“Contadini e complici”: un dialogo con Ermanno Olmi

Nel dialogo con Olmi, un colloquio più che un’intervista, l’apertura e le interlocuzioni sono di Giorgio Ferraresi. La trascrizione finale dell’intervista è stata elaborata e redatta da Laura Colosio, mentre un contributo fotografico è stato elaborato da Diletta Villa. L’intervista è stata realizzata il 1° Febbraio 2013.

GF – Il mondo della cultura, della ricerca e della pratica sociale territorialista, quando propone come tema del primo numero della sua nuova rivista il “Ritorno alla terra”, non può non incontrare sulla sua strada una figura quale tu sei, Ermanno Olmi: un alto testimone, nella sua opera, della civiltà contadina.

E vogliamo riaprire un dialogo con te che, in realtà, è già iniziato condividendo l’interesse che manifesti ora per il riemergere dell’agricoltura contadina; una volontà di ascolto e di interpretazione profonda espressa in ripetuti percorsi nelle campagne lombarde ed in comuni incontri con queste ‘vie contadine’ che rigenerano terra e territorio, e che non solo ci offrono cibo di qualità locale ed ambientale ma ci coinvolgono in relazioni di scambio solidale e di alleanza.

In queste esperienze di una nuova ruralità la cultura territorialista riconosce un cuore, un riferimento essenziale che può rinnovare e dar corpo a ciò che è la base stessa della ricerca e della progettualità perseguite in questi anni: il territorio come soggetto vivente (ed il coltivare e curare la terra come sua matrice) che porta in sé un proprio valore essenziale per la vita, un valore territoriale ‘locale’, fondato sulle differenze dei luoghi e sulla biodiversità, capace di governare i cicli ambientali e di rigenerare le stesse città. Un territorio come bene comune.

E queste esperienze contadine ci appaiono un ‘controcanto’, rispetto alla distruzione del ‘rurale’ come base della occupazione e del degrado del territorio nei secoli dell’industrializzazione e dell’urbanesimo trionfanti, sino alla decadenza ed alla disastrosa crisi attuale di questo modello.

Sulla soglia di questo disastro, ma dentro l’alleanza con quei percorsi contadini di speranza, possiamo qui riprendere il dialogo già in corso con te?

EO – La prima cosa che mi pongo come domanda di avvio è ‘Perché tu oggi sei qui oggi a farmi a queste domande? Perché venti anni fa non pensavamo affatto di porci domande così?’ Perché in alcune scelte che sono state compiute nell’immediato dopoguerra noi abbiamo intrapreso un discorso che ritenevamo giusto, e soprattutto che avrebbe modificato tutta la nostra condizione precedente, ancora legata ad un mondo ottocentesco. Infatti l’Italia, pur essendo un Paese abbastanza sviluppato nelle moderne attività dell’economia, era prevalentemente un Paese agricolo. Tanto che lì si è compiuta la prima scelta che poi ha portato a questa situazione: abbiamo creduto di più nell’industria che nella natura. Il mondo contadino si era svuotato.

L’incontro tra Ermanno Olmi e Giorgio Ferraresi.

Addirittura si era arrivati al punto che le fanciulle non sposavano più un contadino: voleva dire rimanere legati ad un passato che non si voleva più vivere. E quindi subentrò questo con una prepotenza e un’immediatezza che hanno soltanto i grandi fenomeni epocali, una sorta di tsunami. Tutto il mondo correva verso un futuro tecnologico: tra l’Expo del 1906 dove i Krupp presentarono i loro cannoni, le due guerre di cui quei cannoni erano stato l’annuncio…. Essendo il mondo agricolo disertato dalle nuove popolazioni, compaiono le macchine per le grandi coltivazioni estensive (modernizzazione dell’agricoltura). Mentre si celebrava, a distanza di quaranta anni (1906-1946), l’anno dopo la guerra, si attenuava la presenza del mondo contadino e trionfava il mondo meccanico. Questo mondo meccanico che avrebbe provveduto a soddisfare tutte le nostre esigenze secondo un obiettivo molto preciso: la ricchezza. L’Europa si era ormai convinta di questa certezza: diventavamo tutti ricchi. E la nostra vita era cambiata completamente. Pensate che dal sogno della bicicletta si era arrivati alla motoretta, all’auto e a tutto il resto. Con la convinzione piena – e anche giustificata, in quel contesto – che il denaro avrebbe risolto tutti i problemi compreso quelli affettivi. Vale a dire se hai denaro partecipi a questa sorta di banchetto della vita dove mai più la povertà avrebbe intaccato la nostra esistenza, e la gioia del possesso delle cose era già una risposta a tutte le domande di affettività: e questo è stato un grande inganno. Perché eravamo convinti che avendo sconfitta la povertà gli affetti sarebbero stati più grandi di prima, perché non avevamo la preoccupazione di pensare a cosa avremmo avuto da mangiare, a come era quest’anno l’andamento della terra e così via. Eravamo rassicurati a tal punto da dire che anche i nostri sentimenti sarebbero stati garantiti dal denaro. Ma non è stato così: lo capiamo adesso dopo aver compiuto tutto il percorso, facendo tutti i tentativi possibili per dare al denaro questo potere di renderci felici. Io non vorrei mai pronunciare questo nome, ma il berlusconismo è l’estremizzazione di questo concetto: comprate e sarete felici.

