Dalle Rocce calde secche ai Sistemi geotermici stimolati. Stato di sviluppo e prospettive

Precedenti, origine del tema e terminologia

I lettori meno giovani ricorderanno che la prima grande crisi delle fonti di energia si verificò quasi 40 anni fa a seguito della Guerra del Kippur (Ottobre 1973) e dell’embargo delle forniture di grezzo fatto dai Paesi arabi, con improvviso aumento del prezzo del petrolio da 3 a 12 US $/barile. I Paesi occidentali reagirono con misure volte alla razionalizzazione dei consumi, alla riduzione degli sprechi, alla differenziazione delle fonti, ed allo sviluppo delle forme non convenzionali e rinnovabili di energia.        

Il Governo degli Stati Uniti, in particolare, avendo deciso di puntare ad un rapido sviluppo del nucleare e delle fonti rinnovabili di energia, diede incarico al Laboratorio Nazionale di Los Alamos (New Mexico) di studiare i seguenti due problemi: i) definire le caratteristiche di complessi rocciosi profondi idonei allo smaltimento delle scorie radioattive; ed ii) concepire un modello concettuale di sfruttamento del calore terrestre per produrre energia elettrica con tecnologie innovative.

Da quest’ultimo punto di vista, agli inizi del 1974, gli scienziati di Los Alamos credettero di trovare la soluzione del problema nella coltivazione del calore immagazzinato in rocce profonde ad alta temperatura, e ne coniarono il termine: Hot Dry Rock (HDR), ovvero rocce calde secche. Essi inten-devano con ciò designare complessi geologici profondi a temperatura = 200 °C, caratterizzati da permeabilità nulla o molto bassa, privi perciò di circolazione naturale,  e quindi “secchi”. L’idea era di utilizzare il calore delle rocce per scaldare acqua introdotta in quei complessi con pozzi di iniezione, estrarla con pozzi di produzione, far vaporizzare con essa il fluido di lavoro di un impianto a ciclo binario, ed azionare così un turbogeneratore capace di produrre energia elettrica a scala commerciale. 

La profondità a cui i suddetti complessi potevano trovarsi non era definita, intendendo così che essa poteva variare da zona a zona in funzione del gradiente di temperatura e del flusso conduttivo di calore, con valori compresi tra quelli medi terrestri (30 °C/km e 60 mW/m2) ed altri molto più alti.

In breve, secondo gli scienziati di Los Alamos, gli elementi caratterizzanti delle rocce calde secche non erano nè la profondità a cui esse potevano giacere né la loro età geologica, bensì il fatto che dovesse trattarsi di complessi idrogeologicamente sterili, a temperature sufficientemente alte da poter riscaldare acqua superficiale iniettata in una rete di fratture create artificialmente mediante fratturazione idraulica (hydrafrac), e/o con altre tecniche quali: uso di esplosivi a dosaggio controllato, stress termico (thermal shock), e lisciviazione chimica (chemical leaching).

Le fratture così create potevano essere mantenute beanti in vari modi: o con la circolazione forzata dell’acqua stessa iniettata dall’esterno (che doveva funzionare anche da fluido vettore del calore sottratto alle rocce calde secche), e/o per mezzo di proppanti (sferule di materiale molto duro e resistente allo schiacciamento) iniettati in pressione nelle fratture artificialmente create, e/o mediante lisciviazione con agenti chimici delle facce delle fratture.

Quanto alla natura litologica dei complessi in parola, sostenendo la necessità di operare su corpi rocciosi omogenei e privi di fratture, gli scienziati di Los Alamos affermavano che le rocce calde secche potevano corrispondere solo a grandi intrusioni sepolte (batoliti) di granito o di granodiorite. Questa affermazione, però, se poteva essere chiara per coloro che erano informati del primo dei due problemi posti agli scienziati in parola (individuazione, cioè, di complessi rocciosi profondi idonei allo smaltimento di scorie radioattive), alla luce di ragionamenti geologici generali e delle conoscenze che venivano allora maturando in Italia ed altrove nel mondo sulla problematicità delle operazioni di hydrafrac, non era affatto convincente per chi ignorava l’esistenza di quel primo problema.  

