Dialogo sulla bioeconomia

[Alberto Berton. 18 giugno 2015]

Caro Giorgio,

mi ricordo una mattina del 2012 quando in auto sull’autostrada verso Brescia ti ho chiamato per conoscere la tua opinione in merito all’uso del temine “bioeconomy” che si stava diffondendo a livello delle agende politiche occidentali. La sera prima avevo letto il “National Bioeconomy Blueprint”, il documento reso pubblico dall’amministrazione Obama e presentato come iniziativa strategica di sostegno alla “green economy”.

Coltivando da anni la passione per lo studio del pensiero di Nicholas Georgescu Roegen, economista radicale (come tu l’hai definito) padre della “bioeconomics”, ero stato positivamente colpito dal titolo del documento governativo americano. Dalla sua lettura però mi ero reso subito conto che si trattava nella sostanza della strategia di sviluppo dell’industria biotecnologica americana nei settori dell’agro-alimentare, del farmaceutico e del chimico. Occupandomi professionalmente di sviluppo dell’agricoltura biologica, rimasi un po’ amareggiato dall’uso dell’etichetta “bioeconomy”, in un contesto che vedevo molto distante dalla teoria e dalla pratica di quella che io intendevo come “bioeconomics”.

Quando al telefono ti esposi i miei dubbi, mi dicesti divertito che storie di usi diversi e contradditori dello stesso termine, di metamorfosi e distorsioni dei concetti, sono sempre avvenute, come per esempio con la parola “ecologia” dagli anni ’70 in poi. Tagliasti corto sulle mie perplessità e preoccupazioni, dicendomi che “bisogna avere pazienza” e mi consigliasti di sorvolare su questo tema che “interessa solo te , me e pochi altri” e di occuparmi di temi più utili ai cittadini come quello delle frodi bio. Seguii il tuo consiglio e non ti ringrazierò mai abbastanza per avermi mostrato una via, quella della storia e dell’analisi delle frodi, che va al cuore di aspetti sempre più importanti e attuali dello sviluppo dell’agricoltura biologica.

La recente pubblicazione del libro intitolato “Bioeconomia” di Beppe Croce, Stefano Ciafani e Luca Lazzeri, con prefazione di Gunter Pauli, ci da’ però l’occasione, dopo qualche anno, di ritornare a riflettere sul rapporto tra “bioeconomy” e “bioeconomics”. Seguendo la metamorfosi che il termine “bioeconomy” ha avuto nel complesso contesto normativo europeo, dove dal focus sulle biotecnologie della “knowledge based bio-economy” si è passati prima con la “bio-based economy” e infine con la “bio-economy” al focus sull’origine biologica della materia prima, gli autori del testo di Edizioni Ambiente, affermano che bioeconomia in estrema sintesi significa che il motore dell’economia dei prossimi decenni saranno le risorse rinnovabili di origine biologica, in progressiva sostituzione del petrolio e delle altre sostanze fossili. Nel primo capitolo, dopo avere accennato, all’uso sempre più diffuso del termine “bioeconomy” a livello politico internazionale, Croce, Ciafani e Lazzeri ne ricercano la base teorica nel pensiero di Nicholas Georgescu Roegen.

Del resto già l’anno scorso Mario Bonaccorso, fondatore del primo blog sulla bioeconomy, ilbioeconimista.com , e responsabile dell’area marketing di Assobiotec, l’Associazione nazionale per lo sviluppo delle biotecnologie, chiudeva l’introduzione al suo libro “Inside the World Bioeconomy” con un tributo a Nicholas Georgescu Roegen.

Tu hai studiato per decenni il pensiero del grande economista rumeno, con il quale hai avuto dei rapporti epistolari diretti proprio per cercare di fare luce sull’origine e il significato del termine bioeconomia. Sei un chimico e da sempre ti interessi agli usi non alimentari della biomassa, sui quali ti sei recentemente espresso e sui quali si sta focalizzando la strategia italiana nella “chimica verde” con le bio-plastiche. Come vedi il rapporto tra questa nuova “bioeconomy” e l’originale “bioeconomics” di Georgescu Roegen ?

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[Giorgio Nebbia]

Socrate: “L’inizio della saggezza è una definizione dei termini”.

Lewis Carroll“Quando uso una parola”, Humpty Dumpty disse in tono piuttosto sdegnato, “essa significa esattamente quello che voglio – né di più né di meno.”
“La domanda è”, rispose Alice, “se si può fare in modo che le parole abbiano tanti significati diversi.”
“La domanda è,” replicò Humpty Dumpty, “chi è che comanda – tutto qui.”

Mi pare che non ci sia migliore inizio di questo colloquio del breve dialogo fra Alice e Humpty Dumpty per descrivere la confusione esistente nell’uso del prefisso “bio” per indicare cose diversissime e spesso in contrasto fra loro.

La radice è ovviamente antichissima a cominciare dalla parola biologia che indica lo studio, la conoscenza, dei fenomeni vitali; il prefisso “bio” indica, quindi, qualcosa che ha a che fare con la vita e, per estensione, qualcosa che è, intrinsecamente, “buona”. Il termine “bioeconomia” è invece relativamente recente ed è diventato popolare in seguito ad una curiosa sequenza di eventi. L’economista romeno-americano Nicholas Georgescu Roegen l’ha usato nel titolo di una conferenza tenuta l’8 novembre 1972: “Bioeconomic aspects of entropy”, seguendo il suggerimento che gli era stato dato in una lettera dell’aprile dello stesso anno dall’economista cecoslovacco Jiri Zeman ispirandosi al contenuto nel libro del 1971 dello stesso Georgescu Roegen: “The entropy law and the economic process”.

  • Linneo ”economia della natura”
  • Haeckel
  • Bioeconomia come dinamica delle popolazioni
  • T.I. Baranov (1918)
  • Grigorei Antipa (anni 20-30)
  • Costantinescu

[In vari autori precedenti la parola “bioeconomia” è utilizzata] ma solo per indicare l’analisi economica di certi fenomeni biologici come il ripopolamento ittico a seguito dell’attività di pesca, non una visione complessiva del processo economico. Sempre nello stesso senso di “economia”, bilancio, dinamica delle popolazioni animali, e in particolare dei pesci, lo stesso termine è stato usato da Colin W. Clark nel libro: “Mathematical bioeconomics. Tje optimal management of renewable resources”, Wiley, 1976, che non cita Baranoff e che indica come “bionomic equilibrium” la massima quantità di pescato che assicura la riproduzione dei pesci in modo da renderli disponibili per la pesca nella successiva stagione.

La tesi del libro di Georgescu Roegen è che il difetto dell’economia sta nel fatto che descrive dei fatti fisici, lo scambio di merci e, del loro vettore, il denaro, fra diversi soggetti. Se un soggetto da del denaro ad un altro soggetto per acquistare una merce, può rivendere la stessa merce a un secondo soggetto in cambio di una quantità maggiore di denaro e in questo caso ne ha un profitto; se lo vende ad un terzo soggetto ad un prezzo superiore a quello pagato ne ha un profitto, se lo vende ad un prezzo inferiore il profitto va al secondo venditore. “Merce” significa qualsiasi cosa: il pane, il servizio mobilità, il lavoro o il denaro stesso

Georgescu Roegen osservò che tutto cambia se si applica all’economia il secondo principio della termodinamica, che governa ineluttabilmente tutte le cose reali; ogni volta che si ha scambio, vogliamo dire “commercio”, di energia fra due corpi, uno caldo e uno freddo, ci si rimette sempre; il corpo freddo non può restituire tutta l’energia (calore o energia meccanica) ricevuta a quello caldo. L’energia è sempre la stessa (primo principio), ma nello scambio una frazione va perduta, e, dopo vari passaggi, alla fine nello spazio interplanetario e l’energia “utile”, in ciascun passaggio, è sempre meno. L’energia perduta in ciascun passaggio prende il nome di entropia ed aumenta sempre.

Anche l’economia deve imparare che in ogni “commercio”, il denaro può anche aumentare, ma i beni del mondo reale — fertilità del suolo, minerali estraibili, capacità ricettiva dell’aria e delle acque — diminuiscono sempre.

In vari scritti e testi di conferenze negli anni 1972-74, raccolti poi in un volume che ebbe varie traduzioni, Georgescu Roegen introduce il termine “bioeconomia” per auspicare una svolta dell’economia che si ispiri ai cicli della vita nei quali le perdite di materia ed energia sono ridotte al minimo. A tali cicli dovrebbe ispirarsi la qualità e la quantità dei beni materiali usati dagli uomini, con scelte che rendano minime le perdite di materia ed energia “utili” e l’aumento di entropia. Ricordando peraltro che tale aumento c’è sempre, con buona pace delle virtù del riciclaggio e dei “rifiuti zero”.

Per chiarire meglio il suo pensiero Georgescu-Roegen precisò che nel mondo umano il principio dell’entropia vale non solo per l’energia, ma anche per la materia; a differenza della natura in cui le scorie della vita sono materie prime per altra vita, nel mondo umano la produzione dei beni materiali comporta l’estrazione dalla natura di fonti di energia e di minerali che vengono trasformati in merci che, dopo l’uso, non possono tornare più in forma utilizzabile da altri; anche la “materia conta”, soggetta ad una specie di “legge” dell’entropia, quella che Georgescu Roegen ha chiamato “il quarto principio” della termodinamica. Il principio della conservazione della massa spiega bene che la massa in circolazione è sempre la stessa ma, dopo la produzione e l’uso nell’antroposfera, è in una forma con più alta “entropia” e quindi non può più essere utile.

La conclusione è che l’operare umano nella natura, a differenza di quanto avviene nella vita, possono anche aumentare i beni materiali ma diminuisce la utilità della natura come fonte di materie prime e come ricettore dei rifiuti. E’ prevedibile quindi un tempo in cui sarà necessario smettere di produrre beni materiali “umani”.

La traduzione francese di una raccolta di saggi di Georgescu Roegen fu intitolata “La decroissance” e, grazie all’implicita equivalenza fra bioeconomia e decrescita, il termine bioeconomia ebbe quindi un grande successo in un momento in cui il dibattito sui “Limiti alla crescita” (1972) stava attraversando il mondo delle persone attente ai problemi ambientali, che chiamerò per semplicità “ambientalisti”.

A questo punto “bioeconomia”, come pochi anni prima “ecologia”, diventava bandiera di un movimento di contestazione dell’industria, della finanza, degli affari, del consumismo. Di quel movimento che sarebbe stato chiamato di decrescita che, a mio parere, si è manifestato principalmente in Europa, con radici in Francia, nel mondo ispanico, in Italia nelle varie forme di “decrescita felice” e simili, con minore attenzione nel mondo anglosassone.

Il termine “bioeconomia” è stato sostanzialmente ignorato per molto tempo nelle violente critiche contro qualsiasi idea di decrescita, e resuscitato, più o meno negli anni novanta, come bandiera delle biotecnologie, progetto per continuare a produrre merci e ad inquinare, anche se “un po’ meno”, sfruttando le risorse della natura.

Secondo il mio parere gli usi ”diversi” di qualcosa che sia “bio” è soltanto un maldestro tentativo di scansare le inevitabili scomodità del “quarto principio”, cioè di spostare più avanti quella morte entropica della materia che mette in discussione l’operare dell’economia dei soldi.

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[Alberto Berton]

Lao Tzu: “La Via veramente Via non è una via costante. I Termini veramente Termini non sono termini costanti”

Il termine “bioeconomia”, nella sua accezione più generale, riflette il tentativo di trovare un collegamento tra la biologia e l’economia. Nella storia del pensiero economico le analogie con i fenomeni della vita si trovano a fondamento dei contributi di diversi autori.

William Petty (1623-1687), uno dei primi economisti del Seicento, prese spunto dalla riproduzione animale quando definì “la terra e il lavoro” come “la mamma e il papà” delle merci e del loro valore. Francois Quesnay (1694-1774), il medico chirurgo della corte di Luigi XV, fondatore della prima scuola del pensiero economico classico, la Fiosiocrazia, fu ispirato dagli studi sul sistema circolatorio di William Harvey (1578-1657) per sviluppare la sua visione del sistema economico come un “corpo” composto da più organi (le classi sociali) che si riproduce periodicamente e autonomamente grazie ad un flusso di materia proveniente dall’ambiente naturale (la produzione agricola) e ad un processo di circolazione interna (il flusso circolare del prodotto netto e del denaro tra le classi sociali).

Nel pensiero economico, la visione armonica dell’economia agricola feudale tipica della Fisiocrazia lasciò presto il passo alla visione più disarmonica, dominata dalla contrapposizione tra le classe sociali, della nascente economia industriale. Su quest’ultima visione, David Ricardo (1772-1823) sviluppò la sua analisi volta a sostenere gli interessi della borghesia contro quelli dei proprietari terrieri, ma proprio sulla teoria ricardiana Karl Marx (1818-1883) costruì poi il suo sistema di pensiero basato sullo sfruttamento della classe lavoratrice. Fu in questo contesto di grande conflittualità economico e politica che si gettarono le fondamenta dell’economia neoclassica, il pensiero economico ancora oggi dominante, recidendo di netto le analogie con la biologia per sostituirli con quelli con la meccanica newtoniana.

Una cosa che trovo perfettamente soddisfacente nel piano del tuo lavoro, è la tua intenzione -che approvo sotto ogni punto di vista- di tenerti nei limiti più inoffensivi rispetto ai signori proprietari. Bisogna dedicarsi all’economia politica come ci si dedicherebbe all’acustica o alla meccanica”: così scriveva nel 1859 Auguste Walras in una lettera indirizzata al figlio Léon Walrlas (1834-1910), autore della teoria dell’equilibrio economico generale, la “Magna Charta della teoria economica” (Schumpeter).

Il XIX secolo fu del resto il secolo della meccanica e la visione newtoniana del mondo e il metodo di ragionamento logico-matematico (l’epistemologia meccanicistica) rappresentarono gli ideali scientifici dell’epoca. Con l’economia neoclassica, le analogie con i fenomeni meccanici presero così il posto delle analogie con i fenomeni biologici. Alla visione biologica dell’economia come di un organismo che si riproduce nel tempo, si sostituì la visione meccanicistica dell’economia come un sistema composto da atomi umani che agiscono in un mondo astorico, conservativo ed isolato (il mercato) secondo un calcolo matematico, universale ed eterno, volto alla massimizzazione dell’interesse personale. L’obiettivo della nuova teoria fu dimostrare “scientificamente” che il libero mercato conduce ad una situazione di equilibrio, l’incrocio tra domanda e offerta, che è unica, stabile e ottima per tutti. Il cambiamento fu ridotto allo spostamento, sempre reversibile, da una situazione di equilibrio all’altra.

