Dalla razionalizzazione del territorio ai limiti allo sviluppo: la pianificazione sociale e ambientale di Osvaldo Piacentini
Osvaldo Piacentini, architetto urbanista, fu uno fra i fondatori della Cooperativa Architetti e Ingegneri di Reggio Emilia (Caire), fu redattore nel secondo dopoguerra in collaborazione con altri professionisti, di cui il più noto è stato Giuseppe Campos Venuti, dei piani regolatori delle principali città emiliane, fu autore dei piani comprensoriali regionali in aree come l’Emilia Romagna, il Piemonte, fu fra i responsabili del Progetto Appennino ed estensore delle proiezioni territoriali del cosiddetto Progetto ’80((P’80 è il nome breve per indicare il Secondo Programma Economico Nazionale (1971-1975), promosso dal Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica a partire dal 1968 sotto la direzione di Giorgio Ruffolo. Si trattava di un progetto di riflessione e di programmazione che nell’ambito della più generale aspirazione all’“approccio di programmazione integrata” dei governi di centro-sinistra mirava a inserire fra i suoi obiettivi anche gli aspetti territoriali. Il P’80 fu il primo esempio in Italia, e uno dei primi a livello mondiale, di approccio unificato e sinergico alla pianificazione e alla programmazione; esso inoltre presentava una metodologia integrata sia per gli aspetti socio-economici, sia per gli aspetti fisico-territoriali e nella sezione specifica dedicata alle proiezioni territoriali redatta dal gruppo di ricerca facente capo al Centro di Studi e Piani Economici coordinato da Piero Moroni e Franco Archibugi, mostrò una sensibilità ambientalista e un avvicinamento ai problemi urbanistici in termini di condizioni necessarie per l’equilibrio fisico-ambientale in un contesto di programmazione di lungo periodo. Si vedano G. Ruffolo, L. Barca (a cura di), Progetto 80. Rapporto preliminare al programma economico nazionale 1971/1975, Firenze, Sansoni, 1971; J. Cornford, The Failure of the State: on the Distribution of Political and Economic Power in Europe, Lanham, MD, Rowman and Littlefield, 1975, p. 79 e segg.; F. Archibugi, Dal Progetto ’80 all’Italia che verrà. Gli obiettivi strategici del Progetto ’80 e il “Quadro territoriale di riferimento”. Relazione al Ministero delle Infrastrutture, 20 febbraio 2007, www.francoarchibugi.it (consultato il 17 aprile 2009).)). Un “intellettuale del territorio” dal mio punto di vista, il quale, per dirla qui in modo estremamente sintetico, nella realtà convulsa e scomposta della ricostruzione e durante gli anni della “via italiana” alla modernizzazione si interrogò su come ibridare le potenzialità analitiche delle nuove scienze sociali con l’agire urbanistico, s’impegnò per declinare nello urban planning e nella pianificazione territoriale il concetto di “ambiente” e si cimentò nel conferire alle politiche urbanistiche da lui e dal suo gruppo pensate la dimensione di “tutela del territorio” inteso come risultante dell’azione sinergica dell’intervento dell’uomo, da un lato, e delle controreazioni del paesaggio e dell’ambiente circostante dall’altro e che si affidò, fra i primi in Italia, alle conoscenze di agronomi, geologi e allo tempo stesso non dimenticò le pratiche consolidate nei secoli da contadini, pastori.
Nell’ambito della ricostruzione storica della parabola intellettuale e professionale di Osvaldo Piacentini, dunque, ho bussato alle porte della environmental history; e si è trattato di un incontro “illuminante”. L’assenza di un rigido statuto nella storia ambientale ha permesso anche a una ricerca come questa di poter attingere a quella messe di letteratura che a livello europeo, ed ormai anche italiano, l’approccio ecostorico ha prodotto((Per una rassegna M. Amiero (a cura di), Alla ricerca della storia ambientale, in «Contemporanea», V, 1 (gennaio 2002), pp. 131-163; V. Winiwarter (ed.), Environmental History in Europe from 1994 to 2000: Enthusiasm and Consolidation, in «Environment and History», 10 (November 2004), pp. 501-530.)). Mancando quell’insieme deterministico di topoi e di canonizzazioni non è inoltre ancora stata costruita una periodizzazione ai più condivisa; ed anche questa “imperfezione” della disciplina è risultata “pratica” per una biografia intellettuale sui generis come quella di Osvaldo Piacentini, un uomo che rifuggiva il clamore del dibattito culturale nazionale, una figura di architetto-urbanista che la storiografia italiana ha finora confinato alla storia locale mimetico-descrittiva quando non lo ha del tutto ignorato. E non ci sarà bisogno di ricordare, del resto, quanto il valore delle ricerche storiche “locali” si misuri nella capacità di orientare diversamente e originalmente le problematiche storiche “generali”((Un’osservazione che può essere trasferita secondo Bevilacqua anche alla storia dell’ambiente quando questa non si confronta con questioni di interpretazione storiografica. Cfr. P. Bevilacqua, Demetra e Clio. Uomini e ambiente nella storia, Milano, Donzelli, 2001, p. 28.)). Un intellettuale Osvaldo Piacentini che, in breve, sembra abbastanza difficoltoso collocare nella storia d’Italia canonica.
La mia ricostruzione, dunque, se da un lato non può prescindere dalle avvertenze legate alla narrazione biografica, alla scrittura del “racconto di una vita”((G. Giarrizzo, Biografia e storiografia, in I. Gallo, L. Nicastri (a cura di), Biografia e autobiografia degli antichi e dei moderni, Napoli, Esi, 1995, p. 297 e segg.)), dall’altro nondimeno muove pur’anche da un’esigenza di comprensione storica più ambiziosa. Come ha scritto Giuseppe Galasso, dando testimonianza di una riflessione accarezzata fra i tanti da Benedetto Croce, da Hannah Arendt, «lo storico muove sempre dal presente verso il passato, anche se la sua ricostruzione procederà poi in senso inverso, dal passato verso il presente»; in altre parole, cioè, la storia è sempre «contemporanea perché l’interesse ad essa nasce da un bisogno e da un problema del presente»((G. Galasso, Nient’altro che storia. Saggi di teoria e metodologia della storia, Bologna, Il Mulino 2000, pp. 53-54.)). E per quanto riguarda la storia ambientale ciò è ancora più “vero”.
Se dunque il rapporto fra vertice e base, fra locale e generale è più intrecciato di quanto la narrazione della “storia tradizionale” abbia nella maggioranza dei casi raccontato e se la grande novità del mondo contemporaneo nella seconda metà del Novecento è data dal fatto che si sono andate consumando risorse e beni materiali che la natura non è più in grado di riprodurre, in altre parole l’uscita definitiva «della società dal circolo virtuoso delle economie riproducibili»((P. Bevilacqua, Il secolo planetario. Tempi e scansioni per una storia dell’ambiente, in C. Pavone (a cura di), ‘900. I tempi della storia, Roma, Donzelli, 1997, p. 126. Si veda inoltre cfr. J.R. McNeill, Qualcosa di nuovo sotto il sole. Storia dell’ambiente nel XX secolo, Torino, Einaudi, 2002, p. 377 e segg.)), allora, in questa prospettiva la ricostruzione della vicenda intellettuale e professionale di Osvaldo Piacentini sembra essere un case-study stimolante.
Con il suo percorso di avvicinamento e introiezione della questione ambientale “moderna”((Per la genesi della questione ambientale “moderna” D. Worster, Storia delle idee ecologiche, Bologna, Il Mulino, 1994 e R. Della Seta, La difesa dell’ambiente in Italia. Storia e cultura del movimento ecologista, Milano, Franco Angeli, 2000.)) e grazie all’osmosi fra questa e la sua teoria e pratica urbanistica, Osvaldo Piacentini potrebbe offrire un’occasione per considerare la pianificazione e la politica del territorio aspetti della questione “ideologica” della gestione della trasformazione. Nell’ottica della «peculiare storia ambientale dell’Europa» (cioè, lo sforzo costante attuato dalla politics per mediare l’interesse privato e quello pubblico nell’uso delle risorse((R. Delort, F. Walter, Storia dell’ambiente europeo, Bari, Dedalo, 2002.))) l’opera di Osvaldo Piacentini e del suo gruppo sembra diventare, dunque, una faccia del più ampio dibattito ideologico e culturale sulla modernità che ha investito l’Italia dagli anni Cinquanta agli anni Settanta e nel quale la questione ambientale ha avuto un ruolo anche nella costruzione del nuovo “spazio” politico-culturale((G. Nebbia, Limiti alla crescita e lotte per l’ambiente, in L. Baldissara (a cura di), Le radici della crisi. L’Italia tra gli anni Sessanta e Settanta, Roma, Carocci, 2001; S. Neri Serneri, Culture e politiche del movimento ambientalista, in F. Lussana, G. Marramao (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta. Culture, nuovi soggetti, identità, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003.)). Spazio, parola che in questo caso assume tutti i propri significati: spazio materiale, territorio, ma anche e soprattutto spazio intellettuale, luogo della riflessione.
