della pubblica amministrazione e delle popolazioni locali.

Il caso Marghera

Come è ben noto, la storia industriale di Marghera comincia negli anni 20 con i primi insediamenti nel campo della meccanica cantieristica (Breda e fabbrica di ossigeno, 1923) e metallurgici (Ilva come fonderia di acciaio, circa 1925, e poi laminatoio nel 1932). Strettamente legate all’industria siderurgica sono state la cokeria, con fabbriche di distillazione del catrame.

Queste attività sono state fonti di inquinamento dell’aria, delle acque e del suolo: la composizione delle scorie di alto forno e di acciaieria dipendeva dal tipo di carbone e di minerale usato, dal processo di cokizzazione e di produzione della ghisa e dell’acciaio, nei cui cicli produttivi, nel corso di settant’anni, ci sono state profonde modificazioni. Che cosa resta, negli archivi industriali, nei documenti amministrativi, delle notizie sui cicli legati alla siderurgia?

Negli stessi anni sono stati insediati nella Laguna due fabbriche di alluminio. La Sia, Società Italiana Allumina (Montecatini e Vereinigte, poi Montecatini), insediata nel 1928, operava col processo Haglund trasformando la bauxite istriana in allumina che veniva poi inviata alle fabbriche di alluminio di Mori e di Bolzano. La Sava, del gruppo svizzero Saiag, produceva sia allumina sia alluminio.

Come è ben noto, l’allumina, prodotta sia dalla Sia, sia dalla Sava, si ottiene trattando la bauxite con idrato di sodio e per ogni tonnellate di allumina si formano due tonnellate di “fanghi rossi” (da distinguere dai fanghi rossi delle fabbriche di biossido di titanio e dai fanghi “bianchi” del trattamento delle fosforiti), contenenti circa il 50 % di acqua e ossidi di ferro, alluminio e altri metalli, la cui concentrazione, peraltro, varia a seconda delle bauxiti trattate.

La massa dei fanghi formatisi dall’inizio dell’attività delle due fabbriche fino alla seconda guerra mondiale dovrebbe essere di circa un milione di tonnellate. Quali bauxiti sono stata trattate? Che composizione avevano i fanghi? Dove sono finiti? Quando si trovano dei depositi di fanghi del trattamento delle bauxiti è forse possibile stabilirne la composizione, ma quali altre sostanze sono state, col tempo solubilizzate, come si sono disperse nell’ambiente e nelle acque? D’altra parte la trasformazione dell’allumina in alluminio comporta l’elettrolisi dell’allumina in un bagno fuso di criolite, il consumo di elettrodi di carbonio, la formazione di gas contenenti acido fluoridrico e di altri agenti inquinanti e fanghi.

Sempre nel campo della metallurgia risale agli anni 20 l’insediamento della Piombo e Zinco e della Montevecchio che hanno continuato la loro produzione fino ad anni recenti..

L’industria chimica compare a Marghera nel 1923 con la società Montecatini con un notevole grado di integrazione con gli altri stabilimenti della zona industriale. A partire dal 1928 veniva prodotto acido solforico per trattamento a caldo delle piriti (solfuri di ferro, estratti in Toscana); le piriti si scompongono in ossidi di ferro (ceneri di pirite), impiegate come materia prima in siderurgia. L’anidride solforosa veniva poi ossidata ad acido solforico. Con l’acido solforico venivano trattate le fosforiti di importazione e venivano prodotti concimi fosfatici e fluoruri. Con i fluoruri veniva prodotta criolite sintetica impiegata nell’elettrolisi dell’allumina.

Nella produzione di perfosfati dalle fosforiti si formano dei fanghi costituiti da fosfato di calcio, più noti come fosfogessi. Non è facile valutare la massa di questi fosfogessi e tanto meno la loro composizione che dipende dalla composizione delle fosforiti di partenza, importate probabilmente, nei primi anni, dal Nord Africa.

Nel periodo dagli anni 20 fino alla seconda guerra mondiale deve essersi trattato di qualcosa come oltre un milione di tonnellate ma la produzione di fosfogessi dalle fosforiti è continuata per almeno altri quarant’anni, dopo la Liberazione e la ricostruzione, per cui la massa complessiva si può stimare di almeno altri tre o quattro milioni di tonnellate. Complessivamente si tratta di oltre quattro o cinque milioni di tonnellate di fanghi. Dove sono andati a finire?

