Dalla riverniciatura verde della facciata al blocco dell’avvenire: forme e funzioni del greenwashing
Traduzione (a cura di Luigi Piccioni) dell’introduzione e dell’indice di Greenwashing. Manuel pour dépolluer le débat public, Paris, Seuil (collana Anthropocène), 2022.
Nella misura in cui il peggioramento dei problemi ecologici mette questi ultimi al centro del dibattito pubblico il termine “greenwashing” si è imposto, diffuso ed è infine divenuto popolare. Se esso è comparso inizialmente con il fine di denunciare il semplice utilizzo pubblicitario dell’argomento ecologico da parte di alcune aziende o istituzioni, oggi viene impiegato in modo molto più ampio.
Esso è usato per mettere in guardia da vicoli ciechi in cui si vengono a trovare pratiche, tecnologie o politiche pubbliche che sono comunque presentate o percepite, a volte all’interno degli stessi movimenti ambientalisti, come soluzioni ai problemi ambientali. Il greenwashing sembra quindi andare ben oltre il campo della comunicazione aziendale per apparire come una tendenza più generale a “pensare male” i problemi ecologici nella nostra società. Tuttavia, se vogliamo rendere i nostri modi di vita, di produzione e di organizzazione sociale compatibili con la conservazione di un pianeta abitabile, dobbiamo cominciare a disinquinare il dibattito pubblico da discorsi e false promesse che, mascherando o camuffando la realtà, ci impediscono di essere lucidi riguardo alla catastrofe in corso e alle misure necessarie per arginarla.
Questo è l’obiettivo di questo manuale di autodifesa intellettuale.
Esso si presenta come un dizionario che passa in rassegna i principali campi e concetti in cui il greenwashing è oggi all’opera. Ripercorrendo la storia delle parole e delle idee, analizzando le semplificazioni e gli impensati in esse contenuti, mettendone in evidenza i presupposti dubbi e le difficoltà pratiche, le venticinque voci di questo libro vogliono essere utili a tutti coloro che desiderano orientarsi nella nebbia del greenwashing contemporaneo.
Questo progetto ha preso forma nel laboratorio dell’Atelier d’ecologie politique (Atecopol) di Tolosa, un collettivo di ricercatori e di ricercatrici di tutte le discipline impegnati nella riflessione sugli sconvolgimenti ecologici in corso che include la coordinatrice e i coordinatori del libro, oltre a molti dei 37 esperti che vi hanno contribuito. Gli altri autori sono scienziati di altre regioni o di altri collettivi collettivi, giornalisti, attivisti o professionisti impegnati. Facendo collaborare tutte queste penne abbiamo voluto ricordare che l’analisi dei vicoli ciechi ecologici della nostra società è ben lungi dal provenire soltanto dagli ambienti accademici.
Mentre i contributi qui raccolti analizzano ciascuno in modo indipendente una particolare espressione del greenwashing, questa introduzione da parte sua lo affronta come un fenomeno generale. La diversità degli attori che lo alimentano e il costante rinnovamento delle sue forme suggeriscono l’idea che esso svolge funzioni importanti nella riproduzione della nostra società. Molto più di un semplice riverniciatura verde di facciata, il greenwashing contemporaneo appare come un modo per incatenarci a una traiettoria socio-ecologica insostenibile. Ecco perché è urgente neutralizzarne le trappole.
I grandi trucchi della “comunicazione verde”
Nell’uso più frequente, il termine greenwashing si riferisce a qualsiasi forma di comunicazione ingannevole o fraudolenta relativa alle prestazioni ambientali di un prodotto o di un’azienda (product-level e firm-level sono i due livelli comunemente identificati nella ricerca sull’argomento). Per quasi tre decenni, associazioni, attivisti e intellettuali di ogni tipo hanno cercato di svelarne gli ingredienti. Senza entrare in dettagli, ricordiamone alcuni.
Esistono innanzitutto dei mezzi retorici, come l’uso di termini vaghi che evocano l’ecologia (eco-friendly, 100% naturale, ecc.), eufemismi che permettono di sfumare certe realtà (“prodotti fitosanitari” invece che “pesticidi”) o espressioni che consistono nell’associare una nozione “ecologica” a un termine o a un’attività contestati (biocarburanti, gas naturale) anche a costo di creare veri e propri ossimori (sviluppo sostenibile, ecologia industriale, ecc.). Il greenwashing può anche assumere la forma di dichiarazioni non verificabili o di semplici promesse che consentono di rimandare azioni concrete. Strettamente associati a queste procedure discorsive sono mezzi più subliminali come immagini o suoni (ambientazioni naturali, canti di uccelli, ecc.) che hanno lo scopo di associare al prodotto o all’azienda l’idea di rispetto della natura o di ecocompatibilità (McDonald’s che ridipinge le insegne di verde…).
La comunicazione non è fatta tuttavia solo di discorsi o di immagini, ma anche di azioni che permettono di attirare l’attenzione su ciò che si vuole mostrare al fine di distoglierla da ciò che si vuole nascondere: questa capacità di captare l’attenzione è alla base di molte forme di greenwashing. Una procedura molto comune è quella di evidenziare un aspetto o un’azione ambientale reale ma minore (ad esempio, la riprogettazione dell’imballaggio di un prodotto, quando il problema è il prodotto stesso). Le aziende possono anche sostenere cause ambientali, sponsorizzare associazioni o fondazioni ambientali, con queste ultime che fungono da “copertura” o “schermo” per rendere più verde l’immagine delle aziende senza che queste debbano rivedere le loro pratiche.
