Crisi ecologica e scelte politiche

Chi osa negare oggi la profondità della crisi ecologica che minaccia il futuro di noi tutti? Tuttavia soffriamo di una distanza sempre più insostenibile tra un’analisi condivisa del malessere ambientale e una terapia controversa, troppo lenta e blanda, quando non apertamente ostacolata.

Il recente Summit Rio + 20 del giugno scorso è l’emblema di questo stallo, per certi versi drammatico. Dopo 20 anni da quella Conferenza che aveva suscitato tante attese e speranze  non solo risulta deludente l’inventario di come siano andate le cose nella manutenzione della casa comune, ma appare clamorosa la non volontà di agire nella giusta direzione da parte della comunità internazionale.

Ma come? Tutti accolgono la globalizzazione economica come processo ineluttabile (e, per molti, desiderabile) e poi si scopre che proprio a quel livello è semplicemente assente una pur parvenza di governo capace di discernere quale percorso sia opportuno per salvare il bene natura e con esso il  futuro dell’umanità.

In realtà decisioni importanti vengono prese dalle istituzioni di governo, laddove queste esistono, in particolare dai governi nazionali. Ovviamente tutte nel segno delle “ragioni della globalizzazione” e del “Sono i mercati che ce lo chiedono!”. Insomma la “globalizzazione” appare sulla scena internazionale  come una sorta di fantasma, evanescente e irresponsabile (la “mano invisibile del mercato”) che poi però precipita a livello nazionale con una forza dirompente che impone decisioni necessarie, inoppugnabili, senza alternative. Un paradosso che sta mettendo a dura prova la democrazia così come l’abbiamo conosciuta, e vissuta, nella seconda metà del secolo scorso.

Ma non è questo il tema che vogliamo trattare. Ciò che qui interessa mettere in evidenza è che la “mano invisibile del mercato” è anche del tutto “non vedente” rispetto alla prospettiva delle condizioni naturali indispensabili all’esistenza delle future generazioni. Il mercato segue l’andamento quotidiano delle borse, gli odierni risultati di bilancio delle imprese, premiando chi offre profitti immediati, anche a costo di dilapidare senza criterio il patrimonio naturale. Non può permettersi il lusso di uno sguardo lungo, di considerare quali saranno le condizioni tra cinquanta o cento anni,  in termini di quantità e qualità delle risorse naturali disponibili per un’esistenza dignitosa e salubre dell’umanità sulla terra.

Esemplare a questo proposito l’ossessione del debito finanziario che, secondo i professori del Tempio del Mercato, la Bocconi, da irresponsabili vorremmo caricare sulle future generazioni. Qualcuno ha osservato che, se intanto evitassimo  di distruggere il sistema scolastico e universitario e le strutture sanitarie, alle future generazioni lasceremmo un patrimonio di servizi preziosi, a compensazione del debito. In verità, l’ossessione del debito non ha nulla a che fare con la preoccupazione delle generazioni future, bensì con la volontà di succhiare risorse finanziarie a lavoratori e pensionati per garantire gli alti e immotivati tassi di interesse che il mercato (o meglio la speculazione senza regole) pretende sul nostro debito.

Chi avesse davvero a cuore i giovani e le generazioni future dovrebbe preoccuparsi di ben altri debiti che lasciamo loro in eredità: oltre 10 milioni di ettari di superficie agraria e forestale distrutta dalla cementificazione selvaggia, cosicché mentre 50 anni fa un italiano aveva a disposizione mediamente una superficie produttiva pari ad un campo di calcio, oggi questa si è ridotta ad un terzo; un territorio, dunque, a tal punto devastato dal disordine urbanistico, che, in molte aree del Paese, basta un acquazzone troppo intenso per provocare frane e inondazioni con danni incalcolabili alle cose e alle popolazioni; un patrimonio edilizio che in generale fa acqua da tutte le parti, sia in termini di dispersione energetica, che di assenza di sistemi antisismici, poiché in Italia si è costruito troppo e molto, molto male, senza tener conto che ci troviamo su una delle faglie più attive di terremoti e che soffriamo di una storica carenza di energia fossile;   un sistema energetico che, nel Paese del sole, dipende ancora in gran parte dai combustibili fossili importati e comunque destinati all’esaurimento; 57 siti industriali inquinati (quelli per ora censiti) e migliaia di discariche abusive o incontrollate, con importanti e diffuse contaminazioni dei suoli, delle acque superficiali e di falda, e delle persone che vi abitano e con prevedibili effetti negativi sulla salute di centinaia di migliaia di abitanti attuali e futuri, qualora non si ponesse mano alle bonifiche, continuando nell’irresponsabile inettitudine di questi anni; una pianura Padana “di norma” con livelli di PM10 due, tre o quattro volte il limite che l’Ue prescrive come insuperabile per la tutela della salute umana, smog che gli esperti stimano accorci di 3 anni la vita media dei Padani, con diverse migliaia di morti all’anno.