La contestazione del loro scarico nel mare è cominciata negli anni ottanta, ma sarebbe importante sapere tutto quello che è successo prima. Tanto più che le fosforiti impiegate non sono materiali omogenei; anzi la loro composizione chimica varia a seconda della provenienza (Nord Africa, Oceania, Florida); le fosforiti della Florida, per esempio, hanno un elevato contenuto di uranio (e dei suoi “figli” radio e torio e successivi elementi radioattivi) per cui è possibile che nei fosfogessi, dovunque scaricati, siano stati e siano presenti elementi radioattivi.

Il trattamento delle fosforiti avveniva, negli anni ottanta, in tre unità tutte legate alla Montedison. La Agrimont produceva concimi fosfatici con la formazione di 2.300 tonnellate al giorno di fosfogessi che sono stati scaricati a lungo nell’Adriatico. La Ausidet produceva fosfati per detersivi, con formazione di 800 t/giorno di fosfogessi. La Montefluos (Ausimont), che ricupera composti fluorurati dal trattamento delle fosforiti, produceva, negli anni ottanta, 1.000 t/giorno di fluorogessi che venivano trasformati, nel 1987, in “gesso granulato” da vendere ai cementifici. Già negli anni trenta il fluoro ricuperato dal trattamento delle fluoriti veniva impiegato per produrre criolite sintetica, ingrediente necessario per la elettrolisi dell’allumina.

Per la produzione del coke è stata installata, fin dagli anni venti, la Vetrocoke (Società Italiana Coke e Società Vetri e Cristalli, della Fiat) che utilizzava il calore dei gas di cokeria per il riscaldamento della vetreria. Dai gas di cokeria e dai prodotti ottenuti dalla distillazione del catrame sono stati ottenuti i primi prodotti chimici organici che avrebbero poi caratterizzato gran parte dell’attività delle Vetrocoke, nonché, nel reparto Azotati, ammoniaca sintetica e concim azotati, anche per cracking del metano. La Vetrocoke Azotati sarebbe stata ceduta nel 1959 dalla Fiat alla Montedison e sarebbe stata chiusa nel 1969.

La prima fase dell’industria chimica organica a Marghera è quindi stata caratterizzata dal carbone, usato come fonte di energia e per l’alimentazione delle cokerie. Il  carbone e il catrame sono stati, inoltre, materie prime per la produzione di benzolo, naftalina, pece e di anodi di grafite per l’industria elettrolitica da cui si otteneva sia alluminio, sia soda-cloro. A loro volta i prodotti della distillazione del catrame fornivano le materie prime per le prime sintesi organiche.

Il ciclo carbone-catrame-derivati, ha sempre rappresentato una importante fonte di inquinamento dell’aria, delle acque e del suolo. L’inquinamento dipende dalla qualità merceologica del  carbone di partenza e coinvolge la formazione di sostanze cancerogene, soprattutto idrocarburi aromatici policiclici. Quanto carbone, e di che tipo e provenienza, è stato usato, nel corso di settant’anni, nel ciclo delle industrie di Marghera? Dove sono stati scaricati gli agenti inquinanti e le ceneri? Le ceneri di carbone (circa 100 kg per ogni tonnellata) anch’esse contenente uranio e torio, sia pure in piccola quantità, sono state in parte scaricate come tali, nelle centrali termiche, e in parte sono finite nelle loppe di alto forno: scaricate dove? Quanto coke è stato prodotto a Marghera? Quanto acciaio ?

Dopo la Liberazione comincia anche per Marghera l’era del petrolio, che affianca l’uso del carbone, sempre più limitato all’industria siderurgica. Con la costruzione delle raffinerie di petrolio, facilitata dalle opere di accesso della materia prima attraverso la Laguna, comincia il ciclo di utilizzazione delle varie frazioni petrolifere come materie prime della industria petrolchimica.

La ricostruzione dei cicli produttivi, delle materie impiegate, delle materie prodotte, essenziale per la identificazione delle fonti delle nocività ambientali, è resa complicata anche dagli intrecci finanziari esistenti fra le varie industrie e anche dai periodi di occupazione militare da parte dei tedeschi e poi degli americani subito dopo la Liberazione.

Nel 1950 compare a Marghera un nuovo soggetto industriale. La Edison, era già presente a Marghera insieme alla Sade nella Società industriale San Marco che produceva intorno al 1950, carburo di calcio e calciocianammide, nel 1950 aveva costituito, con l’americana Monsanto, la SIC, che cambiò successivamente denominazione in SICE e poi in Sicedison; nel 1952 cominciò la produzione di fertilizzanti a Marghera, ben presto affiancata da impianti (a partire dal 1951) di soda-cloro. L’elettrolisi del cloruro di sodio in celle a mercurio provoca la formazione di vapori di mercurio all’interno delle celle e di fanghi contenenti mercurio.