Visione politicamente e teoricamente corretta per i canoni dell’epoca, quella neoclassica, che però male si adatta allo studio dei fenomeni economici evolutivi e quindi irreversibili, come l’innovazione tecnologica. Consapevole di questo limite, e interessato proprio a questo ultimo tipo di fenomeni, il grande economista inglese Alfred Marshall (1842-1924), in piena rivoluzione marginalista, ammonì “La Mecca dell’economista è l’economia biologica piuttosto che la dinamica economica”.

Nel corso del XX secolo pochissimi economisti fecero tesoro dell’ammonimento di Marshall. Tra questi Joseph Schumpeter (1883-1950), che individuò l’origine dello sviluppo economico nel flusso discontinuo di innovazioni tecnologiche ed organizzative, che svolgono una funzione analoga alle mutazioni nell’evoluzione biologica.

Ma chi (dopo avere messo in discussione le basi logico-matematiche della razionalità economica neoclassica), pose le fondamenta di un nuovo approccio allo studio del processo economico veramente slegato dall’epistemologia meccanicistica e fondato sulle conoscenze dei fenomeni irreversibili e vitali fu appunto Georgescu Roegen, allievo di Schumpeter.

La visione roegeniana del processo economico prese spunto dalla descrizione della vita dal punto di vista termodinamico espressa dal fisico e matematico austriaco Erwin Schrodinger(1887-1961) nel suo celebre libro “What is Life” (1944). Gli organismi viventi mantengono la propria organizzazione, alimentandosi di bassa entropia, estraendo l’ordine dall’ambiente naturale e restituendolo in forma degradata, anche se non completamente, in quanto ancora utile agli organismi decompositori e infine alle piante. Seguendo la distinzione proposta dallo scienziato americano Alfred Lotka (1884-1946) tra strumenti endosomatici e strumenti esosomatici, Georgescu Roegen sottolineò quindi il fatto che, in questa lotta per la vita, mentre tutti gli esseri viventi usano strumenti endosomatici, ovvero quelli di cui è dotato il corpo come denti, artigli, arti, ali, ecc; l’uomo nella sua evoluzione si è distinto per l’utilizzo di strumenti “esosomatici, ovvero esterni al proprio corpo e che sono in qualche modo prodotti. L’evoluzione esosomatica dell’uomo (dall’amigdala agli aerei supersonici) ha permesso alla nostra specie di raggiungere traguardi inimmaginabili, ma nel contempo ci ha reso sempre più dipendenti dalla bassa entropia che giace sotto la crosta terrestre (combustibili fossili, minerali ad alto contenuto di metalli) che, una volta estratta e utilizzata, non può essere completamente rigenerata, accumulandosi come rifiuto nell’ambiente. Oltre a creare questa dipendenza irreversibile dalle risorse esauribili, che costituisce il problema bioeconomico propriamente detto, la costruzioni di strumenti sempre più grandi, potenti e sofisticati ha reso la produzione un’attività sociale e la distribuzione della ricchezza generata un problema politico e istituzionale. Come lui stesso ti ha scritto, Georgescu Roegen iniziò ad utilizzare il termine “bioeconomia”, suggeritogli di Jeri Zeman, in quanto lo considerò una buona etichetta per questa sua visione del processo economico come un’estensione dell’evoluzione biologica.

Pensiero complesso e estremamente scomodo quello di Georgescu Roegen che non lascia spazio ad alcuna possibilità di una salvezza ecologica e sociale definitiva, del raggiungimento di una situazione armonica e costante capace di riprodursi indefinitamente nel tempo. In questo contesto (nella attesa di un nuovo Prometeo) l’unica strategia ragionevole, espressa nel suo “programma bioeconomico minimale”, è quella di uno sviluppo meno insostenibile, basato su una politica di pace, sulla redistribuzione delle risorse tra Nord e Sud del mondo, sul rigetto etico del consumismo e dei congegni superflui, sulla conservazione delle risorse, su un’agricoltura non industriale e sul controllo demografico. Per Georgescu Roegen, inoltre, il meccanismo di mercato non permette la corretta gestione delle risorse non rinnovabili che potrà darsi solo in un contesto di limite quantitativo dei consumi, basato su accordi internazionali.

Questa in estrema sintesi, la “bioeconomia” per Georgescu Roegen, che a mio modesto avviso non è stata correttamente interpretata dai teorici della decrescita (tout court), soprattutto nella critica senza appello allo sviluppo e alla economia stessa (Latouche) e nella prospettiva del raggiungimento, tramite la decrescita, di una economia socialmente e ecologicamente “sostenibile” (Bonaiuti).

Come lo stesso economista rumeno fece notare, prima di Georgescu Roegen il termine “bioeconomia” fu utilizzato, probabilmente per la prima volta, nel 1925 dal biologo russo T.I. Baranoff per definire i suoi studi sull’economia dell’industria della pesca basati sulla dinamica delle popolazioni ittiche. Questo filone di ricerca, tendente ad integrare la biologia e l’economia delle risorse ittiche, verrà portato avanti fino alla prima metà del secolo scorso principalmente da biologi marini, e troverà poi sistematizzazione nei modelli matematici proposti dagli economisti americani H. Scott Gordon (1954) e Colin W. Clark (1976). La bioeconomia intesa in questo senso, ovvero come economia delle risorse naturali rinnovabili, rappresenta il tentativo di integrare la razionalità economica standard tesa alla massimizzazione del profitto con i vincoli biologici rappresentati dalla dinamica delle popolazioni nell’ottica dell’individuazione di un “maximum sustainable yield”. Il contesto nel quale si inseriscono questo tipo di analisi è quello neoclassico ed è per questo che non presenta collegamenti con il pensiero roegeniano.

Negli anni Settanta, il termine “bioeconomia” iniziò ad essere utilizzato anche in un ambiente completamente differente quale quello della Scuola di Chicago, per qualificare il filone di studi che nasce dall’unione tra la socio-biologia dell’entomologo Edward O.Wilson e le tesi ultra liberali del premio Nobel per l’economia Gary Becker. La sociobiologia di Wilson è volta allo studio delle basi biologiche (in particolar modo delle basi genetiche) di ogni forma di comportamento sociale; i lavori di Gary Becker sono stati orientati dall’idea che ogni forma di comportamento sociale, nell’impresa come nella famiglia, si fonda sulla stessa razionalità calcolatrice dell’homo oeconomicus. Questi due filoni di pensiero confluirono poi in un progetto di sintesi che il sociobiologo Michael Ghiselin etichettò come “bioeconomia”. Questa “Neo-liberal Bioeconomics” concepisce la razionalità economica come fondata su basi genetiche (l’homo oeconomicus diventa nella sostanza l’homo geneticus) e allarga questo tipo di razionalità a tutte le forme viventi (che diventano organismus oeconomicus).

Per completare il quadro della varie “bioeconomie” possiamo infine aggiungere il filone della “bioeconomia eco-energetica”, che presenta punti simili a quella roegeniana ma che rimane pur sempre distinta e per certi versi divergente da essa. Mi riferisco al filone di ricerca le cui origini possono essere individuate negli scritti di fine Ottocento dell’economista ucraino Sergej Podolinskij (1850-1891) che si ripropose l’obiettivo di conciliare il marxismo, con l’evoluzionismo e la termodinamica ricercando una base energetica del valore delle merci. L’analisi energetica troverà molto più tardi nei lavori di Alfred Lotka (1880-1949) e di Howard Odum (1924-2002) la base per i suoi successivi sviluppi. Nonostante il comune orientamento al collegamento tra economia e termodinamica, Georgescu Roegen dedicherà molte riflessioni alla critica al “dogma energetico” e il suo messaggio “matter matters too” è fondamentalmente rivolto a questo tipo di approccio.

Come abbiamo appena visto, nella storia del pensiero economico il termine “bioeconomia” è stato utilizzato per etichettare visioni e analisi differenti e divergenti accomunate dal tentativo di collegare l’economia e la biologia.

In generale comunque, nel corso del Novecento, il termine “bioeconomia” è rimasto effettivamente ai margini della discussione economico e politica. La situazione è rapidamente cambiata con l’approssimarsi del nuovo millennio grazie al successo del neologismo inglese “bioeconomy”.

A quanto risulta il termine “bioeconomy” è stato utilizzato per la prima volta da Juan Enriquez e Rodrigo Martinez, confondatori del Life Science Project dell’Harvard Business School, al Genomics Seminar del 1997 presso l’American Association for the Advancement of Science (AAAB), la più grande società scientifica del mondo, che edita il giornale scientifico Science. Nell’articolo del 1998 dal titolo “Genomics and the World’s Economy”, l’accademico e uomo di affari Juan Enriquez riprende le argomentazioni espresse con Rodrigo Martinez nel Genomics Seminar, esplicitando la prospettiva di una trasformazione dell’economia mondiale promossa dal flusso continuo di innovazioni nel campo delle biotecnologie che erodendo i confini tra farmaceutica, agricoltura, alimentazione, chimica, cosmetica, energia starebbe forzando le più grandi aziende mondiali a reinventare i propri modelli di business, creando nuove alleanze o megafusioni basate su una logica di blocco dei brevetti, processo che porta alla creazione di un nuovo settore economico, “the life science” le cui aziende non coprono più un solo settore di attività (medicina, chimica e alimentazione) ma diventano attori dominanti in ognuno di questi settori.

E’ del tutto evidente come il recente termine “bioeconomy” abbia avuto origine nel contesto dell’industria biotecnologica e ne rappresenti a tutti gli effetti il modello di sviluppo. Non a caso Fortune soprannominò Juan Enriquez “Mr. Gene”. Bioeconomy è qui in sostanza sinonimo di bio-tech-economy.

All’alba del XXI secolo, “bioeconomy” inizia ad essere utilizzato da alcuni autori, come B.Kamm e M. Kamm, anche per identificare la trasformazione dell’economia industriale volta alla sostituzione delle risorse fossili con la biomassa. La tecnologia base della nuova “bioeconomia” è la bioraffineria che attraverso la trasformazione biotecnologica e chimica della biomassa, produce “biobased products” e “bioenergy”, connettendo la produzione agricola alla produzione industriale.

Dal 2005 in poi il termine “bioeconomia” viene diffuso con prepotenza a livello di agende politiche nazionali e internazionali con un accento che a seconda del contesto, americano o europeo, è più marcato sulla bio-tech-economy (USA, Australia) piuttosto che sulla bio-based economy (Europa).

Personalmente trovo il tentativo di trovare il fondamento di questa nuova e per certi versi indefinita “bioeconomy” sulla “bioeconomics” di Georgescu Roegen un’operazione intellettuale piuttosto debole. A parte che la “bioeconomy” come modello di business delle biotecnologie non ha proprio nessun collegamento con il pensiero di Georgescu Roegen, anche la visione di un’economia (industriale) basata solo sulle risorse rinnovabili è lontana dalla visione roegeniana della dipendenza per molti versi irreversibile dell’economia umana dalle risorse energetiche e soprattutto materiali non rinnovabili. Per alcuni la bio-based economy, unita alla rinnovata idea dell’economia circolare, rappresenterebbe la soluzione del problema bioeconomico posto dall’economista romeno. A mio modesto avviso, rappresentano dei nuovi “miti economici” sempre nel senso di quello più storico e generale della “salvezza ecologica”.

Forse sarebbe operazione più sicura, cercare di trovare le radici della nuova bioeconomia nell’idea fisiocratica di un’economia armonica basata interamente sulla produzione agricola, o piuttosto individuare nelle analisi della bioeconomia delle risorse rinnovabili degli strumenti utili alla nuova economia basata sulla biomassa.

Ancora più interessante e per certi versi intrigante, a mio parere, cercare di indagare la relazione tra la “bioeconomy” e la “Neo-liberal Bioeconomics” con i suoi sviluppi verso la visione di un “natural capitalism” e la prescrizione di un “genetic liberalism”.

Al di là di questo, tu come vedi il rapporto tra biotecnologie, usi non agricoli della biomassa e bioeconomia, intesa in senso roegeniano?

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[Giorgio Nebbia]

Anche sulla parola biotecnologia c’è una grande confusione. Per il momento lascerei da parte le differenze fra tecnica e tecnologia: se tecnica sta ad indicare qualche operazione umana per ricavare cose utili dal mondo circostante, tutte le operazioni di trasformazione di esseri viventi, vegetali e animali, fatte dall’”uomo”, da quando esiste, sono operazioni tecniche o biotecnologiche.

Benché il termine biotecnologia sia stato “inventato” circa un secolo fa, il suo successo anche nell’immaginario popolare risale agli ultimi decenni del secolo scorso, associato sia ad operazioni di manipolazioni genetiche, sia alla produzione di merci “verdi” dalla biomassa.

Qui vorrei considerare alcuni casi sia di processi che consistono nella trasformazione di materia organica o inorganica ad opera di agenti biologici come i microrganismi, sia i processi di trasformazione di materiali biologici, di biomassa vegetale o animale, ad opera di agenti chimici e biologici.

In realtà l’uomo, dalla sua comparsa sulla Terra come Homo sapiens, ha sempre tratto alimenti e cose utili dalla biomassa vegetale e animale mediante operazioni “tecniche” o “tecnologiche”, nel senso che sono il frutto della conoscenza, dell’esperienza e della capacità umane, operazioni che considero rientrare nel termine generale di “biotecnologie”. Qui mi limiterò a considerare soltanto le biotecnologie applicate agli alimenti, anche se esse sono state applicate, fin da tempi antichissimi, a prodotti non alimentari come fibre tessili (macerazione della canapa e del lino), alla concia delle pelli, alla fabbricazione della pergamena e della carta, alla preparazione del carbone vegetale per distillazione secca del legno (praticate per lo meno dal Medioevo), perfezionata successivamente con il recupero di sostanze commerciali come alcol metilico e acido acetico (Ottocento), all’estrazione dalla cortecce delle piante di tannini per la concia delle pelli (anni 70 dell’Ottocento), alla idrolisi degli amidi e delle cellulose per ottenere zuccheri più semplici a loro volta da usare come materie prime per altri processi, al recupero di derivati della lignina (lignosolfonati), eccetera.