Le difficoltà di rinchiudere entro le maglie cronologiche “canoniche” l’evoluzione di un rapporto – quello fra uomo e ambiente – che ha tempi di svolgimento così ampi e dilatati ha arricchito pertanto la mia prospettiva biografica conferendogli, almeno nelle mie intenzioni, autonomia (e libertà!) dagli schemi consueti. Il problema principale da affrontare è sicuramente costituito dalla “contestualizzazione”, che non si esaurisce soltanto nella ricostruzione del quadro storico, politico, sociale e disciplinare nel quale Piacentini ha vissuto ed operato. Un rapporto che non va inteso in modo univoco, poiché esistono relazioni reciproche, continue e permanenti tra gli attori, tra il contesto e il soggetto dell’analisi che a propria volta non devono essere ridotte ad un «fondale immobile»((G. Levi, Les usages de la biographie, in «Annales. Economies, Societès, Civilisation», XLIV, 6 (novembre-décembre 1989). Si veda anche M. Rebeschini, La biografia come genere storiografico tra storia e politica sociale. Questioni e prospettive di metodo, in «Acta Histriae», XIV, 2 (2006), pp. 427-446.)) sul quale dispiegare una trama asettica, demandata dall’alto, piatta.
Se questa premessa è necessaria per quanto riguarda l’uso del contesto ecostorico abbracciato in questa ricostruzione della vicenda intellettuale dell’archi-tetto reggiano, un’altrettanto preambolo epistemologico è indispensabile sulla natura della categoria di “intellettuale” applicata allo studio di un architetto-pianificatore.
La storiografia ha principalmente descritto l’intellettuale del secondo dopoguerra o come il letterato che, abbandonato la propria turris eburnea, ha assunto una funzione “organica”; oppure come colui, “chierico traditore”, ch’è venuto meno alle proprie responsabilità etiche((Si veda, fra i tanti, M. Walzer, L’intellettuale militante. Critica sociale e impegno politico nel Novecento, Bologna, Il Mulino, 2004 2ed. Per una ricostruzione storica del dibattito sull’intellettuale in Italia nel secondo dopoguerra cfr. B. Bongiovanni, Gli intellettuali, la cultura e i miti del dopoguerra, in G. Sabbatucci, V. Vidotto (a cura di), Storia d’Italia. 5. La Repubblica, Bari-Roma, Laterza, 1997. Per quanto riguarda la vicenda del Pci si vedano N. Ajello, Intellettuali e pci (1944-1958), Bari-Roma, Laterza, 1997 e Il lungo addio. Intellettuali e Pci dal 1958 al 1991, Bari-Roma, Laterza, 1997; sul fronte cattolico e laico invece R. Moro, I “movimenti intellettuali cattolici”, in R. Ruffilli(a cura di), Cultura e politica nell’età della Costituente. I. L’area liberal-democratica, il mondo cattolico e la Democrazia cristiana, Bologna, Il Mulino, 1979; G. Verucci, Il contributo culturale e politico delle riviste e degli intellettuali laici nell’Italia del secondo dopoguerra (1945-1963), in «Studi Storici», XXXI, 4 (1990), pp. 889-897.)). Al contrario, la figura d’intellettuale che qui s’intende privilegiare, e alla quale si vuole accostare l’opera di Piacentini, è di altro “tipo”. Depositario di un sapere specialistico e di una “tecnica” che grazie alle nuove scienze sociali (e nel caso di Piacentini anche grazie agli sviluppi delle scienze del territorio, la nuova geografia e, da ultimo, il pensiero ecologico) è andata via via sempre più raffinandosi, questo tipo di intellettuale si è posto come interlocutore “alla pari” della classe politica. Proprio in virtù di tale atteggiamento egli contribuì in modo determinante alla costruzione di uno specifico habitus mentale e di un modus operandi che parteciparono alla riformulazione dello spazio pubblico e politico. Si è trattato, cioè, di un intellettuale che pur definendosi “terzo” non ha tuttavia indietreggiato di fronte al dibattito ideologico; più semplicemente egli si è avvalso di una “cassetta degli attrezzi” alternativa. In breve, un “tecnico” disposto a “sporcarsi le mani” nell’arena politica.
Nel caso specifico di Osvaldo Piacentini la “cassetta degli attrezzi” è stata capace di ibridare le potenzialità analitiche delle scienze sociali, geografiche ed ecologiche con l’agire urbanistico. E in questo dialogo l’incontro con il sociologo Achille Ardigò è stato fondamentale, in grado di sviluppare nel 1956 la straordinaria pagina del Libro Bianco per Bologna (di cui si accennerà in seguito) che vide una sinergia fra riflessione sociale e pianificazione urbanistica nel progetto ambizioso di riassetto della città e che testimoniò una proficua mutua assistenza fra l’idea di democrazia partecipata e intervento sul territorio grazie al “decentramento” in quartieri.
È appunto in questa prospettiva che l’urbanista Piacentini “è” un intellettuale; la programmazione urbanistica e la politica del territorio “sono” aspetti della questione “ideologica” della gestione della trasformazione e la riflessione urbanistica, la concettualizzazione e la pianificazione territoriale “divengono” un aspetto del dibattito sulla modernità che ha investito l’Italia negli anni Cinquanta e Sessanta.
Scriveva Osvaldo Piacentini nel 1947 nella relazione introduttiva presentata all’VIII Triennale di Milano dedicata al problema dell’abitazione((La Triennale è stata fondata a Monza nel 1923 in occasione della I Biennale delle arti decorative dell’Istituto Superiore di Industrie Artistiche. Trasferita a Milano nel 1933 si poneva come obiettivo l’interazione tra industria, mondo produttivo e arti applicate. Un ruolo ambizioso e innovativo per la cultura e l‘economia italiane e testimoniato dalla presenza nelle sue sale espositive di artisti come Giorgio De Chirico, Mario Sironi, Carlo Carrà (parteciparono all’edizione del 1933). Sospesa durante la Seconda guerra mondiale, la Triennale ha ripreso la sua attività nel 1947 indirizzando la propria attenzione alla frenetica opera di ricostruzione post-bellica, durante la quale ha assunto un ruolo preminente nella realizzazione del quartiere QT8 di Milano. Proprio da questa esperienza è nato l’interesse della Triennale per la pianificazione urbanistica che divenne il tema fondamentale delle esposizioni per gli anni Cinquanta, Sessanta e, benché diventate le sue edizioni più discontinue, anche Settanta. L’edizione del 1947 intitolata L’abitazione: esposizione internazionale delle arti decorative e industriali moderne e dell’architettura moderna si tenne a Milano dal 31 maggio al 14 novembre e fu dominata dall’architetto razionalista Piero Bottoni. Per un’introduzione al dibattito urbanistico degli anni del secondo dopoguerra D. Calabi, Storia dell’urbanistica europea, Milano, B. Mondadori, 2004, p. 256 e segg.)):
Quando abbiamo cominciato il nostro studio il problema urbanistico-edilizio era per noi una questione esclusivamente tecnica. In seguito, con l’approfondirsi delle indagini, abbiamo constatato che l’urbanistica non è un problema a sé, ma uno dei tanti aspetti dell’unico vero problema che è la vita dell’uomo […]
L’analisi che abbiamo fatto a Reggio sul problema edilizio – l’indagine preliminare al prg (Piano Regolatore) – ci ha convinti che non è possibile affrontare frammentariamente un singolo problema, ma che bisogna studiare tutta una nuova vita della società dove ogni manifestazione si inserisca in un addentellato organico di funzioni […]
Può darsi che qualcuno pensi che noi siamo degli utopisti poiché queste cose oggi non sono realizzabili e lo saranno molto gradatamente, [ma] questa è la pianificazione […] noi vorremmo che tutti gli urbanisti italiani si facessero promotori e animatori della pianificazione nazionale […] Solo allora l’urbanistica potrà essere effettivamente l’arte di far vivere gli uomini.((Archivio Osvaldo Piacentini (d’ora in poi AOP), F 2, busta “Primo studio urbanistico”.))
“Grammatica” di un intellettuale del territorio: i prodromi dell’urbanistica sociale e ambientale
Chi era Osvaldo Piacentini? Qual’è stato il suo percorso umano e professionale? In quale contesto ha operato? Partiamo dunque da qui.
La “grammatica” intellettuale di un architetto come quella di qualsiasi altro intellettuale, naturalmente, non può prescindere dalle radici famigliari e dal contesto socio-culturale.
