Crescita e declino del sistema cloro

Valeria Spada e Caterina Tricase, “Crescita e declino del sistema cloro. L’industria cloro-soda in Europa. Aspetti merceologici, economici e ambientali”, Torino, G. Giappichelli, 2001

La prima merce ottenuta dal riciclo di un agente inquinante

I libri che trattano la storia economica e industriale generalmente trascurano o trattano poco gli aspetti tecnici, merceologici, dei settori trattati. D’altra parte i libri di chimica industriale e merceologia sono spesso noiosi e di non gradevole lettura per il lettore comune.

Qui ci troviamo di fronte ad un libro che accompagna, in un lungo e avventuroso cammino, alla scoperta di una delle merci più interessanti e controverse, il cloro. Esaltato e odiato, ammirato per la sua capacità di alleviare il dolore quando è stato presente nel cloroformio, poi per i suoi derivati impieganti come “pulenti” del piombo tetraetile addizionato alle benzine, poi scoperto come presente in sgradevoli e tossiche sostanze, come il cloruro di vinile e i solventi clorurati, il cloro è stato studiato, nei suoi innumerevoli derivati, da un gran numero di giganti che “hanno fatto” la storia della chimica e dell’industria.

Inventori a volta a volta inventori sfortunati, come il povero Leblanc finito in miseria, o fortunati come Midgley, finito malato anche lui, si affacciano nelle, e occupano le, pagine di questo libro che utilmente potrebbe stimolare altre ricerche e approfondimenti secondo la migliore – e purtroppo in graduale declino -. tradizione della Merceologia, la scienza che studia come sono fatte le merci,  da dove vengono, a che cosa servono e dove vanno a finire. Sono contento di tenere a battesimo – se così si può dire –  questo libro perché il cloro e i suoi problemi mi hanno accompagnato per oltre mezzo secolo; quando ero un giovane assistente ho svolto le prime esercitazioni universitarie sulla base di un libro, molto bello e dimenticato (anzi ormai introvabile) di Walter Ciusa (1906-1989) che era il titolare del corso di Merceologia a Bologna. Era intitolato: “I cicli produttivi e le industrie chimiche fondamentali”, Bologna, Zuffi, 1948; seguito da una edizione ampliata: ”Aspetti tecnici ed economici di alcuni cicli produttivi”, Bologna, Zuffi, 1954. In quei lontani libri e corsi c’erano già molti dei protagonisti e degli eventi della storia merceologica e tecnico-scientifica qui narrata dalla prof. Spada e dalla dott. Tricase: Leblanc, Solvay, Scheele, Haber, eccetera.

Fra tutte le merci il cloro occupa infatti una posizione particolare. Il  cloro – un gas molto  irritante  per  gli esseri  viventi,  corrosivo per i  metalli,  con  forte potere ossidante, al punto da uccidere i  microrganismi e da distruggere molte sostanze organiche – è diventato un prodotto commerciale quasi per caso.

Nella prima metà del 1800, come questo libro spiega con molti dettagli, nasceva l’industria  chimica moderna con la fabbricazione dell’acido solforico e del carbonato di sodio, la “soda”, quest’ultimo prodotto  richiesto principalmente per il lavaggio dei tessuti. Il  primo processo per produrre la soda, inventato dal medico francese  Nicola Leblanc, era  complicato,  ma geniale:  la materia prima era il cloruro di sodio,  il comune sale ottenuto per evaporazione  dell’acqua  di mare  o estratto dalle miniere di salgemma, che veniva trattato  con acido solforico. Dalla reazione si  forma solfato di sodio e acido cloridrico; il  solfato di sodio veniva poi trasformato in carbonato di sodio  e l’acido cloridrico veniva scaricato nell’atmosfera. Il  processo Leblanc  rappresentò il  primo  caso di massiccio inquinamento atmosferico industriale e  anche uno dei primi esempi di depurazione che genera  merci vendibili.