In inglese, la nozione di greenwashing incorpora un doppio o triplo gioco di parole che non può essere reso in italiano. Innanzitutto, il termine è una declinazione del termine whitewashing, che in senso letterale si riferisce all’imbiancatura (una tecnica che permette di dare un aspetto “pulito” a un muro con poca spesa) e in senso figurato a qualsiasi processo di occultamento. Analogamente, il greenwashing consiste nel ricoprire con una vernice verde la facciata delle industrie “sporche” perché inquinano, nel ricoprire i loro danni ambientali.
Ma questo neologismo richiama anche un’altra nozione, quella di brainwashing, cioè lavaggio del cervello, comunemente usata per indicare l’obiettivo della propaganda, soprattutto pubblicitaria, di influenzare le opinioni di qualcuno fino a fargli pensare qualcosa di diverso da ciò che pensava, come se si fosse riusciti a “fare piazza pulita” delle proprie idee, a “pulire il cervello”. Questa associazione di idee aggiunge qualcosa in più: il greenwashing non consiste solo nel coprire e nascondere alcune realtà spiacevoli, ma indica anche una forma di manipolazione mentale che mira, come molte forme di “pubbliche relazioni”, a produrre adesione e consenso. Infine, ricorda anche il termine hogwash, che letteralmente significa “pappa per i maiali” e figurativamente significa una sciocchezza usata per trarre in inganno.
E in effetti la maggior parte delle forme di greenwashing si riducono a una serie di insensatezze ecologiche, che possono apparire dotate di senso solo perché sono soggette a un martellamento mediatico che finisce col plasmare il senso comune.
A prima vista, quindi, il greenwashing è semplicemente un gioco di apparenze, per ingannare e far credere ai consumatori che l’organizzazione che lo utilizza è più pulita di quanto non sia in realtà. In un certo senso, è un tributo del vizio alla virtù, e può essere visto come l’ipocrisia della nostra era industriale o la sua sofistica – con riferimento ai sofisti che nell’antica Grecia insegnavano come convincere un pubblico pur usando i mezzi retorici più disonesti.
Un mezzo di difesa contro la critica ecologica
In questo senso, il greenwashing emerge come reazione alle preoccupazioni ecologiche che si sono diffuse a partire dagli anni Sessanta e Settanta. Additate sempre di più a causa delle loro malefatte, le grandi aziende hanno inizialmente risposto o respingendo le critiche, o richiudendosi in una pura e semplice denegazione (negando la realtà dei problemi ambientali o la loro responsabilità) oppure tentando di screditare il pensiero e il movimento ecologista, ciò che è stato chiamato green backlash. Ma a partire dagli anni ‘80 alcune multinazionali si sono rese conto che questa strategia le avrebbe condotte in un vicolo cieco e hanno sviluppato un modo diverso di affrontare la critica, cercando cioè di recuperarla. Ridipingendo di verde la loro immagine, esse hanno voluto suggerire che avevano preso coscienza dei problemi e se ne stavano facendo carico: era l’ascesa dell’“ecologia aziendale”. Il termine è apparso nel 1987 nel contesto della critica all’energia nucleare ed è diventato rapidamente popolare, in particolare grazie a un articolo del 1991 sul greenwashing nella rivista statunitense Mother Jones e alla prima “guida al greenwashing” pubblicata da Greenpeace nel 1992.
Se sulla scena mediatica la denigrazione (greenbashing) e il recupero (greenwashing) della critica ecologica sembrano opporsi, nella realtà essi sono complementari. Strategicamente, questo doppio movimento ci permette di delimitare il “corridoio del discorso” sulle questioni ambientali all’interno del nostro spazio pubblico. Da un lato, è possibile denigrare l’ecologia politica con tutti i mezzi (sostenendo che essa sostiene il “ritorno alla candela”, che “ricicla idee che puzzano”, reazionarie o antiumaniste, oppure che è portata avanti da fanatici “khmer” o “ayatollah verdi”, ecc.), dall’altro lato se ne può disinnescare il potenziale critico con la modalità del consenso, cancellando ogni forma di conflittualità attraverso il presunto impegno di tutti (le imprese sono parte della soluzione, tutti fanno la loro parte, ecc.). In entrambi i casi, si tratta di andare nella stessa direzione, escludendo dal dibattito “serio” i progetti di trasformazione sociale che mettono in discussione i modi di vita, le tecnologie o più in generale il funzionamento del capitalismo industriale.
Tuttavia, lungi dal sostituirlo, il greenwashing alimenta il greenbashing. L’onnipresenza di rivendicazioni ecologiche nella comunicazione istituzionale sta portando a quella che lo storico Michael Bess ha definito la “società verde chiara”, un mondo in cui la preoccupazione per l’ambiente sembra essere dappertutto e da nessuna parte, producendo un senso di saturazione in molte persone. Il disagio si acuisce ulteriormente quando questa cosiddetta preoccupazione viene utilizzata per giustificare schemi normativi che complicano la vita quotidiana delle persone, soprattutto di quelle meno privilegiate, oltretutto con risultati insignificanti sulla qualità dell’ambiente.
È il caso, ad esempio, di tutta una serie di norme che gravano sulla professione agricola e che, lungi dal mettere in discussione il modello produttivista, lo rafforzano favorendo l’eliminazione delle piccole aziende agricole a vantaggio di quelle più industriali.
Di conseguenza il greenwashing può anche alimentare il risentimento del pubblico nei confronti dell’ecologia.