Osvaldo Piacentini nasce e si forma negli anni del regime fascista fra Scandiano e Reggio Emilia, nella pianura padana. Se dal padre abbia veramente ricevuto l’imprinting politico e dalla madre la fede e la disciplina (invalido di guerra, presidente dell’Associazione Mutilati e Invalidi e fondatore della locale sezione del partito repubblicano nel 1919 il primo; maestra elementare e fervente credente la seconda), come a taluni è piaciuto ricordare((Cfr. G. Dossetti, Il profilo morale e civile, in G. Lupatelli, F. Sacchetti(a cura di), Osvaldo Piacentini. Un architetto del territorio, in «Quaderni di Urbanistica», 6, supplemento a «Urbanistica Informazioni», 107 (settembre-ottobre 1989), pp. 15-20.)), non è possibile stabilirlo storicamente. Sebbene cresca in una famiglia nella quale si respira un clima politico fra l’agnosticismo e l’ostilità al fascismo(( F. Valli, La Cooperativa e la città, in «Ricerche Storiche», 90 (2001), pp. 53-59.)), tuttavia non dev’essere sottovalutata l’influenza anche indiretta della cultura e della tradizione repubblicana che Osvaldo Piacentini si trova a conoscere grazie al padre, mentre tutt’attorno l’ambiente è permeato dal puzzo del regime fascista. Una tradizione che, sebbene non potesse vantare l’organizzazione e il trasporto politico sviluppatosi in Romagna, presentava anche a Reggio Emilia, da un lato, direttrici politiche progressiste e democratiche in un territorio che andava strutturando al contrario enclaves di sinistra costruite su opzioni classiste e, dall’altro, maturava con queste ultime forme di cooperazione politica. I repubblicani del primo dopoguerra si trovarono in totale sintonia con gli aspetti più avanzati della cultura riformista italiana ed europea partecipando alla stagione di modernizzazione economico-sociale del municipalismo italiano((Cfr. A. Berselli, F. Della Peruta, A. Varni, La municipalizzazione in area padana. Storie ed esperienze a confronto, Milano, Franco Angeli, 1988.)). A ciò deve inoltre essere sommato il ruolo culturale e politico svolto dal “mistero” dell’associazionismo e dal “fenomeno” della cooperazione che vide una sinistra reggiana sì frammentata in varie componenti (democratica, repubblicana, mazziniana e garibaldina), ma allo stesso tempo una sinistra che andava coagulandosi intorno a circoli e gruppi, a società di mutuo soccorso e cooperative le quali alla richiesta del suffragio universale coniugavano la pretesa dell’istruzione laica e obbligatoria, l’associazione del capitale col lavoro, la rivendicazione dei diritti dei lavoratori((A. Varni, Il “mistero” dell’associazionismo, in R. Finzi (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. L’Emilia-Romagna, Torino, Einaudi, 1997; M. Degl’Innocenti et al., Solidarietà e mercato nella cooperazione Italiana tra Otto e Novecento, Manduria-Roma-Bari, Lacaita, 2003; T. Menzani, La cooperazione in Emilia-Romagna. Dalla Resistenza alla svolta degli anni Settanta, Bologna, Il Mulino, 2007.)).
Ciò detto, nel caso di Osvaldo Piacentini è tuttavia l’ambiente esterno alla famiglia a contribuire maggiormente alla formazione di una “grammatica” spirituale ed intellettuale grazie alle esperienze fatte in seno all’associazionismo cattolico reggiano. Ambiente in cui si distinsero personalità come quella di Valdo Magnani, che divenne suo intimo amico, e Nilde Iotti (dissidente del Pci e protagonista di uno degli episodi più discussi dell’Emilia rossa negli anni Cinquanta il primo; compagna di lotta e di vita del leader comunista Palmiro Togliatti e futuro presidente della Camera italiana la seconda((Per la cosiddetta vicenda dei “magnacucchi” (definizione volgarizzata del movimento politico fondato dai deputati Valdo Magnani e Aldo Cucchi, che nel gennaio del 1951 uscirono dal Partito comunista italiano in polemica contro la linea stalinista della direzione centrale), cfr. Giorgio Zoccolari, Luciano Casali (a cura di), I Magnacucchi. Valdo Magnani e la ricerca di una sinistra autonoma e democratica, Milano, Feltrinelli, 1991.))). Ambiente, tuttavia, nel quale i cattolici reggiani, come i cattolici italiani tutti, non furono di certo immuni dalla presa clericofascista((Cfr. P. Pecorari (a cura di), Chiesa, Azione cattolica e fascismo nell’Italia settentrionale durante il pontificato di Pio XI, Milano, Vita e Pensiero, 1979. Si veda inoltre E. Galavotti, Il giovane Dossetti. Gli anni della formazione 1913-1939, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 93 e segg.)).
Quello che affiora dagli scritti privati giovanili di Osvaldo Piacentini è dunque l’iter di un cattolico del Novecento italiano, «una vicenda più ordinaria che esemplare di lento e faticoso distacco dagli stereotipi»((A. Melloni, Storia locale e postconcilio italiano, note a margine agli scritti di Osvaldo Piacentini (1922-1985), in «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», LV, 2 (2001), pp. 501-510, p. 504. Gli scritti privati perlopiù incentrati su temi religiosi sono stati pubblicati in O. Piacentini, Senza stancarsi mai. Scritti di un cittadino diacono, a cura di S. La Ferrara, Reggio Emilia, Diabasis, 1999.)), un percorso di maturazione che vivrà il proprio momento di svolta nell’incontro con Giuseppe Dossetti (una delle figure più affascinanti, problematiche e dibattute del cattolicesimo politico italiano, fra i padri della Costituzione italiana e della Dc, un carisma intellettuale assoluto ma una personalità inquieta e tormentata((Fra l’innumerevole letteratura riguardante Dossetti A. Melloni (a cura di), Giuseppe Dossetti: la fede e la storia. Studi nel decennale della morte, Bologna, Il Mulino, 2007; Id., Giuseppe Dossetti. Studies on an Italian Catholic Reformer, Münster, Lit, 2008.))). Un incontro determinante per la crescita culturale e umana, per la maturazione ideologica e politica del futuro architetto: le scoperte di conoscenza e di lettura fatte nel cenacolo formativo che faceva capo a Dossetti annoveravano testi del riformismo cattolico come la pastorale di Emmanuel Suhard (Lettre Pastorale de son éminence le cardinal Suhard. La Famille, 1946 e Essor ou déclin de l’Eglise, 1947) e gli scritti di Jacques Maritain (Humanisme intégral, 1936), ma anche l’attenzione alla dottrina sociale cristiana e alla politica sindacale che presentava in chiave cristiana basilari rivendicazioni sociali: un fatto questo che il gruppo dei dossettiani “pagherà” con l’accusa di “marxismo”((Cfr. S. Spreafico, I cattolici reggiani dallo stato totalitario alla democrazia, Reggio Emilia, Futurgraf, 1986-2001, 5 voll., p. 549.)).
Ma soprattutto a Dossetti e alla sua frequentazione si deve la scoperta di Johan Huizinga che ebbe il merito di affinare il senso storico del gruppo di laureati cattolici di cui anche Osvaldo Piacentini faceva parte((AOP, 845 C 6.6 e AOP, 2231 F 1.12.)). Non tanto attraverso il metodo storico elaborato dallo studioso olandese come è stato scritto((Questa l’interpretazione un po’ frettolosa di S. La Ferrara nelle sue note biografiche. Cfr. S. La Ferrara (a cura di), op. cit., p. 20. Per lo Huizinga storico D.G. Shaw, Huizinga’s Timeliness, in «History and Theory», XXXVII, 2 (May 1998), pp. 245-258.)), ma piuttosto per quel dissidio intellettuale tra la teoria e la prassi dello sviluppo (la Zivilization), da un lato, e i valori spirituali, estetici e critici della cultura europea, dall’altro. L’interpretazione della responsabilità personale e collettiva e l’incapacità dell’Uomo in questa nuova situazione nel rispondere adeguatamente al bisogno di elevazione nel quadro di un contesto comunitario che Osvaldo Piacentini mutuerà dal discorso di Huizinga caratterizzerà la tensione intellettuale con cui il futuro architetto si accosterà al territorio e al paesaggio. Un “sentimento del tempo” che nell’immediato lo spinse a partecipare alla lotta resistenziale e lo condusse alla definitiva scelta democratica e repubblicana((A partire dal dicembre 1944 OP passa con il nome di battaglia di Waldo nelle file partigiane della Terza Brigata Apuane. A causa dei lunghi periodi trascorsi in infermeria e non potendo dimostrare di avere all’attivo 6 mesi continuativi di effettiva azione partigiana sulle montagne, fu riconosciuto soltanto “patriota” e non “combattente”. Cfr. AOP 2087 F 2.5.)); una “lettura della modernità” che nel lungo periodo lo sensibilizzerà a considerare il territorio e il suolo una «risorsa scarsa» e a lungo andare esauribile, acqua compresa((O. Piacentini, Urbanizzazione e difesa del suolo, in «Economia Montana», XV, 4 (1983), pp. 2-7.)).