A prescindere comunque dalla natura litologica dei complessi sopra detti, l’idea degli scienziati di Los Alamos era che si potesse giungere a creare veri e propri sistemi geotermici artificiali nei quali solo il calore delle rocce costituiva la componente naturale, mentre tutto il resto (creazione del serbatoio, mantenimento di fratture beanti, iniezione di acqua in pressione, collegamento idraulico tra pozzi di iniezione e di emungimento, e circolazione forzata di acqua a loop chiuso) poteva essere creato con operazioni di ingegneria geologica.   

I sistemi in parola cominciarono perciò ad essere chiamati anche man-made geothermal systems, e l’estrazione di calore dalle rocce ad essere considerato una operazione di heat mining. Si dava perciò al calore naturale la valenza di un “minerale” sui generis, disponibile in “giacimenti minerari” di potenzialità praticamente illimitata.

Perplessità e dubbi sulle modalità di operare per la creazione dei man-made geothermal systems, erano nati però fin dall’inizio in molti esperti di geotermia, e non riguardavano soltanto l’individuazione di aree con corpi granitici/granodioritici sepolti privi di fratturazione naturale. Vi erano infatti molti altri aspetti di incertezza, riguardanti: i) l’impossibilità di sapere se quei corpi fossero esenti da fratture naturali dovute al raffreddamento del magma e/o a cause tettoniche; ii)la possibilità, al contrario, che tali fratture non solo esistessero in quei corpi, ma contenessero anche fluidi geotermici (singe-netici o derivanti da acque meteoriche, e/o salamoie più o meno mature ad alta temperatura –brines-); iii) il mantenimento di fratture beanti per lunghi periodi di tempo; iv)la grande quantità di acqua necessaria per inondare gli spazi vuoti delle fratture; v) la difficoltà di collegare idraulicamente tra loro i pozzi di iniezione e di produzione; vi) le perdite di acqua che, ad onta della supposta impermea-bilità delle rocce e della circolazione a loop chiuso, si potevano verificare alla periferia del campo di fratture artificiali e nei punti di scambio termico in superficie; vii) il decremento di temperatura nel volume di roccia interessata dal campo di fratture per effetto della prolungata e massiccia estrazione di calore; viii) la possibilità di innescare, durante e dopo le operazioni di hydrafrac, scosse sismiche di una certa entità.

Nonostante tali perplessità, tuttavia, l’interesse suscitato intorno agli anni 1975-’80 nel mondo scientifico e politico dalla innovativa idea di creare artificialmente le condizioni per sfruttare il calore delle rocce allo scopo di produrre grandi quantità di energia elettrica, risultò così stimolante sul piano delle prospettive di risolvere il grave problema degli approvvigionamenti di petrolio di quel periodo, da convincere i governi degli Stati Uniti prima, e di altri Paesi poi, a varare e sostenere programmi sperimentali di ricerca e sviluppo volti a provare la fattibilità tecnico-economica dei sistemi geotermici artificiali  secondo le modalità formulate dai ricordati scienziati di Los Alamos.

I primi esperimenti di HDR

I progetti impostati con le modalità  sopra dette sono stati svolti a partire dagli anni fine ’70-inizio ‘80 nelle seguenti località: 1) Fenton Hill (Stati Uniti); 2) Rosemanowes (Inghilterra); 3) Bad Urach (Germania); 4)-5) Hijiori ed Ogachi (Giappone).

Il numero di pozzi perforati in ognuna di queste località varia da un minimo di due ad un massimo di cinque, ciascuno a  profondità comprese tra 2,5 e 5 km circa. Tutti hanno interessato nella parte inferiore del pozzo per almeno 1000 m il basamento granitico, e raggiunto temperature al fondo di circa 200 °C.