Le conoscenze delle operazioni di biotecnologia applicate agli alimenti e ad altri prodotti si sono diffuse da un continente all’altro attraverso i millenni e rappresentano una interessante pagina della storia umana.

Per millenni le biotecnologie sono state basate su conoscenze empiriche; la loro esatta comprensione si sarebbe avuta soltanto a partire dall’Ottocento grazie ai progressi della fisica, della chimica e della microbiologia; anzi la nascita di questi campi della scienza è stata stimolata proprio dalla ricerca della comprensione dei fenomeni biotecnologici.

La lunga alba delle biotecnologie

Le comunità primitive di raccoglitori-cacciatori hanno probabilmente mangiato vegetali e carne crudi ma ben presto è stato trovato che la carne degli animali catturati con la caccia era “migliore” dopo cottura e che i cibi vegetali e animali subiscono alterazioni se lasciati all’aria. La prima biotecnologia si può riconoscere nei processi di conservazione con il calore, per essiccazione o per aggiunta di sale.

A mano a mano che si sono formate comunità stabili, circa 10.000 anni fa con la transizione da raccoglitori-cacciatori a coltivatori-allevatori, i nostri predecessori hanno imparato a macinare i cereali, a impastare le farine con acqua; questi impasti potevano essere mangiati come tali oppure in seguito a lievitazione e cottura; alcuni vegetali o tuberi venivano mangiati crudi e altri sottoposti a cottura.

Queste operazioni, benché scoperte e praticate empiricamente, erano tecnologiche in senso moderno. Fra tali proto-biotecnologie si possono comprendere la trasformazione del latte in latte acido (il precursore degli attuali yogurt), in formaggi e burro, aiutata da “qualcosa” che era presente nel latte stesso o nell’abdome degli animali.

Nel corso di processi che chiamiamo di fermentazione di sfarinati di cereali impastati con acqua è stata osservata la formazione di una sostanza volatile di odore gradevole, poi riconosciuta come alcol etilico, e che la stessa sostanza si forma lasciando a sé delle soluzioni contenenti succhi zuccherini, per esempio di frutta, o contenenti amido.

I succhi contenenti alcol sono stati riconosciuti come bevande gradevoli, quelle che chiamiamo vino e birra. Così come è stato osservato che le cose “dolci” erano buone. Da qui sono stati i processi di recupero del miele e di estrazione dello zucchero dalla canna; quest’ultimo consisteva nella frantumazione delle canne, la solubilizzazione dello zucchero con acqua, la concentrazione del succo zuccherino fino ad ottenere un prodotto cristallino.

Un’altra famiglia di biotecnologie riguardava l’estrazione da semi o frutti (olive) degli oli e dei grassi usati a fini alimentari ma anche come fonti di illuminazione e per la preparazione di detergenti (saponi).

Nel campo degli alimenti animali sono state perfezionate le tecnologie di macellazione degli animali con recupero anche dei vari sottoprodotti, fra cui alcuni (le ossa) impiegati come concimi, altri (i grassi) impiegati come alimenti o come fonti di illuminazione.

Questo cammino proto-tecnologico, si è svolto, con continui perfezionamenti, dal Neolitico, all’età dei grandi imperi, all’età greca e romana e alla diffusione dell’Islam.

L’età della borghesia e nuove biotecnologie

Una svolta nelle conoscenze degli alimenti e delle relative tecnologie si può riconoscere nel Medioevo quando nuove materie diventano accessibili, sia a Occidente nel bacino del Mediterraneo, sia ad Oriente in Cina e nel sud-est asiatico, con la comparsa e la diffusione di una nuova classe di mercanti e di benestanti con nuove e crescenti esigenze di alimenti più raffinati. L’intensificarsi degli scambi commerciali terrestri e marittimi è stato ulteriormente ampliato con l’accesso alle merci nuove delle “Americhe”.

L’utilizzazione di caffè, cacao, mais, patate, pomodori e la necessità di raffinare in Europa lo zucchero greggio delle ”colonie” ha stimolato nuove tecnologie.

La esatta comprensione dei fenomeni biotecnologici, grazie ai progressi della fisica, della chimica e della microbiologia, ha rappresentato una svolta nella disponibilità degli alimenti in un’epoca in cui aumentava la popolazione mondiale, aumentava la popolazione urbana, lontana dalle fonti agricole dirette di alimentazione. La diffusione dei lunghi viaggi marittimi intercontinentali ha spinto al perfezionamento dei processi di conservazione degli alimenti facilmente deperibili. Nel 1765 l’italiano Lazzaro Spallan­zani (1729-1789) ha dimostrato che gli agenti responsabili della degradazione microbica della carne — i “germi” — muoiono e non rinascono più se un alimento è messo a bollire entro una bottiglia ben chiusa per circa un’ora.

Il bisogno di disporre di alimenti conservati aveva indotto nel 1787 la Royal Society of Arts britannica a offrire un premio di 52 sterline a chi avesse scoperto un nuovo processo di conservazione, una iniziativa che stimolò il francese Nicolas Appert (1749-1841) a impiantare, nel 1789, un laboratorio per la produzione di alimenti imbottigliati e trat­tati a caldo. I vegetali venivano posti entro bottiglie di vetro ben chiuse che ve­nivano tenute a lungo in acqua bollente, a “bagno maria”. Nel 1807 Appert ebbe il primo riconoscimento ufficiale: il comandante marittimo di Brest attestò che le conserve di Appert, imbarcate a bordo nel veliero “Stationnaire”, si erano conservate alla perfezione. Nel 1809 il comandante Houssard, nel viaggio di ritorno dalle Indie, poteva offrire ai passeggeri un pasto di carne e ver­dura conservati in bottiglie e prodotti da Appert. Col tono un po’ enfatico della stampa dell’epoca, il “Courier de l’Europe” il 10 febbraio 1809 scrisse: “II signor Appert ha trovato un sistema per fermare le stagioni: nella sua casa la primavera, l’estate, l’autunno vivono in bottiglie, simili a quelle piante che il giardiniere protegge sotto una cupola di vetro contro le intemperie”. Ne 1810 Appert pubblicò un libro intitolato: “Le livre de tous les ménages, ou l’art de conserver, pendant plusieurs années, toutes les substances animales et végétales”.

In un mondo percorso dalla guerra, la scoperta di Appert veniva ad assumere un’importanza strategica anche perché assicurava cibi sani alle truppe a grande distanza dalle basi di rifornimento o alle spedizioni che affrontavano lunghi viaggi. Nel 1810 due imprenditori inglesi, John Hall (1755-1836) e Bryant Donkin (1768-1855), avevano iniziato la produzione di conserve sostituendo i contenitori di vetro, usati da Appert, con lattine di banda stagnata, una sottile lamiera di ferro protetta internamente da un sottilissimo strato di stagno, la cui era produzione era stata brevettata nello stesso 1810. Scatolette di carne usate nei viaggio polari sono state trovate in buono stato di conservazione dopo oltre un secolo. Lo stato della tecnologia è descritto in una relazione redatta da Donkin e Gamble nel 1832 e intitolata: “Official reports and copies of numerous documents relative to the latest improvements of Gamble’s patent fresh preserved provisions”.

E dagli anni trenta dell’Ottocento gli alimenti in scatola industriali apparvero in commercio, con continui perfezionamenti. La conservazione era migliore se le scatole erano scaldate in acqua salata bollente col che il contenuto poteva raggiungere i 130°C, e se durante la cottura l’aria interna veniva fatta uscire attraverso un piccolo foro, chiuso poi con una saldatura, alla fine del riscaldamento.

La soluzione definitiva sarebbe stata offerta dall’invenzione dell’autoclave, cioè di un recipiente chiuso in cui l’acqua è scaldata ad alta temperatura sotto pressione. L’aumento della richiesta di scatole di latta da parte dell’industria conserviera portò a rapidi progressi nell’industria della fabbricazione della banda stagnata, delle scarole di latta e della tecnica di saldatura. La prima industria per il pomodoro conservato in scatola risale al 1856.

Nel frattempo si è sviluppata in Europa la produzione dello zucchero di barbabietole e la relativa tecnologia di estrazione mediante cottura a caldo delle barbabietole, separazione e successiva concentrazione del sugo zuccherino. Una parte del processo era simile a quello usate nell’estrazione e nella raffinazione dello zucchero di canna. Una ulteriore produzione di zucchero si aveva trattando il melasso, la soluzione di zucchero impuro che residua dopo la raffinazione del sugo zuccherino concentrato. Un processo tutt’altro che banale che comprendeva sia delicate operazioni chimiche e fisiche applicate a materie biologiche, sia la opportunità di recuperare un sottoprodotto prezioso con un criterio che oggi si chiamerebbe di “economia circolare”.

Nella prima metà dell’Ottocento progrediscono anche le operazioni di trattamento e trasformazione del latte in formaggio e burro, come evoluzione delle antichissime tecniche empiriche già ricordate, grazie anche all’invenzione di strumenti per la misura della densità e del contenuto in grasso del latte, a riprova del crescente impegno di chimici e fisici per la conoscenza della composizione dei prodotti biologici. I primi caseifici industriali appaiono in Italia negli anni ottanta dell’Ottocento.

Altre biotecnologie furono rese possibili dai contributi dei chimici alla migliore utilizzazione delle materie biologiche a fini alimentari: nella metà dell’Ottocento il chimico tedesco Justus von Liebig (1803-1873) condusse studi, oltre che sul meccanismo di crescita dei vegetali (con lui comincia la migliore comprensione del meccanismi di nutrimento dei vegetali), anche sulla migliore utilizzazione di prodotti e sottoprodotti agricoli; si possono ricordare l’”invenzione” dell’estratto di carne, prodotto per concentrazione del brodo di cottura della carne nelle zone di allevamento, per evitare i lunghi viaggi per nave degli animali da macello, prima dell’invenzione dei frigoriferi, dell’estratto di lievito ottenuto dalla autolisi del lievito da pane vivo (lievito che, dal 1846, era ormai in commercio per facilitare il lavoro dei panettieri), dell’estratto ottenuto dalla cottura delle ossa. In tutti i casi si trattava di recuperare, da prodotti animali, le frazioni azotate che erano riconosciute importanti per l’alimentazione u mana. La popolarizzazione di queste vere e proprie biotecnologie fu facilitata dagli articoli che Liebig scriveva, sotto forma di “lettere” — “Chemische Briefe” — sulla stampa quotidiana raccontando i risultati delle sue ricerche.

L’altro gigante delle biotecnologie di questa metà dell’Ottocento fu anche lui un chimico, il francese Louis Pasteur (1822-1895), padre della microbiologia. Diventava così possibile mettere i microrganismi al servizio delle necessità umane, a cominciare dalla difesa contro le malattie per continuare con operazioni industriali, attraverso la selezione di microrganismi adatti a differenti funzioni. Soprattutto diventava chiaro il meccanismo della fermentazione alcolica che permetteva perfezionamenti nella produzione del vino, dell’alcol, del pane, eccetera. Appariva chiaro che l’azione dei microrganismi dipendeva dalla temperatura e ciò ha stimolato le tecniche di conservazione degli alimenti col freddo reso possibile dall’invenzione dei frigoriferi, e il meccanismo di sterilizzazione per riscaldamento introdotto empiricamente da Appert, prima ricordato e applicato anche al latte.

L’applicazione industriale delle scoperte della microbiologia dava vita a industrie autonome. Nel caso della fermentazione alcolica veniva osservato che, insieme all’alcol etilico e all’anidride carbonica, si formavano altri alcoli come quello butilico e amilico, che potevano essere separati e diventavano oggetti di commercio, suscettibili di altre trasformazioni.

Le conoscenze di microbiologia servivano, adesso, non solo al miglioramento e all’aumento dei prodotti alimentari ma anche come fonte di materie industriali tratta dalla biomassa. Nel 1914 il biologo Weizman scopriva la fermentazione aceton-butilica che permetteva di ottenere, insieme, alcol butilico e acetone una sostanza richiesta nella produzione della nitroglicerina. L’applicazione militare ha anzi probabilmente contribuito a far uscire le conoscenze microbiologiche dai laboratori scientifici e a riconoscere il grande potenziale industriale di queste vere e proprie biotecnologie.

Negli anni venti del Novecento un biologo giapponese scopriva che il sapore gradevole caratteristico di certi alimenti locali era dovuto ad una sostanza che si formava nella trasformazione microbiologica degli zuccheri in acido glutammico, uno degli amminoacidi naturali la cui produzione industriale si diffuse rapidamente in molti paesi.

Compare il concetto di biotecnologia: la prima metà del Novecento

Non a caso proprio nei primi anni del Novecento comincia a comparire la parola biotecnica o biotecnologia, apparentemente usata per la prima volta dall’ingegnere ungherese Károly Ereky (1878-1952) nel 1919 in un libro scritto in tedesco e pubblicato a Berlino, per indicare le tecniche che consentivano di aumentare le rese agricole e migliorare la qualità degli alimenti. Nello stesso 1919 Ereky fu nominato Ministro per l’alimentazione nella monarchia appena restaurata dopo la sconfitta della prima guerra mondiale e nella breve Repubblica di Bela Kun.

Quasi contemporaneamente lo scozzese Patrick Geddes, autore del libro “Città in evoluzione”, in uno dei suoi molti scritti ha parlato di una evoluzione della società umana da un’era eotecnica, quella basata essenzialmente sulle risorse naturali — vegetali, animali, energia solare, del vento e delle acque — insomma su quelle che sono state poi battezzate risorse rinnovabili, ad una era paleotecnica, quella del suo tempo, badata sull’inquinante carbone, a cui avrebbe dovuto seguire una era neotecnica e anzi biotecnica basata sulle risorse biologiche offerte del mondo vegetale e animale.

Un’idea che sarebbe stata ripresa da Lewis Mumford, nel 1933, nel libro “Technics and civilization” (Tecnica e cultura”, in italiano) che credeva di ravvisare tali transizioni nei progressi del suo tempo; l’era neotecnica, liberata dai fumi del carbone e dall’arroganza del potere della “macchina”, avrebbe dovuto sfociare in un “biotechnic period, already visible over the edge of the horizon”.