Più che parole, dispositivi che producono illusione
La definizione standard di greenwashing da cui siamo partiti è tuttavia troppo restrittiva. In molti casi, le sue manifestazioni vanno oltre l’ambito della comunicazione aziendale, e persino oltre l’ambito della comunicazione in senso ordinario. Poiché gli Stati sono stati visti come attori principali della traiettoria insostenibile delle nostre società, anch’essi si sono imbarcati nel greenwashing per neutralizzare una critica che chiede di “cambiare il sistema e non il clima”. A questo livello, il greenwashing va ben oltre i “bei discorsi” e si concretizza in politiche molto concrete: l’emanazione di leggi apparentemente ecologiche, il finanziamento di tecnologie (auto elettriche, transizione digitale, ecc.) i cui effetti sul clima sono meno certi di quelli sui conti bancari dei grandi azionisti, o lo sviluppo di meccanismi normativi che promuovono pratiche che danno l’impressione che le autorità pubbliche stiano affrontando i problemi di petto, mentre non ne mettono in discussione le cause fondamentali.
Prendiamo l’esempio della lotta alle abitazioni scarsamente isolate che è generalmente accettata come azione ecologica ma così come viene attuata oggi, con materiali industriali altamente emissivi e aziende vincolate da imperativi di redditività piuttosto che di qualità, in realtà alimenta la crescita dell’industria edilizia e rischia di essere controproducente. Allo stesso modo, la metanizzazione è considerata un’energia “verde” o “pulita” da risorse rinnovabili: una miscela di rifiuti vegetali e animali la cui fermentazione produce metano che viene bruciato per produrre elettricità. Ma nel modo in cui è stato sviluppato in Bretagna dopo il “Patto per l’elettricità” del 2010, serve soprattutto a riverniciare di verde la facciata del complesso agroalimentare bretone, tutt’altro che ecologico. Infatti, essa offre uno sbocco alternativo per le immense quantità di letame suino rispetto allo spargimento nei campi, che è la fonte delle masse di alghe verdi che inquinano le coste. In questo modo, attenuando uno dei problemi che esso pone, essa contribuisce a rendere accettabile l’allevamento intensivo. Ancor peggio, il calore cogenerato viene talvolta utilizzato per riscaldare le serre che producono pomodori o fragole fuori stagione, contro ogni buon senso ecologico.
Un altro esempio in cui il greenwashing si ritrova letteralmente istituzionalizzato è il mercato del carbonio. Esso è stato creato dagli Stati industriali e dalle industrie dei combustibili fossili a partire dal Protocollo di Kyoto in nome della promessa di ridurre le emissioni di CO2 senza regolamentazioni vincolanti – istituendo un mercato di “quote di carbonio” (cioè diritti di inquinare), con la possibilità di generare “crediti di carbonio” attraverso “meccanismi di compensazione”.
Questo ha fatto sì che solo il 2% del commercio di carbonio abbia effettivamente contribuito a ridurre le emissioni. Ma proprio questo era in fondo lo scopo dell’intera operazione: impedire l’attuazione di misure limitative.
In questi casi il greenwashing assume una dimensione completamente nuova: esso non opera più a livello di prodotti o imprese, ma di interi settori (edilizia, agroalimentare, industria dei combustibili fossili), o addirittura del sistema economico nel suo complesso, contribuendo a tenerlo al riparo dalle critiche. A questo livello, non possiamo più accontentarci di considerarlo il semplice risultato di tattiche commerciali o di politiche isolate. Certo: qui sono all’opera gruppi di interesse specifici e a sospingere certi schemi e a lavorare per la loro accettazione sono demandati degli strateghi consapevoli. Ma ridurre il greenwashing generalizzato in cui siamo immersi a un’impresa di mistificazione orchestrata da poche élite che ne beneficiano direttamente non ci permette di comprendere la portata del fenomeno. Infatti non sono solo le aziende più inquinanti a cercare di nascondere le loro malefatte, ma sono tutta una serie di attori, fino a quelli più sinceri, a partecipare alla proliferazione di false promesse, di mezze soluzioni o di veri e propri ostacoli rispetto alla soluzione della crisi ecologica. Come mostra questo libro, questa tendenza finisce con l’influenzare dei settori che si possono per altri versi legittimamente considerare come efficaci leve di mobilitazione ambientalista.
In questo modo, anche se l’arresto dei motori a scoppio, il riciclaggio o il rimboschimento hanno certamente un posto importante nel disegno di una società sostenibile, l’auto “pulita”, l’economia circolare o la piantagione di alberi per compensare le emissioni di CO2 appaiono inevitabilmente come gigantesche imprese di greenwashing. Come possiamo spiegare questa situazione, in cui i tentativi di muoversi in direzione di una società e di un’economia più ecologiche sembrano sempre fallire? Perché nell’arena pubblica la minima idea ecologica dà immediatamente origine a una profusione di discorsi e pratiche che una mente lucida non può che percepire come fumose, mistificatorie?
Il sintomo di un pensiero bloccato
Una prima pista di risposta è sul versante della sociologia della cultura e della storia delle idee., Queste discipline ci insegnano infatti che ogni momento storico-sociale conosce una sorta di canalizzazione di pensieri e discorsi entro limiti che è intellettualmente difficile e socialmente pericoloso superare. Ogni epoca e ogni società hanno le proprie certezze e i propri impensati, i propri valori e i propri modi di costruire ragionamenti che sembrano validi. Questo inquadramento culturale rende difficile disporsi all’ascolto di pensieri che escono dai sentieri battuti, ma tende anche e soprattutto a indirizzare il pensiero in direzioni preformate. Così, nel nostro tempo e sul tema ecologico, è terribilmente difficile, anche per le menti più sincere, fuoriuscire da certe categorie ereditate e non riprodurre, con la scusa dell’innovazione, gli stessi vicoli ciechi. La lettura dei contributi di questo libro mette in luce questo fenomeno in modo particolarmente chiaro. Su temi diversi come l’agricoltura, i trasporti e la “transizione”, ritroviamo sempre gli stessi modi di (mal)pensare ai problemi ecologici.