La durata di ciascuno di questi progetti, ivi inclusi preparazione, allestimento dei siti, perforazione, creazione del campo di fratture in profondità, prove di iniezione e di collegamento idraulico tra i pozzi, rilevamenti e misure in pozzo ed in superficie, prove di produzione, analisi di laboratorio, ed altre attività, ha oscillato tra10 e 25 anni.

Ciò nonostante, per motivi che i rispettivi operatori hanno attribuito all’esaurimento dei finanziamenti, nessuno di questi progetti ha potuto effettuare prove prolungate di produzione per verificare il com-portamento nel tempo del campo geotermico artificiale creato in ciascuna di queste località; nè tanto meno giungere a dimostrare la fattibilità di produrre energia elettrica, come invece era previsto.

Al contrario, le attività svolte dai progetti sopra menzionati sono state sufficienti a confermare la fondatezza della maggior parte dei dubbi elencati nel paragrafo precedente, ed in particolare di quello riguardante la possibilità che anche i corpi granitici potessero essere già interessati da fratture naturali più o meno beanti, permeate da fluidi geotermici.

Transizione dalle HDR agli EGS

I dubbi sopra detti, in realtà, negli anni a cavallo dei decenni’70-’80 del secolo scorso, da una parte erano motivati da argomentazioni geologiche generali, e dall’altra sollevati dai risultati dei pozzi profondi che avevano cominciato ad essere perforati in quel periodo nei campi di Larderello, di The Geysers (USA) e di altri Paesi del mondo, nonchè dalla reiniezione dell’acqua di condensa del vapore effettuata  a Larderello. 

La reiniezione di acqua fatta per la prima volta al mondo in un campo a vapore dominante come quello di Larderello, infatti, oltre a determinare il rallentamento del declino di pressione e l’aumento di portata dei pozzi produttivi in proporzione alla quantità dei reflui reiniettati, stava cominciando a dare anche importanti indicazioni sul comportamento delle formazioni profonde fratturate ma poco permeabili, e sul modo di stimolarne la produttività.

Ulteriori elementi a favore della opportunità di avviare la sperimentazione delle rocce calde secche in aree con formazioni profonde già naturalmente fratturate benché poco permeabili, stava cominciando a venire anche, in quegli stessi anni, dagli interventi di pressurizzazione idraulica fatti per stimolare la produzione di orizzonti quasi sterili del serbatoio nei campi di Larderello e di The Geysers, formato in entrambi i casi da rocce competenti diverse dal granito.

In breve, sul piano della immediata utilità dei risultati, sarebbe stato certamente più proficuo partire, come tutti gli esperti italiani ed alcuni tra gli stranieri sostenevano fin dall’inizio, con esperimenti di stimolazione di orizzonti poco produttivi in campi geotermici noti, con serbatoi posti a 2-3 km di profondità, piuttosto che procedere alla fratturazione di corpi granitici molto profondi, di incerta temperatura, e con modalità operative molto più problematiche di quelle allora esistenti e già conso-lidate. In altre parole, quegli esperti suggerivano già oltre 30 anni fa che, prima di puntare sui man-made geothermal systems, fosse più opportuno sviluppare innanzitutto i sistemi geotermici stimolati.

Come si vedrà nel paragrafo seguente, a partire più o meno dalla fine del secolo scorso, le operazioni di stimolazione hanno preso decisamente piede ed i relativi progetti in corso, anche se avviati da molti anni, hanno cominciato ad essere definiti non più come hot dry rock, o artificial systems, o man-made geothermal systems, ma con altri termini, tutti tesi a rigettare il concetto di heat mining, e soprattutto a riconoscere il fatto che in natura non esistono, almeno fino a 5 km di profondità, complessi rocciosi omogenei e privi di fratture. Ha cominciato pure a farsi strada l’idea che le rocce del serbatoio possano non corrispondere sempre a batoliti granitici o granodioritici, ma essere costituite da formazioni compatte di qualunque altro tipo litologico.

