Dossier “1970” — Design ed ecologia: punti di contatto a partire dalla mostra “Aggressività e violenza dell’uomo nei confronti dell’ambiente” (Rimini, 1970)
Il testo è un riadattamento del contributo presentato al Convegno Italia: design, politica e democrazia nel XX secolo , 28-29 giugno 2019, IV Convegno AIS/Design, Torino, a cura di Luciana Gunetti, Elena Dellapiana, Dario Scodeller. Il testo originale, dal titolo “Design e denuncia. Convergenze tra ecologia politica e comunicazione visiva a partire dalla mostra Aggressività e violenza dell’uomo nei confronti dell’ambiente (Rimini, 1970)”, è stato pubblicato all’interno del volume curato da Luciana Gunetti, Elena Dellapiana e Dario Scodeller Italia: design, politica e democrazia nel XX secolo , Torino, Politecnico di Torino, 2020.
Questo breve scritto presenta l’attività di un milieu culturale operativo tra San Marino, Rimini e Bologna tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta e narra di un episodio rimasto per ora isolato nella letteratura storico critica sul design.
Il 20 settembre 1970 apre alla Fiera di Rimini la I Biennale internazionale di metodologia globale della progettazione “Le forme dell’ambiente umano” . Dietro alla manifestazione si cela il neonato Centro internazionale di ricerche sulle strutture ambientali “Pio Manzù”, unorganismo patrocinato dalle Nazioni Unite e dal Governo italiano, fondato su iniziativa dell’artista e pittore Gerardo Filiberto Dasi a Verucchio nel 1969, in omaggio al designer italiano Pio Manzoni, morto prematuramente lo stesso anno.
L’evento è coordinato da un comitato direttivo di fama internazionale – tra gli altri, gli storici e critici dell’arte e architettura Ercole Checchi, Giulio Carlo Argan, Umbro Apollonio, Gillo Dorfles, ma anche filosofi e sociologi come Luciano Anceschi, Franco Ferrarotti e progettisti come Tomás Maldonado, Bruno Munari -, e si propone di illustrare al grande pubblico le ragioni dello sviluppo di una nuova coscienza ecologica letta attraverso le culture di progetto. Argan spiega così la sottesa, e ancora ampiamente trascurata, relazione tra progetto ed ecologia nel testo introduttivo “Dal Design all’ecologia generale” pubblicato nel 1970 nel catalogo dell’evento: “La crisi del design, prima che metodologica è deontologica. Che cosa deve fare il designer per adempiere alle ragioni e alle finalità istituzionali della propria disciplina, cioè per porre la conoscenza estetica come componente strutturale dell’esperienza globale della vita? Si è giunti a precisare che il processo della conoscenza estetica è il metodo della progettazione; ma ogni processo di progettazione si inserisce necessariamente nel quadro più vasto della programmazione e delle scelte politiche relative. Il problema del design rientra in quello del rapporto tra cultura e politica, ma questo non si risolve, come dovrebbe, nella dialettica positiva delle relazioni interdisciplinari perché, purtroppo, nel mondo odierno la politica si pone come potere e non come cultura”.
La Biennale, come anticipato, è un evento marginale e ampiamente trascurato dalle narrazioni storiche contemporanee. Sottende infatti alcune anomalie, a partire della sua sede, Rimini, una città insolita nella mappa geopolitica del design italiano dell’epoca. In termini di periodizzazione, delinea la transizione tra la presunta “crisi” del design industriale italiano dei primi anni sessanta (registrata dopo l’apparente irrefrenabile ascesa mossa dal boom economico del dopoguerra), la sua contaminazione con gli eventi del 1968, con la nascita di forme “critiche e di contestazione” anche nelle culture del progetto, e la seconda ondata del radical design, ovvero quella forma di design che si sviluppa a partire dalla metà degli anni settanta sulla scia della celebre mostraItaly: The New Domestic Landscape al Museum of Modern Art di New York del 1972 e parallelamente alla crisi petrolifera del 1973. Proprio in questo periodo di transizione, tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta, il legame tra professionisti e settore industriale si rafforza ma, allo stesso tempo, emerge una riflessione sull’identità del designer e le sue possibili responsabilità nei confronti della società.
Nonostante queste peculiarità – che possono quasi sembrare marginalità – l’evento può aiutare a rileggere alcuni temi che contraddistinguono il dibattito delle culture del progetto di quegli anni. Questo dipende dall’approccio multidisciplinare adottato dagli organizzatori, che travalica rigidi confini interni alle discipline progettuali (progetto del prodotto, progetto della comunicazione, progetto architettonico e progetto urbano), per abbracciare un’ampia proposta di contaminazione tra saperi, che comprende contributi a cavallo tra design, arte, architettura, semiotica, sociologia, scienze umane e sociali.
L’eccezionalità di questo evento è anche strettamente connessa all’anno della sua realizzazione: il 1970; un anno che, come verrà chiarito più avanti, è fortemente legato all’emergere di una riflessione sui temi dell’ecologia e dell’ecologismo a livello nazionale e internazionale; temi che ricorrono, anche se sotto traccia, nell’evento di Rimini.