Nell’arco della mia vita sono stato molto fortunato perché ho vissuto nell’infanzia l’Ottocento (il Novecento, prima della guerra ultima, in Italia era Ottocento). Dopo di che ho vissuto il secondo Novecento e sto vivendo il 2000, che sono stati il tempo delle grandi e stupefacenti tecnologie – e di fatto queste cose stanno accadendo, ma tutta questa disponibilità di risorse non ha risolto il problema delle affettività. E noi sappiamo benissimo che più diventi ricco e più ti accorgi di non avere affettività e più ti incazzi perché ‘Ma come? Sono ricco e non sono felice?’. Allora non possiamo che fare un bilancio da perdenti. Però l’esperienza della ricchezza non l’avevamo mai provata. Adesso, dopo 60 anni e più, sappiamo che non è la ricchezza che potrà creare una società civile che vive armoniosamente sia tra il genere umano, sia tra l’umanità, ma è la terra che è la casa di tutti. Che cosa dobbiamo fare a questo punto? Quando nel ’78 feci L’albero degli zoccoli io credevo di fare un ritratto non solo verosimile, ma quasi una narrazione della realtà che stava finendo del tutto. Quella cascina, quelle cose… ero convinto che ‘ecco, bisogna che faccia questo film per ricordarci com’era il mondo contadino, la civiltà rurale’. E tenete conto che la civiltà rurale è l’unica civiltà compiuta, le altre son tutte civiltà provvisorie: quella industriale, quella tecnologica, quella informatica. Adesso pensiamo che al di là del computer non ci sia più niente. Credevo che L’albero degli zoccoli celebrasse la fine del mondo contadino. Invece no. Celebrava il monito che la natura gettava in faccia all’uomo: ‘Sai cosa stai facendo? Lo Sai? Sai l’offesa che stai procurando alla tua stessa vita?’ – perché noi dipendiamo dalla terra. Trovandoci di fronte a questo baratro (e sappiamo che oltre non possiamo andare perché è la fine) cosa bisogna fare? Nell’evoluzione della terra si è passati dai primi microrganismi che uscivano dal mare e poi alla costituzione di mondi che sono falliti perché il tentativo era sbagliato, e quindi i dinosauri… la natura ha elaborato la ricerca dell’armonia e adesso noi viviamo in una condizione dove possiamo diventare complici dei fenomeni naturali con uno scambio che, nel mito della cultura mediterranea, si può rifare alla fine del diluvio, dopo che i mari coprono tutta la terra: Noè torna fuori all’asciutto e pianta la vigna. Bene, cosa possiamo fare in questo momento di pratico per poter programmare questa uscita dall’arca quando il diluvio ritira le sue acque? Da che cosa ricominceremo se non dalla vigna e dal primo colpo di zappa? Allora, per fare questo noi dobbiamo prima aspettare che le acque siano ritirate del tutto. Infatti la colomba esce più volte, e solo quando finalmente porta il ramoscello puoi dire che si può cominciare a dare il colpo di zappa. Dovremmo fare questo percorso a ritroso. Nel momento in cui abbiamo compiuto la scelta tra stare dalla parte della natura o della ricchezza, noi adesso non possiamo partire dalla soglia del baratro e andare a trovare quello che avremmo dovuto trovare se fossimo stati accorti nel fare la nostra scelta. Dobbiamo tornare indietro fino al momento in cui si sono divise le due prospettive di vita. Dobbiamo tornare indietro – diciamo al ’46 per intenderci nel tempo breve, ma in realtà ancora più lontano, alla radice; ma tornando indietro, non facciamo l’errore di buttare via tutto: mentre torniamo indietro, in realtà, iniziamo a fare un passo avanti recuperando il filo della storia.