Sono solo alcuni esempi dei debiti reali e pesantissimi che lasciamo alle generazioni future, di cui nessuno si occupa davvero, salvo qualche clamore  e buona intenzione in occasioni di eventi catastrofici, frettolosamente archiviati quando si spengono i riflettori dei mass media. Eppure sono debiti che hanno a che fare, non con la volatilità della finanza e con la stabilità dello spread, ma con questioni essenziali per la sopravvivenza umana: la sicurezza alimentare; la salubrità dell’acqua, dei suoli e dell’aria, in sostanza la salute delle persone; l’energia indispensabile per la riproduzione della vita e per l’organizzazione della società; la garanzia di un’abitazione sicura per la propria famiglia  e di scuole non pericolanti per i nostri figli, al riparo dagli effetti distruttivi, ma prevenibili, delle cosiddette “calamità naturali”.

La conversione ecologica è di questi debiti che deve farsi carico, oggi, perché non gravino sulle generazioni future, compromettendone seriamente la qualità della vita. So bene che l’idea di conversione ecologica, elaborata tanti anni fa da quel profeta tragico che fu Alex Langer, prevede anche altro: richiede come imprescindibile una coerenza etica nello stile di vita per cui ognuno, qui ed ora, deve costruire innanzitutto nel suo piccolo il futuro che propugna.

Per intenderci, non ci si può battere per una politica nazionale di risparmio energetico e di mobilità sostenibile e poi portare i bambini a scuola in Suv. La politica italiana, oltre che per le scandalose ruberie, sta pagando molto anche per le tante incoerenze di chi, come si usa dire, troppo spesso “predica bene e razzola male”.

Dunque gli stili di vita, la sobrietà, l’etica del quotidiano, sono indispensabili. E in verità, passi importanti in questa direzione si sono compiuti negli ultimi anni e non si contano le pratiche virtuose (consumo critico, bilanci di giustizia, Gas…).

Tuttavia, a volte, si ha l’impressione di una rinuncia quasi pregiudiziale al terreno della politica e del governo istituzionale. Vuoi per la sfiducia nella politica, peraltro abbondantemente giustificata, vuoi perché un trentennio di neoliberismo sembra che abbia insinuato un po’ in tutti l’idea che è solo nell’agone del mercato che si può cambiare qualcosa. È soltanto lì che gli interessi forti delle multinazionali o della grande finanza speculativa potrebbero essere contrastati da una miriade crescente di piccolo attori responsabili che esprimerebbero, sommandosi e moltiplicandosi, domande e bisogni alternativi.

Ma questo processo molecolare dal basso, mi chiedo, come può aggredire quei “debiti di sistema” a cui prima alludevo e che dovrebbero sostanziare la conversione ecologica?

Inoltre, vi è un altro aspetto che mi sembra venga del tutto ignorato. Il neoliberismo in questi trent’anni si è esercitato sul terreno ideologico, conquistando l’egemonia, con lo slogan “meno Stato, più mercato”.  Ma se andiamo a vedere che cosa è realmente avvenuto, scopriamo che ciò si è tradotto in una riduzione delle tutele sociali e sindacali per la povera gente e i lavoratori, mentre l’intervento dello Stato si è tutt’altro che ridotto (altrimenti non ci troveremmo con i deficit pubblici attuali): semplicemente l’intervento pubblico ha preso altre direzioni, come il potenziamento dei sistemi d’arma ed il finanziamento delle tante “guerre umanitarie”, le cosiddette “grandi opere”, il periodico salvataggio delle grandi banche o delle  grandi imprese in difficoltà, e così via.

Insomma, anche in questi anni di penuria lo Stato italiano, ad esempio, sta spendendo ingenti risorse per una Tav Torino Lione che la stessa Corte dei Conti francese ritiene critica in termini di costi – benefici, o per l’acquisto dei controversi F35.

Investire, invece, nella manutenzione del Bel Paese, come richiede la conversone ecologica, avrebbe enormi effetti virtuosi: innanzitutto alleggerire il debito reale che peserebbe, invece, sulle condizioni di vita delle generazioni future; valorizzare un patrimonio e dei beni non sottoposti alla distruttiva concorrenza globale; stimolare la ricerca scientifica in campi davvero innovativi; creare occupazione diffusa e stabile, non esposta alla minaccia ricorrente della delocalizzazione competitiva. 