L’acido cloridrico immesso nell’atmosfera non solo arrecava irritazione e danni alla salute umana,  ma distruggeva la vegetazione e i raccolti al  punto da provocare una  forte protesta popolare da  parte dei cittadini e dei contadini che vivevano accanto alle fabbriche: anzi si può ben dire che la contestazione  ecologica nacque proprio in  Inghilterra nei primi decenni del 1800. Ci  sono pervenuti gli atti di inchieste  parlamentari, dei  processi che portarono alla condanna  degli  industriali,  di interventi degli studiosi a  favore  degli inquinatori  o in difesa dei cittadini inquinati, come sempre  avviene  in tutte le controversie  relative  ai casi di inquinamento. Il lettore curioso troverà qualche dettaglio, in aggiunta a quelli del libro, nel sito Internet: <http://scienza.quipo.it/scripts/netpaper>

Nel 1863 il Parlamento inglese approvò una  legge – l’Alkali  Act – che istituiva uno speciale ufficio  per la  lotta all’inquinamento industriale – l’Alkali  Inspectorate  – e imponeva alle fabbriche di soda  di  non immettere  più l’acido cloridrico nell’atmosfera e  di farlo  assorbire  in acqua.  Gli  industriali  venivano così  ad avere grandi serbatoi pieni di  soluzioni di acido cloridrico che non sapevano però dove mettere  o scaricare.

Per continuare a lavorare gli industriali si guardarono intorno e scoprirono che il chimico svedese  Scheele aveva  descritto, quasi un secolo prima,  una  reazione che consentiva  di trasformare l’acido  cloridrico  in cloro. Ai tempi di Scheele non c’era un mercato per  il cloro, che pure aveva mostrato di  possedere  proprietà ossidanti e disinfettanti, ma nella  metà del 1800 queste   caratteristiche del cloro cominciavano a presentare interesse merceologico e limitate quantità di cloro cominciarono ad essere acquistate dall’industria tessile, dall’industria della carta, dai primi  impianti di disinfezione delle acque potabili e di trattamento delle acque di fogna. Fra il 1866 e il 1874 i chimici Weldon e Deacon  inventarono due perfezionamenti del processo per la trasformazione  industriale dell’acido  cloridrico in cloro, e il cloro, nato come prodotto di ricupero per risolvere un caso di  inquinamento, fece il suo ingresso fra i grandi prodotti industriali.

Per  alcuni decenni il suo uso principale fu limitato alla sbianca della carta  e dei tessuti e al trattamento e depurazione delle acque, ma, con i progressi della chimica organica, si vide ben presto che il cloro “si attaccava”  a un gran numero di molecole: nacque così la  chimica organica del cloro, con conseguente  rapido aumento della sua richiesta.

Tale aumento si verificava troppo tardi per  assicurare la sopravvivenza del processo Leblanc che fu  sostituito, a partire  dal 1880, dal  processo Solvay,  meno costoso e meno inquinante, che produceva il  carbonato di sodio – ancora oggi noto come “soda Solvay” – senza formazione di acido cloridrico come sottoprodotto.

Mentre  aumentavano gli usi del cloro, veniva  così a mancare la disponibilità della materia prima,  l’acido cloridrico;  fu  allora messo a punto un  processo  che produceva cloro per elettrolisi del sale (il cloruro di sodio è la materia di partenza per la complessa  famiglia  delle sostanze alcaline e del cloro); insieme  al cloro si forma – come spiega dettagliatamente il libro – idrato di sodio, una sostanza  richiesta per la produzione di saponi e per le sintesi chimiche.