Ancora più de La crisi della civiltà (pubblicata in Italia da Einaudi nel 1937), su Piacentini influì Lo scempio del mondo (che Huizinga scrisse nel 1943, qualche mese prima di morire mentre era al confino e pubblicato nel 1948 da Rizzoli). In questo testo lo storico olandese elencava e analizzava le «perdite morali» della società occidentale; fra esse includeva anche il «tramonto del paesaggio». Così infatti s’intitolava il paragrafo nel quale egli si interrogava sulla «scomparsa […] di quella natura immediata che una volta circondava quasi dappertutto le dimore umane». La scomparsa della natura intatta era un fenomeno che era apparso in tutta la sua estensione allo storico olandese quando nel 1926 assieme al sociologo T.H. Marshall e all’economista Luigi Einaudi attraversò Gary, sulle rive del fiume Michigan(( J. Huizinga, Lo scempio del mondo, a cura di L. Villani, Milano, B. Mondadori, 2004, pp. 107-108.)). Per Huizinga il tramonto del paesaggio non era soltanto la perdita di un valore estetico: alla consapevolezza che non sarebbe stato possibile dichiarare parco nazionale tutta la Terra Huizinga – e con lui i suoi lettori fra i quali Osvaldo Piacentini – opponeva, citando J.M. Burgers, il rapporto fra il concetto di entropia e le funzioni vitali. «La Terra […] è per noi un ambiente chiuso. La spensierata demolizione, e in special modo lo spreco inconsiderato dei prodotti di demolizione e di rifiuto senza che si badi alle conseguenze, – concludeva Huizinga – celano il pericolo di un impoverimento e di un intossicamento della cui gravità quasi non ci rendiamo conto»((Ivi, p. 109.)).
Ciò, naturalmente, non significa che questa comprensione della crisi contenga in sé già tutte le direttrici della pianificazione ambientale che l’architetto e il suo gruppo andranno a progettare nei decenni successivi. Tuttavia, i prodromi della sua “ideologia urbanistica” sono già presenti: l’ansia di programmare e di trasformare dell’urbanista sarà temperata dalla lettura della realtà storica come ulteriore parametro per comprendere il significato della vita sociale. Una realtà storica e una vita sociale che per Osvaldo Piacentini non potevano prescindere dall’ambiente e dal territorio. Elementi costitutivi questi – ambiente circostante, paesaggio, campi coltivati, boschi – del sentire collettivo, parte di quella cultura comune da riscoprire e recuperare che sarebbe andata a favorire la rinascita della società italiana dopo gli orrori della dittatura e della guerra((Sul rapporto simbiotico fra paesaggio naturale e paesaggio culturale cfr. V. Fumagalli, L’uomo e l’ambiente, Bari-Roma, Laterza, 1992.)). Grazie a Huizinga Osvaldo Piacentini “incorpora” la natura nella sua “visione” del mondo: scopre che essa, oltre ad avere un ruolo produttivo primario, possiede anche una valenza identitario-simbolica. Anzi, la presunta razionalità del mondo “capitalista”, che muove dal presupposto che le risorse siano infinite, è invece capace di dissipare e mutilare un patrimonio naturale parte della civiltà dell’Uomo.
L’incontro fra Piacentini e Dossetti molto probabilmente è avvenuto fra il 1941 e il 1942 quando questi tenne a Reggio alcune conferenze nelle quali criticò il regime fascista. Oltre all’amicizia che legò i due amici per tutta la vita, vale la pena sottolineare in questa sede la breve parabola della politica attiva che l’architetto ha sperimentato, la quale de facto ricalca, seppur in loco, la ben più famosa carriera politica di Dossetti nella Dc e nell’Assemblea costituente.
Eletto deputato al Consiglio provinciale per la Dc nel 1950, riconfermato nel 1951, Piacentini rassegnerà le dimissioni già nel 1952 dal Comitato direttivo (dimissioni che saranno rifiutate); nel 1953 sarà eletto nella Giunta esecutiva dalla quale però ben presto si allontanerà per chiudere definitivamente la parentesi della politica attiva. Una crisi che maturò nello stesso arco di anni in cui Dossetti decise di sciogliere la propria corrente all’interno della Dc. La ricomparsa di Dossetti a Bologna, poi, rivide anche la ricomparsa di Piacentini((Cfr. P. Pombeni, La fine del dossettismo politico, in A. Melloni (a cura di), Giuseppe Dossetti: la fede e la storia, cit.)). Con la sconfitta della Dc alle amministrative di Bologna nel 1956 termina la parabola della politica attiva per l’architetto.
Nell’Italia dello scontro “epico” della guerra fredda e in una regione dove la forza politico-elettorale del partito comunista era immensa, per Osvaldo Piacentini, obbligato dal giuramento di fedeltà alla Chiesa, l’adesione al partito democristiano non fu però una scelta facile. «Se fosse stata libera scelta – ha ricordato nel 1966 – molti di noi forse sarebbero stati socialisti o laburisti»((AOP, 2031 F 2.1.)).
Se dunque la disillusione nei confronti della vita partitica era palpabile e aveva spinto Piacentini nel “privato”, allo stesso tempo a testimonianza di una sincera aderenza all’idea di una democrazia effettiva che poneva al centro l’Uomo, l’architetto non tradì il proprio slancio civico e lo declinò nel lavoro intellettuale.
Secondo lo storico Stefan Collini l’intellettuale è colui che possiede uno specifico e riconoscibile expertise in un particolare campo di studi e in un determinato aspetto dell’arte, che ha la capacità di pubblicizzare la propria riflessione ed azione, che è impegnato in questioni di interesse generale e che riesce a stabilire e confermare una reputazione su tali questioni((S. Collini, Absent Minds. Intellectuals in Britain, Oxford, Oxford University Press, 2006.)). Esso, grazie a quest’insieme di caratteristiche, è parte dell’arena politica; è un “attore”. Ancor di più se partecipa non soltanto ai processi di formazione dell’opinione ma anche al percorso di strutturazione della decisione attraverso le informazioni tecniche che è in grado di fornire. La politica con altri mezzi, dunque. Per Osvaldo Piacentini il nuovo mezzo divenne l’urbanistica.
Osvaldo Piacentini si laurea in architettura al Politecnico di Milano nel 1949 dopo un percorso di formazione disciplinare un po’ accidentato che tuttavia non preclude né il formarsi di un solido gruppo di futuri colleghi, che andò a rinsaldare conoscenze strutturatesi durante gli anni della scuola, né ostacola il formarsi di una proficua collaborazione con gli architetti Franco Albini e Franco Marescotti((F. Valli, La Cooperativa e la città, cit.)). Architetto multidisciplinare il primo, il quale durante una carriera durata quasi cinquant’anni ha fuso le dimensioni del design, dell’architettura e dell’urbanistica secondo l’indirizzo umanistico del Movimento Moderno. Intellettuale impegnato il secondo, che grazie all’incontro con Irenio Diotallevi inizia un periodo di febbrile attività i cui temi centrali saranno quelli della ricostruzione del paese, del diritto alla casa, dei nuovi modi di intervento nella questione dell’abitazione. Legato idealmente alle istanze sociali portate avanti dal partito comunista, svolge conferenze, dibattiti, relazioni in molte città italiane nelle Case della Cultura e nelle Case del Popolo.
Se gli anni milanesi e la formazione universitaria al Politecnico sono stati elementi formativi dal punto di vista disciplinare, nondimeno il bisogno di risposte concrete ai bisogni sociali non trova nella dimensione astratta dell’accademia un terreno soddisfacente e spinge Osvaldo Piacentini verso una ricerca disciplinare ed intellettuale autonoma.
Il 28 novembre 1947 – prima che Osvaldo Piacentini consegua la laurea in architettura – nasce a Reggio Emilia lo Studio di Progettazione Civile, il quale il 4 gennaio 1952 assumerà la forma di cooperativa. L’obiettivo di Osvaldo Piacentini – e dei suoi soci, anche se spinti da motivazioni personali differenti – era quello di passare dalla “grammatica” appresa nelle sedi accademiche della disciplina architettonica, negli istituti religiosi, nei luoghi della dialettica politica alla pratica del “fare urbanistica”. Questo gruppo di giovani professionisti vedeva nella formula cooperativa una forma di lavoro basata sul reciproco confronto e sulla solidarietà piuttosto che sugli esclusivi rapporti economici. Furono, da un lato, le occasioni che fecero maturare in Piacentini e negli altri soci fondatori, architetti e ingegneri con orientamenti politici e culturali diversi, la consapevolezza delle maggiori potenzialità che un lavoro comune poteva offrire. Dall’altro, a gettare le basi per quell’avventura professionale fu la pulsione intellettuale, mentre nell’accademia dominava uno sperimentare architettonico sterilmente empirico e autoreferenziale, di poter superare «il formalismo e con esso la concezione stessa dell’architetto come figura astratta che impone dal di fuori i prodotti gratuiti della sua fanta-sia»((A. Porta, Premio Provincia di Reggio Emilia, medaglia d’oro per l’architettura, in La Cooperativa Architetti e Ingegneri di Reggio Emilia: quindici anni di attività, 1947-1962, Reggio Emilia, 1962.)).