Frikì (al secolo Vittorio Capelli), il venditore ambulante di stoffe de “L’albero degli zoccoli”.

GF – A questo proposito posso forse richiamare una immagine che avevi proposto in un altro nostro incontro, proprio per esprimere questo nuovo inizio dal cuore antico. Dicevi: stiamo cambiando casa e quindi non solo si buttano via le cose usate, ma tre esse si sceglie e si portano con noi le poche cose che abbiano riconosciuto essenziali vivendo nella vecchia casa e che ci aiuteranno a vivere nella nuova.

EO – Bravo, perché sarebbe stupido ora dire che da oggi ci rivestiamo tutti da contadini. No, il nuovo contadino deve sapere cos’è il ‘bosone di Higgs’. Prima il contadino faceva un atto di fede nei confronti del mistero che stava sotto la zolla. Non sapeva come e perché la semente dava poi un piccolo granello od un albero. Non sapeva, ma aveva fede perché ciò era già avvenuto e sapeva che sarebbe ancora accaduto. Oggi l’uomo cambia la sua natura e diventa l’uomo consapevole. Consapevole del bene e del male. Quando si affronta il problema del cibo, oggi l’uomo ha il dovere di esser consapevole della bontà di un frutto e discernerlo dal similfrutto dell’industria alimentare. Si scontrano, in questo momento storico, il gigantismo dell’industria alimentare fatta con tutti gli apparati chimici e il bisogno di tornare all’origine del cibo. Guarda, non mi interessa la parola ecologico, ma mi interessa “naturale” vale a dire “come la natura lo esprime”. Di là, nell’altra stanza, sono rimaste le ultime meline, io ho sempre quelle meline brutte. C’erano in natura più di 150 tipi di mele che soddisfacevano l’esigenza del nutrimento per tutto l’anno, perché le ultime potevano esser conservate in una stanza fresca e le prime arrivano già a fine maggio. Presso il brolo del palazzo ducale di Mantova dei Gonzaga (dove poteva capitare di essere asserragliati per molto tempo) vi erano stanze che garantivano tutta la frutta e verdura per gli abitanti del palazzo. Quando si trattano le questioni della nutrizione, del “nutrire il pianeta”, si sentono un mucchio di idiozie da parte di molti ‘competenti’. E l’idiota non è il cretino; l’idiota secondo l’etimologia è colui che si auto-isola e non gliene frega niente del mondo. E molti ‘esperti’ sono idioti perché si ritirano ancora dentro alcune certezze che sanno benissimo che non sono più certezze. Per esempio la presunzione di creare sviluppo agricolo incrementando la capacità di produzione quantitativa di cibo senza alcun valore; scordando che la base dl valore del cibo è la biodiversità, che produce la differenza dei gusti ed i caratteri delle qualità locali. Per questo la melina è così importante e la si può proporre come simbolo di un nuova/antica agricoltura. Ma ritornando al discorso dell’uscita dall’arca, ricordo che nell’arca c’erano gli animali e c’era anche l’orto: Noè si è era preso di tutto un campionario, e quindi noi oggi dobbiamo essere davvero convinti e fiduciosi che abbiamo ancora la possibilità di raccogliere ancora tutto questo campionario. Quindi non tutto è andato perduto, e possiamo riprodurlo per il presente ed il futuro con la nuova consapevolezza che abbiamo costruito proprio nell’esperienza delle scelte sbagliate fatte nella storia.

GF – Se proponi queste immagini, queste metafore (‘uscire dall’arca’, ‘cambiare casa’), stai dicendo qualcosa che non è nel senso comune ma che conferma ciò che si affacciava nella introduzione al nostro colloquio: questo riemergere di agricoltura contadina non significa solo il riproporsi in sé di queste forme del coltivare e scambiare i beni alimentari (forme artigiane fondate sul lavoro diretto, prodotti locali, cura e rigenerazione della terra), ma rappresenta anche il seme di una messa in discussione dei valori e dei ‘codici della modernità’ che in agricoltura hanno generato l’agroindustria e la distruzione del mondo rurale, e che in generale hanno pensato la propria civiltà fondandola sulla ‘ragione strumentale’ del produrre in serie cose in forma di merci, ed hanno considerato il territorio come una piattaforma per questi tracciati mercantili competitivi e le loro funzioni e come suolo per l’urbanizzazione (il cui valore è in sostanza immobiliare).