Nel 1951-52 iniziò la produzione di cloruro di vinile monomero (dapprima da acetilene, di origine carbochimica, e acido cloridrico, poi, anni dopo, da cloro e etilene di origine petrolchimica, con formazione dell’intermedio dicloroetano) e di cloruro di polivinile, ottenuto per polimerizzazione in sospensione e poi in emulsione. Previa aggiunta di adatti plastificanti e di altri ingredienti venivano prodotti i compounds, miscele da cui sarebbero poi state ottenuti prodotti stampati e trafilati.

Dalla metà degli anni cinquanta l’intreccio fra società e cicli produttivi si fa sempre più complicato. Comincia la produzione di polistirolo e poi di nitrile acrilico (l’impianto sarebbe stato chiuso nel 1976) e di fibre acriliche. Nel 1957 la Edison costituì, sempre a Marghera, l’Acsa, in collaborazione con la Chemstrand, controllata dalle Monsanto e dall’American Viscose, per la produzione della fibra Leacril. La Monsanto uscì da queste imprese nel 1961 e nel 1965 ebbe luogo la fusione fra Edison e Montecatini, che producevano merci simili, con la nascita della Montedison. Nel 1959 la Montecatini, da parte sua, aveva acquistato la Vetrocoke.

Le materie prime sono offerte dal cracking del petrolio (oggi l’unico impianto nell’Italia settrentrionale) che fornisce etilene, propilene, i gas C4 (butano, butilene e butadiene), gli idrocarburi aromatici (benzene, toluene, xileni), tutte materie di base per i numerosi derivati dell’industria chimica.

La ricostruzione delle materie prodotte, dei cicli e processi impiegati, dei caratteri della materie prima, tutte conoscenze essenziali per poter conoscere quali e quanti rifiuti si sono prodotti, dove sono stati gettati nell’ambiente, è reso più difficile dal rapido intreccio e mutamento delle società produttrici, dalla Montedison, all’Enichem, all’Enimont, poi di nuovo alla Montedison mentre l’Enichem si associa all’inglese Ici per dare vita alla Evc Italia per i prodotti vinilici.

In ciascuno di questi passaggi si hanno ulteriori frazionamenti – Agrimont, Montefibre, Ausidet, Montepolimeri, poi dal 1983 Montedipe con la produzione di fosgene, acido cianidrico e derivati, Tdi toluendiisocianato intermedio per poliuretani, Ausimont per termoplastici rinforzati, Sipa per i prodotti acrilici, Montefluos per gli idrocarburi fluorurati ottenuti dall’acido fluoridrico ottenuti per trattamento della fluorite estratta a Stava o di importazione, eccetera – con abbandono di stabilimenti e delle relative aree, migrazioni dalla prima alla seconda zona industriale. Solo per fare un esempio l’Agrimont chiusa e ora in demolizione ha lasciato 30 ettari da bonificare: che cosa è stato prodotto ? quali scorie si trovano sul terreno?

Non interessano tanto le storie degli intrecci finanziari – che pure costituiscono una importante pagina del “normale” capitalismo italiano – quanto la dispersione delle informazioni merceologiche che ciascuno di questi passaggi ha portato con sé. I progetti di ristrutturazione e di bonifica che sono in discussione, con investimenti stimati di oltre 1.000 miliardi di lire, saranno in grado di identificazione le attività e gli inquinamenti che si sono svolti nella zona in 75 anni? Sono attendibili i dati che vengono fatti circolare?

È attendibile che negli ultimi trent’anni siano stati immessi 1.600.000 t di prodotti nell’aria, 500.000 t nelle acque della Laguna; che siano stati scaricati nel mare 80 milioni di metri cubi di rifiuti industriali e che siano stati seppelliti 5 milioni di t di rifiuti tossici ?

Bagnoli

Altrettanto interessante, dal punto di vista della contaminazione dell’ambiente e della produzione di scorie, è il caso Bagnoli anche se il numero delle industrie inquinanti è stato relativamente limitato allo stabilimento siderurgico a ciclo integrale (carbone, cokeria, altiforni, acciaieria), la Cementir, l’Eternit, la fabbrica di perfosfati.