Nel clima del New Deal di Roosevelt, ormai nell’era del trionfo del petrolio, negli Stati Uniti si sviluppò il movimento della chemiurgia, un insieme di tecniche microbiologiche e chimiche per valorizzare i prodotti e i sottoprodotti agricoli, specialmente degli stati poveri e agricoli del Sud, fermamente sostenuta da George Washington Carver (1864-1943), un afroamericano che dedicò la vita a tale compito.

Si trattava di trarre materie commerciali dai gusci di arachide e perfino Ford aveva pensato di usare questo materiale per le carrozzerie delle sue automobili; fu proposto di evitare la dipendenza dai prodotti petroliferi, inquinanti, alimentando le automobili con alcol etilico ottenuto dalle eccedenze agricole con processi microbiologici.

Lungo la stessa linea si può ricordare la produzione di furfurolo per trattamento chimico dei pentosi della frazione di lignina della pula di riso o di altri materiali lignocellulosici e i primi tentativi di idrolisi chimica della cellulosa per trarne zuccheri adatti per la produzione microbiologica dell’alcol etilico, operazione praticata nel periodo autarchico. Anzi proprio le politiche autarchiche che sono state adottate da quasi tutti i paesi industriali durante la prima guerra mondiale, la grande crisi degli anni trenta e la seconda guerra mondiale, praticamente nel trentennio dal 1915 al 1945, sono state in gran parte rese possibili da progressi di biotecnologie basate sulla trasformazione di prodotti agricoli e forestali. (Si veda M.Ruzzenenti, “L’autarchia verde”, Jacabook).

A questi anni risalgono numerose invenzioni e innovazioni biotecnologiche. Forse il più importante successo di questa età dell’oro delle biotecnologie fu rappresentata dalla scoperta della possibilità di ottenere per via microbiologica la penicillina (anni 1940-45), la sostanza che ha salvato milioni di vite umane e che è stata il capostipite di tutti i successivi antibiotici naturali e semisintetici.

Con la fine della seconda guerra mondiale il petrolio abbondante e a basso prezzo sembrava assicurare materie sintetiche e fonti di energia in grande quantità liberando l’umanità della “schiavitù della dipendenza dai materiali offerti dal mondo vivente, relegati alla produzione di alimenti. Molte biotecnologie del periodo autarchico furono poi abbandonate o accantonate a mano a mano che il petrolio diventava disponibile a basso prezzo e offriva materie con cui ottenere, per sintesi, la maggior parte dei prodotti ottenibili dal mondo vivente: tensioattivi, materie plastiche, fibre tessili, eccetera.

Molte delle materie prime naturali richieste dalla crescente industria dei paesi emergenti, Europa e poi Stati Uniti, provenivano, dai campi di paesi coloniali lontani nei quali serpeggiavano aspirazioni di indipendenza: cotone dall’Africa, carne dall’Argentina, indaco dall’India, gomma dal Brasile e dall’Indocina. I chimici dei paesi industriali si misero perciò di buona lena a cercare di produrre dei surrogati partendo dai combustibili fossili esistenti sul posto: carbone in Europa, petrolio in America, e per circa un secolo, in gran arte del Novecento, la parola magica è stata: “sintetico”. “Sintetico” rappresentava la rivoluzione, l’aspirazione a liberarsi dalla schiavitù dei prodotti naturali. Il prof. Giuseppe Testoni tenne la prolusione al corso di Merceologia nell’Università di Bari nel 1929 con una conferenza dal titolo “Le merci sintetiche” e lo stesso titolo scelsi per la prolusione al mio corso di Merceologia nella stessa Università nel 1959.

Nonostante questa tendenza merceologica, al mondo vivente era necessario guardare per cercare una soluzione, per via tecnologica, al problema di come sfamare una popolazione mondiale in rapido aumento, a partire dagli anni cinquanta. Da una parte sono state proposte tecniche agronomiche che promettevano di aumentare le rese agricole con un uso intensivo di concimi e pesticidi e con sementi selezionate, la cosiddetta “rivoluzione verde”.

La fame nel mondo, soprattutto nei paesi in via di decolonizzazione, era provocata non soltanto dalla carenza di alimenti calorici, ma soprattutto da carenza di proteine di buona qualità, cioè sufficientemente ricche di amminoacidi essenziali, in particolare lisina e triptofano che sono presenti in maggiore quantità nelle proteine di alimenti di origine animale (latte e derivati, uova, carne), e carenti in quelli di origine vegetale, soprattutto nei cereali.

Fra le strade proposte per affrontare il problema della “fame di amminoacidi essenziali” si possono ricordare i processi per ottenere dei concentrati proteici dal pescato che non aveva una immediata utilizzazione diretta; le tecnologie per la produzione di farine di pesce hanno riscosso qualche attenzione, pur scontrandosi con critiche per l’impoverimento delle popolazioni di pesci dovute all’overfishing, e anche per i dubbi che tali proteine potessero generare malattie negli animali da allevamento.

Un’altra strada consisteva nella preparazione di estratti proteici dalle foglie, a cui ha dedicato importanti studi N.W. Pirie (1907-1997) a Rothamsted in inghilterra; maggiore attenzione ha ricevuto la produzione per fermentazione della lisina da addizionare agli alimenti poveri di amminoacidi essenziali, come quelli a base di mais o a mangimi per l’allevamento del bestiame..

Quasi contemporaneamente ci sono stati i perfezionamenti, “biotecnologici” anche loro, delle coltivazioni senza terra, e di tecniche di acquacultura (idroponiche) sperimentate già negli anni venti da William Frederick Gericke della University of California.

Con un intreccio fra la microbiologia industriale e l’utilizzazione dell’energia solare sono state proposte coltivazioni in vasche, contenenti sostanze nutritive come sali inorganici, di alghe con equilibrato contenuto, proteico come la Chlorella, mediante fotosintesi accelerata.

Addirittura è stato proposto di applicare le tecniche microbiologiche a prodotti petroliferi per ottenere proteine utili come alimenti per la zootecnia, le cosiddette bioproteine (altro vistoso abuso del termine “bio”), un’operazione rapidamemnte fallita.

Con la scoperta dell’”ecologia”, dagli anni sessanta del Novecento, si è visto che i prodotti sintetici, in quanti estranei alla natura, non erano biodegradabili, anzi erano fonte di inquinamento delle acque, che l’uso dei combustibili fossili era fonte di inquinamento atmosferico e dei relativi mutamenti climatici. Il concetto di “sintetico” è stato parzialmente sostituito dalla nuova parola magica “bio”: tutto quello che è bio è nuovo e buono e ecologicamente virtuoso e lo sanno bene molti venditori che appiccicano il prefisso “bio” a tutto quello che capita. “Biotecnologia” è il nome, ripescato, dato ai processi che dovrebbero salvare il pianeta producendo merci alternative a quelle sintetiche e prive degli inconvenienti prima ricordati.

Fra le biotecnologie applicate non solo a prodotti alimentari si può ricordare il vivace dibattito relativo alla produzione per fermentazione di alcol etilico da utilizzare come surrogato della benzina, una tecnologia già applicata in periodo autarchico, una proposta apparentemente “ecologica” (minore inquinamento atmosferico, minore emissione di gas serra (se si contabilizza la CO2 sottratta dall’atmosfera nella fotosintesi delle biomasse vegetali), ma altrettanto vivacemente contestata per l’impiego di biomassa che avrebbe potuto meglio essere utilizzata a fine alimentari.

Dal momento che non era “ecologicamente corretto” trarre gli “zuccheri” necessari per la produzione di alcol e di altri prodotti microbiologici dallo zucchero di canna o dall’amido, adatti a fini alimentari, sono state messe a punto tecnologie microbiologiche di scomposizione della cellulosa presente in residui e scarti di lavorazioni agricole e forestali non alimentari, la stessa operazione che in periodo autarchico era stata fatta con processi chimici.

Altra biotecnologia per la produzione di merci (pur ecologicamente corrette) non alimentari con processi basati sull’impiego di materie che avrebbero potuto essere destinate a fini alimentari è quella della produzione di biodiesel partendo da grassi. Sia nel caso dell’alcol carburante da amido e canna, sia nel caso di biodiesel da olio di palma la contestazione “ecologica” riguarda anche il fatto che le rispettive biomasse sono ottenute da coltivazioni intensive di piante su terreni sottratti alle foreste e con eccessivo sfruttamento ecologico e delle popolazioni locali.

 Le biotecnologie sono invece utilmente applicate al trattamento dei rifiuti. Nel caso dei rifiuti organici costituiti da escrementi animali e umani si è sempre saputo che si libera metano che può essere recuperato e impiegato come combustibile, col vantaggio di evitare l’inquinamento delle acque con questi reflui organici.

A questo punto si ha la svolta semantica per cui biotecnologia è termine assegnato alle pratiche basate sulle modificazioni genetiche.

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[Giorgio Nebbia] 

“Le coltivazioni OGM possono essere considerate “bioeconomia”?

Noel Kingsbury: “A rose is a rose is a rose – but the genes are never the same” .

?Antoine de Saint-Exupéry: “Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa…” .

Henry Wallace: “Scientific understanding is our joy. Economic and political understanding is our duty”.

Per rispondere alla questione che tu mi poni, se le coltivazioni di organismi transgenici possono essere considerate “bioeconomia”, si rende necessario ripercorrere alcune tappe della storia delle modificazioni che l’uomo ha apportato alle piante domesticate.

Dalla Rivoluzione Neolitica, e forse anche da prima dato che sembra appurato che l’orticultura di montagna e di collina precedette la cerealicoltura di pianura, gli uomini hanno sempre modificato le caratteristiche morfologiche e biologiche, e quindi genetiche, degli organismi utili per produrre cibo, spezie, sostanze stimolanti, medicamenti, fibre tessili, pigmenti e altre sostanze impiegate in manifatture diverse.

Il più grande naturalista dell’Ottocento , Charles Darwin (1809-1882), e il più grande biologo agrario del Novecento, Nikolaj Vavilov (1887-1943) posero entrambi a fondamento della loro riflessione scientifica la grande differenza esistente tra gli animali e le piante domesticate e i loro antenati selvatici. Altrettanto importante per le loro indagini fu la constatazione che gli organismi domesticati mostrano una grande variabilità intraspecifica, a differenza della grande omogeneità riscontrata tra gli organismi selvatici e primigeni da cui hanno preso forma.

L’esempio forse più eclatante è quello del mais, pianta coltivata dai nativi americani dall’Argentina al Canada in una grandissima varietà di forme, la cui origine rimase a lungo un mistero data l’impossibilità di reperire in tutto il continente una pianta selvatica con caratteri evidentemente simili alle piante coltivate. il mistero dell’origine del mais venne definitivamente risolto, dopo decenni di appassionati dibattici, solo alla metà del Novecento quando i genetisti convalidarono l’ipotesi dell’origine del mais dal teosinte, un cespuglio perenne che cresce ancora in Centro America, dotato di piccole spighe solo parzialmente coperte da brattee.

Darwin mise in luce l’effetto lento e cumulativo dell’attività di selezione di sementi e riproduttori con caratteristiche utili all’uomo: “la natura fornisce variazioni successive, e l’uomo le accumula nelle direzioni che gli sono utili. In questo senso si può dire che egli si è fabbricato le razze che gli sono vantaggiose” (Darwin, 1859). Si tratta dell’azione di quella che il biologo inglese definì selezione “artificiale” non tanto per contrapporla a quella “naturale”, quanto per dimostrare, data l’evidenza della prima, l’esistenza della seconda e quindi dell’evoluzione delle specie.

Vavilov sottolineò come l’irrigazione e la fertilizzazione, modificando radicalmente le condizioni ambientali, permisero l’emergenza di varietà più produttive, che sono poi state oggetto di una pressione selettiva lenta e costante da parte dell’uomo.

L’agricoltura contadina tradizionale, più o meno inconsapevolmente, ha quindi “fabbricato”, nei suoi vari centri di sviluppo, le varietà domestiche utili all’uomo, svolgendo, insieme alle diverse condizioni ambientali, un’azione storica di moltiplicazione della biodiversità agraria. Sono nati così e si sono evoluti nel tempo e differenziati nello spazio gli ecotipi, le varietà legate a specifici territori ((Il termine inglese “land races” mette bene in evidenza il collegamento tra specifiche razze o varietà e specifici territori.)): popolazioni di individui morfologicamente e biologicamente simili, ma non identici, e per questo in continuo dinamismo genetico sotto la pressione selettiva esercitata congiuntamente dall’uomo e dall’ambiente.

La prima grande esperienza di modificazione consapevole e sistematica degli organismi domesticati si verificò in Inghilterra nel contesto della Rivoluzione Agraria del XVIII e XIX secolo e si basò innanzitutto sulla selezione degli individui “migliori” all’interno di un determinato ecotipo.

I primi country gentlemen inglesi, i ricchi e colti possidenti fondiari che iniziarono ad occuparsi direttamente della gestione delle terre progressivamente liberate dai vincoli feudali, si appassionarono soprattutto al “miglioramento” degli animali allevati. Tra questi il più famoso fu certamente l’allevatore e selezionatore Robert Bakewell (1725-1795), che per primo implementò una metodologia sistematica di selezione del bestiame con l’obiettivo di modificare forme e qualità di ovini, bovini ed equini, con un finalità prettamente utilitaristica. Per Bakewell “La miglior razza di bestiame è quella che rende il maggior profitto, posto un livello determinato di consumo” .

La metodologia sviluppata da Bakewell parte con l’isolamento all’interno di una data popolazioni di animali degli individui migliori secondo certe caratteristiche utili all’uomo, prosegue con l’incrocio di questi individui selezionati e termina con il loro ripetuto “inincrocio”, ovvero con l’incrocio tra individui consanguinei, con la finalità di stabilizzare i caratteri selezionati. Nacquero in questo periodo le società della razza, i concorsi a premi, le vendite dei capi all’asta e le corse tra “purosangue” con le relative scommesse. “Popolazioni animali nelle quali si sono perpetuati per secoli caratteri diversi e mutevoli vengono trasformate, attraverso la scelta dei riproduttori, in ceppi omogenei, ciascuno dei cui esemplari deve uniformarsi al modello che si è imposto alle aste del bestiame pronto per la macellazione” (Saltini, III, 34). L’eccezionale situazione dell’allevamento bovino inglese, dovuto all’aumento della domanda di carne da parte della crescente popolazione urbana, cessò improvvisamente nel 1865 quando la più grave epidemia di peste bovina (o antrace) uccise oltre 400.000 bovini su una popolazione di 6.000.000, ovvero il 7% a livello nazionale, percentuale che però in alcune zone superò il 60% ((Per la storia della peste bovina del 1965 si veda l’interessante documento, scaricabile.)). L’alta densità degli animali nelle stalle e la loro uniformità genetica pare abbiamo favorito il rapido diffondersi dell’epidemia((A questo riguardo si veda )).