Di conseguenza, i nomi entrati da 12-15 anni in circolazione per definire la possibilità di estrarre da formazioni geologiche profonde a permeabilità molto bassa calore ad alta temperatura suscettibile di essere utilizzato per produzione di energia elettrica sono, a parte i generici deep geothermal systems, deep geothermal, ed heat extraction, i due nomi specifici seguenti: Hot Fractured Rocks (HFR), e soprattutto Enhanced Geothermal Systems (EGS), ovvero Sistemi Geotermici Stimolati ((Bisogna sottolineare che il termine Enhanced Geothermal Systems, viene spesso erroneamente tradotto, o con voluta ambiguità usato , in italiano con  Sistemi Geotermici “Avanzati”,  non “Stimolati”, come invece dovrebbe essere. )).    

Per quanto riguarda gli EGS, bisogna ricordare che negli ultimi 10 anni circa sono state date diverse definizioni, non sempre coerenti tra loro e non tutte convincenti, quasi a significare la forte variabilità da luogo a luogo delle condizioni geodinamiche, lito-petrografiche, idrogeologiche, termiche e di età geologica che caratterizzano la formazione di un sistema geotermico suscettibile di sfruttamento per la produzione di energia energia.

Inoltre, forse per attenuare il disagio che tra gli esperti di geotermia si è diffusa per i vani tentativi fatti nell’arco di oltre 30 anni di portare a maturazione tecnologica i progetti di HDR, si sta ora veri-ficando una certa tendenza  di alcuni ad inglobare negli EGS qualunque sistema geotermico (o parte di esso, corrispondente ad un campo geotermico) che per essere messo in produzione richiede inter-venti di pressurizzazione o di stimolazione dei pozzi.

Una definizione recentemente data degli EGS per ragioni di opportunità((

An Enhanced Geothermal System is an underground reservoir that has been created or improved artificially  (Un

   serbatoio profondo creato o migliorato artificialmente è un Sistema Geotermico Stimolato (definizione data dall’EGC/

   European Geothermal Council, Marzo 2010)))

, a parte il fatto che rappre- senta una tautologia, parlando al passato, porta ad inglobare indirettamente nel termine addirittura classici sistemi idrotermali (anche a vapore dominante, come Larderello e The Geysers) nei quali sono stati fatti in anni passati, e vengono fatti anche oggi ove necessario, interventi di pressurizzazione e/o di stimolazione del serbatoio, e quindi di miglioramento delle sue capacità produttive.

Alcuni esperti considerano EGS anche altri sistemi geotermici, diversi da quelli idrotermali ad acqua o a vapore dominante, che fino ad ora non hanno potuto essere sviluppati perchè tecnologicamente immaturi. Essi sono: i Sistemi geopressurizzati (acquiferi profondi in sovrapressione per effetto non del carico idrostatico ma di quello litostatico delle formazioni a tetto del serbatoio), i Sistemi magmatici, i Fluidi supercritici, ed i Sistemi a salamoia calda.     

Lo scrivente non condivide questa tendenza a generalizzare il termine EGS non solo perchè (tauto-logia a parte) retrodatandone l’applicabilità, si arriva ad includere in esso anche campi in esercizio già da molti decenni, ma soprattutto perchè si confondono le condizioni naturali di formazione di un sistema (o di un campo) geotermico con i mezzi tecnologici usati per metterlo in produzione; mezzi, per altro, che possono essere diversi da campo a campo, che migliorano gradualmente nel tempo, e che non hanno niente a che vedere con le condizioni naturali di formazione di un sistema  geotermico.                  

Per questo motivo è necessario definire prima le condizioni geologiche naturali di un sistema (EGS o altro tipo di sistema geotermico che sia), e poi descrivere eventualmente le modalità di ingegneria geologica applicate per metterlo in produzione.   