Razionalizzazione del territorio e limiti allo sviluppo: verso l’urbanistica ambientale
Di una carriera durata quasi quarant’anni ai fini di questo articolo analisi, ovviamente, verranno utilizzati soltanto alcuni fra piani e riflessioni che Osvaldo Piacentini e la sua cooperativa hanno elaborato e che si muovono in linea di continuità con quella “grammatica” intellettuale or ora tracciata. Spalmati cronologicamente fra gli anni del miracolo economico e il decennio Settanta – e dunque intersecanti tutte le fasi della cultura ecologista italiana: la conservazionista degli anni Cinquanta e Sessanta, la protestataria del ’68 e dei primi anni Settanta per giungere alla politicizzazione degli anni Ottanta – essi appaiono legati da un filo conduttore univoco e ci permettono di “andare a vedere” attraverso il prisma della riflessione urbanistica la maturazione della moderna questione ambientale((Sui concetti “vedere” e “pre-vedere” nell’approccio ecostorico A. Caracciolo, L’am-biente come storia, Bologna, Il Mulino, 1988.)).
L’obiettivo, è bene non dimenticarlo, non è quello di andare alla ricerca di una “coscienza” o “incoscienza” proto-ambientalista, tantomeno il rimpiangere un’arcadia perduta o l’idilliaco equilibrio della società contadina((Cfr. P. Bevilacqua, Storia del territorio o romanzo della natura?, in «Meridiana», 2 (1988), pp. 189-201.)). In questa prospettiva, pertanto, due sono i piani sui quali sviluppare il case-study di OP: da un lato il piano dell’agire urbanistico in un sistema pluriattoriale (cioè la convivenza di professionalità, culture amministrative e politiche, discorso pubblico) e pluriesigenziale (cioè il reticolato di esigenze contrapposte degli attori)((Cfr. L. Bortolotti, Storia della politica edilizia in Italia, Roma, Editori Riuniti, 1978; B. Secchi, Il racconto urbanistico. La politica della casa e del territorio in Italia, Torino, Einaudi, 1984.)). Dall’altro, il piano dell’astrattezza e della concettualizzazione dell’agire intellettuale che nello specifico dell’ambito urbanistico tende a focalizzarsi nella contrapposizione fra la creatività personale dell’urbanista e la fattibilità dei suoi progetti, contrapposizione che si traduce materialmente nel “compromesso” della pianificazione((Cfr. C. Olmo, Urbanistica e società civile, Milano, Bollati Boringhieri, 1992.)). È su questa dialettica che s’innesta la questione ambientale ed è in relazione alla complessità della modernizzazione italiana, alla problematicità della co-evoluzione tra ecosistema e sistemi produttivi che va letta l’assimilazione delle tematiche ambientali nella vicenda intellettuale italiana.
Ad esempio: se da un lato il vincolo città-territorio e la trasformazione dell’agricoltura hanno subito un rivolgimento repentino ed imprevedibile, benché non inaspettato, dove l’idea di progresso è andata in parallelo con quella di sviluppo – uno sviluppo che prima di tutto fu quantitativo –, allo stesso tempo nell’Italia del dopoguerra, e soprattutto nell’Emilia-Romagna dove Osvaldo Piacentini si accingeva ad operare, il «vibrare l’ansia della ripresa», per dirla con l’urbanista Giovanni Astengo, si è alimentato del clima di rinnovamento e speranza nella modernizzazione promessa((Sul grande architetto italiano F. Indovina (a cura di), La ragione del piano, Giovanni Astengo e l’urbanistica italiana, Milano, F. Angeli, 1991.)). Alla volontà di introdurre grandi cambiamenti per incentivare l’industrializzazione dell’agricoltura (bonifiche, espansione delle coltivazioni frutticole, meccanizzazione), già esplicitata negli atti del convegno sulla ricostruzione agricola dell’Ispettorato compartimentale dell’Emilia-Romagna nel 1946((Ricostruzione agricola e forestale. Atti del primo convegno emiliano romagnolo, Bologna, 1947. Per un quadro storico cfr. F. Cazzola, La ricchezza della terra. L’agricoltura emiliana fra tradizione e innovazione, in R. Finzi (a cura di), L’Emilia-Romagna, cit.)), si associò la smania di rifondare il contesto del vivere collettivo. Un ruolo privilegiato di conseguenza venne assegnato alla città e alla sua ricostruzione materiale, la quale assurse a simbolo di un percorso che al recupero e alla riedificazione urbana sommava l’utopia della modernità((Nell’ambito del rapporto città-campagna si veda l’ormai classico L. Gambi, I valori storici dei quadri ambientali, in Storia d’Italia. I caratteri originali: Il territorio e l’ambiente, Torino, Einaudi, 1972 mentre nel quadro della storia urbana si veda il fascicolo 144-115 vol. XXX 2007 della rivista «Storia Urbana» dedicato interamente alla ricostruzione dei centri storici delle città italiane.)). E, di conseguenza, chi si occupava di urbanistica si trovò nella convinzione di poter «determinare la storia»((Cfr. G. Longhi, Alcune contraddizioni del secondo dopoguerra italiano, in «Storia urbana», XVIII, 73 (1995), pp. 179-211.)).
In questo contesto due elementi ebbero un peso determinante: da un lato l’urgenza di rispondere nel più breve tempo possibile alle esigenze primarie – ci si riferisce alla casa, all’acqua e all’energia elettrica, alla viabilità e alle infrastrutture di base – ma, dall’altro lato, essa convisse con la libertà d’azione lasciata dalle amministrazioni all’iniziativa individuale alimentando quello sviluppo “spontaneo” della cerchia urbana di molte città italiane che aveva nella crescita edilizia, o meglio nella speculazione edilizia, il motore principale della trasformazione. “Casa e lavoro” divennero le parole d’ordine e nella dialettica tra la gestione dell’emergenza e il sostegno all’iniziativa privata fu l’attenzione all’edilizia abitativa a prevalere con una sottovalutazione dei problemi urbanistici e pianificatori e, in primo luogo, con una valutazione della rendita.
Sulle stesse parole d’ordine, del resto, deve essere ricompresa la legge n. 43 del febbraio 1949, il cosiddetto “Piano Fanfani” o “piano Ina-Casa”, che diede avvio al più consistente programma di edilizia pubblica che l’Italia abbia mai conosciuto. Per urbanisti e architetti italiani, delusi dalle “occasioni perdute” della disordinata ricostruzione immediatamente post-bellica, le opportunità offerte dalla nuova politica fanfaniana apparvero irrinunciabili((Cfr. P. Di Biagi, La città pubblica e l’Ina-casa, in Id. (a cura di), La grande ricostruzione. Il piano Ica-saca e l’Italia degli anni Cinquanta, Roma, Donzelli, 2001. )). Ma non fu soltanto l’occasione per “sperimentare” schemi architettonici. Se a fondamento dell’urbanistica moderna è posta la dicotomia concettuale e istituzionale pubblico/privato, la sinergia fra intervento statale e pensiero urbanistico nell’ambito di una politica della casa ad ampio raggio sostanzia il piano Fanfani come un esempio di politica di welfare((G. De Rosa (a cura di), Fanfani e la casa. Gli anni Cinquanta e il modello italiano di welfare state. Il piano Ina-casa, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002.))sulla stessa linea delle sperimentazioni fatte in altre democrazie europee((Cfr. A. Homer, Planned Communities: The Social Objectives of the British New Town, 1946-1965, in L. Black at al., Consensus or Coercion? The State, the People and Social Cohesion in Post-War Britain, Cheltenham, New Clarion Press, 2001.)). L’urbanistica novecentesca si è posta l’obiettivo di perseguire il bene collettivo e alla luce del discorso pubblico sull’intervento statale elaborato dalla politica occidentale nel XX secolo l’animus dell’operazione Ina-casa è stato allo stesso tempo volontà di costruire case, ma anche impegno al fine di incrementare l’occupazione dei lavoratori: insomma, la ricerca di una possibile “via italiana” al riformismo e alla politica di welfare((Cfr. N. Novacco, Amintore Fanfani e la sua iniziativa per le “case ai lavoratori”, in G. De Rosa (a cura di), Fanfani e la casa, cit.)). Un intervento a sostegno dell’occupazione a partire dal modello keynesiano riletto in chiave di solidarismo cristiano, il piano Ina-casa è dunque il frutto del progressivo approccio dei dossettiani alle teorie economiche di Keynes e al discorso politico di Beveridge. Infatti non va sottaciuto che l’ideatore del piano di edilizia popolare Amintore Fanfani, leader della Dc e futuro presidente del consiglio, era anch’egli come Osvaldo Piacentini un “dossettiano” e come Osvaldo Piacentini aveva respirato lo stesso clima culturale((P. Nicoloso, Genealogie del piano Fanfani 1939-50, in P. Di Biagi (a cura di), La Grande ricostruzione, cit.)).