L’inconveniente  sta nel fatto che il cloro e  l’idrato di sodio si formano insieme, in quantità quasi uguali, e  il processo elettrolitico ha successo se il mercato richiede uguali quantità dei due prodotti, anzi dei due co-prodotti –  ciò  che raramente  avviene. Se il mercato richiede più  idrato di  sodio, una parte di questo può  essere fabbricato dal carbonato di sodio; se il mercato  richiede  più cloro,  l’eccesso di idrato di sodio può essere trasformato  in  carbonato di sodio. Insomma, come il lettore ben vedrà in questo libro, esiste uno stretto rapporto fra le tre sostanze: cloro, idrato  di sodio, carbonato di sodio.

 

Fortune e sventure del cloro

Strano destino, quello del cloro e dei suoi derivati: salutati, alla loro nascita, come scoperte rivoluzionarie e liberatorie, hanno spesso svelato, dopo qualche tempo, di nascondere delle trappole tecnologiche da cui è stato faticoso e costoso uscire. Non c’è dubbio che, come disinfettante delle acque, il cloro ha contribuito a debellare molte malattie portate da batteri e virus; solo dopo un secolo si e’ visto che il  cloro  provocava anche la  formazione  di  sostanze indesiderabili.

Uno dei primi derivati organici del cloro fu il  cloroformio, salutato con entusiasmo come sostituto dell’infiammabile etere per le sue proprietà narcotiche ed anestetiche nelle operazioni chirurgiche; solo  più tardi sarebbe stato scoperto che il cloroformio è velenoso e ne sarebbe stato vietato l’uso in anestesia.

I composti organici del cloro sono in genere non infiammabili e la scoperta che molti derivati del cloro – trielina, tetracloruro di carbonio, percloroetilene, eccetera – sono buoni solventi, non infiammabili, dei grassi permise di sostituire altri solventi infiammabili,  come  il solfuro di carbonio e la  benzina, usati nell’industria olearia.

Il cloro e i suoi derivati cominciarono ad avere cattiva stampa durante la prima guerra mondiale (1914-1919). I tedeschi, che avevano in quel tempo la più progredita  industria chimica del mondo, usarono il cloro  come gas  asfissiante già nel 1915 a Ypres, nel Belgio;  si vide  ben presto, però, che, se cambiava il vento,  il cloro  poteva intossicare gli stessi  soldati  tedeschi che  lo avevano lanciato; il “perfezionamento”  arrivò subito  sotto forma di  fosgene  (cloruro  dell’acido carbonico),  un  gas asfissiante molto  “migliore”  del cloro, e  di iprite, altro composto  clorurato,  usato contro i franco-italiani a Ypres nel 1917.

L’uso dei gas asfissianti sollevò una protesta generale  che portò, nel 1925, al primo trattato che vietata l’uso  in  guerra di aggressivi  chimici;  l’iprite  fu tuttavia usata dagli italiani durante la guerra  contro l’Abissinia  nel 1936. I gas  asfissianti  non  furono usati  durante la seconda guerra  mondiale  (1939-1945) sui campi di battaglia, benché gli eserciti in  guerra ne  avessero  delle  scorte pronte all’uso (una  nave americana  carica di fusti di iprite esplose nel  porto di Bari  nel  1943  in  seguito a  un bombardamento tedesco). Certamente gas di guerra clorurati sono stati usati occasionalmente nei conflitti locali nell’ultimo mezzo secolo, anche se le notizie sono contraddittorie.

Alcuni successi e le loro ombre

Negli  anni  venti  e trenta la  chimica  dei  composti organici  clorurati fece grandi progressi: fu  scoperto che  il cloro modificava numerosi idrocarburi  fornendo composti clorurati suscettibili di impiego come solventi, per la preparazione di materie plastiche, di  gomme sintetiche, di insetticidi. Nello stesso tempo aumentava  la  richiesta di cloro nelle  industrie  tessili  e della carta e nel trattamento delle acque.