Robert Bakewell , il cui lavoro fu ricordato da Darwin come un esempio evidente dell’efficacia della selezione artificiale, contribuì a rompere l’antico tabu biblico dell’accoppiamento tra consanguinei e a diffondere l’idea che anche le piante, come gli animali, potessero essere migliorate.

Dei vegetali si erano scoperti da poco i meccanismi riproduttivi e, nonostante le numerose sperimentazioni di incroci e ibridazioni((Alcuni esperimenti volti a dimostrare l’esistenza dei sessi anche nei vegetali erano stati eseguiti dal vivaista e floricoltore inglese Thomas Fairchild (1667-1729), che nel 1717 realizzò la prima pianta ibrida, nota come “il mulo di Fairchild”, risultante dalla manipolazione dei fiori di due piante di specie distinte, il garofano comune e il cosiddetto garofano dei poeti.)) tra varietà diverse come quelle svolte dal famoso botanico e orticoltore inglese Thomas Andrew Knight (1759-1838) e dal naturalista francese Antoine Nicolas Duchesne (1747-1827), durante la gran parte dell’800 i maggiori sforzi per migliorare le piante agrarie vennero rivolti all’attività di isolamento e selezione all’interno degli ecotipi.

I gentiluomini inglesi di campagna si focalizzarono sulla selezione del grano e dell’orzo, rendendosi conto che questi cereali, in quanto prevalentemente autoimpollinanti((L’autoimpollinazione si verifica quando il polline passa direttamente dall’antera di un fiore, allo stigma dello stesso fiore. Le piante che praticano questo tipo di impollinazione sono dette “autogame” e di solito hanno quello che i biologi chiamano un “fiore perfetto”, ovvero dotato della parte maschile e di quella femminile.)), conservano le caratteristiche morfologiche e fisiologiche se si sviluppano a partire da una sola pianta o da una sola spiga. Alcuni appassionati studiosi delle varietà di grano, come il colonello Sir John Le Couteur (1794 – 1875), si resero inoltre conto che “la coltivazione di una mescolanza non può dare un risultato migliore di quella della sua componente migliore”.

Nacquero così ed iniziarono a diffondersi, a scapito degli ecotipi locali, il frumento Chidham, originato da una spiga trovata in una siepe nell’omonimo paesino del Sassex, e il frumento Mungoswell, sviluppato da una spiga sopravvissuta al rigido inverno scozzese del 1813. Fu avviata quindi la commercializzazione di sementi “pedigree”, come quelle del maggiore Frederick Hallett, che nel 1861 per primo pubblicizzò le sue sementi sul giornale inglese The Times. Il seme da mezzo di produzione rinnovabile in campo dai contadini, nel processo circolare e interno all’azienda agricola che parte dal seme e ritorna al seme, incominciò quindi a trasformarsi in “merce” da acquistare nel mercato. Hallett si preoccupò di convincere gli agricoltori a tornare da lui anno dopo anno per comprare sementi “fresche”. ll suo metodo scientifico di miglioramento delle piante, volto a giustificare il riacquisto regolare delle sementi , nonostante sia stato presentato su Nature nel 1882((http://bulbnrose.x10.mx/Heredity/Hallett_Food_Plant1882.html)), si dimostrò poi errato in quanto basato sull’idea di un continuo miglioramento di una “linea pura” a seguito di una costante pressione selettiva((Saranno soprattutto gli studi del botanico danese Wilhelm Johannsen (1857-1927) sui fagioli a dimostrare, ad inizio Novecento, che la selezione di linee pure conduce ad una fissità dei caratteri acquisiti (omozigosi) e che la variabilità dei caratteri manifestati al raccolto, come il peso dei fagioli, dipende solo dalle diverse condizioni in cui sono cresciute le piante. Johannsen giunse quindi a coniare i termini “genotipo” e “fenotipo” ed ad introdurre la parola “gene” per definire le entità fisiche responsabili della trasmissione dei caratteri, in opposizione alla parola “pangene”, derivata dalla teoria darwiniana.)).

Nello stesso periodo anche in Francia, Philippe André de Vilmorin (1776-1862) e il figlio Louis de Vilmorin (1816-1860), presero spunto dal miglioramento animale e fondarono la loro attività di produzione e commercializzazione di sementi sull’isolamento, sulla riproduzione e sulla continua selezione delle piante migliori. I risultati forse più eclatanti furono raggiunti sulla barbabietola da zucchero che vide aumentare il contenuto zuccherino da un 10-11% a un 16-17%, contributo fondamentale allo sviluppo della giovane industria francese dello zucchero bianco. Dal 1840 al 1920 la Vilmorin fu la più importante azienda sementiera al mondo, specialmente per i cereali.

Come l’800 fu il secolo della selezione dei “purosangue”, il ‘900 fu il secolo degli incroci e dell’ibridazione. La riscoperta dei lavori dell’abate moravo Gregor Mendel sugli ibridi ottenuti incrociando le linee puree di pisello gettò una nuova luce sui meccanismi ereditari, facendo emergere l’idea che la trasmissione dei caratteri sia governate da leggi chiare e definibili. Nacque così la “genetica”((La parola “genetica” fu utilizzata per la prima volta nel 1906 da William Bateson (1861-1926) nel corso la Terza Conferenza sull’Ibridazione e l’incrocio tra le piante, organizzata dalla Royal Horticultural Society.)).

La nuova scienza degli incroci e delle ibridazioni, il cui metodo di indagine rappresenta anche un metodo di intervento, fu accolta con grande entusiasmo soprattutto nel Nord America, dove l’opera di introduzione e di distribuzione di sementi provenienti dal Vecchio Mondo, che era stata al centro delle prime politiche agrarie ottocentesche((Il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti nacque nel 1862 da un programma pubblico di immagazzinaggio e di distribuzione di sementi ai contadini americani. Con la creazione, nel 1887, del sistema delle stazioni sperimentali pubbliche il controllo della qualità delle sementi divenne molto accurato e la loro distribuzione più capillare. Tale sistema pubblico, creato anche per arginare la diffusione fraudolenta di sementi “miracolose”, limitò fortemente lo sviluppo del settore sementiero privato, che rimase prevalentemente legato all’orticoltura, il cui processo strettamente produttivo si arresta prima della rigenerazione del seme.)), sembrava avere raggiunto il suo limite, e dove quindi era fortemente sentita l’esigenza di “nuove” piante.

In Canada si era diffusa nel corso dell’Ottocento la coltivazione del grano e notevole era stato il lavoro di selezione. Partendo dalla selezione di una singola spiga, trovata in un campo dove erano stati seminati dei grani provenienti dalla Galizia e arrivati in Canada su un battello polacco, era nato il “Red Fife”, la prima varietà di grano canadese a cui si attribuì un nome. Nell’espansione dell’agricoltura a Nord, la mietitura di questa varietà primaverile si avvicinava in modo pericoloso alle prime gelate autunnali. Fu quindi fortemente sentita l’esigenza di varietà più precoci e già nel 1886 il Governo canadese creò la prima stazione sperimentale demandata alla selezione del frumento. In questa stazione sperimentale, a inizio Novecento, l’agronomo Charles Saunders (1867-1937) sperimentò innumerevoli incroci del “Red Fife” con grani precoci di origine russa e indiana. La selezione partita da una singola spiga, di cui masticando alcuni semi aveva apprezzato il contenuto di glutine, gli valse l’”invenzione” del grano “Marquis”, caratterizzato da una elevata qualità, precocità, robustezza e resa. Nel 1907 questa varietà di grano iniziò a diffondersi, arrivando nel 1915 ad occupare il 90% dei campi seminati a frumento primaverile, diffondendosi anche nelle Great Plains statunitensi. Il Marquis divenne così la base della produzione cerealicola canadese e degli standard di qualità del frumento per il pane a livello mondiale.

L’arrivo sul mercato inglese dei grani nordamericani, di maggiore qualità e meno cari, determinò una situazione particolarmente depressa nella campagne, tale da indurre il governo britannico a implementare delle politiche di supporto al settore cerealicolo. Sull’onda del successo della genetica mendeliana, la strategia di intervento pubblico si focalizzò sulla ricerca scientifica, attraverso la creazione della School of Agriculture presso l’Università di Cambridge (1910) e il Plant Breeding Institute (1912). Direttore di questo istituto pubblico rivolto specificatamente al miglioramento vegetale divenne Rowland Harry Biffen (1874-1949), che nel 1905 aveva pubblicato i primi risultati dei suoi studi sul grano. Questi studi avevano messo in evidenza che più di una dozzina di caratteri, non solo morfologici ma anche istologici e costituzionali, erano determinati dai geni. Con il lavoro di Biffen divenne chiaro che non solo la forma del grano, ma anche la sua riposta agli stress ambientali e la sua qualità panificatoria dipendono da fattori genetici. Nel 1910 Biffen presentò la sua prima varietà di grano resistente alla ruggine, il “Little Joss”, il cui successo gli garantì la direzione del Plant Breeding Institute.

Anche in altri paesi europei si iniziò un grande lavoro di incroci tra varietà differenti di grano. Il paese che aprì la strada che poi porterà alla più importante modificazione genetica del frumento fu l’Italia. Il principale, per molti versi solitario, protagonista di questa vicenda fu l’agronomo marchigiano Nazareno Strampelli che nel 1903 diviene direttore della Cattedra ambulante di Rieti, definita cattedra “di granicoltura” perché ubicata nel comprensorio caratterizzato dal migliore degli ecotipi di frumento italiano, denominato appunto “Rieti”. Il giovane Strampelli capì che in Italia la resa del frumento era limitata dalle elevate temperature e dalla siccità che caratterizza la penisola nel mese di luglio, la cosiddetta “stretta”. Egli focalizzò quindi il suo lavoro sulla creazione di frumenti precoci, ottenuti incrociando il Rieti con un frumento ad elevata resa olandese e un frumento giapponese nano e precoce chiamato Akakomughi. Le sementi di grano giapponese erano state introdotte in Italia dalla più importante azienda sementiera nazionale, Ingegnoli di Milano((Sulla storia dei vivai Ingegnoli, che tra l’altro introdussero il kaki in Italia )). Il triplice incrocio si dimostrò particolarmente fortunato e diede origine ad una prima varietà di successo: il grano “Ardito”. Fu la prima cultivar che riunì le caratteristiche desiderabili della resistenza alla ruggine, ereditata dal Rieti, l’elevata produttività, ereditata dal grano olandese e la resistenza all’allettamento e la precocità, proveniente dall’Akakomugi. L’Ardito fu il primo di un lungo elenco di cultivar di successo a basso fusto, le cosiddette “sementi elette” su cui Mussolini basò la sua famosa “battaglia del grano”. Grazie ai consigli agronomici di Alfonso Draghetti, direttore della Stazione Agraria Sperimentale di Modena, i frumenti di Strampelli realizzarono rese produttive quattro volte maggior delle produzioni nazionali, permettendo all’Italia di colmare il divario di produttività con le nazioni europee più avanzate. Il programma di miglioramento italiano fu il primo che introdusse nei grani occidentali il gene del nanismo, detto Rht8, che modifica strutturalmente la pianta rendendo lo stelo più corto, carattere utile ad evitare l’allettamento della pianta in condizioni di fertilizzazione azotata abbondante, che poi divenne l’assioma dell’agricoltura industriale. Fu proprio questa la strada che, come vedremo, porterà qualche decennio più avanti alla creazione delle famose varietà di grano ad alta resa tipiche della Rivoluzione Verde.

Se quelli sul grano rappresentano i primi successi delle tecniche di incrocio applicate al miglioramento delle piante agrarie, la genetica mendeliana raggiunse di fatto il suo maggior traguardo con l’invenzione degli ibridi di mais, invenzione avvenuta nelle umide pianure degli Stati Uniti orientali, i territori che poi diverranno noti come Corn Belt.

Il mais fu una delle poche piante di interesse alimentare che i pionieri trovarono in questa parte del continente americano. A differenza del grano, il mais è una pianta a forte impollinazione incrociata che possiede la singolare caratteristica di avere la parte femminile, la spiga erroneamente definita pannocchia, fisicamente separata dalla parte maschile, l’inflorescenza apicale, detta pennacchio. I nativi nordamericani , mangiatori di tortillas, coltivavano da secoli numerosissime varietà di mais “flint”, in italiano “indurato”, preoccupandosi di tenere separati i diversi ecotipi in modo da non perdere i caratteri singolari, fra cui il gusto, di ciascuno di essi. I contadini americani, mangiatori di pane, iniziarono ad utilizzare il mais come “finissaggio” per i bovini da carne e ad incrociare le diverse varietà. Fu proprio da un incrocio più o meno fortuito tra una varietà locale di mais “flint” e una varietà di mais “dent”, portata in Illinois da un pioniere proveniente dalla Virginia, Robert Reid, che nacque il mais giallo dentato((Robert Reid e il figlio James vinsero un premio all’Expo del 1893 a Chicago per il loro “Reid’s Yellow Corn”. Il mais di Reid divenne così molto popolare e fornì il punto di partenza per il successivo lavoro di selezione del mais giallo dentato.)), che rappresenta ancor oggi la varietà di mais più coltivata per l’alimentazione animale e la produzione agro-industriale.

Negli Stati Uniti a fine dell’800 la coltivazione del mais si diffuse soprattutto negli stati dell’Est, dove arrivavano i treni con i bovini allevati nei grandi pascoli dell’Ovest per essere ingrassati prima di essere inviati ai macelli di Chicago. In queste campagne americane erano divenuti popolari i concorsi per la pannocchia più “bella”. A inizio Novecento, alcuni agronomi operanti nelle stazioni sperimentali agrarie da poco istituite si resero conto della debolezza di un metodo di selezione basato sull’apparenza estetica della pannocchia e iniziarono delle sperimentazioni volte a valutare la resa e i contenuti di olio e proteine delle diverse varietà, ormai intese come linee “pure”. Fu in questo ambiente che la genetica mendeliana generò una nuova rivoluzionaria merce: i semi ibridi di mais.