In base a queste considerazioni lo scrivente e molti altri definiscono gli EGS come segue:

Complessi di rocce competenti sepolte, con permeabilità naturale quasi nulla o scarsa, fratture chiuse o sigillate da circolazione idrotermale fossile, ubicati in aree con o senza anomalie termiche regio-nali, per cui la loro temperatura dipende solo dalla profondità a cui essi si trovano.

Il serbatoio viene creato in tutto o in parte artificialmente con operazioni di hydrafrac e/o con altri mezzi. Il calore contenuto nelle rocce e nei fluidi che permeano i pori e le fratture (naturali o neo-formate) delle rocce del serbatoio viene parzialmente asportato e trasferito in superficie mediante circolazione di acqua a loop chiuso, introdotta dall’esterno con pozzi di iniezione ed estratta con pozzi di produzione.

I progetti EGS ultimati o in corso

Partendo dalla constatazione fatta nei progetti ricordati in un paragrafo precedente che, almeno entro i 5 km di profondità, i corpi granitici o granodioritici sono già tutti più o meno diffusamente interessati da fratture, fessure e giunti naturali, e che essi contengono fluidi geotermici, la tendenza manifestatasi in anni recenti è di effettuare interventi di hydrafrac per incrementare la trasmissività idraulica delle fratture e delle superfici di scambio termico, aumentare la portata di fluido naturale estraibile da rocce scarsamente permeabili, e diminuire al tempo stesso la grande quantità di acqua di cui bisognerebbe altrimenti disporre per inondare le fratture naturali allargate e quelle di neo-formazione create dalle operazioni di hydrafrac stesse.

I progetti in corso o recentemente conclusi con il nuovo approccio concettuale sono: 1) Soultz-sous-Forets (Alsazia, Valle del Reno, in prossimità del confine Francia-Germania); 2) Bale (nei pressi di Basilea, Svizzera); 3) Habanero (nelCooper Basin, a N-NE del Lago Eyre, a cavallo tra gli Stati del South Australia e del Queensland, Australia); e 4) Desert Peak (in prossimità di Coso, California, USA).

1) Soultz. Finanziato dai governi di Francia e Germania, e dall’Unione Europea, ed iniziato nel 1987, il progetto è stato impostato e svolto per oltre 10 anni secondo lo schema tipico delle HDR, che prevedeva di creare nuove fratture in un basamento granitico posto al di sotto di 3 km di profondità. Successivamente, avendo constatato che tale formazione era già interessata da fratture e fessure molto poco permeabili, i criteri-guida del progetto sono stati modificati per puntare all’allargamento delle fratture esistenti applicando tecniche di fratturazione combinata (idraulica, chimica e meccanica). Dopo varie difficoltà di carattere operativo verificatesi anche seguendo questo secondo diverso approccio, il progetto è giunto nel 2008-2009 alla fase pre-conclusiva con l’installazione di un gruppo geotermoelettrico pilota a ciclo binario da 1,5 MWe con fluido di lavoro costituito da un composto organico. Essendo stato posto in parallelo sulla rete regionale della EdF/Electricité de France verso la fine del 2010, sono iniziate da allora le prove sperimentali di produzione del campo e di messa a punto del macchinario in diverse condizioni di esercizio; prove che hanno posto in luce problemi di mantenimento del loop di circolazione dell’acqua (e quindi e di gestione del gruppo generatore) che per essere risolti richiedono ancora diversi mesi di lavoro. Gli operatori del progetto sperano perciò di poter di mettere il gruppo in produzione effettiva nella seconda metà del 2011.

I successivi programmi di sviluppo del campo saranno definiti in base ai risultati che emergeranno da questo progetto: il primo vero progetto di EGS che si spera di completare con successo nel mondo.      