Sulla scia di questa effervescenza Osvaldo Piacentini e la sua cooperativa si cimentano quindi con l’edilizia sociale: nel 1952 la progettazione del quartiere Saint Gobain a Pisa; nel 1953 i quartieri Sant’Agnese di Modena e San Donato di Bologna. Fin da questi veri e propri incunaboli dell’ideologia urbanistica di Osvaldo Piacentini emerge un’attenzione per gli spazi aperti, per la progettazione di aree verdi comuni, per l’idea di comunità che nel “verde” ha un carattere identitario. Nell’era dell’abbondanza economica e della affluent society, nell’epoca in cui i bisogni primari sembrano poter essere soddisfatti per parti di popolazione sempre più ampie e, dunque, dove il principio della scarsità delle risorse sembra superato Piacentini, al contrario, si appresta a incorporare nella sua riflessione urbanistica il concetto della finitezza delle risorse ambientali. Pur nell’ambito di una cultura urbanistica che intende inquadrare l’esplosione delle nuove esigenze del mercato immobiliare e dunque consapevole delle necessarie trasformazioni del territorio, Osvaldo Piacentini cercò soluzioni “il meno traumatiche possibile” per la realtà agricola e paesaggistica e destinò ampi spazi alle infrastrutture.
E sempre nell’ambito della razionalizzazione del territorio e nel tentativo di concretizzare la sintesi fra riflessione sociale e pensiero urbanistico che si pone l’episodio del Libro bianco per Bologna.
Senza addentrarci nell’originalità e nelle specificità storiche della campagna elettorale di Giuseppe Dossetti per la guida del comune di Bologna nel 1956 contro il sindaco comunista Giuseppe Dozza che aveva fatto della Stalingrado d’Italia una città-modello per le politiche sociali, sul Libro bianco va detto che esso rappresenta un primo e potente esempio di osservatorio diagnostico e programmatico sulle «modalità di appropriazione dello spazio urbano da parte dei cittadini»((Sulle “narrazioni urbane” cfr. C. Olmo, E se Erodoto tornasse ad Atene? Un possibile programma di storia urbana per la città moderna, in Id., B. Lepetit (a cura di), La città e le sue storie, Torino, Einaudi, 1995, p. 39.)). Anticipato dall’uscita di un opuscolo che ne riassumeva i cardini, Bologna a una svolta, il Libro bianco costituì il prodotto di uno staff di giovani intellettuali la cui funzione di coordinamento e di guida fu assunta dal sociologo Achille Ardigò((Parteciparono all’esperienza bolognese Beniamino Andreatta, Giuseppe Coccolini, Osvaldo Piacentini e Giorgio Trebbi (che si occuparono della politica urbanistica), Anna Serra, Emilio Miccoli e Luciano Zanotti. Alcune parti del manifesto di Dossetti sono state ripubblicate in A. Ardigò, Giuseppe Dossetti e il Libro bianco su Bologna, Bologna, Edb, 2002. Per una ricostruzione della vicenda e un commento critico all’esperienza cfr. M. Tesini, Oltre la città rossa. L’alternativa mancata di Dossetti a Bologna (1956-1958), Bologna, Il Mulino, 1986.)). Il nucleo centrale ruotava attorno alla programmaticità da attribuire alla vita amministrativa e soprattutto all’assetto urbano e alla concezione del “consorzio civico”. Un programma di lavoro e di mobilitazione fra i primi a introdurre nella prassi amministrativa italiana la diagnostica con la proposta di un’indagine sociale per comprendere le reali esigenze della cittadinanza. Lo slogan principale della campagna dossettiana fu il: «Conoscere per deliberare».
Ma, soprattutto, il Libro bianco fu un futuro modello per la politica di piano grazie alla lungimirante intuizione di Osvaldo Piacentini di suddividere l’area urbana in quartieri. Partendo dalle esistenti “consulte popolari cittadine”, le quali sfruttando una vecchia legge mai applicata affiancavano a ogni quartiere un “dirigente” che si poneva come il tramite fra la cittadinanza e la giunta comunale, la sezione II del Libro Bianco, immaginava una politica di espansione delle periferie grazie all’istituzione dei «quartieri organici, cioè tali per composizione sociale pluriclasse e per servizi e beni di interesse pubblico»((A. Ardigò, Giuseppe Dossetti e il Libro bianco, cit., p. 70.)). La riconfermata giunta Dozza fece propria questa proposta, avviando così la prima di una serie di sperimentazioni che confluiranno nella Legge nazionale 278 dell’8 aprile 1976 sul decentramento e sulla partecipazione dei cittadini nell’ammini-strazione del comune la quale istituì i consigli circoscrizionali((Cfr. AA. VV., Decentramento e partecipazione civica, Roma, Cinque Lune, 1978; F. Ceccarelli; M.A. Gallingani, Bologna: decentramento, quartieri, città, 1945-1974, Bologna, Istituto per la Storia di Bologna, 1984; A. Berselli, Come sorsero i quartieri, in Giuseppe Dozza a dieci anni dalla morte. Dalla lotta antifascista al governo delle sinistre, Atti del Convegno, Bologna, Comune di Bologna, 1985.)).
Venti anni separano la teorizzazione dei quartieri dalla loro normativizzazione e nel frattempo la trasformazione delle città caratterizzata dall’espansione a macchia d’olio delle periferie e dalla lacerazione del tessuto storico urbano modificano profondamente l’ambiente e il paesaggio italiano. Se prima degli anni Cinquanta alla città faceva ancora da contorno la campagna, che non era soltanto cornice ma continuum economico e identitario, al contrario, negli anni Sessanta, in pieno boom economico, sono la denuncia del sacco di Roma e degli altri scempi paesaggistici che dominano il discorso urbanistico((Cfr. G. Campos Venuti, La terza generazione dell’urbanistica, Milano, Franco Angeli, 1989 3ed.)). È negli anni della ricostruzione disordinata che viene rintracciata l’origine patologica degli squilibri territoriali e della congiunturale elefantiasi della produzione edilizia nazionale; una critica che si lega alla battaglia nazionale per la riforma della legislazione urbanistica e che trovò nella neonata facoltà di Urbanistica dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia la propria scuola di pensiero((Fra i tanti F. Indovina, Lo spreco edilizio, Padova, Marsilio, 1972.Per una contestualizzazione del quadro normativo V. De Lucia, Dalla legge del 1942 alle leggi di emergenza, in G. Campos Venuti, F. Oliva (a cura di), Cinquant’anni di urbanistica in Italia, 1942-1992, Bari-Roma, Laterza, 1993.)).
In questo contesto si innesta la prima protesta ambientalista italiana che recupera una tradizione di associazionismo protezionista e conservazionista espressione di un’élite culturale la quale, incrociando le sensibilità delle nuove generazioni di urbanisti, da voce alle esigenze di difesa del patrimonio architettonico e paesaggistico. Essa confluirà, sommandosi alla sensibilità per gli assetti ambientali declinata in chiave operaista, nella “domanda di urbanistica” in opposizione alla speculazione edilizia della protesta studentesca sessantottina((R. Della Seta, La difesa dell’ambiente in Italia, cit., p. 25 e segg; S. Neri Serneri, Culture e politiche del movimento ambientalista, cit. I documenti elaborati dal movimento studentesco della facoltà di architettura dello IUAV sono stati ripubblicati in edizione anastatica: Documenti della rivolta studentesca, Bari-Roma, Laterza, 2008.)). Tuttavia né in essa, né nell’«ambientalismo delle contesse»((In questo modo dispregiativo veniva indicato da parte degli ambienti di sinistra l’ecologismo conservazionista della cultura liberale e democristiana. Cfr. A. Poggio, Ambientalismo, Milano, Bibliografica, 1996.)) di preservazione del paesaggio, la sensibilità ecologista di Osvaldo Piacentini non trova un’effettiva cittadinanza.