Un modello che nasce dalla prima industrializzazione nel Settecento inglese, che si riconosce come modello universale nei primi decenni del Novecento e che, a partire dal secondo Novecento, produce la grande modernizzazione che tu hai richiamato. L’agricoltura contadina è quindi il seme di un ricominciamento radicale, tracce di ricostruzione ‘primaria’ di nuovi modi di vita e di valorizzazione del territorio, in morte di quel modello dominante: una nuova forma di ricchezza.

Ma attorno a questo nodo strutturale del ridare vita al ‘valore territoriale’, quale cambiamento fondamentale si mette in atto quando ci si pone in relazione viva con questo riemergente mondo contadino?

Si può riconoscere come centrale la trasformazione dei rapporti tra le persone, tra i soggetti sociali che spartiscono il pane che nasce dal contadino coltivare con cura il territorio? E che diviene cooperazione, affidamento reciproco, un’altra ragione, comunicativa e non solo, o non più strumentale?

In questi processi infatti (in alcune filiere dirette alimentari in particolare) non solo muta la natura e la struttura della domanda sociale e dell’offerta contadina sulla base del valore d’uso e della qualità dei beni; ma si esprime anche un’etica della relazione intersoggettiva oltre il mercato competitivo. Principi e pratiche che costruiscono ‘un comune’, tracce di comunità; e determinano forme sociali di patti fiduciari, pratiche solidali e democratiche interattive, ed espressioni di ‘sovranità’: sovranità alimentare e costruzione del territorio bene comune.

Credo che questo abbia a che fare con la ricostruzione della ‘affettività’, come tu hai definito ciò che abbiamo perduto: è così?

EO – Premetto che non userei il termine ‘nuova ricchezza’ (parola che io ho riferito a ciò che si perseguiva nello sviluppo del dopoguerra), e soprattutto vorrei chiarire una cosa essenziale: più io divento ricco, più un altro diventa povero; perché è chiaro che non andiamo a prendere nulla su Marte, ma ogni volta sottraggo qualcosa degli altri. Noi abbiamo goduto della ‘ricchezza’ sulla pelle di chi moriva di fame: addirittura con qualche guizzo di commozione quando vedevamo un negretto che moriva. Non usiamo quindi qui il termine ‘ricchezza’ ma quell’altro termine che anche tu hai usato: quello di ‘valore’,qualcosa che ci permette di vivere, un valore fondamentale.

E quindi abbiamo scoperto, riprendendo anche il tuo discorso, come questa dimensione possa giocare un ruolo fondamentale nella ricostruzione di patti, cooperazione, tra persone…. Ma alla base di queste relazioni vi è un atto fondamentale, che è la complicità: tu, nell’andare a comperare con i gruppi di acquisto solidale dal contadino, già ti dichiari contadino, perché sei suo complice. C’è il contadino diretto ed il contadino complice. Dopo di che io, che non faccio materialmente il contadino, che non vado a zappare, devo diventare complice quando mi metto in relazione con il contadino. ‘Tu produci il pane anche per me e io in cambio ti do … non so: qualche metro di pellicola?. Sono un contadino che ha deviato … però io sono solidale con te e devo con te partecipare alla conoscenza di questi valori. Devo partecipare con te nel sapere che la melina è più buona della melona’.

Ferraresi e Olmi nel corso del loro dialogo/intervista.

E quando io dico ‘la democrazia’ intendo i valori della convivenza umana consapevolmente condivisi. Il protagonista della produzione del frutto naturale è il contadino che sa quello che sta facendo e che non è più ‘ignorante del processo della scienza’, ma conosce i fenomeni e rispetta ancor meglio la terra. Ma questa è una conquista della ‘sua scienza’, che non è la scienza che viene solo importata dallo scienziato. Guai se si contasse su quei pochi che pensano per tutti. Invece ogni singolo contadino deve essere all’altezza di ciò che fa. Un errore gravissimo sarebbe quello di creare una categoria separata di ‘teste pensanti’ che studiano l’applicazione del cambiamento fatta attraverso un criterio da accademia delle scienze, mai più così. Chi sempre ingarbuglia le cose sono coloro che ritengono di collaborare attraverso la convinzione per cui ‘quello che io so tu non lo sai’, cercando di far dipendere le persone da loro. Ma questo non è vero: sono io che dipendo dal contadino…. è chiaro che se faccio il dentista, quando il contadino ha il mal di denti riconoscerà in me il suo interlocutore. Le cose sono semplici, ma c’è sempre qualcuno che vuole un po’ di potere.