Nel 1882 era presente a Bagnoli una fabbrica di prodotti chimici costruita da E. Lefevre, poi divenuta ditta A. Walter & C., poi divenuta Unione Concimi. In seguito all’assorbimento da parte della Montecatini della Unione Concimi e della Colla e Concimi (che aveva una fabbrica di perfosfati a Portici), nel 1922-23 fu costruito un secondo impianto di perfosfati a Bagnoli. Esisteva anche una fabbrica di solfato di rame. Nella vecchia fabbrica di concimi è oggi insediato il Museo della Scienza di Coroglio. Nel 1904 fu iniziata la costruzione dell’acciaieria, prima con gli altiforni, nel 1909, poi col ciclo integrale. I punti inquinanti sono quelli tradizionali delle acciaierie a cominciare dai parchi di sosta del carbone, dei minerali e del calcare. La cokeria genera, per riscaldamento del carbone, coke, gas, ammoniaca, catrami: fra i gas e nel catrame finiscono idrocarburi aromatici anche cancerogeni. Il coke e il minerale vengono trattati negli altiforni insieme a calcare e si formano la ghisa, naturalmente e una massa di gas e scorie solide nelle quali ultime si concentrano tutte le ceneri del carbone. Infine l’acciaieria trasforma, con processi che sono cambiati col passare del tempo (da quello Bessemer, a quello Martin Siemens, al più recente processo ad ossigeno), in acciai con  formazione di altre scorie e loppe, la cui quantità e composizione – e il cui effetto inquinante, quando sono scaricati nel suolo, nel mare, o che sono usati come riempimento della banchine – varia a seconda del processo e della qualità merceologica della ghisa.

Come è noto, alla fine degli anni settanta l’acciaieria subì una ristrutturazione, con la costruzione del più moderno treno di laminazione d’Europa, mai entrato in funzione.

Negli anni recenti l’altoforno di Bagnoli è stato smontato e in parte ricuperato per il successivo rimontaggio in India. Le torri di miscelazione fossile e di triturazione sono state demolite con  l’esplosivo. Ciascuna parte di un impianto industriale contiene incrostazioni e residui, nei quali talvolta si sono concentrate la frazioni più tossiche e pericolose del processo, anzi dei vari processi e trattamenti. Anche delle variazioni delle materie prime e dei processi sarà opportuno tenere conto nella operazioni di decontaminazione e di smaltimento dei residui di lavorazione e di bonifica del sottosuolo dei siti Ilva e Eternit, in corso in collaborazione fra la Società Bagnoli Spa e l’Università di Napoli.

Una parte delle loppe di altoforno alimentano in generale i cementifici e questo spiega la presenza della Cementir a Bagnoli; ma la qualità di tutti i precedenti processi influenza la qualità (e anche la presenza di elementi radioattivi) nel cemento e nelle polveri che ricadono nella zona circostante.

Sarebbe opportuno conoscere anche la durata dell’attività della fabbrica Eternit di cemento amianto, la qualità delle materie prime usate e dei residui.

Conclusione

L’indagine qui proposta non ha carattere soltanto storico e di curiosità, né ha interesse soltanto in vista della bonifica delle zone contaminate. La conoscenza delle materie che “attraversano” ciascuna fabbrica e ciascun territorio è essenziale anche ai fini della sicurezza delle popolazioni e della sicurezza dei lavoratori.

Quale è lo stato delle “industrie a rischio”? Come viene attuato il meccanismo delle informazioni richieste ai sensi della “legge Seveso” e della “Seveso 2” che diventerà operativa nel 1999? O della legge sulla sicurezza nei luoghi di lavoro?

Quali sono le conoscenze disponibili alla pubblica amministrazione e agli enti locali sulle sostanze presenti, sui piani di emergenza? Non vi sono troppe zone d’ombra in cui le informazioni sono tenute riservate nel nome del segreto industriale? Non sarebbe il caso di avviare una campagna perché sia rivendicato il “diritto alla conoscenza”? soprattutto quando il segreto o la riservatezza sulle informazioni industriali mettono in pericolo l’efficienza della difesa del territorio e delle azioni di difesa della salute dalla presente e delle future generazioni?

La risposta a queste domande è importante non solo per i processi di decontaminazione e bonifica delle aree industriali inquinate, oggetto dell’incontro di oggi, ma anche per far crescere la cultura della produzione e del lavoro, la curiosità per quello che si produce e per come si produce.

Sono queste, a mio parere, le premesse e condizioni per creare nuova duratura occupazione, per identificare nuovi processi e nuove merci, per promuovere ricerca scientifica, indagini chimiche e geologiche, per ricuperare esperienza e cultura operaia, quelle forze che il Veneto e Venezia, con le loro università e i suoi centri di ricerca, possiedono. Per “mettere a profitto”, come utilità sociale e non solo come profitto monetario aziendale, le risorse e competenze “contenute” in una lunga importante storia industriale, le professionalità e le capacità di lavoro, traducendole  in occasioni per una nuovo – ma necessariamente diverso – diverso sviluppo industriale. 

Alcuni riferimenti bibliografici

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