Fra i successi del cloro vi fu la scoperta del  cloruro di vinile, un derivato clorurato ottenuto dall’acetilene o dall’etilene, che poteva essere  facilmente  trasformato  in  una materia plastica destinata  a  grandi fortune e ad altrettanto grandi polemiche. La  produzione industriale del cloruro di vinile e  del cloruro  di polivinile (PVC) cominciò nel 1928  negli Stati Uniti e nel 1933 in Germania; la loro fortuna era dovuta al fatto che con il PVC potevano essere  fabbricati  tubi,  lastre, oggetti  stampati,  sacchetti  per imballaggi, rivestimenti per fili elettrici, duraturi, non infiammabili, elastici. Soltanto a partire dagli anni 50 e’ stato scoperto  che il cloruro di vinile monomero, la materia prima per  le resine PVC, e’ tossico; a partire dal 1970 fu  scoperto che  è  anche cancerogeno e che i  manufatti  di  PVC, quando sono bruciati negli inceneritori  di  rifiuti, provocano la formazione di acido cloridrico corrosivo e inquinante.

Il DDT e la primavera silenziosa

Un altro successo del cloro si ebbe negli anni quaranta, quando fu scoperto che un idrocarburo clorurato – il dicloro-difenil-tricloroetano, o DDT – noto già molti decenni prima – presentava eccezionali proprietà insetticide. Con massicci impieghi di questa polvere i  soldati americani  riuscirono  a sopravvivere  nelle  paludi  e nelle giungle asiatiche, nelle zone europee  infestate dalla malaria, a impedire la diffusione dei  parassiti nei  campi di prigionia, fra i popoli  affamati,  nelle città devastate dai bombardamenti.

Già  negli anni cinquanta fu però  scoperto che il “miracoloso” DDT  e altri  simili  pesticidi  clorurati, grazie alla loro eccezionale stabilità chimica, restavano inalterati nel suolo, nei raccolti, negli animali; anzi, essendo solubili nei grassi, passavano attraverso le  catene  alimentari  dal suolo,  ai  vegetali,  agli animali, alle acque, agli uccelli, ai pesci. Quasi subito furono stabilite delle dosi massime per  i residui  di DDT ammessi nei prodotti alimentari.  Nella seconda metà degli anni cinquanta, però, la diffusione del DDT nelle catene alimentari cominciò ad apparire un fatto non più locale, ma planetario; residui  di DDT  e dei suoi prodotti di trasformazione furono  scoperti addirittura negli oceani lontani dai campi coltivati e dalle zone antropizzate.

Ciò indicava che il DDT dai campi e dagli  escrementi si  diffondeva negli oceani e veniva trasferito  da  un animale  all’altro fino a diventare un contaminante  di tutta la biosfera. Il DDT fu trovato nel latte delle madri, che lo avevano assorbito  dal latte e dalla carne delle mucche  e  dai cereali  e dalla verdura, con un continuo effetto di accumulo;  in certi periodi la concentrazione  del  DDT nel  latte  materno è risultata  superiore  a  quella massima ammessa per il latte in commercio.

La svolta decisiva si ebbe nel 1962 quando una  biologa del  Dipartimento  dell’Agricoltura  americano,  Rachel Carson, scrisse un libro-denuncia intitolato “Primavera silenziosa”. Il libro spiegava che, se si fosse  continuato nell’uso agricolo indiscriminato degli insetticidi clorurati, questi si sarebbero diffusi in tutti  gli esseri viventi al punto che un giorno, morti anche  gli uccelli, la primavera sarebbe divenuta, appunto, silenziosa. Il libro ebbe un enorme successo e portò rapidamente, nonostante l’irritata opposizione dell’industria chimica e gli innegabili vantaggi di un pesticida efficace e a  basso costo, al divieto dell’uso del DDT e di  altri simili pesticidi clorurati.