Gli “inventori” degli ibridi di mais furono Edward Murray East (1879-1938)e George Shull (1874-1954) che ad inizio del Novecento, seguendo il nuovo approccio genetico, iniziarono ad incrociare le linee pure di mais, ovvero le piante provenienti da sementi ottenute obbligando artificialmente la pianta ad autoimpollinarsi. East e Shull si resero conto, pare indipendentemente l’uno dall’altro, che nonostante la depressione “consanguinea” tipica delle linee pure del mais, la prima generazione di semi ottenuti incrociando due linee pure, i cosiddetti “F1”, presenta una grande omogeneità e un particolare vigore, fenomeno quest’ultimo che Shull chiamò “eterosi”, noto anche come “vigore dell’ibrido”. Questa omogeneità e questo vigore vengono però perse nelle generazioni successive.

Sia East che Shull si resero conto della grande potenzialità che questa tecnica poteva avere per la nascente industria sementiera in quanto, grazie ad essa, gli agricoltori sarebbero stati indotti a riacquistare anno dopo anno le sementi ,e le linee pure di origine potevano non essere diffuse. Di fatto una sorta di “brevetto” biologico. La scarsa produttività delle linee pure parentali non permise però l’immediato sviluppo commerciale degli ibridi di mais. Questo problema venne risolto qualche anno dopo, quando verso la fine degli anni ’10 un altro agronomo statunitense, Donald F. Jones (1890-1963), sviluppò un metodo di produzione degli ibridi di prima generazione partendo da quattro linee pure parentali incrociate a due a due. Grazie alla tecnica sviluppata da Jones, nel 1920 fu lanciato commercialmente il primo mais ibrido a doppio incrocio, denominato “Burr-Leaming”. Come titolava un articolo del 1929 pubblicato dal Country Gentleman, una delle riviste più lette dagli agricoltori statunitensi di quel periodo: “The Day of Super Crops Has Come”.

La persona che diede il maggior impulso alla costruzione di questa nuova era, che sarà poi quella dell’agricoltura industriale, fu Henry A. Wallace (1888-1965). Appartenente ad una potente famiglia di proprietari terrieri, religiosi, editori e politici dello Iowa, Wallace fondò nel 1926 la prima azienda nata con lo scopo specifico di sviluppare, produrre e distribuire semi ibridi di mais, la Hi-Bred Corn Company (che poi diverrà Pioneer Hi-Bred Corn Company). Il successo delle sementi ibride non fu immediato nel contesto della gravissima crisi da sovrapproduzione, che caratterizzò il periodo della grande depressione nelle campagne. Nel 1933 solo l’1% del mais coltivato nello Iowa proveniva da sementi ibride. Nel decennio successivo che concise con l’ascesa politica di Henry Wallace, da Segretario all’Agricoltura a Vicepresidente degli Stati Uniti, la diffusione delle sementi ibride si espanse a un ritmo impressionante. Nel 1944 praticamente tutto lo Iowa fu seminato con sementi ibride di mais, pari a quasi il 60% della superficie maidicola statunitense. Lo sviluppo delle sementi ibride di mais andò di pari passo con la diffusione della meccanizzazione nelle campagne. I semi F1 permettono infatti di generare delle piante estremamente omogenee, condizione necessaria alla mietitura e trebbiatura con le macchine. Dal 1935 al 1945 la percentuale del mais raccolto meccanicamente aumentò dal 15% al 70%. Nello stesso periodo, nello Iowa, il numero di mietitrebbiatrici aumentò di nove volte .((Gli studi sulla diffusione degli ibridi di mais nelle comunità contadine dello Iowa contribuì all’elaborazione della “teoria della diffusione delle innovazioni”, conosciuta per la curva a S che descrive lo diffusione nel tempo delle innovazioni.))

Forte dello strepitoso successo degli ibridi di mais e all’apice della sua esperienza poltica, Henry Wallace, all’inizio degli anni ’40, pose le basi di quella che verrà poi chiamata “Rivoluzione Verde”, la terza rivoluzione agraria della storia dell’uomo. Durante un viaggio in Messico, Wallace si convinse della necessità economico e politica di industrializzare l’agricoltura messicana, allora fondamentalmente contadina, e ideò, con il sostegno della Fondazione Rockefeller, il Mexican Agricolture Program (MAP).Il MAP prese ufficialmente vita nel 1943 e venne focalizzato sulla costituzione di varietà di mais e di grano ad alta resa. La direzione del progetto sul grano venne presto affidata ad un giovane biologo proveniente dall’ Iowa, Norman Borlaug (1914-2009). Borlaug indirizzò il suo lavoro di “costituzione vegetale” su tre approcci: il massiccio incrocio di varietà di grano differenti per selezionare piante resistenti alla ruggine; l’introduzione di grani nani giapponesi; la risemina dei grani selezionati in terreni a diverse latitudini. Il risultato di alcuni anni di lavoro fu lo sviluppo di nuove varietà a bassa taglia, altamente produttive in condizione di irrigazione e fertilizzazione artificiale, resistenti alla ruggine, resistenti alla trebbiatura meccanica, insensibili al fotoperiodo. I nuovi cultivar, con l’agricoltura industrializzata per i quali erano stati creati, si diffusero nei vasti campi irrigati del Nord del Messico, dove conseguirono dei risultati produttivi per allora impressionanti in termini quantitativi. Le comunità contadine furono costrette ad abbandonare le loro terre e a dirigersi verso le degradate periferie urbane.

Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 la Fondazione Rockefeller, in accordo con il Governo americano, decise che i tempi erano maturi per l’internazionalizzare l’esperienza messicana creando, insieme alla Ford Foundation, l’Istituto Internazionale per le ricerche sul Riso (IRRI) nelle Filippine a Los Baños e il Centro Internazionale di miglioramento del mais e del grano (CYMMIT) a El Batán in Messico.

A Los Banos si iniziò subito a lavorare alla creazione di nuovi risi secondo le linee imposte per il grano da Borlaug. I risi nani dell’IRRI divennero così con i grani nani del CYMMIT le prime “Global Crops”, capaci di riprodurre in ogni parte del mondo, a scapito dell’agricoltura contadina, il modello dell’agricoltura industriale nato nell’Iowa con gli ibridi di mais((I semi ibridi di mais, che obbligano il riacquisto delle sementi anno dopo anno, non riuscirono ad affermarsi né in Messico né tantomeno nei paesi asiatici. Qui la diffusione delle sementi ad alta resa di grano e riso rappresentò soprattutto il volano alla diffusione dei fertilizzanti e pesticidi di sintesi e dei sistemi moderni di irrigazione, fattori che fecero considerevolmente aumentare le rese anche delle varietà tradizionali.)) . Come esemplificò lo stesso IRRI parlando del IR8, la sua varietà di maggior successo: “IR8 was to tropical rices what the Model T Ford was to automobiles…a rugged variety that could go everywhere” (Hybrid,307).

La Green Revolution ((Il termine fu usato per la prima volta nel 1968 da William Gaud, il direttore dell’agenzia americana per lo sviluppo internazionale, in contrapposizione innanzitutto alla Red Revolution sovietica.))germogliò quindi in Messico e fiorì in Asia. Con le nuove sementi di grano e di riso ad alta resa si diffusero la meccanizzazione, i sistemi di irrigazione con motopompe e l’uso di fertilizzanti e di pesticidi di sintesi. L’adozione del modello agronomico industriale fondato sulla genetica di cereali a bassa taglia e sull’uso intensivo di combustibili fossili permise il raddoppio delle produzioni cerealicole in India, nelle Filippine, in Indonesia. Secondo l’interpretazione storica dominante queste prime creature della genetica applicata alle piante scongiurarono la carestia planetaria, permettendo in vaste aree del pianeta alla produzione agricola di seguire la dinamica demografica. Fu proprio per questa ragione che nel 1970 Norman Borloug, “the Father of the Green Revolution”, ricevette il Premio Nobel per la pace.

Nel 1972, Nicholas Georgescu Roegen ebbe modo di esprimersi in maniera estremante chiara sull’agricoltura industriale e le creature di Borlaug in una relazione poi ripresa nel famoso articolo “Energia e Miti Economici”, articolo che termina con il suo programma bioeconomico minimale.

Secondo il padre della bioeconomia “la sostituzione degli animali da tiro con il trattore, del foraggio con i carburanti, del letame e del maggese con fertilizzanti chimici, rimpiazza l’elemento più abbondante, la radiazione solare, con altri più scarsi [e] questa sostituzione rappresenta anche uno sperpero di bassa entropia terrestre, data la resa fortemente decrescente dei nuovi elementi”. Inoltre” questa diseconomia è particolarmente pesante nel caso delle varietà a resa elevate che hanno fatto vincere al loro realizzatore, Norman E. Borlaug, il premio Nobel”. Per l’economista rumeno “questa tecnica agricola moderna costituisce, nel lungo periodo, un’azione contraria ai più elementari bisogni bioeconomici della specie umana”. La questione cruciale infatti, per Georgescu Roegen, non è quante persone possono vivere sul Pianeta Terra ma per “quanto tempo” la popolazione umana possano sopravvivere dati una certa dinamica demografica e un certo modello agricolo. L’agricoltura industriale, che intensifica l’uso delle risorse terresti esauribili a scapito di quelle solari rinnovabili, nella prospettiva bioeconomica da lui delineata, non può rappresentare la soluzione al problema alimentare del genere umano nel lungo periodo. Per Georgescu Roegen occorrerebbe attuare delle politiche di controllo demografico e sviluppare un’agricoltura organica che fondamentalmente reintegri l’attività agricola e quella zootecnica((Meccanizzazione…)).

Nella relazione del 1972, Georgescu Roegen pose inoltre il problema dell’erosione genetica, ovvero della perdita degli ecotipi causata dalla diffusione dell’agricoltura industriale e delle sue creature genetiche.

Se la produzione di cibo tramite complessi agro-industriali diviene la regola generale, molte specie connesse con l’agricoltura organica all’antica potrebbero scomparire, una conseguenza che forse condurrebbe il genere umano in un vicolo cieco ecologico senza possibilità di ritorno”.

Il problema dell’erosione genetica legato all’industrializzazione dell’agricoltura era già stato posto a fondamento del monumentale lavoro di collezione, catalogazione e riproduzione di ecotipi organizzato negli anni ‘20 e ’30 dal grande agronomo russo Nicolaj Vavilov. Anche Girolamo Azzi, agronomo italiano amico di Vavilov e pioniere dell’ecologia agraria, focalizzò il suo lavoro sulla genetica in una prospettiva basata sulla critica verso la diffusione indiscriminata delle nuove varietà e la necessità di conservazione degli ecotipi tradizionali. Negli anni della Rivoluzione Verde, questo tipi di preoccupazioni riemerse negli ambienti scientifici ed istituzionali e la FAO, in risposta, istituì già nel 1965 la Crop and Ecology and Genetic Resources Unit per promuovere la creazione di quelle che poi saranno note come “banche dei semi”.

Nell’anno stesso in cui Norman Bourlag vinse il premio Nobel, il 1970, nel cuore dell’agricoltura industriale nord americana, la Corn Belt, le sementi modello di questa agricoltura industriale, gli ibridi di mais, manifestarono in maniera inaspettata la loro fragilità, fragilità causata dalla loro impressionante uniformità genetica. Nell’umido autunno di quell’anno, infatti, i campi di ibridi di mais dell’Illinois e dell’Iowa furono devastati dall’attacco di una nuova malattia fungina, la “southern corn blight”. Ci fu un senso di panico e il prezzo del mais salì del 20% alla borsa di Chicago. In alcuni stati del sud le rese di mais subirono un crollo del 50%. Gli agronomi e i genetisti capirono velocemente che la nuova malattia colpiva solo gli ibridi che avevano tra le linee parentali, una linea madre che era stata selezionata in Texas in quanto caratterizzata dalla sterilità maschile, ovvero non produce polline. Questa linea madre si era diffusa enormemente in quanto permetteva di eliminare nella produzione delle sementi ibride la pratica manuale, e quindi costosa per le aziende sementiere, del “detesselling”, lavoro che consiste nella eliminazione fisica del pennacchio dalla linea femminile ((Donald Jones, che aveva sviluppato la tecnica per creare gli ibridi di masi commerciali, fu uno dei genetisti che lavorò sulla sterilità maschile del mais. Negli anni ’56 brevettò un gene che serve per ristabilire la fertilità nelle piante che non producono polline. Jones fu quindi la prima persona ad ottenere un brevetto su una tecnica genetica.)).

A seguito di questa epidemia la National Academy of Science pubblicò nel 1974 uno studio intitolato “Genetic Vulnerability of Major Crops” che mise in evidenza per la prima volta l’impressionante uniformità genetica caratteristica delle principali creature dell’agricoltura industriale e quindi la loro vulnerabilità, dovuta al fatto di avere anche un solo carattere comune. L’analisi appurò che nel 1969, per esempio, il 71% del mais coltivato negli USA proveniva da solo 6 linee pure. In contrasto, nel 1948 i contadini del Minnesota potevano scegliere tra oltre 600 varietà di mais. Sempre nel 1969, il 96% delle coltivazioni di piselli provenivano da solo due genotipi e il 69% delle patate dolci da una varietà.

Il problema della perdita di ecotipi e quello dell’uniformità delle sementi industriali diede un rinnovato impulso al progetto della FAO di creare un sistema internazionale di banche di semi. Nel 1974 venne così istituito l’International Board for Plant Genetic Resources (IBPGR) a cui venne demandato l’importantissimo compito della conservazione del germoplasma del pianeta. La creazione dell’IBPGR fu proceduta da accesi contrasti tra i paesi in via di sviluppo, principali detentori della diversità genetica, e i paesi occidentali, principali utilizzatori di germoplasma, relativamente al controllo di questo nuovo istituto. Alla fine fu raggiunto un compromesso attribuendo all’IBPGR una struttura istituzionale anomala con la sede presso FAO a Roma ma operativamente controllato dal Consultative Group for International Agricultural Research (CGIAR), l’istituzione creata nel 1971 su iniziativa dalla Fondazione Rockefeller per coordinare l’attività di ricerca del CIMMYT, dell’IRRI e degli altri centri di ricerca che erano stati costituiti sul modello dei primi due.((Alla istituzione dell’IRRI e del CIMMYT, erano seguite negli anni successivi quella del CIAT (Centro Internacional de Agricultura Tropical) in Colombia e dell’IITA (International Institute of Tropical Agriculture) in Nigeria.))