In particolare, tre tendenze caratteristiche del pensiero moderno ci sembrano bloccare le riflessioni sui diversi argomenti trattati: l’economicismo, il soluzionismo tecnologico e il pensiero a compartimenti stagni.
L’economicismo è la tendenza a concepire le condotte umane solo in termini di meccanismi di mercato.
La gestione dei beni comuni, l’auto-organizzazione, la cooperazione internazionale e molte altre proposte vengono così lasciate in ombra. L’ossessione per la “crescita verde” è rappresentativa di questo fenomeno di invisibilizzazione delle alternative da parte della logica mercatile. Ancora più problematico è il fatto che inserire le misure ecologiche in tale logica vuol dire sottoporle a un certo numero di imperativi (redditività, competitività, crescita, ecc.) e difetti (cecità nei confronti delle esternalità negative, ricerca ossessiva del profitto che può portare a pratiche disoneste, influenza delle lobby, ecc.) che sono costitutivi del meccanismo che conduce all’attuale catastrofe. Infine, l’economicismo rappresenta una radicale semplificazione dei problemi umani ed ecologici. Esso riduce la complessità della vita a indicatori numerici (PIL, fatturato, valore finanziario, ecc.) per poterla gestire attraverso strumenti economici universali.
L’assurdità di questo approccio è particolarmente evidente nei processi di “compensazione ecologica” che sono al centro della “finanza verde” e della gestione della biodiversità. La mercificazione della natura che ne è alla base porta alla negazione della profondità qualitativa del mondo e all’adozione di equivalenze sconcertanti, come il mettere sullo stesso piano la scomparsa di una specie animale e l’investimento in negozi di riparazione di biciclette.
Il soluzionismo tecnologico si riferisce invece alla fiducia che l’innovazione tecnico-scientifica sia in grado di risolvere tutti i problemi.
Di fronte alla crisi ecologica, esso rappresenta tanto una pericolosa scommessa quanto un potente guardiano dell’ordine stabilito. Di fronte all’urgenza e alla gravità delle minacce, la convinzione che una tecnologia miracolosamente pulita ci salverà è particolarmente rischiosa. D’altro canto, per i sostenitori dello status quo alimentare questa speranza ha il vantaggio di escludere dal campo di riflessione un’intera gamma di proposte politiche alternative. L’idea di “salvare il pianeta” (o piuttosto il sistema) attraverso la tecnologia pone diversi problemi ecologici noti e riconosciuti, come lo spostamento e/o la trasformazione dell’inquinamento, l’effetto di rimbalzo, l’esaurimento delle risorse (minerarie o terrestri), ecc. Inoltre, esso ci impantana ancora e sempre nella cecità verso le alternative, nelle fantasie demiurgiche e nel ritardare l’azione.
Il pensiero a compartimenti stagni, infine, induce a considerare gli elementi indipendentemente dall’insieme, mantenendo così la cecità nei confronti dei fenomeni sistemici. Questa razionalità coi paraocchi si esprime, ad esempio, nella ricerca di soluzioni “individualistiche” o “settoriali” ai problemi ecologici. I limiti dell’individualismo sono ben noti: come possiamo caricare il peso di una crisi globale sulle spalle dei singoli, che sono anche le prime vittime? Se l’articolazione dell’individuo e del collettivo è senza dubbio una questione politica importante, la cancellazione del secondo dietro il primo è certamente un totale vicolo cieco. L’altro aspetto del pensiero a compartimenti stagni si manifesta quando si inizia a considerare la transizione ecologica di specifici settori. È pertinente, ad esempio, pensare alla decarbonizzazione dell’aviazione indipendentemente dall’ecologizzazione generale delle nostre società, come si fa sovente? Ciò conduce in effetti a difficoltà ben documentate come lo spostamento dell’inquinamento (l’aereo a idrogeno comporta … la produzione di idrogeno), i conflitti d’uso (l’aviazione rivendica un’enorme percentuale del potenziale totale di produzione di agrocarburanti, dimenticando che anche altri settori dovranno utilizzarlo) o l’accaparramento di terre (per “compensare” le loro emissioni, le compagnie aeree piantano alberi su aree confiscate alle popolazioni locali).
Il greenwashing generalizzato in cui siamo immersi non è quindi solo il prodotto di tattiche di depistaggio e offuscamento.
O, per essere più precisi, queste tattiche funzionano solo perché il greenwashing è anche il risultato di uno “spirito del tempo” fondamentalmente anti-ecologico, quello di una modernità economicista e tecnico-soluzionista cieca ai fenomeni globali e incapace di deviare dal tunnel che sta costantemente scavando. La battaglia culturale per superare queste tre tendenze è una delle principali sfide della lotta ecologista.
Una domanda sociale per rimanere nella zona di comfort
In secondo luogo, mentre molte persone sono ora consapevoli e preoccupate della portata della nostra distruttività, le rimesse in discussione del nostro stile di vita (e anche dei nostri privilegi di cittadini dei Paesi dominanti) che sarebbero necessarie per farvi fronte sembrano così enormi che qualsiasi cosa si possa fare per rimandarle è accolta facilmente, senza alcun distanziamento critico.