Al riassegnare all’architettura e all’urbanistica l’eroico compito di emancipazione etico-morale dell’Italia, tuttavia, non è andata associandosi una lettura attenta alle trasformazioni dell’ecosistema nel suo complesso. La razionalizzazione del territorio sulla quale si concentrò l’agire urbanistico di Osvaldo Piacentini in questa fase dell’urbanistica sociale, benché consapevole delle esigenze del mondo rurale e dell’economia agricola((Sulla sensibilità verso la “campagna” dell’architetto reggiano cfr. E. Bussi, Le scelte in agricoltura tra esigenze di cambiamento e di equilibrio, in G. Lupatelli, F. Sacchetti(a cura di), Osvaldo Piacentini, cit.)), nell’ambito del discorso emancipazionista urbanistico si limitava a rilevare e a preservare i condizionamenti del territorio sulle scelte infrastrutturali. La ricucitura e l’integrazione della “conurbazione” del territorio dell’area padana e il suo retroterra agricolo urbanizzato e fittamente integrato, il palese squilibrio territoriale generato da uno strabico sviluppo dei singoli complessi urbani considerati furono il compito della pianificazione regionale alla quale fu chiamato negli anni Sessanta Piacentini((Per un quadro dello sviluppo urbanistico regionale P.L. Cervellati, La strada che genera città, in R. Finzi (a cura di), L’Emilia-Romagna, cit.)).
In questa riflessione la facilità con cui si poteva mettere mano al territorio agricolo per dare spazio all’impellente crescita urbana nell’ambito di un’agricoltura monopolizzata dal processo di industrializzazione e specializzazione preoccupava l’architetto che riconosceva nella campagna e nella realtà economico-sociale agricola anche una valenza identitaria imprescindibile. Ed è in questa prospettiva, quella del riequilibrio, che egli, allo scopo di rendere confrontabili fra di loro i piani zonali agricoli e quelli delle comunità montane per fornire strumenti adeguati all’elaborazione dei piani comprensoriali, iniziò un processo di raccolta e di archiviazione delle informazioni scaturite dal monitoraggio del territorio creando una banca-dati delle caratteristiche fisiche, chimiche, biologiche, demografiche ed economico-sociali relativa all’intero territorio dell’Emilia-Romagna che confluì infine nella Metodologia di base per la formazione dei piani comprensoriali della regione Emilia Romagna (1975).
Una lettura critica del territorio la sua che si poneva la questione delle limitazioni dell’uso del suolo che spinse Osvaldo Piacentini e il suo gruppo ad avvalersi della professionalità di agronomi in un modo nuovo. Superando l’impostazione economico-aziendale, che privilegiava la struttura agronomica e organizzativa delle aziende agricole, e dunque il loro potenziale sviluppo, i piani zonali elaborati da Osvaldo Piacentini al contrario posero in cima alle priorità la quantificazione delle risorse naturali presenti “naturalmente” sul territorio ipotizzando, come prima approssimazione, uno schema astratto per il loro uso ottimale((I piani zonali di sviluppo agricolo della provincia di Pesaro (1976), in G. Lupatelli, F. Sacchetti(a cura di), Osvaldo Piacentini, cit. )).
Purtuttavia, il raggiungimento della consapevolezza ecologica di tipo moderno e l’interrogarsi sulle sorti future del territorio in un contesto ecosistemico non giungerà nell’ideologia urbanistica di Osvaldo Piacentini dall’esigenza pianificatoria di riequilibrio. La razionalizzazione del territorio muoveva da una lettura critica della realtà circostante: così come essa si poteva osservare, ma senza dimenticare le dinamiche storico-sociali che erano concorse alla sua formazione; una realtà, in altre parole, che doveva essere intesa non come una mera catalogazione degli elementi diversi ma come un sistema di relazioni((In questa prospettiva si possono includere: Primo schema di sviluppo regionale e a lungo termine per l’Italia (1964); Modello di riequilibrio territoriale per l’Italia padana (1964).)). L’assunzione esplicita dell’ambiente non come supporto fisico e complemento dell’“urbano” ma come elemento coesistente nonché come risorsa finita con cui confrontarsi muoverà, invece, dalla sua concezione dell’Uomo.
Nell’ideologia urbanistica di Osvaldo Piacentini, lo si è già detto, è l’Uomo e il suo progresso ad essere al centro. Lo ribadì quando, nella prima metà degli anni Sessanta, fu chiamato a riflettere sul modello di sviluppo per l’Emilia Romagna nell’ambito dei lavori di studio promossi dal Comitato Regionale per la Programmazione Economica (CRPE). Posto che il fine della programmazione economica era quello della «massimizzazione del reddito», il fine della pianificazione territoriale, che ad essa non era subordinata ma che collaborava in azione sinergica, era invece quello «del miglioramento delle condizioni civili di vita». Il fine del potere politico e dunque la decisione finale, «il processo di sintesi» fra i due binari suddetti, scriveva Piacentini, era di «competenza precisa dell’area politica». Di conseguenza, ritenere di poter sostituire al processo di razionalizzazione del territorio le soluzioni «caso per caso», espressione queste di una concezione ancora autarchica dello sviluppo regionale, era sbagliato e controproducente. Il problema andava affrontato sotto l’ottica di uno sviluppo generale che non avrebbe dovuto mettere la crescita in quanto tale al centro della propria missione ma anzi, l’Uomo, il vero nucleo propulsivo dell’emancipazio-ne((O. Piacentini. A. Magnani, Pianificazione territoriale, in B. Andreatta, A. Ardigò, O. Piacentini, Sviluppo economico e pianificazione territoriale, Roma, Cinque Lune, 1968, p. 62.)).
Se, dunque, anche durante la straordinaria stagione riformista della programmazione dei governi di centro-sinistra, i quali nell’elaborazione di una politica di sviluppo videro come passaggio obbligato il riequilibrio territoriale Nord-Sud e la pianificazione a scale sovraregionale, Osvaldo Piacentini non “dimentica”, coerentemente con la sua ideologia urbanistica, il suo obiettivo (l’urbanistica come l’arte di far vivere l’Uomo), tuttavia è il contesto circostante a subire un mutamento e a far maturare la sua teoria urbanistica. Per Osvaldo Piacentini intorno all’Uomo non vi è più semplicemente spazio da urbanizzare, territorio da razionalizzare ma un “ambiente” nel quale far “con-vivere” l’Uo-mo. In breve, un ecosistema.
Cogliere la dimensione storico-culturale e fisico-chimico-biologica dell’inter-vento antropico sull’ambiente scatenerà all’inizio degli anni Settanta un acceso dibattito grazie alla pubblicazione, fra i tanti, sulla rivista «Il Mulino» del saggio di L. White((L. White, Le radici storico-culturali della nostra crisi ecologica, in «Il Mulino», marzo-aprile 1973, pp. 251-263.)), di The Closing Circle di Barry Commoner((B. Commoner, Il cerchio da chiudere, Milano, Garzanti, 1972.)), ma soprattutto in seguito alla circolazione del rapporto del Club di Roma, The Limits to Growth pubblicato in Italia da Mondadori (il cui titolo però fu tradotto non letteralmente in I limiti dello sviluppo) che mostrava l’impossibilità di una crescita materiale indefinita in un ecosistema dalle risorse fisiche finite((Su Aurelio Peccei e sul Club di Roma, nonostante l’originalità e l’importanza della vicenda, la storiografia non ha ancora indagato approfonditamente. Pertanto si vedano G. Pauli, Crusader for the Future: A portrait of Aurelio Peccei, London, Pergamen, 1987; R. Della Seta, La difesa dell’ambiente, cit., pp. 28-30; G. Nebbia, A trent’anni dal Club di Roma, in «Liberazione», 27 gennaio 2002.)). Le fondamenta dell’ecolo-gismo militante e della politicizzazione della questione ambientale venivano dunque gettate mentre il fermento ambientalista avvolgeva il dibattito intellettuale italiano coinvolgendo, seppur in modo differente, tutte le culture politiche((E.H. Meyer, I pionieri dell’ambiente. L’avventura del movimento ecologista italiano. Cento anni di storia, Milano, Carabà, 1995, p. 189 e segg.)). Il contesto era quello del maturare della affluent society e del frantumarsi e ricollocarsi del sistema di valori in una organizzazione sociale che poneva con modalità nuove la questione dell’uso e abuso, dell’appropriazione e publicizzazione delle risorse naturali((S. Neri Serneri, Culture e politiche del movimento ambientalista, cit., p. 382.)). Contemporaneamente a questo fermento ambientalista avveniva la maturazione del discorso ecologista per Osvaldo Piacentini.