2) Bale. Finanziato in gran parte da una Società di produzione elettrica svizzera ed avviato nel 2006, il progetto prevedeva la perforazione di due pozzi di 5 km di profondità, uno di iniezione e l’altro di produzione; ma ne è stato perforato solo uno.

Dopo 2400 di rocce di copertura, questo pozzo ha interessato fino a 5000 m la parte sommitale di un batolite granitico con permeabilità molto scarsa, registrando al fondo la temperatura di 190 °C. Pertanto, al fine di creare un serbatoio artificiale negli intorni delle ultime centinaia di metri del pozzo, sono state effettuate energiche operazioni di hydrafrac, le quali, però, hanno innescato ripetute scosse sismiche fino a 3,4 gradi della scala Richter; scosse che hanno fortemente preoccupato la popolazione in una vasta area intorno al sito del pozzo e nella contigua città di Basilea.

Il fatto è stato portato all’attenzione del tribunale di quella città che verso la fine del 2009 ha ingiunto la chiusura del progetto. 

3) Habanero. E’ un progetto avviato agli inizi del decennio scorso a seguito della scoperta, fatta negli anni 1990-1995 da una Società petrolifera australiana, di un acquifero confinato a temperatura di 230-250 °C alloggiato a 3,5-4,5 km di profondità nella parte sommitale di un batolite granitico intruso in formazioni sedimentarie. Il carico litostatico di queste formazioni determina una forte sovrapressione dell’acqua nel serbatoio con valori di circa 350 atmosfere.

Sono stati perforati fino ad ora tre pozzi (Habanero 1-2-3, con profondità da 4200 a 4400m circa) che hanno documentato l’esistenza di una fitta rete di fessure e di sporadiche fratture nel serbatoio, con trasmissità idraulica molto bassa. E’ stato perciò necessario effettuare operazioni di hydrafrac per l’allargamento delle fratture esistenti e la creazione di nuove fratture, applicando pressioni a bocca pozzo di circa 700 bar. Queste operazioni hanno determinato una serie di scosse sismiche di intensità fino a 3,7 gradi della scala Richter che non hanno però causato problemi di accettabilità sociale in quanto l’area del progetto (come per altro tutto il vasto Cooper Basin di cui essa fa parte) è desertica e quasi priva di popolazione.

Geneticamente parlando, il campo è riconducibile ai sistemi geopressurizzati per gli aspetti relativi alla pressione dell’acqua nel serbatoio, ed agli EGS per la bassa permeabilità dell’acquifero, per gli interventi di hydrafrac necessari e per la necessità di operare con coppie di pozzi di iniezione ed estrazione di acqua superficiale.

Si tratta di un “giacimento” di notevole estensione e temperatura, formatosi a profondità non eccessive (quindi economicamente accessibili) ed ubicato in area desertica ma di interesse minerario. Pertanto, la Geodynamics (operatore del progetto) prevede di giungere ad installare, entro l’attuale decennio, almeno 1000 MWe. Nel frattempo sono state avviate nel 2010 prove di produzione sperimentali con un piccolo impianto pilota da 1 MWe.        

4) Desert Peak/Coso. Il progetto, promosso e finanziato in parte dal DOE/Dipartimento dell’Energia del Governo degli Stati Uniti ed eseguito da un pool di Partners privati e pubblici, è stato avviato nella primavera 2008 partendo da un’area del campo geotermico di Coso dove erano stati già perforati diversi pozzi a 2-3 km di profondità con risultati deludenti, dovuti non alla temperatura (che è anzi di circa 250°C) ma alla scarsa permeabilità del serbatoio, con portata specifica dei pozzi molto ridotta.

Pertanto, per incrementare la portata totale di fluido dell’area attraverso l’aumento della produttività dei pozzi è stato deciso di procedere all’allargamento delle fratture con operazioni di hydrafrac secondo la metodologia della stimolazione descritta in un paragrafo precedente. Non è previsto però, almeno inizialmente, di coltivare il campo con doppietti di pozzi di iniezione e produzione secondo gli schemi operativi dei progetti di EGS, ma di estrarre il fluido naturale contenuto nel serbatoio del campo. Solo successivamente sarà effettuata, se necessario, la reiniezione dei reflui per compensare il declino di portata dei pozzi produttivi.