La previsione della fine dell’auto privata e dello smartphone o il riorientamento della maggior parte delle attività produttive verso il low tech e il lavoro manuale viene respinta con forza. È vero che l’ascesa delle società industriali è stata accompagnata da un miglioramento delle condizioni di vita (cure mediche di base, sanità pubblica, sicurezza degli approvvigionamenti, ecc.) e dalla diffusione di una serie di possibilità tecnologiche che si possono apparire entusiasmanti. Ma è chiaro che sperare di limitare gli sconvolgimenti ecologici in atto, a partire dal riscaldamento globale, significa rinunciare ad alcune di queste possibilità, almeno nella loro forma attuale.
Ma questa prospettiva sembra impensabile, anche per alcuni sostenitori dichiarati dell’ecologia. Eppure, è fondamentalmente inaccettabile smettere di mangiare fragole in inverno, smettere di volare o scegliere il lavoro di agricoltore piuttosto che quello di webmaster? Tanto più se è in gioco l’abitabilità stessa del pianeta?
Se queste idee appaiono improponibili nell’arena pubblica, è perché non si limitano a scuotere abitudini isolate, ma un’intera visione del mondo incentrata sul “progresso”, visto come un processo lineare da accettare o rifiutare in blocco. In questa visione, evocare, ad esempio, un disimpegno dalla tecnologia digitale per motivi ecologici non solo significa attaccare qualcosa che è diventato desiderabile per molte persone (nonostante le conseguenze ambivalenti della digitalizzazione del mondo), ma sembra anche minacciare l’intera gamma di dispositivi tecnici quotidiani (come se rifiutare il 5G significasse di fatto rinunciare ai raggi X). Ma soprattutto ciò implica rompere con il motore delle speranze contemporanee, come se questa specifica forma di sviluppo tecno-scientifico costituisse la sola e unica fabbrica di un futuro desiderabile. Ecco perché il greenwashing risponde in qualche modo anche a un’esigenza sociale profondamente radicata: esso protegge l’idolo del progresso, la cui rimozione farebbe crollare molte delle illusioni che costituiscono la nostra vita moderna.
Oltre, o accanto, a questa dimensione culturale, la domanda sociale di greenwashing può essere rafforzata da un fenomeno psico-sociale: l’esorcismo contro la disperazione.
Infatti, la negazione socialmente organizzata della catastrofe viene regolarmente incrinata dalle diagnosi brutali dei media riguardo alle dimensioni del disastro. È chiaro che c’è stata un’accelerazione nella “grande accelerazione” in corso dalla seconda metà del XX secolo: la metà della CO2 emessa negli ultimi duecento anni è stata emessa dopo il primo rapporto IPCC (1990), mentre tutti gli sconvolgimenti globali sono aumentati nonostante i notevoli miglioramenti tecnologici e l’attuazione di politiche che si dichiarano rispettose dell’ambiente. In altre parole, l’inesorabile peggioramento della situazione testimonia l’impotenza nel riorientare questa traiettoria globale. Di fronte a tale constatazione il greenwashing funziona insomma come ultimo baluardo – illusorio e perverso – contro il panico.
Sia che si viva la messa in discussione delle ricadute dell’abbondanza energetica come un’insopportabile castrazione, sia che si sia portati a precipitarsi verso la prima soluzione che passa per non sprofondare nell’eco-ansia, sia che si stia semplicemente lottando nell’oscurità del presente e nell’incertezza del percorso da intraprendere, il greenwashing offre soluzioni psicologicamente accettabili. In breve, le strategie illusionistiche funzionano perché il mondo così com’è diventato è un mondo di illusioni.
Greenwashing, condizione necessaria per un boom industriale devastante
Ma tali strategie funzionano anche per una terza ragione. Lo sviluppo industriale si basa infatti sempre più su un processo oggettivo di occultamento dei pericoli e dei danni socio-ecologici che esso provoca, un processo oggettivo in quanto non si tratta solo di mascherare simbolicamente i danni all’interno del discorso, ma di metterli “lontano dagli occhi e lontano dal cuore”. Colpisce infatti la tendenza a “esternalizzare” lontano dai centri di consumo le attività industriali più nocive quando non sono strategiche. Ciò fa in modo che i principali beneficiari del “progresso” abbiano sempre meno sotto il naso i fastidi che esso genera. In un tale assetto del mondo il greenwashing può prosperare.
Strutturalmente inquinanti e pericolose, le attività industriali hanno suscitato fin dall’inizio l’ostilità e la diffidenza delle popolazioni vicine. Chi era in grado di farlo cercava di allontanarsi da esse o quantomeno di evitare i loro maggiori danni. Così, la borghesia parigina preferiva stabilirsi nella parte occidentale della città in modo che i venti dominanti non portassero loro il fumo delle ciminiere della “ville lumière”. Era quindi logico che si cercasse a poco a poco di allontanare queste industrie, prima dai centri urbani e poi sospingendole in aree sempre più periferiche. A tal fine sono stati impiegati diversi mezzi: anzitutto le delocalizzazioni, legate anche ad altre considerazioni, ma poi anche lo sviluppo di tecnologie in apparenza meno inquinanti.