Esemplifichiamo, a lato, alcune delle “grandi opere cattive” oggi in programma,  da abbandonare, e alcune delle “Grandi opere buone” invece da realizzare. Con un’avvertenza: laddove si parla di Piani nazionali, occorre tener presente che le “Grandi opere buone”, per concretizzarsi, hanno bisogno della partecipazione e del protagonismo delle comunità locali, dei Comuni innanzitutto, che devono saper tradurre le grandi mete nazionali in Piani territoriali nei diversi campi, dell’assetto idrogeologico, dell’energia…

Per questo è indispensabile che la “conversione ecologica” sia sostenuta dalla “conversione politica”, cioè da una nuova buona politica, intesa come servizio disinteressato al bene comune dei cittadini e dell’ambiente, capace di valorizzare la partecipazione dal basso e anche di traguardare gli autentici bisogni di “buen vivir” delle generazioni future.

“Grandi opere cattive”in progetto o in corso, che andrebbero abbandonate: Nuova linea ferroviaria Tav Torino – Lione, dall’utilità molto discutibile e discussa, sia in Francia che in Italia, con costi stimati a carico nostro di 17 miliardi di euro, cui vanno aggiunti circa 26 miliardi per completare il corridoio ad alta velocità fino alla Slovenia. Acquisto di 90 cacciabombardieri F35, le cui  prestazioni per un’Italia che “ripudia la guerra”  sono a dir poco controverse essendo aerei esclusivamente d’attacco per voli radenti su fronti di guerra, vi sono seri dubbi: intanto i costi sono lievitati da 80 a 135 milioni di dollari l’uno,  per un totale di 13-14 miliardi di euro. Intervento militare in Afghanistan con un costo da qui al 2014, anno previsto per il ritiro, di 1 miliardo e mezzo di euro: l’inefficacia di questa guerra e gli inaccettabili costi umani della stessa consiglierebbero un ritiro immediato. Investimenti nelle energie fossili (sic!) nei prossimi 10 anni, secondo l’ipotesi prospettata nell’ottobre 2012 dall’attuale governo nel documento, Strategia energetica nazionale: per un’energia più competitiva e sostenibile: rete di trasporto e distribuzione gas; rigassificatori, gasdotti e stoccaggi sotterranei per cui l’Italia diverrebbe il grande Hub europeo del gas; generazione termica, trasmissione e distribuzione elettrica; ricerche e perforazioni per la produzione di idrocarburi nazionali, sia in Pianura Padana che, in particolare, nel mar Adriatico, per investimenti previsti pari a 50 miliardi di euro. Incentivi pubblici per gli inceneritori e le centrali cosiddette a “biomasse”, in generale alimentate da produzioni dedicate concorrenti con gli alimenti,  pari a circa un miliardo di euro.  “Grandi opere buone”coerenti con la “conversione ecologica” che dovrebbe realizzare la “conversione politica”Piano nazionale per il riassetto idrogeologico del territorio Piano nazionale di ristrutturazione energetica ed antisismica del patrimonio edilizio pubblico e privato Piano nazionale di bonifica dei Siti inquinati di interesse nazionale e delle discariche incontrollate Piano nazionale per la sicurezza alimentare, con vincolo rigido, simile a quello previsto per i centri storici, a tutela delle aree agricole e naturalizzate, con progetti mirati alla ricostituzione delle fertilità naturale dei suoli, allo sviluppo dell’agricoltura biologica, alla promozione della filiera corta, alla lotta contro gli sprechi di cibo. Piano nazionale di dismissione degli inceneritori e di promozione generalizzata delle raccolta differenziata di qualità dei rifiuti, con il recupero di tutti i materiali. Piano nazionale per il risparmio energetico e la promozione delle energie veramente rinnovabili ed a minor impatto ambientale (solare termico e fotovoltaico, mini idroelettrico, piccola geotermia, piccolo eolico…) Piano nazionale per la mobilità sostenibile, a partire dalla prevenzione con la riduzione dei trasporti (km zero), l’implementazione di idrovie per il trasporto merci, la promozione della mobilità dolce (piedi, bicicletta…), lo sviluppo di mezzi collettivi a trazione elettrica (treni pendolari, tram, filobus…)  Piano per il risanamento dell’aria nella Pianura Padana e per il rientro nei limiti dei 35 giorni di supero delle PM10, con la riduzione del 70% delle combustioni nel sistema industriale ed energetico, nei trasporti e negli edifici.