GF – Ciò che dici vale in particolare anche per il nostro contributo di ricerca, di studi e di progetti in rapporto con il mondo contadino; e vale anche la metafora del dentista. Credo che si debba essere ‘dipendenti dai contadini’ per quanto riguarda i loro saperi, ma essere d’altra parte interlocutori che forniscono un loro contributo se è richiesto un altro nostro sapere. Questo può chiamarsi propriamente un atteggiamento di ‘ascolto attivo’ da cui partire per ogni rapporto di dialogo e reciproco scambio col sapere contadino. Il contrario della ‘colonizzazione’ da parte degli esperti.

EO – Ma perché l’uomo sia protagonista deve avere una realtà a sua misura; la cosa fondamentale è che il contadino non sia più uno strumento come il cavallo, ma che sia lui il protagonista – e la nostra sapienza è quella di riconoscere il fatto che la sua sapienza è fondamentale.

GF – Ma dove si colloca l’agricoltura contadina che esprime questa sapienza; quale la sua “misura”, la forma e modalità di produzione?

EO – L’agricoltura è cambiata in questi decenni, ed anche la società. Si sono succedute ed in parte sovrapposte diverse forme di organizzazione dell’agricoltura: dal latifondo (i contadini ‘schiavi’), alla mezzadria, all’agricoltore imprenditore diretto (padrone o no del terreno) che convive con la grande impresa capitalistica nel sistema agroalimentare industriale e della grande distribuzione. E che vive la competizione diffusa del capannone, cui si cede spesso il suolo agricolo (appunto la fase del dominio del valore immobiliare). Ma è qui, nella crisi di questo sistema, che inizia a proporsi la via contadina emergente, con il lavoro diretto del coltivare nella piccola e media impresa, cominciando dai pezzetti di terra, producendo qualità locali, trovando interlocutori cui vendere quei prodotti di qualità, riconoscendo quali sono i terreni più adatti alle specifiche coltivazioni, facendo alternanze. E facendo anche alleanze cooperative tra produttori e con chi compra i loro prodotti (i loro ‘complici’); producendo quindi nel territorio un’economia comune, ma utilizzandolo al meglio, valorizzandolo nelle sue diversità in relazione.

GF – Qui ritorna il tema del valore territoriale, alternativo a quello dell’urbanizzazione, che è appunto valore locale, che risiede nei diversi caratteri dei luoghi. Non soltanto dei terreni, ma dei territori, dei saperi incorporati nel fare agricoltura, diversità di culture oltre che biodiversità.

EO – Allora, ho ricevuto da un grande vignaiolo un pacco che conteneva un sacchetto di farina e vari tipi di pasta fatta con farina di farro. Nel pacco c’era una scheda che descriveva il tipo di farro, il luogo di coltivazione, le caratteristiche della terra: l’identikit della farina. E tutto di una bontà indescrivibile. Il prezzo per ora è certamente superiore rispetto a quello del supermercato, ma tu con un margine minimo in più di costo hai la qualità di prodotto; anziché mangiare una cofana di pastasciutta te ne mangi meno. La cofana fa venire la cellulite alle signore, e siamo tutti devastati dal diabete… i bambini con il diabete! Incredibile! Abbiamo tutti gli elementi, ora, per ricominciare da capo. Mentre la natura è sempre la stessa, noi siamo cambiati: e ora la valorizzeremo meglio, la ameremo di più.

GF – Ma anche il prezzo ‘superiore’ del cibo contadino è solo ‘per ora’ (e non sempre anche già in questo momento); perché con le filiere corte dirette cominciamo a riappropriarci dell’80% del costo del cibo (che andrà nel retribuire il lavoro contadino e diminuire il prezzo al consumo) che attualmente va nelle mani della trasformazione industriale e soprattutto della grande distribuzione. Ed in questo consiste anche la sovranità alimentare. Ma a questo proposito, si deve riconoscere la sovranità alimentare come una questione di importanza generale, come altre che abbiamo già indicato (il valore territoriale, la biodiversità, le forme sociali solidali) e che nascono dalle pratiche delle esperienze contadine, ma che divengono in rete una ‘via campesina’ che percorre tutto il mondo almeno come segno di contraddizione della globalizzazione e del degrado del mondo vivente. Una ‘via’ di rilevanza mondiale che è chiamata a confrontarsi con quelle politiche come con le scelte nazionali ed europee sull’agricoltura. Ti chiediamo, allora: qual é il compito di questo mondo di esperienze vive? Devono assumersi il compito esplicito del conflitto e del cambiamento di quelle politiche che continuano a colpire la via contadina, anche se come superpotenze in crisi (gli eserciti in ritirata sono i più crudeli, distruggono, stuprano, lasciano terra bruciata dietro di sé)? O il loro compito, come ci pare tu ritenga, è il continuare ad agire come brace sotto la cenere, in autonomia, privilegiando e consolidando le proprie forme di presenza e di organizzazione solidale?