La storia dell’elettrificazione è un buon esempio di questo processo di messa a distanza dell’inquinamento industriale. Nel XIX secolo, la natura inquinante dell’industrializzazione basata sul carbone saltava agli occhi e alla gola degli abitanti, soprattutto sotto forma di smog. L’elettrificazione, che è al centro della seconda rivoluzione industriale, ha permesso di nascondere questo inquinamento ai più privilegiati. La “fata dell’elettricità” si presentava come un’energia “pura e immacolata”: luce senza fuoco, quindi senza combustione né fuliggine. Tuttavia, l’elettricità è solo apparentemente pulita, non essendo una fonte di energia, ma un semplice vettore che permette ai suoi utenti di allontanarsi dai luoghi in cui viene prodotta, tradizionalmente mediante il carbone e ora, soprattutto in Francia, mediante l’atomo. Ciononostante il suo mito persiste e l’elettrificazione è più che mai al centro del greenwashing. Nella sua nuova funzione di supporto alla “dematerializzazione” e a tutte le soluzioni “intelligenti”, l’elettricità contribuisce a mantenere l’illusione di un capitalismo verde basato sull’elettrone e sulle reti intelligenti e non sull’estrazione mineraria, sul cablaggio planetario e sulla combustione, che sia fossile oppure nucleare. Come sintetizzano Alain Gras e Gerard Dubey nella loro storia dell’elettrificazione del mondo: “L’immagine della transizione verde è una storia vecchia”.
Il greenwashing non è quindi una deriva contingente, ma una necessità strutturale delle società industriali. Per garantire la loro riproduzione e crescita esse devono “magicamente” far sparire ciò che nessuno vuole vedere, il rovescio della medaglia dell’abbondanza industriale: l’aumento osceno delle disuguaglianze, le logiche (neo)coloniali di dominio e la distruzione degli ambienti di vita. Il greenwashing funziona quindi come un’ideologia nel senso di Marx: non è tanto una menzogna deliberata quanto un fenomeno strutturale di inversione della realtà nella coscienza comune. Si può anche dire che fa parte di quello che Guy Debord chiamava “spettacolo”: una messa in scena che, pur esprimendo i sogni di un’umanità addormentata, scherma il mondo reale e le dinamiche che lo modellano, finendo per anestetizzare le menti delle persone di fronte a una modalità di organizzazione socialmente e umanamente deleteria.
L’incorporazione della “transizione” da parte degli interessi dominanti
“Saranno i vari responsabili della rovina della terra a organizzare il salvataggio del poco che ne resterà”, affermava Bernard Charbonneau nel 1980 con magnifica lucidità e in effetti il contesto storico attuale non è più lo stesso che ha visto l’emergere delle prime forme di greenwashing. Di fronte alla portata del cambiamento globale, la negazione o la distrazione sono sempre meno sostenibili. Sta emergendo una nuova sfida per gli attori più potenti: non tanto nascondere la catastrofe, quanto posizionarsi per cogliere e guidare le trasformazioni che ne deriveranno al tempo stesso mantenendo intatta la propria influenza. In tal modo l’annuncio di BlackRock, il più grande asset manager del mondo, di voler cambiare la propria politica di investimento in risposta alla sfida climatica può essere visto non come una semplice campagna ingannevole, ma come un vero e proprio riorientamento dell’impresa, desiderosa di mettere le mani sul succoso mercato della transizione e di indirizzarlo in una direzione a lei favorevole.
Questa evoluzione influisce persino sul posizionamento delle aziende più inquinanti. Molte di loro non si accontentano più di cercare di ripulire la propria immagine continuando a svolgere le loro attività anti-ambientali, ma si stanno riorganizzando per affrontare le alternative e formattarle in base alle proprie idee. Sappiamo quanto i giganti dei combustibili fossili siano stati tra i principali “mercanti del dubbio”, ritardando deliberatamente la sfida climatica sotto la guida di ExxonMobil e Total. Queste aziende si presentano oggi come “industrie di gestione del carbonio” (carbon management industry) ponendosi così dalla parte delle soluzioni al problema ecologico … o meglio di un certo tipo di soluzione, calibrata da e per loro, di cui questo libro mostra i limiti e i pericoli. Questo greenwashing in formato XXL ha lo scopo di aprire nuove prospettive di sviluppo a industrie il cui fondamento consiste nello sfruttamento massiccio delle risorse naturali, come le compagnie petrolifere e del gas o altre attività con un’impronta particolarmente dannosa. Un esempio tipico di questa situazione in Francia è il lavoro di EDF (Électricité de France) per rilanciare l’industria nucleare: presentandola come una soluzione al problema del clima, al punto da cercare di farla inserire nelle “energie sostenibili” della tassonomia europea, essa riesce a intercettare enormi investimenti, nazionali e internazionali che rappresentano altrettanti finanziamenti che non andranno verso transizioni più ragionevoli. Il greenwashing è in questo caso una potente strategia di sviluppo industriale.
Su un altro piano, non si contano più i miliardari che hanno fatto fortuna sulla devastazione del mondo e che annunciano i loro piani per “salvare il pianeta” – o piuttosto per rafforzare il loro dominio su di esso. La Fondazione Bill Gates, la più colossale delle organizzazioni filantropiche, incoraggia attraverso le sue opere di beneficenza un modello tecno-capitalista presentato come ambientalista attraverso l’agricoltura industriale e il sostegno a una serie di attività e imprese tra le più dannose per la causa ecologica. Per quanto riguarda Elon Musk, la sua sfida “verde” di lanciare un’innovazione dirompente per estrarre la CO2 dall’atmosfera e la sua fantasia di colonizzare Marte per garantire la sopravvivenza della specie umana nonostante il saccheggio della Terra sono soprattutto al servizio dell’espansione del suo impero. In breve, le ambizioni demiurgiche dei re della Silicon Valley aprono opportunamente la strada a una “transizione ecologica” fatta di auto elettriche Tesla e algoritmi Amazon.