Il caso diossina

Un  nuovo  punto a sfavore del cloro fu  offerto  dalla guerra nel Vietnam (1963-1975); per snidare i partigiani Vietcong dalla  giungla in cui  si  nascondevano, protetti dalla popolazione locale, gli Stati Uniti  per anni hanno distrutto vasti tratti di foresta  tropicale irrorandola  con grandi quantità di erbicidi,  principalmente  dell'”efficace”  2,4,5-T. Si trattava di un sale dell’acido  triclorofenossiacetico, a  sua  volta derivato dal triclorofenolo, altro composto  clorurato usato  per preparare anche prodotti cosmetici come il disinfettante esaclorofene.

Intorno  al 1970 cominciarono ad apparire  degli  studi che  rivelarono  nella popolazione vietnamita,  e  poco dopo  anche nei soldati americani reduci  dal  Vietnam, varie malattie dovute all’assorbimento di una  sostanza fino allora quasi sconosciuta, la diossina (chimicamente 2,3,7,8-tetraclorodibenzo-para-diossina), un  contaminante dell’erbicida. Per farla breve si scoprì che le industrie che  fornivano l’erbicida 2,4,5-T all’esercito americano vendevano una qualità merceologica impura, contenente piccole quantità di diossina che si forma come impurezza nella fabbricazione  del triclorofenolo. Il cloro si  trovò così coinvolto non solo come ingrediente di un processo industriale che genera una sostanza altamente tossica,  ma  anche, di nuovo, in una polemica  sull’uso  in guerra delle armi  chimiche (uso  da  anni  illegale) contro un territorio abitato dalla popolazione civile; anzi di armi chimiche i cui effetti colpivano gli stessi soldati americani.

La  polemica si sarebbe fermata ai danni  ecologici  ed umani delle armi chimiche da parte di una grande potenza – che in quegli anni, per inciso, si vantava di essere all’avanguardia nella battaglia ecologica – se la diossina non avesse fatto la sua vistosa  comparsa, qualche anno dopo, il 10 luglio 1976, nelle cronache di tutto il mondo. Quel giorno, un sabato, in una  piccola fabbrica di triclorofenolo a Meda, a nord di Milano, la ICMESA, si ebbe  un’esplosione che fece uscire dal camino una “nube” contenente, in finissima dispersione,  circa  2 kilogrammi  di diossina che ricadde su  alcuni  ettari del  territorio del vicino comune di Seveso, con  danni alle  persone  e  morte di numerosi  animali.  Il  nome Seveso divenne così sinonimo della presenza di fabbriche pericolose, in zone densamente popolate, all’insaputa degli abitanti.

L’uso degli erbicidi e dell’esaclorofene, derivati  dal triclorofenolo,  fu gradualmente ridotto o vietato,  ma il tutto contribuì ulteriormente a mettere in  discussione l’utilità del cloro.

L’incidente  alla ICMESA provoco’ un eccezionale  interesse  per la diossina, per la sua chimica, per la  sua diffusione  nell’ambiente.  Ci si ricordò che  altri incidenti, con fuoriuscita di diossina, si erano verificati in altre fabbriche di clorofenolo; la necessità di misurare la contaminazione del suolo e degli edifici spinse a mettere a punto nuovi metodi di analisi della diossina. Anzi “delle diossine” perché i composti clorurati della dibenzo-diossina sono molte decine, con diverse proprietà chimiche e diversa tossicità.

Si  vide allora che la diossina si formava anche  negli inceneritori  di  rifiuti  solidi urbani,  a  causa  di reazioni  fra  il PVC o altre  molecole  clorurate  con altri componenti dei rifiuti; che la diossina si formava nel corso dell’uso e della distruzione dei  bifenili policlorurati (o PCB), i fluidi isolanti elettrici  dei trasformatori, che tanto favore avevano fino allora incontrato proprio per la loro resistenza agli incendi. Si scoprì che la diossina si formava nella combustione delle  traversine  ferroviarie di legno  impregnate  di pentaclorofenolo, eccetera. Ciascuna  di queste scoperte provocò nuove leggi più rigorose nella progettazione degli inceneritori,  nuovi divieti e contribuì ad erodere ulteriormente il favore goduto dal cloro

Il buco dell’ozono

Negli  anni  trenta i frigoriferi usavano come  fluido frigorifero  ammoniaca o anidride  solforosa,  sostanze irritanti  e  tossiche; si era ancora  all’alba,  anche negli Stati Uniti, della diffusione dei piccoli  frigoriferi  domestici per i quali occorreva qualche  fluido frigorifero  non tossico, poco costoso, non  corrosivo, non puzzolente, non infiammabile.