Nel corso del ‘900, l’esigenza di aumentare la variabilità genetica delle specie di interesse agrario oltre i limiti connessi ai processi biologici della riproduzione sessuale delle piante, era stato affrontata con l’utilizzo di tecniche collegate all’effetto mutageno di alcune sostanze chimiche e delle radiazioni. Negli anni ’40, per esempio, l’uso della colchicina, una sostanza estratta da una piccola pianta erbacea velenosa (il Colchicum autunnale), capace di indurre il raddoppio del patrimonio cromosomico delle cellule vegetali nelle fasi decisive della riproduzione, permise di creare degli ibridi non sterili di grano e segale. Nacque così e si sviluppò il triticale, che oggi rappresenta una coltura in grande sviluppo anche nell’agricoltura biologica data la sua rusticità. Negli anni ’50 e negli anni ’60 l’attenzione dei ricercatori si focalizzò sulle mutazioni indotte dall’irraggiamento con i raggi X e i raggi gamma. A seguito della Conferenza di Ginevra Peaceful Uses of Atomic Energy del 1955, molti paesi investirono ingenti risorse negli studi e sperimentazioni sulle mutazioni casuali indotte dall’irraggiamento. Tra questi l’Italia, che alla fine degli anni ’50 istituì presso il Centro Ricerche Casaccia del CNEC( ora ENEA) il Laboratorio Applicazione delle Radiazioni in Agricoltura. Fu nel “campo gamma” di questo laboratorio che, irraggiando con raggi X alcune piante della varietà Capelli, fu selezionato un grano mutante che incrociato con una linea ottenuta dal CIMMYT, diede poi vita al grano duro Creso. Questa nuova varietà si rivelò ben presto di grande interesse agronomico e industriale data l’elevata produttività in campo e la buona qualità di pastificazione (dovuta al suo alto contenuto di glutine). Iscritto nel 1974 nel Registro Nazionale delle varietà di grano duro, il Creso divenne in pochi anni la varietà più coltivata in Italia facendo raddoppiare la produzione italiana di grano duro a parità di superficie utilizzata ((Nel 1982 rappresentava il 60% della semente di grano duro certificata e ancora oggi è coltivato su un’area superiore al 20% della superficie totale di grano duro.))

Come hai ricordato, l’inizio degli anni ’70 vide l’apparizione delle prime tecniche di ingegneria genetica nate dai progressi della biologia molecolare. Il secondo lustro del decennio si aprì con la creazione della Genentech, la prima delle nuove società private di ricerca nate dall’unione tra scienziati e investors, dedicate alla produzione e alla commercializzazione di brevetti biotecnologici, la nuova merce contenete i progressi della biologia molecolare. Nei quattro anni successivi alla creazione di Genentech, nacquero oltre un centinaio di società che replicarono questo nuovo modello di business, molte delle quali iniziarono ad occuparsi del miglioramento delle piante. Alcune di queste , come Agrigenetics, cominciarono anche ad acquisire le società sementiere, iniziando a vedere nel seme la “merce-veicolo” per eccellenza delle applicazioni biotecnologiche in campo agricolo.

Monsanto, l’ azienda chimica americana nata all’inizio del Novecento per produrre dolcificanti artificiali, che poi si era espansa nella chimica di base e nella produzione di diserbanti , fu la prima grande multinazionale agrochimica a vedere nelle applicazioni dell’ingegneria genetica la via di salvezza a lungo termine delle proprie prospettive di sviluppo, turbate già allora dalle crisi petrolifere e dalle critiche dei movimenti ecologisti e dei consumatori. Nel 1976, dopo avere iniziato la commercializzazione del suo nuovo erbicida a base di glifosate, il “Round Up”, Monsanto investì decine di milioni di dollari nella creazione di un centro di ricerca interno sulle biotecnologie, iniziando a collaborare con genetisti operanti nelle Università e ad acquisire diritti dei brevetti delle società biotecnologiche, come quello sviluppato da Genentech per la produzione della somototropina, l’ormone della crescita bovina, di cui si conosceva l’effetto di stimolo alla produzione di latte e su cui Monsanto stava lavorando da diversi anni .

Gli anni ’80 si aprirono con la sentenza della Corte Suprema sulla brevettabilità degli organismi viventi, la quotazione in Borsa di Genentech e il boom degli investimenti delle multinazionali farmaceutiche e petrolchimiche nelle biotecnologie e nelle aziende sementiere. Nel corso del decennio, forti degli enormi capitali investiti, i centri di ricerca delle società biotecnologiche e di Monsanto iniziarono a definire le tecnologie e a sviluppare le prime applicazioni dell’ingegneria genetica alle piante agrarie.

Le tecnologie elaborate per “ricombinare” il DNA delle piante furono sostanzialmente due. La prima fu basata sull’utilizzo dell’Agrobacterium tumefaciens, batterio tumorale capace di infettare i vegetali attraverso la trasmissione di un segmento di DNA, che penetra all’interno delle cellule integrandosi nel loro genoma. Questo batterio, opportunamente manipolato per neutralizzare il suo effetto patogeno, si presta ad essere usato come vettore per trasferire delle parti del genoma geni di batteri, vegetali o animali nelle cellule di una pianta, dalle quali poi può essere rigenerato l’intero organismo grazie alle sofisticate tecniche di (orti)coltura in vitro della biologia cellulare. Successivamente fu definita la tecnologia basata sul “gene gun”, un congegno inventato da alcuni ricercatori americani della Cornell University, che permette di sparare direttamente nelle cellule delle piante dei proiettili costituiti da particelle di metalli ricoperti dal materiale genetico manipolato che si vuole trasferire.

La ricerca di applicazioni commerciali di queste tecnologie si orientò in diverse direzioni. Calgene, una giovane società biotecnologica californiana, ad esempio sviluppò un pomodoro modificato geneticamente per rallentare il processo di maturazione, che dipende da un gene che era stato “silenziato” praticamente duplicandolo. Monsanto, il cui gruppo di ricerca sulle piante nel 1983 aveva vinto la corsa per la creazione della prima pianta transgenica (una petunia a cui era stato inserito il gene di resistenza agli antibiotici prelevato da un batterio) focalizzò gli investimenti sulla creazione di colture industriali (ibridi di mais, soia, cotone e colza) contenenti il gene di resistenza al Round Up e un gene proveniente dal Bacillus Thuringensis. Questo batterio del suolo produce una tossina letale per le larve di alcuni insetti parassiti. Dato che le tossine di questo batterio, chiamate brevemente Bt, usate dagli anni ’30 anche in agricoltura biologica, sono molto selettive e fondamentalmente innocue per la maggior parte degli insetti utili e ovviamente del l’uomo, le Bt Crops furono presentate come l’alternativa ecologica, tecnologicamente avanzata, agli insetticidi chimici sui quali si era focalizzata la contestazione seguita alla pubblicazione di Silent Spring e che stavano dimostrando una sempre minore efficacia a causa dello sviluppo di resistenze tra gli insetti patogeni.

Gli anni ’80, grazie alla prospettiva di questa bio-rivoluzione, videro quindi l’inizio di quel processo di concentrazione del potere economico e scientifico sulle biotecnologie, anche agrarie. Contemporaneamente si assistette al progressivo disimpiego del settore pubblico dalla ricerca tradizionale sul miglioramento delle piante. L’esempio forse più eclatante è quello della vendita, da parte del governo Thatcher, dei programmi di ricerca e della aziende sperimentali afferenti al Plant Breeding Institute, l’avanzato centro di ricerca pubblica sul miglioramento vegetale, inizialmente diretto da Biffen, che nel corso degli anni ’70 poteva vantare la paternità di circa l’80% dei grani coltivati in Inghilterra. Nel 1987 il PBI fu venduto a Unilever, una multinazionale agro-alimentare, che anni dopo lo vendette a Monsanto.

Nel periodo a cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, le lobby industriale e finanziarie iniziarono quindi a premere sulla politica per vedere realizzate le vendite delle nuove merci biotecnologiche, condizione necessaria al ritorno degli ingenti capitali investiti. Nel 1993 la Food and Drug Administration autorizzò la vendita del primo prodotto biotecnologico di interesse agrario: l’ormone bovino della crescita ricombinato che Monsanto commercializzò con il nome di Prosilac. Seguì nel 1994 l’autorizzazione alla vendita del pomodoro di Calgene, il Flavr Savr, e dopo due anni quella delle sementi di mais, soia, colza e cotone modificate geneticamente per essere resistenti al glifosate e per produrre la tossina Bt.

Il lancio del Prosilac fu preceduto da accese polemiche dovute principalmente agli effetti negativi della somotrotopina sulla salute delle bovine da latte. Proprio per ragioni relative al benessere animale, l’Unione Europea nel 1994 vietò l’utilizzo del farmaco e altri paesi seguirono l’esempio europeo. Il lancio del pomodoro Flavr Savr, modificato per rallentare il processo di appassimento, si svolse in maniera molto curiosa, prima negli Stati Uniti e poi Inghilterra. Negli Stati Uniti il prodotto fu commercializzato fresco. Calgene, l’azienda che lo aveva brevettato, si occupò direttamente della produzione, della distribuzione e della promozione del prodotto, pubblicizzando chiaramente il prodotto come pomodoro geneticamente modificato e cercando di veicolare ai consumatori il vantaggi della nuova creatura delle biotecnologie. Il prodotto venne accolto abbastanza positivamente dai consumatori americani ma l’inesperienza nella gestione logistica del prodotto fresco fu causa di gravi difficoltà per Calgene, che poi venne acquistata nel 1996 da Monsanto. Lo stesso anno il pomodoro Flavr Savr venne lanciato in Inghilterra sotto forma di doppio concentrato, in una barattolo a marchio commerciale di due importanti catene di supermercati, Sainsbury’s e Safeway. Durante il 1997 i due colossi della distribuzione inglese vendettero oltre un milione e mezzo di pomodoro in scatola chiaramente etichettato. Nel frattempo negli USA, la diffusione della coltivazioni modificate geneticamente autorizzate nel 1996 fu incredibilmente rapida. Senza nessun obbligo di etichettatura, in quanto considerate sostanzialmente equivalenti alle colture convenzionali, il mais, la soia e la colza trangenici si diffusero in tutto nel sistema agro-alimentare, nei mangimi animali e come ingredienti dei prodotti industriali trasformati. L’amministratore delegato di Monsanto, Robert Shapiro, nel 1999 dichiarò che si trattò del “lancio di maggior successo mai registrato prima con qualsiasi altra tecnologia, incluso l’aratro” (1999, p 150 Tomato).

Nonostante il successo del lancio delle colture geneticamente modificate e l’impressionante processo di fusioni e acquisizioni in corso nel settore delle Life Sciences , il 1998 e il 1999 furono anni horribilis per l’immagine delle nuove biotecnologie e di Monsanto nello specifico. In Europa, l’esplosione dello scandalo di “mucca pazza” minò la fiducia dei consumatori nel sistema agro-industriale. Gli organismi geneticamente manipolati iniziarono ad essere visti come il caso estremo di azzardo con la natura, i cosiddetti “Frankenfoods”. A causa dell’emergenza di questo ambiente estremamente ostile, Sainsbury’s e Safeway, ritirarono dagli scaffali i loro barattoli di purea di pomodori geneticamente modificati. L’Unione Europea implementò di fatto una moratoria sulle coltivazioni di organismi geneticamente modificati. Dall’altra parte dell’Oceano il Dipartimento dell’Agricoltura statunitense, sommerso dalle critiche dei consumatori, fu costretto a ritirare la proposta di inserire le sementi OGM tra quelle ammesse nel regolamento sull’agricoltura biologica. La prestigiosa rivista Nature pubblicò un articolo scientifico dell’entomologo John Losey della Cornell University nel quale l’autore sostenne l’esistenza di danni causati dalle coltivazioni Bt alle popolazioni della farfalla monarca, molto popolare in Nord America, divenuta uno dei simboli nelle giornate di protesta a Seattle. Sotto la pressione dell’opinione pubblica e del presidente della Fondazione Rockefeller, Gordon Conway, che temette un danno di immagine generalizzato a tutte le biotecnologie, Monsanto fu costretta a dichiarare pubblicamente di non volere commercializzare sementi modificati geneticamente per essere sterili, che alcuni attivisti anti-OGM stigmatizzarono con la fortunata etichetta “Terminetor”. Le azioni di Monsanto subirono un crollo del 35% nelle quotazioni azionarie. L’acquisto da parte di Du Pont della Pioneer Hi-Bred, la più importante azienda sementiera al mondo, fu un duro colpo per Monsanto. Tale acquisizione consolidò il settore agro-industriale nelle mani di quattro “Gene Giants”: Monsanto, Du Pont, Dow e Syngenta.

A distanza di due decenni dalla commercializzazione delle prime sementi geneticamente modificate è possibile constatare come queste coltivazioni si siamo diffuse principalmente in una manciata di nazioni (USA, Brasile, Argentina, Canada e India), su quattro principali colture (soia, mais, cotone e colza) e riguardano principalmente due caratteri (la resistenza agli erbicidi e la produzione della tossina Bt). Nel 2012 la superficie agricola coltivata con sementi modificate copriva circa 18 milioni di ettari, pari a circa il 12% della superficie agricola del pianeta. Negli Stati Uniti la soia, il mais e il cotone modificati coprono più o meno il 90% delle superficie dedicate a queste colture. Il valore di mercato annuo delle sementi biotech è di circa 15 miliardi di dollari a livello globale. In Europa le coltivazioni geneticamente manipolate sono ammesse per alcuni tipi di sementi ma la maggior parte delle nazioni europee, come l’Italia, non le permette. La strutturale mancanza di integratori proteici per la mangimistica animale, acuita dal divieto di utilizzo di farine di origine animale a seguito di mucca pazza, ha reso però necessario l’importazione di mais, soia e colza modificati geneticamente che quindi sono entrati nelle filiere zootecniche senza alcun obbligo di etichettatura sul prodotto finale (carne, latte e derivati, uova, ecc..).