EO – Sono convinto che ognuno di noi non deve pensare prioritariamente a mettersi in relazione al mondo. Ognuno di noi deve mettersi in relazione alla realtà in cui vive. Allora sì che il suo comportamento sarà visibile, e potrà così anche comunicare con il mondo. Tutti devono partire per quello che sono (e quindi o contadini o complici), senza fare proclami di principi generali, mettersi a fare le cose. E questo sta già avvenendo in diversi modi.

Ma di questo, ad esempio, non ritrovo traccia in Expo 2015, da cui sono stato chiamato per dare un mio contributo (*1): ed il mio disagio è che forse si sta sprecando una grande opportunità. In una delle riunioni con i curatori di Expo ho avuto una di quelle esperienze su cui mi sono già espresso prima, denunciando la vacuità e la non relazione di molti esperti con i soggetti e i processi reali sul campo. Tanto che, per fare capire il mio dissenso, non ho avuto altro modo che prender una di quelle famose antiche meline ‘selvatiche’ e metterla sul tavolo attorno a cui si stava discutendo. Ed ho poi dovuto spiegare il significato del gesto: il nutrire il pianeta non può che rimettere al centro il cibo naturale ed i modi della sua produzione – che non sono quelli dell’industria agricola di cui si vuol discutere a livello mondiale in quella sede.

GF – L’impostazione di Expo, per il carattere che ha assunto, trova la sua contraddizione più rilevante rispetto al proprio stesso tema nella mancata relazione diffusa, in generale, con la città ed il territorio in cui si colloca (si rimanda anche alla proposta di ‘Expo diffusa e sostenibile’), ma soprattutto con il suo grande sistema agricolo (il Parco agricolo Sud ed oltre) e con le pratiche contadine e sociali solidali di trasformazione di quella agricoltura, che dovrebbero essere la base di una proposta di Expo in cui confrontarsi col mondo sul nutrire il pianeta ‘partendo da sé’, come tu dici, e dalla propria responsabilità territoriale.

Ma al di là del caso di Expo, e dovendo avviarci purtroppo a concludere il nostro colloquio, ti ringraziamo anche del tuo ulteriore contributo su questa ultima questione che ti abbiamo posto tra la scelta di autonomia/testimonianza delle pratiche contadine (che ci pare caratterizzi molto la tua opinione) e l’esigenza di confronto/proposta (o conflitto) con i poteri e le politiche su agricoltura, territorio e modello di sviluppo, sulla base dei valori importanti per l’intera società che quelle esperienze hanno messo in campo. La tua risposta è un arricchimento del tema da cui vorremmo ripartire per continuare il dialogo; teniamo aperta allora questa domanda come proposta di non lasciare cadere questo fertile rapporto con te.

Nota

Prima di fare questa ‘intervista’ con Olmi ci eravamo chiesti quale natura potesse assumere il suo contributo a Expo 2015 a Milano richiestogli dai promotori dell’evento. In realtà Olmi ha tradotto il suo contributo all’Expo nella proposta di un’opera sul tema delle acque, che costruiscono e nutrono questo territorio dell’agricoltura partendo dai ghiacciai delle Alpi sino al territorio fertile della piana padana e di Milano. Un ‘colpo d’ala’ di Olmi oltre i limiti dell’esposizione da lui stesso rilevati. La sua opera, la sua visione delle acque, cattura l’interesse di noi territorialisti, visto che nella nostra storia di studio, proposta e pratiche trasformative in Lombardia e nell’area di Milano vi è stata proprio la produzione, attorno al ’90, di un progetto di ‘bonifica e riconversione ecologica del territorio’ che ha rinominato l’area metropolitana milanese con i nomi dei bacini dei fiumi Lambro, Seveso e Olona (tra Ticino e Adda): una rete fluviale ed un sistema complesso di acque che sono stati la matrice della grande struttura agricola di questa piana, generando anche il sistema urbano storico, prima che la sua bulimia degradasse il territorio e l’agricoltura. Ma, su questo, rimandiamo alla visione di questa opera di Olmi – che costituirà per noi un altro modo ancora di continuare il dialogo.