La  risposta  fu  offerta da  alcuni  composti  gassosi contenenti cloro e fluoro, i vari clorofluorocarburi, o CFC,  inventati  prima del 1940, ma  divenuti  di  uso comune  dal  1950  in avanti  nei  frigoriferi  (alcuni miliardi di unita’) che hanno invaso le case in   tutti i paesi industriali. La produzione di CFC aumentò rapidamente, tanto piu’  che si  rivelarono preziosi anche come  fluidi  propellenti nei preparati spray (vernici, cosmetici,  insetticidi), come solventi industriali, come agenti per il rigonfiamento delle materie plastiche espanse usate come  isolanti termici, nelle imbottiture di divani e sedili per autoveicoli, eccetera.

Intorno al 1980 alcuni studiosi osservarono una graduale diminuzione della concentrazione del sottile  strato di  ozono che si trova nella stratosfera, fra 20 e 30 kilometri  di  altezza;  l’ozono  stratosferico ha la preziosa funzione di filtrare una parte, quella biologicamente nociva, della radiazione ultravioletta inviata dal Sole verso la Terra. Dopo lunghe polemiche si è scoperto  che la decomposizione dell’ozono è dovuta  a reazioni  complicate  che coinvolgono i  gas  clorurati come i CFC o i solventi clorurati liberati dalle attività  antropiche sulla superficie terrestre e  diffusi nella troposfera e poi nella stratosfera. Come se non bastasse fu riconosciuto che i CFC contribuiscono anche a quell’ “effetto serra” che comporta l’ “intrappolamento” di una crescente frazione del calore solare sulla superficie degli oceani e dei continenti e conseguenti modificazioni del clima,

Attualmente  vi  sono norme internazionali  per  il  graduale divieto  della fabbricazione e dell’uso dei  CFC;  sono stati  vietati come propellenti per prodotti spray,  ma vengono ancora usati, e si trovano presenti, in innumerevoli merci da cui si libereranno lentamente in  futuro. Tanto che sono prevedibili, ancora per molti  anni, una   progressiva  diminuzione  della  concentrazione dell’ozono  stratosferico e un lento  graduale  aumento del  flusso di radiazione ultravioletta dannosa  (UV-B) sulla superficie della Terra.

La domanda di “carta ecologica”

Negli anni recenti, col crescere dell’attenzione per il cloro e i suoi effetti nocivi,  sono  state  condotte indagini  più accurate anche nel campo degli usi  più antichi e apparentemente consolidati del cloro.  Alcuni studiosi hanno cominciato, per esempio, a guardare  che cosa  succede durante la sbianca della carta che, come è noto, è costituita da fibre di cellulosa  ricavata dal  legno; nel legno la cellulosa è accompagnata da altre sostanze, come emicellulose e lignine, che vengono separate con vari processi chimici e meccanici. La  carta e’ poi resa più bianca per  trattamento  con cloro: ebbene si è visto che il cloro, durante  questo trattamento, provoca la formazione di composti clorurati, di composizione non ben chiara, che finiscono nelle acque e sono nocivi per la fauna.

In molti paesi l’uso del cloro  nell’industria  della carta  e’ scoraggiato o vietato; alcune cartiere  usano biossido di cloro al posto del cloro, altre usano acqua ossigenata  o ozono; vi sono ormai in commercio delle carte  dichiarate “ecologiche” e “senza cloro”, il  che mostra  che i fabbricanti sono consci della crescente sensibilità dei consumatori per i trattamenti  ecologicamente meno nocivi.