In queste grandi manovre per svuotare di significato la causa verde gli Stati non sono da meno. L’Accordo di Parigi del 2015 mirava a universalizzare gli impegni per un futuro climatico sostenibile. Da allora, gli Stati hanno ratificato piani, ognuno più ambizioso dell’altro, per ridurre le proprie emissioni entro il 2030 e puntare alla “carbon neutrality” entro il 2050, come la Strategia nazionale a basse emissioni di carbonio della Francia. Ma in assenza di una tabella di marcia concreta la maggior parte di queste promesse non tentano nemmeno di sembrare plausibili. Di conseguenza, non sono più solo Greenpeace o Friends of the Earth a denunciarli, ma anche istituzioni multilaterali come l’ONU, l’Agenzia Internazionale per l’Energia o la Banca Mondiale le quali producono rapporti che evidenziano le ricorrenti carenze dei piani di greening dei governi o dei settori industriali, per non parlare poi dei tribunali che condannano gli Stati per “inazione climatica”. Quello che appare come un susseguirsi di incantesimi e gesticolazioni va ovviamente inteso come espressione dell’incapacità dei leader di prevedere trasformazioni sociali su larga scala, ma anche, e forse soprattutto, come volontà di ricondurre il trattamento della crisi ecologica secondo alle solite logiche. Questo è in effetti ciò che tutti i tipi di Green New Deals stanno preparando nel momento in cui si affidano al mercato, alla gestione (sovra)statale e all’innovazione.
A questo livello, il greenwashing non è più solo uno strumento cosmetico o difensivo per proteggere il business as usual, ma la punta di diamante del suo sviluppo. Oggi esso si trasforma in un appello alla ripresa economica, che però deve essere verde. La narrazione principale che si sta cristallizzando è quella di un mondo reso ecologico dall’energia decarbonizzata, dalle tecnologie “intelligenti”, dall’economia “circolarizzata” e dalla cattura del carbonio. Le insidie di questa fantasia sono analizzate lungo tutto il libro: la falsa smaterializzazione dell’elettrificazione, i limiti fisici del riciclaggio e le speranze riposte in tecnologie il cui primo inconveniente è semplicemente che … non esistono ancora. Un altro rischio importante è anche quello dell’eccessiva pressione sulla biomassa nel momento in cui ci si affida oltre il possibile alla capacità dei suoli, delle colture agricole e delle foreste di sostenere l’impronta dei nostri bisogni, ignorando al tempo stesso i conflitti d’uso che possono derivare solo dalla scarsità di queste preziose risorse. Questo quadro mette in luce uno degli elementi da tenere sempre ben presenti di fronte alle promesse del greewashing: quando ci si pone l’obiettivo della riduzione degli impatti è sempre indispensabile non ridurre tutto all’impronta di carbonio o, peggio ancora, alla CO2, ma è necessario considerare il problema ecologico in tutte le sue dimensioni interrelate.
Sconfiggere il greenwashing per liberare il futuro
Pertanto, dobbiamo imparare a non lasciarci stupire dalle eco-promesse o dalle eco-furbate che non mancheranno certo di ripresentarsi costantemente. Distorcendo la nostra comprensione delle realtà in gioco, il greenwashing contribuisce a ritardare la svolta ecologica e a depoliticizzare il tema. Questo è anzi il suo scopo più importante: ingannare per preservare lo status quo, contrastare la mobilitazione e l’azione collettiva a favore di un reale cambiamento di rotta. L’effetto è quello di incanalare le critiche verso dei vicoli ciechi e di ostacolare le trasformazioni sociali, economiche, culturali e politiche che si dovrebbero (o si sarebbero dovute) intraprendere per evitare di finire dove siamo. Il disastro ecologico minaccia ormai gran parte delle forme di vita e persino l’abitabilità stessa della Terra. Come la storia dell’ambiente ha sufficientemente dimostrato, esso è il risultato del dispiegamento storico, a partire dal mondo occidentale, di un certo tipo di società e di stile di vita (qualunque sia il nome che gli diamo: capitalismo, modernità tecno-scientifica, civiltà termo-industriale, ecc.) Alla fin fine, il greenwashing appare come tutto ciò che contribuisce a distrarre da questa constatazione. Nonostante sia necessario cambiare il nostro modello, si fa di tutto per continuare a credere che sarebbero sufficienti cambiamenti marginali, come ad esempio cambiare la nostra vecchia auto a benzina con un veicolo elettrico di ultima generazione. In questo modo è possibile immaginare di perpetuare l’espansione dei bisogni energetici e materiali – mediante la generalizzazione dell’ipermobilità, della connessione o delle consegne – senza sollevare le questioni metaboliche essenziali sui flussi di materia ed energia e sulla capacità degli ecosistemi di assorbire le varie pressioni. Eppure sono questi i temi che dobbiamo essere in grado di affrontare oggi, senza nascondere la finitezza e i limiti, o le responsabilità specifiche dei Paesi e dei gruppi sociali più ricchi.
Ma c’è qualcosa di ancor più deleterio. Occultando l’inazione climatica, riverniciando di verde sia pur in modo sommario l’inerzia collettiva, ciò che il greenwashing contribuisce a mascherare è il nuovo salto che sta avvenendo a ritmo accelerato nell’industrializzazione del mondo, segnalato dalla fuga in avanti tecno-soluzionista. Più che fornire semplici illusioni e false rassicurazioni, il greenwashing rafforza una traiettoria e un dominio, e consente che vi si rimanga bloccati dentro. La nozione di “path dependency” è un’espressione generale degli effetti di inerzia, blocco e riproduzione che molte scelte tecniche e organizzative della società contemporanea hanno creato: una volta adottata una determinata scelta, è difficile cambiarla. Oggi questo meccanismo prende un significato ancor più importante perché, man mano che si superano le soglie dell’irreversibilità ecologica, è come se la strada scivolasse via dietro di noi, impedendoci di tornare sui nostri passi. Cristallizzando la traiettoria attuale, facendoci lasciare indietro bivi che avrebbero potuto rivelarsi salutari, il greenwashing partecipa pericolosamente della riduzione della gamma di mondi possibili. Contribuendo all’aggravarsi della catastrofe ecologica – nelle sue varie forme, dal cambiamento climatico al crollo della biodiversità -, esso giustifica in anticipo il fatto che dovremmo tentare di risolverla con processi high-tech, monitoraggio digitale e controllo tecno-scientifico globale. Alcuni preconizzano anzi già da ora che questo sia l’unico modo per affrontare l’Antropocene.