La consapevolezza dell’esistenza di una relazione ineludibile fra trasformazione sociale e trasformazione ambientale è il nucleo della riflessione nella Relazione programmatica per la formazione del Piano di sviluppo della provincia di Reggio Emilia (1971). In essa l’urbanista accoglie i suggerimenti metodologici dell’ecologo Eugene P. Odum – «l’unico ecologo cui va ascritto il merito di aver trattato con chiarezza il problema della globalità in ecologia» secondo Piacentini – che a partire da Fundamentals of Ecology (1953) e soprattutto da Ecology (1963) si concentra sulla triade Uomo-natura-ecosistema: l’Uomo è parte di un ambiente complesso che deve essere studiato, trattato e modificato come un tutt’uno, e non con approcci e progetti isolati((E.P. Odum, The Strategy of Ecosystem Development, in «Science», 164, 3877, 18-4-1969, pp. 262-270.)). L’argomento era stato ripreso nel dibattito italiano da Renzo Gonzato e Renzo Berette nell’ambito dell’interisciplinarietà della pianificazione territoriale, ma non aveva ancora suscitato indagini specifiche sull’impatto dell’industria sul mondo animale o vegetale((R. Gonzato, R. Berette, Gli spazi verdi, Bologna, Calderini, 1969.)). L’ecologia usata come parametro per la pianificazione territoriale era stata abbozzata da Angus Woodbury, ricordava Piacentini, ma le sue indicazioni in merito ai rapporti tra ecologia e problemi nazionali non erano mai state seguite in campo urbanistico, dando origine principalmente alla branca dell’ecologia umana, una disciplina fortemente caratterizzata da un profilo sociologico((A.M. Woodbury, Principles of General Ecology, New York, Blackiston, 1954.)).
Se l’uso equilibrato delle risorse era la prima condizione per la razionalizzazione del territorio, come andava teorizzando nei suoi Piani per le zone rurali, era giunto per Osvaldo Piacentini il momento di “incorporare” completamente l’Uomo nella sua realtà. «Preservare le aree naturali e l’alleggerimento delle zone compresse delle aree urbane», continuava, non era «un lusso, ma un investimento produttivo» e ridiscutere i concetti urbanistici su base ecologica appariva inderogabile. Il mantenimento di un equilibrio fra «gioventù e maturità ambientale» rappresentava il punto di partenza per lo sviluppo futuro. Scriveva:
Nella pianificazione di una località dal punto di vista urbanistico o industriale, pur conoscendo perfettamente i dati geologici ed idrologici, è necessario procedere anche all’acquisizione di tutte le informazioni circa gli “alterogeni”, la loro natura, la loro concentrazione nel mezzo, il loro comportamento. Dobbiamo necessariamente conoscere le limitazioni che le nocività fisiche o chimiche, metereologiche, idrologiche, limnologiche e acustiche operano sull’ambiente, sullo stato della vegetazione che ci circonda, sulla fauna.
Una volta calcolati i limiti di espansione di un ecosistema urbano e regionale, continuava Piacentini, le risorse devono pertanto essere non solo tutelate, ma se usate, per quanto possibile «riciclate per un utilizzo» futuro. I vincoli posti alla nuova urbanistica (impedire la distruzione di elementi integranti del ciclo biologico e l’esaurirsi delle risorse naturali; recuperare i prodotti una volta esaurita la loro funzione) rappresentavano un «capovolgimento di alcuni valori territoriali di base». Un capovolgimento «tanto più necessario – insisteva – se si vuole evitare che la libertà di vita sociale dell’Uomo venga ridotta e dipenda sempre più strettamente da fattori esterni e se non si vorrà far pagare caro all’Uomo il diritto di esistenza in una collettività»((Relazione programmatica per la formazione del Piano di sviluppo della provincia di Reggio Emilia, in G. Lupatelli, F. Sacchetti(a cura di), Osvaldo Piacentini, cit., p. 111.)).
La salvaguardia dell’ambiente intesa come unica chiave interpretativa per la nuova pianificazione non era la sola risposta alla nuova “crisi della civiltà” che Osvaldo Piacentini percepiva come imminente. L’ecologia, affermò al Convegno «Indirizzo per lo sviluppo economico e sociale della Vallata del Marecchia» a Santarcangelo di Romagna (Forlì) nel marzo 1973, significa anzitutto il «controllo continuo di come l’Uomo modifica il territorio». Ma se i parchi servono per salvaguardare l’ambiente, la risposta non è la «parchizzazione dell’Autosole» e, di conseguenza, l’obiettivo reale di un discorso ecologico moderno avrebbe dovuto essere quello di far sì che l’azione dell’Uomo non modificasse l’ambien-te «troppo rapidamente». Se la lezione dell’ecologia è stata quella di far comprendere che allo sviluppo industriale non si associa sempre il progresso civile, in altre parole che industrializzazione non è sinonimo di civiltà, far dialogare territorio e ambiente, campagna e città, industria e campo coltivato in una simbiotica relazione di crescita e progresso era l’obiettivo della nuova declinazione dell’urbanistica, concludeva Piacentini. Prisma attraverso il quale impostare la nuova urbanistica diventava la “pianificazione ambientale”. Essa, ovviamente, nasceva da un dato imprescindibile e costante per la sua ideologia urbanistica: «[D]alla presenza o meno dell’Uomo in un determinato territorio»((O. Piacentini, Registrazione dell’intervento al Convegno “Indirizzo per lo sviluppo economico e sociale della Vallata del Marecchia”, marzo 1973, trascritta e pubblicata in G. Lupatelli, F. Sacchetti(a cura di), Osvaldo Piacentini, cit., pp. 116-119.)).
Non dunque una sorta di religione della natura come alternativa all’antro-pocentrismo, non un mero congelamento o una mummificazione dell’ambiente, ma piuttosto un’organica, pianificata co-evoluzione. Per Osvaldo Piacentini l’ambiente era un campo di interazioni che con gradi diversi di qualità ed intensità investiva fattori biotici e abiotici. La pianificazione ambientale era per lui una modalità, un criterio per definire applicazioni analitiche interdisciplinari in un’ottica attenta al governo delle risorse primarie e, soprattutto, alla qualità della vita. La pianificazione ambientale era insomma una declinazione evoluta, matura, per intendere l’urbanistica moderna.
L’architetto reggiano non ha mai esplicitato organicamente la sua teoria per la pianificazione ambientale, tantomeno ha elaborato una metodologia specifica e, dunque, potrebbe sembrare una forzatura concludere introducendo un tema talmente ampio e affascinante per la storia ambientale. D’altro canto, come si è detto in precedenza, da un punto di vista epistemologico è difficile trovare una soluzione soddisfacente al conflitto fra cultura intellettuale e prassi operativa, fra il pensare e il fare urbanistica, fra il raccontare il discorso intellettuale di un architetto e il valutare i suoi progetti e le loro conseguenze, tanto più se si tratta di un “pianificatore”. Il dibattito urbanistico attuale, così come quello ecologista, del resto non sembrano per nulla indulgenti con il passato((Fra i tanti cfr. A. Mazzette, E. Sgroi, La metropoli consumata: antropologie, architetture, politiche, cittadinanze, Milano, Franco Angeli, 2007; A. Balducci, P. Pucci (a cura di), Documento preliminare per un territorio da ripensare, in «Urbanistica», 132 (gennaio-aprile 2007).)). Ma a fronte di una produzione di certo veritiera e ben documentata, più o meno specialistica e di fatto consolidata, che ritrae il rapporto fra i mutamenti dell’ambiente e i mutamenti della realtà antropizzata attraverso la vulgata dei vari scempi o «sacchi» edilizi e della «debolezza» pregressa del movimento ambientalista italiano((Ultimi in ordine di tempo cfr. A. Cederna, In nome del Bel paese. Scritti di Antonio cederna sull’Emilia-Romagna (1954-1991), a cura di Gabriella Gallerani, Carlo Tovoli, Bologna, Istituto per i beni culturali Emilia-Romagna, 1998; L. Borghese, L’Italia rovinata dagli italiani, a cura di Vittorio Emiliani, Milano, Rizzoli, 2005 di cui si veda anche l’introduzione del curatore; G. Nebbia, Per una definizione di storia dell’ambiente, in «Ecologia Politica», IX, 3 (settembre-dicembre 1999).)) sembra opportuno segnalare un percorso intellettuale alternativo. Nella triangolazione fra sviluppo del paese e, dunque, nuovo urbanesimo, alfabetizzazione democratica della cultura politica italiana e politicizzazione dei temi ambientalisti l’architetto Osvaldo Piacentini assorbì il messaggio ecologista che si affacciava nello spazio pubblico italiano e attraverso la sua ideologia urbanistica, incorporò l’ecosistema nella sua pianificazione. Dal suo punto di vista la maturazione del discorso ambientalista appare dunque non un corpo estraneo alla grande trasformazione socio-economico del paese ma un altro aspetto, seppur minoritario e per lunghi momenti offuscato, della questione ideologica della gestione della trasformazione.
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