Altre sostanze clorurate  inquinanti e nocive sono risultate presenti nelle acque usate depurate con cloro e  anche,  talvolta, dopo il trattamento con  cloro  di alcune acque potabili.

Il contestato albero del cloro

I  pochi precedenti fatti hanno fatto nascere un  vasto movimento che comincia a mettere in discussione  tutto intero il “sistema cloro”. Vari rami del grande  albero del cloro hanno gia’ cominciato ad essere  potati: il ramo degli  insetticidi  clorurati, quelli di molti solventi  clorurati, dei clorofluorocarburi, di  molti usi del fosgene, il ramo dei clorofenoli, e altri ancora. Come se ciò non bastasse, alcuni incidenti stradali e ferroviari sono stati accompagnati da  fuoriuscite  di  cloro, di cloruro di vinile e  di  altri composti clorurati tossici.

La polemica è ormai così vivace che varie associazioni ambientaliste, specialmente Greenpeace, stanno sostenendo una campagna perché il cloro sia vietato in tutti i suoi usi. Naturalmente la grande industria chimica ha mobilitato i suoi scienziati per sventare il pericolo. Come spesso avviene, il potente cartello internazionale dei produttori di cloro sta spiegando che, se  corresse dietro alle fanfaluche degli ecologisti e non si usasse piu’  il  cloro, per esempio, nella depurazione delle acque, milioni di persone  morirebbero  di  infezioni intestinali: una difesa d’ufficio che  convince  poco perché le acque possono essere disinfettate con  ipocloriti, con acqua ossigenata, con ozono.

I  difensori d’ufficio dell’industria del cloro hanno allora  scoperto che le sostanze  organiche  clorurate, non associate ad attività antropiche, sono estremamente diffuse in natura: si formano nei processi biologici naturali, si  trovano nelle  emanazioni  dei vulcani, eccetera. Anche questa obiezione vale poco perché, ai fini  della difesa della salute umana e  dell’ambiente, interessano le sostanze tossiche di origine  antropica, che coinvolgono  gli esseri umani  come  lavoratori  e consumatori.

Più sensata è l’obiezione che il cloro è necessario anche per la fabbricazione di alcune sostanze utili come medicinali e nella produzione del cloruro di silicio, la materia prima per il silicio per chips da calcolatori e celle fotovoltaiche.

Il libro – dopo avere esaminato tutti i dettagli della controversa storia del cloro – finisce con uno sguardo al futuro, mettendo in evidenza che è ragionevole pensare che  molti usi dei composti clorurati vengano gradualmente eliminati e che la richiesta di cloro diminuisca. Ci  sarà il problema della messa a punto di processi alternativi per la fabbricazione dell’idrato di sodio – attualmente il co-prodotto del cloro da parte dell’industria  elettrolitica –  ma anche questi problemi  possono essere superati sul piano sia tecnico sia economico.

È comunque molto probabile che i consumatori trovino, in  molte merci, in futuro, un avvertimento  che sono state fabbricate senza impiegare il cloro. Sono così avvertiti che alcuni danni alla salute  sono stati evitati e che ci hanno guadagnato la salute dei lavoratori, la loro stessa salute e quella dell’ambiente.

L’analisi di questo libro è centrata sulla situazione produttiva e di consumo del cloro e dei suoi derivati e prodotti collaterali nell’Europa occidentale, secondo la definizione chiarita nel testo, ma inevitabilmente la storia merceologica qui descritta si intreccia con le innovazioni e i mercati di tutti i paesi industriali del mondo. Anzi, con la “scusa” dello studio della nascita, crescita e declino del cloro, il libro offre un ricco quadro su numerosi settori dell’industria chimica moderna alle soglie del XXI secolo.