Lasciando perdere la questione della salubrità dei prodotti derivati da coltivazioni geneticamente modificate, sulla quale non possiedo le competenze per esprimere un parere, e che comunque esula dal nostro dialogo sulla bioeconomia, il dibattito tra che è a favore e chi è contro le attuali colture biotecnologiche si è concentrato negli ultimi anni soprattutto sugli effetti ambientali della loro diffusione. La recente pubblicazione di un importante studio del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti sull’uso di pesticidi nel paese dal 1960 al 2008, ha riacceso questo dibattito.

Un fatto appurato dallo studio governativo statunitense è l’aumento dell’uso di glifosate dal 1996 ad oggi sui terreni coltivati con sementi resistenti agli erbicidi. Diversi sostenitori delle coltivazioni geneticamente modificate hanno messo in evidenza che il glifosate è una sostanza meno tossica per l’uomo e più facilmente biodegradabile rispetto agli altri erbicidi che ha sostituito. La “probabile cancerogeneità” del glifosate, dichiarata in un recente studio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha però destato parecchie preoccupazioni, preoccupazioni che le dichiarazioni in senso inverso dell’EFSA, l’Autorità per la Sicurezza Alimentare Europea, non sembrano avere sopito. Le coltivazioni resistenti agli erbicidi comunque fatto aumentare le quantità complessive di ingredienti attivi utilizzati negli Stati Uniti. L’aumento dell’uso di erbicidi è del resto in linea con gli obiettivi economici delle aziende che, come Monsanto, li hanno sviluppati. Attualmente, in Europa soprattutto, i sostenitori dell’introduzione generalizzata delle coltivazione modificate geneticamente focalizzano le loro argomentazioni innanzitutto sulla presunta ecologicità del mais Bt, alla cui diffusione la ricerca dell’USDA correla la diminuzione considerevole dei trattamenti in superficie con insetticidi, i cui ingredienti attivi impiegati sono passati da circa 40 kg per ettaro nel 1996 a meno di 10 kg del 2008. Resta però il fatto che queste piante producono di fatto una sostanza insetticida che forse dovrebbe avere uno spazio anche nel ragionamento quantitativo. Desta maggior perplessità ,del resto, la precisazione contenuta nella ricerca che mette in rilievo la variazione qualitativa che ha interessato gli insetticidi nell’ultimo decennio : “Nuovi insetticidi applicati a bassi dosaggi, come i piretroidi sintetici.. e i neonicotinoidi …sono diventati ampiamente utilizzati”. “Alcuni insetticidi sono ora applicati nel trattamento dei semi e non sono generalmente catturati dalle indagini sull’uso di pesticidi”. Il seme, quindi, è diventato non solo la merce- veicolo dell’informazione genetica brevettata dalle multinazionali agroindustriali, ma anche la merce-veicolo di sostanze chimiche biocide prodotte dalle stesse aziende, aggiunte fisicamente ad esso, che non risultano nelle statistiche ufficiali.

Rimangono poi aperti le questioni legate allo sviluppo di piante infestanti resistenti agli erbicidi e di insetti patogeni resistenti al Bt. Quest’ultimo fenomeno è stato recentemente analizzato da un gruppo di entomologi in una cosiddetta “peer-review” pubblicata su Nature Biotechnology (Vol. 31, N°6, Giugno 2013) intitolata “Insect reistence to Bt crops: lessons from the first billion acres”. L’analisi, risultato del confronto tra 77 studi realizzati in tutto il pianeta, mostra come 5 delle 13 specie di insetti parassiti siano già diventate resistenti al Bt, rispetto a una sola specie resistente individuata nel 2005. La rapidità, non attesa, con cui gli insetti stanno diventando resistenti al Bt, metterà in difficoltà proprio gli agricoltori biologici che per primi hanno utilizzato questa tossina selettiva e innocua per l’uomo, e che, a differenza degli agricoltori convenzionali, non potranno trovare con facilità un sostituto.

La massiccia diffusione tra specie agrarie diverse dello stesso gene modificato, come quello di resistenza all’erbicida e di produzione del Bt, ripropone inoltre il problema dell’uniformità genetica e il connesso rischio di vulnerabilità dovuta allo svilupparsi improvviso di fitopatologie simili a quella che nel 1970 ha colpito gli ibridi di mais nella Corn Belt perché condividevano un solo carattere. Al problema dell’uniformità genetica se ne aggiungono altri che vanno dalla contaminazione in campo delle coltivazioni biologiche all’uso massiccio in laboratorio della resistenza antibiotica come marcatore genetico.

Un groviglio di questioni “scientifiche” che è divenuto terreno di un acceso scontro economico e politico, tra i più caratteristici della nostra contemporaneità.

Dopo questo lunga ricostruzione storica, comunque approssimativa, posso ora rispondere alla tua domanda iniziale: “le biotecnologie possono essere considerate bioeconomia?”. La mia breve risposta è la seguente: certamente le attuali coltivazioni geneticamente modificate possono essere considerate bioeconomia nel senso della “bioeconomy” di Juan Enriquez e Rodrigo Martinez, ma non possono essere considerate bioeconomia nel senso della “bioeconomics” di Georgescu Roegen. Bioeconomia è bioeconomia è bioeconomia, ma i “geni” non sono gli stessi.

Le attuali coltivazioni modificate geneticamente, che si sono andate sviluppando nel contesto economico e politico dominante, non sono altro che la continuazione e l’intensificazione del modello di agricoltura industriale sviluppatosi con gli ibridi di mais e le varietà ad alta resa di Bourlag, un’agricoltura sperperatrice di risorse di origine terrestre, di biodiversità e fondamentalmente biocida e insostenibile. Rispetto alle colture della Rivoluzione Verde, grano e riso destinate direttamente all’alimentazione umana, le attuali colture modificate geneticamente, e i farmaci come il Prosilac, sono in gran parte indirizzate alla crescita quantitativa di un settore zootecnico industriale volto a nutrire indirettamente le persone e fonte di gravi inquinamenti, come quelli causati dai reflui degli allevamenti, e fonte di indicibili sofferenze per gli animali.

La promessa degli alfieri di questo nuovo modello agroindustriale biotecnologico di una “Doubly Green Revolution” (per usare le parole di Gordon Conway, il già citato presidente della Rockefeller Foundation), in grado di fare raddoppiare la produzione agricola da qui al 2050 in modo “sostenibile”, con trattamenti di “precisione”, senza aumentare la terra arabile, nutrendo una popolazione di oltre 9 miliardi di persone con la cosiddetta dieta delle “3B” (butter, beef , beer), a mio modesto parere, attiene più alla storia degli “snake oil”, per usare un termine amato da Georgescu Roegen, che ad un vera strategia bioeconomica per il futuro.

Relativamente alla questione più generale dell’uso dell’ingegneria genetica per il miglioramento delle piante cito la posizione espressa da Stephen Jones, un agronomo della Washington State University, che afferma “I view my job of public breeder as being public. Therefore, I am opposed to the commercialization of anything a public breeder creates…I’m not necessarily against the science used to create GMO’s, but there is a potential… What concerns me more are the practitioners, not the practice

Altri punti da sviluppare (qui o da alter parti):

  • ·                 Biotecnologie “sostenibili”: cisgenica (che scientificamente e storicamente non dovrebbe volere dire nulla dato che la prima pianta transgenica è stata un pomodoro “cisgenico”)/Genome editing “precisissimo”
  • ·                 Ricerca pubblica: che direzione? Plant breeding con tecniche tradizionali basate sulla trasmissione sessuale (che poi credo sia più bella anche per le piante _ma questo non lo scrivo…) con ausilio nuove tecniche come la MAP (nota che su Wikipedia alla fine si dice “Se paragonata ad altre tecniche di miglioramento genetico che implicano l’impiego di tecnologie del DNA ricombinante, la MAS è ritenuta una metodologia efficace ma più onerosa in termini di tempo necessario alla realizzazione di una nuova varietà da introdurre sul mercato. Diversamente dalla transgenesi, la MAS non consente l’inserimento di geni esogeni alla specie di appartenenza, ma si avvale della variabilità allelica intraspecifica naturalmente presente.” La parte sottolineata è vera?)
  • ·                 Chimica verde basata su questo tipo di agricoltura (il mais e la colza geneticamente modificate fanno un carburante o una plastica “ecologica”?)

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[Giorgio Nebbia]

Che ci piaccia o no, gli alimenti contenenti derivati di piante geneticamente modificate (OGM) sono ormai fra noi e lo saranno in quantità sempre maggiore in futuro. In tali piante le proteine sono state modificate “ad arte” in modo da rendere le piante più resistenti all’attacco di parassiti, o di pesticidi, o da rendere i frutti o i semi più facilmente conservabili. E’ difficile dire se poi queste proteine possono trasferire modificazioni biologiche negli organismi animali ed umani che le introducono con il cibo, e se le modificazioni della qualità biologica e merceologica degli alimenti avranno effetti negativi sulla salute dell’attuale e delle future generazioni.

Di certo gli alimenti transgenici sono arrivati in commercio troppo presto, e senza una adeguata sperimentazione sugli effetti a breve e lungo termine. D’altra parte la fretta è imposta dalle industrie che hanno proceduto, in sofisticati e costosi laboratori, a modificare il patrimonio genetico di numerose piante economiche e che vogliono vendere le relative sementi al più presto per ricuperare, con adeguati profitti, le spese sostenute. Gli stessi agricoltori trovano vantaggioso coltivare le nuove piante.

Personalmente ritengo che l’immissione in commercio di “merci” prive di adeguata sperimentazione e controllo avrebbe dovuto essere evitata, ma ormai la diffusione delle sementi transgeniche mi sembra difficilmente fermabile. I governi sono schiacciati dalle pressioni degli interessi dell’industria chimica e degli agricoltori e di questa lotta di giganti fanno le spese i cittadini.

Intanto va detto che noi non troviamo in commercio alimenti “OGM” o “non-OGM”, ma solo alimenti che possono contenere, o non contenere, dei “derivati” di “organismi geneticamente modificati”: olio o lecitina di soia GM, farina o olio o amido di mais GM, pomodori GM trasformati in conserve, eccetera.

Il consumatore, nel caso migliore, potrà essere informato, mediante etichette, che alcuni degli alimenti che trova in commercio derivano da, o contengono derivati di, piante transgeniche, e al più potrà evitare di acquistarli se li ritiene nocivi.

Ma che cosa potrà fare il consumatore quando si trova di fronte ad alimenti che non portano nessuna etichetta che ne indichi la “origine transgenica” ? Che cosa può sapere di quello che compra ?. Come può un consumatore sapere se la lecitina presente in una maionese, o l’olio di soia o di colza, o la conserva di pomodoro, o l’amido di mais non derivano da piante GM ?

D’altra parte stanno già comparendo in commercio alimenti che il venditore dichiara che “non contengono” derivati di piante geneticamente modificate, una nuova raffinata forma di pubblicità per attrarre i consumatori più dubbiosi. Quanto può fidarsi un consumatore delle dichiarazioni del venditore ? Chi controlla la veridicità di una dichiarazione di “assenza” di derivati di piante transgeniche ? In quale modo è possibile accertare l’esatta origine biologica, la “storia naturale”, dei prodotti che si comprano ?

La risposta ovvia a tali domande sarebbe: mediante indagini di laboratorio. Le modificazioni genetiche praticate sulle sementi lasciano nelle piante e nei loro derivati delle “tracce”, delle “impronte digitali”, si fa per dire, che consentono — in via di principio — di riconoscerne la storia biologica precedente. In pratica l’analisi di queste “impronte digitali” richiede laboratori specializzati e personale altamente qualificato ed è molto costosa, anche se potrebbe offrire occasioni di nuova occupazione per analisti e specialisti in indagini chimico-biologiche e per la produzione delle relative apparecchiature. Un bel campo di lavoro anche per gli studiosi di merceologia.

Purtroppo le ”impronte digitali” si sbiadiscono o addirittura scompaiono nel corso delle manipolazioni dei prodotti agricoli e della loro trasformazione negli alimenti commerciali. Se nelle proteine della farina di mais è ancora possibile riconoscere l’origine transgenica delle sementi, l’olio di mais proveniente da semi GM finisce per essere praticamente non distinguibile, per via analitica, da quello ottenuto dai comuni semi di mais. Davanti ad una bottiglia di olio di semi, come fa il consumatore a sapere se è stato ottenuto da semi di piante geneticamente modificate o no ? Addirittura le industrie “biotecnologiche” sostengono che anche se un olio deriva da piante GM non ne deve essere indicata l’origine perché è “sostanzialmente equivalente” a quello della stessa pianta non-GM. Nei processi di trasformazione dei pomodori transgenici in conserve, spesso scompaiono le tracce che ne indicano l’origine.

La tutela della salute, anche in questo campo, richiede l’intervento dello stato i cui laboratori soltanto possono (dovrebbero) dare garanzia di esattezza e obiettività, garanzia di operare “pro bono publico”. Ma nel gran dibattito in corso sulla sanità, l’attenzione per l’aumento del numero e dell’efficienza dei laboratori pubblici capaci di controllare la qualità degli alimenti è praticamente assente.

Se ne sono viste le conseguenze in occasione dell’importazione di alimenti contaminati da sostanze tossiche (bifenili policlorurati, diossine e forse altre), quando è stato necessario aspettare settimane, dopo la denuncia del pericolo, per avere i risultati delle prime analisi e nel frattempo carne e uova sono stati distrutti senza sapere se erano dannosi o no. Proprio in quella occasione si è anzi visto che pochissimi laboratori in Italia erano in grado di effettuare le analisi delle diossine, benché esse siano presenti intorno a noi nei fumi del traffico, delle fonderie e degli inceneritori di rifiuti.

Che garanzia può offrire un servizio pubblico di analisi degli alimenti che ha permesso, per anni, che l’olio di nocciole turco fosse spacciato per olio di oliva ?

Nel caso del controllo degli alimenti transgenici si tratta di cominciare tutto di sana pianta con problemi tecnico-scientifici ben più grossi di quelli relativi alle altre frodi alimentari “abituali”. Vorrei concludere con la ferma raccomandazione alle autorità preposte alla difesa della salute, a livello nazionale o locale, perché vengano creati e potenziati laboratori pubblici di analisi e venga reclutato e addestrato personale competente e motivato, in grado di offrire una risposta ai cittadini sulla origine e sulla innocuità dei loro alimenti. E’ inoltre necessario che tali laboratori siano diffusi ugualmente nel Nord e nel Sud d’Italia, anche per evitare che in alcune regioni del nostro paese il cittadino finisca per essere meno difeso, e meno sicuro, che in altre.