Gli interventi di stimolazione sul primo pozzo hanno dato risultati soddisfacenti per cui si conta di eseguirli anche su altri pozzi e di aumentare così la capacità totale dell’area di Desert Peak dagli attuali 11 a 50 MWe circa.

Problemi aperti

Il cambiamento di rotta impresso ai progetti di coltivazione del calore di alta temperatura contenuto nelle rocce, come conseguenza della confermata impossibilità di reperire entro profondità di pochi chilometri corpi intrusivi privi di fratture e di fluidi naturali, ed il diverso approccio operativo seguito negli ultimi 12-15 anni dai progetti di EGS in corso, hanno permesso di ridurre i loro costi e tempi di esecuzione, ma non ancora di chiarire tutti gli aspetti della tecnologia EGS.

I principali problemi aperti riguardano: i) la perforazione di pozzi a profondità di oltre 3 km (costi, rischi, durata, completamento, misure, ecc.); ii) la messa a punto di metodologie di stimolazione idraulica controllata dei livelli poco produttivi (ad es. pressurizzazione graduata con piccoli impulsi di pressione per evitare di innescare scosse sismiche, o con altre tecniche); iii) i modelli numerici di fisica ed ingegneria del serbatoio per prevedere la possibile evoluzione dei parametri di produzione nel tempo; iv) la possibilità di usare fluidi di scambio termico diversi dall’acqua (ad es. CO2); v) leattrezzature per il controllo della produzione nel caso che vengano reperiti fluidi sovrapressurizzati o in condizioni supercritiche; vi) la propagazione e/o la contrazione nel tempo del campo di fratture artificialmente create o allargate nei livelli poco produttivi scelti; vii) le notevoli perdite di acqua nel circuito di loop (ne sono state osservate infatti anche del 50% ed oltre); viii) il decremento di temperatura nel volume di roccia interessata dal campo di fratture per effetto della prolungata e massiccia estrazione di calore; ix) la corrosione nelle tubazioni di pozzo e di superficie, e negli impianti di generazione, dovuta alla presenza, in alcuni casi documentata, di gas ed altri composti (CO2, H2S, HF, HCl, ed altri) disciolti nell’acqua contenuta nelle fratture originali delle rocce.

La maggior parte di questi problemi sembrano risolvibili a breve termine; ma i più seri e difficili da risolvere sono: 1) il controllo della sismicità indotta da operazioni di hydrafrac in aree popolate; 2) le grandi quantità di acqua necessarie, prima per inondare il campo di fratture artificiali create nel serbatoio, e poi per ravvenare la circolazione nel circuito di loop; e 3) la difficoltà di trovare un equilibrio nel decremento di temperatura delle rocce serbatoio causato dalla estrazione di calore per lunghi periodi di tempo. 

Considerazioni conclusive

Pur non trattandosi sempre di progetti EGS veri e propri, i risultati fino ad ora ottenuti dai progetti ultimati o in corso prima descritti, indicano che la stimolazione di acquiferi confinati a bassa permeabilità come quello di Desert Peak, e l’incremento della portata dei pozzi con una maggiore estrazione di fluido naturale contenuto in quegli acquiferi, è al momento più incoraggiante della creazione di nuovi campi di fratture in complessi rocciosi quasi secchi, che richiedono invece massicce operazioni di hydrafrac e che necessitano di ingenti quantità di acqua superficiale per inondare le fratture neo-formate e mantenere in equilibrio idraulico il circuito di loop.