Considerato all’inizio come una semplice riverniciatura di verde della facciata, al termine della nostra analisi il greenwashing si rivela come un modo per bloccare il futuro. I suoi effetti sono simili a una guerra condotta contro le persone e la loro capacità di comprendere i problemi e di decidere come reagire ad essi. Di fronte alle cupe prospettive di sconvolgimenti globali, le manifestazioni più perniciose del greenwashing, che oggi combattiamo assegnando ironicamente il premio Pinocchio o il titolo di eco-imbroglioni, non saranno forse considerate un giorno come il sostegno a un crimine contro l’umanità? Grazie al greenwashing, infatti, l’ecologizzazione della società viene tradita e sempre rimandata in quanto l’ambiente finisce col non essere realmente preso in considerazione all’interno del funzionamento della società (nelle politiche pubbliche, nelle pratiche professionali, negli stili di vita, ecc.) e vengono messe in secondo piano e depotenziate non soltanto le trasformazioni politiche ma anche i cambiamenti economici, i riorientamenti socio-tecnici e la liberazione degli immaginari culturali. Smascherare e combattere il greenwashing richiede, al contrario, di rendere finalmente udibile e visibile la moltitudine di alternative ecologiche, solidali e democratiche che ci permetterebbero di cambiare il corso delle cose.
Indice dell’opera
- INTRODUZIONE. Dalla riverniciatura verde della facciata al blocco dell’avvenire: forme e funzioni del greenwashing (Aurélien Berlan, Guillaume Carbou, Laure Teulières)
- AGRICOLTURA DUREVOLE. Come viene dissimulata la nocività dell’agricoltura industriale?(Ève Fouilleux, Aurélien Berlan)
- ANTROPOCENE. L’ecomodernismo può gestire la catastrofe ecologica? (Christophe Bonneuil)
- AUTO PULITA. Cambiare vettura per cambiare il mondo? (Celia Izoard)
- BIODIVERSITÀ. A chi giova la vaghezza? (Julien Delord, Vincent Devictor)
- CITTÀ DUREVOLI. Possono le metropoli rinverdire anche qualcos’altro oltre alle facciate? (Jérémie Cavé)
- COMPENSAZIONE. Il nostro impatto sulla biosfera può essere l’oggetto di un gioco contabile? (Adriana Blache, Frédéric Boone, Étienne-Pascal Journet)
- COSTRUZIONE ECO-RESPONSABILE. Il grande pasticcio delle norme ambientali? (Érik Mootz)
- CRESCITA VERDE. Può la ragione economica fare l’economia della ragione? (Jacques Humulle, Timothée Parrique)
- DEMATERIALIZZAZIONE. Il mondo numerico è un paradiso virtuale o un carcere industriale? (Celia Izoard, Aurélien Berlan)
- ECO-CITTADINO. Cambiare gli individui senza ripensare la società? (Jean-Baptiste Comby)
- ECONOMIA CIRCOLARE. Riciclare la promessa di infinito o prendere sul serio i limiti ecologici? (Baptiste Monsaingeon)
- ECO-PSICOLOGIA. Solo sviluppo personale o battaglia culturale? (Aude Vidal)
- ENERGIA DECARBONIZZATA. Mangiamo abbastanza patatine fritte per viaggiare in aereo? (Frédéric Boone, Mickaël Coriat, Michel Duru, Julian Carrey, Florian Simatos)
- FINANZA VERDE. Finanziare la transizione o finanziarizzare la natura? (Sandrine Feydel, Frédéric Hache)
- NATURA UMANA. L’essere umano è ecocida per natura? (Jean-Michel Hupé, Vanessa Lea)
- NAZIONALISMO VERDE. Si possono conciliare nazionalismo ed ecologia? (Lise Benoist)
- NEUTRALITÀ CARBONE. Quando la vasca straborda, la cosa più semplice non è chiudere il rubinetto? (Antoine Costa)
- NUCLEARE. Un futuro al tempo stesso più caldo e più radioattivo? (Marie Ghis Malfilatre, Gaspard d’Allens)
- POLITICHE PUBBLICHE. In materia di ecologia, lo Stato può fare altro che limitarsi a parlare? (Julien Weisbein)
- PRESA DI COSCIENZA. Un incantamento al servizio degli inquinatori? (Jean-Baptiste Fressoz)
- RESPONSABILITÀ SOCIALE DELLE IMPRESE. È possibile moralizzare i giocatori senza cambiare le regole del gioco economico? (Guillaume Carbou, Marie-Anne Verdier)
- SVILUPPO DUREVOLE. Fino a quando si perpetuerà la religione del progresso? (Jacques Luzi)
- TRANSIZIONE. Evolvere verso un mondo sostenibile o rilanciare le illusioni dello sviluppo durevole? (Collectif Penser les transitions-Atelier d’écologie politique de Dijon)
- TURISMO. Quale impatto per visitare il mondo in modo “responsabile”? (Steve Hagimont, Vincent Vlès)
Traduzione dal francese di Luigi Piccioni.
Collettivo Atécopol, Tolosa