Tutti e tre i progetti in corso, tuttavia, sembrano poter giungere entro un paio di anni alla completa dimostrazione della fattibilità tecnica di produrre energia elettrica. Nel caso di Soultz, però, si conta di produrre energia geotermoelettrica a titolo inizialmente sperimentale con piccoli gruppi pilota; mentre invece per Desert Peak/Coso, e soprattutto per Habanero/Cooper Basin gli operatori contano di installare unità di generazione di potenza (qualche diecina di MWe cadauna) alimentate con fluidi prodotti per stimolazione di livelli poco permeabili del serbatoio in sistemi geotermici molto grandi.    

Per quanto sopra, data la difficoltà di soddisfare la crescente domanda di energia elettrica del mondo, affinchè la geotermia possa aumentare il suo contributo alla copertura dei fabbisogni, è innanzitutto auspicabile che vengano sviluppate al massimo possibile le risorse di alta temperatura associate ai classici sistemi idrotermali, ancora abbondanti nel mondo, con l’uso di tecnologie di produzione geotermoelettrica mature: centrali a condensazione di vario tipo, gruppi a scarico libero, e gruppi a ciclo binario.     

E’ poi auspicabile che i progetti di EGS in corso, ed altri simili che stanno per essere avviati in vari Paesi del mondo e dell’Europa, basati sul criterio della stimolazione di serbatoi naturali poco permeabili più che su quello delle “rocce calde secche” possano essere portati a termine tutti nel giro di pochi anni e positivamente, allo scopo di contribuire a risolvere in tempi ragionevolmente brevi i problemi pendenti, sopra ricordati, della tecnologia EGS.

In quest’ottica, è pure auspicabile che l’Unione Europea ed i governi dei Paesi più avanzati nel settore, tra cui il nostro, vogliano attuare politiche di promozione allo sviluppo di tutti i sistemi geotermici di alta temperatura diversi da quelli idrotermali (non solo gli EGS, dunque, ma anche altri tra i sistemi non convenzionali menzionati in un paragrafo precedente), con finanziamenti adeguati per programmi di ricerca e sperimentazione, e con incentivi di vario tipo per progetti dimostrativi di tecnologie avanzate mirate alla produzione di energia geotermoelettrica.

Ciò premesso, per essere realisti, bisogna anche dire che, per quanto grandi possano essere gli sforzi di promozione e di sostegno pubblico, i tempi di maturazione commerciale per lo sfruttamento dei sistemi non convenzionali non possono essere certo molto brevi; nemmeno per gli EGS e per i Sistemi geopressurizzati, che sono i più studiati fino ad ora nel mondo e più vicini alla maturità tecnologica. Tenendo conto infatti che i progetti EGS in corso non potranno concludersi certo entro questo anno, che occorrono poi almeno altri 2-3 anni per prove prolungate di produzione, ed ulteriori 5-6 anni per risolvere i problemi pendenti e documentare la replicabilità delle modalità operative, lo scrivente stima che la tecnologia EGS non possa giungere a piena maturazione commerciale prima della fine di questo decennio.

Per quanto riguarda l’Europa in particolare, dire quindi (come alcuni stanno dicendo da diversi anni a questa parte) che gli EGS possono far aumentare di alcune migliaia di MWe entro il 2020 l’attuale capacità geotermoelettrica installata (che è ora di circa 1500 MWe) è del tutto irrealistico.

Nel frattempo, un ruolo mondiale ed europeo della geotermia significativamente più importante di quello attuale può essere raggiunto soltanto con il suddetto maggiore e più accelerato sviluppo dei classici sistemi idrotermali di alta temperatura per la produzione di energia elettrica, e con il rapido, intensivo sviluppo del calore a media e bassa temperatura per usi diretti. Si tratta in questo caso di calore abbondantemente disponibile in ogni parte del mondo, di provata ed affidabile tecnologia di estrazione, esente da fluttuazioni stagionali, il cui sfruttamento è diventato ora economicamente conveniente anche alle basse temperature, e che può essere oggi ancor più valorizzato con l’impiego di pompe di calore geotermiche.