Mancando fonti archivistiche puntuali, non è facile ricostruire i contenuti delle Biennale: la principale risorsa è il periodico pubblicato a partire dal 1969 dal Centro di Verucchio e intitolato “Strutture Ambientali”. In particolare, il numero 4-5 del 1970 raccoglie i principali contributi di organizzatori e relatori e racconta, in forma catalogo, il progetto e gli esiti della manifestazione, lasciando intravedere la presenza di un approccio complesso e articolato, dalla forte vocazione sistemica. Nei dieci giorni di apertura, la manifestazione prevede infatti la compresenza di tre sezioni: la prima, “didattica”, è dedicata a “teoria e metodologia del design”; la seconda, “operativa” prevede l’esposizione di “realizzazioni dimostrative”; infine la terza, “di collegamento”, è considerata come una forma di congiunzione tra ciò che attiene alla teoria e ciò che attiene alla pratica, attraverso seminari, discussioni, lavori di gruppo pubblici, disamina di testi e documenti. Il fitto programma di tavole rotonde e conferenze testimonia, ad esempio, la presenza di autorevoli relatori quali Fernando Belaunde-Terry, presidente del Perù nonché autore del progetto della Grande Carretera Marginal de la Selva; l’architetto giapponese Kenzo Tange; Konrad Wachsmann, direttore del Building Institute of the University of Southern California; Erwin K. Baumgarten, direttore dell’Information Center delle Nazioni Unite.
La parte espositiva, invece, è organizzata attraverso quindici sezioni che raccolgono artefatti industriali, ricerche, progetti, prodotti editoriali, destinati a documentare gli sviluppi della progettazione ambientale, ovvero una nuova declinazione disciplinare che include la stretta relazione tra l’uomo e l’ambiente. I materiali esposti sono testimonianza di un lavoro preparatorio organizzato attraverso gruppi di ricerca interdisciplinari istituiti, su iniziativa del Centro, nel 1969 e dedicati a compiere una riflessione su tre specifiche tematiche: “Tempo libero e strutture ambientali”, “Programmazione territoriale come equilibrio di autogestione nel sistema ecologico uomo-ambiente” e “Organizzazione e comunicazione nello spazio operativo”.
È in particolare la terza sezione quella in cui è possibile cogliere affinità e sovrapposizioni con il contemporaneo dibattito sui temi dell’ambientalismo, emergente proprio in questi stessi anni in Italia. Il gruppo operativo sul tema “Organizzazione e comunicazione nello spazio operativo”, coordinato dal filosofo e linguista Silvio Ceccato, presenta a Rimini una ricerca sul linguaggio pubblicitario come processo segnico. In questo contesto si inserisce la mostra Aggressività e violenza dell’uomo nei confronti dell’ambiente , da cui parte la riflessione proposta in questo contributo. Curata dal neonato Art Directors Club Milano, diretto all’epoca dal designer e accademico Giancarlo Iliprandi, l’esposizione rappresenta una prima importante testimonianza del ruolo del progetto grafico nello sviluppo della comunicazione di utilità sociale. Come ricorda lo stesso Iliprandi nel testo Una grammatica ritrovata del 2009, la comunicazione di utilità sociale è da intendersi – oggi come allora – come un campo ampio e articolato, che travalica le istanze di natura ecologica per affrontare temi e sviluppare servizi complessi legati alla relazione tra progetto, design e bene comune. La piccola esposizione raduna le opere di alcuni dei principali protagonisti della grafica italiana del Novecento, il cui lavoro aveva già trovato riscontro a livello internazionale negli anni sessanta, grazie a progetti di comunicazione sviluppati per istituzioni pubbliche e aziende private, come Pirelli, Finmeccanica, Fiat e Olivetti, così come nel campo della grafica editoriale. I lavori esposti si muovono in continuità con riflessioni teorizzate su riviste specializzate come “Linea Grafica” o all’interno di istituzioni come l’Aiap, anticipando concetti che verranno sintetizzati nel celebre volume di Albe Steiner Il Mestiere del Grafico (1978). Non si tratta quindi di un discorso che attraversa forme di underground media, ma di un tentativo di dimostrare nuove forme e funzioni del progetto di comunicazione, prima ancora che le prime campagne della Pubblicità-Progresso venissero lanciate nel 1971. La mostra crea così una convergenza tra il linguaggio della progettazione grafica professionale e i discorsi portati avanti dai gruppi radicali, ma soprattutto lascia intravedere una sostanziale vicinanza con i temi, i processi e gli strumenti utilizzati dai rappresentanti del movimento ecologista italiano.
Prima di passare in rassegna possibili margini di sovrapposizione tra ecologia politica e design media italiani, è utile introdurre la natura dei lavori esposti. Il layout della mostra è abbastanza semplice. I materiali visuali, bozzetti pubblicitari e manifesti, sono affissi alle pareti, su una doppia fila di poster. Al centro dell’ambiente sono esposti oggetti decontestualizzati, come la ricostruzione di un incidente stradale intitolata Week End, in cui una serie di automobili semidistrutte, deformate da una luce alternata ossessivamente, danno tangibile prova di uno dei temi oggetto di denuncia. Gli argomenti illustrati nei manifesti coprono diverse tematiche d’interesse.
Un primo gruppo si muove nella direzione di orientare il pubblico verso una rinnovata consapevolezza ecologica. L’inquinamento delle acque, dell’aria e sonoro è rappresentato, tra gli altri, nei lavori di Daniele Baroni, Marco Bergamaschi, Egidio Bonfante, Giovanni Brunazzi, Leonardo Mattioli. Le opere denotano l’uso di un linguaggio di denuncia, critica, contestazione, in cui la relazione tra uomo e risorse naturali diviene oggetto di conflitti e incertezze. Altro argomento cardine della mostra è quello della non violenza. Iliprandi lo declina nei confronti dell’ambiente naturale e del patrimonio culturale: la mano ingigantita di una statua nella quale i segni del degrado diventano macroscopici dice basta alla “violenza nei centri storici”. Mimmo Castellano intitola la sua opera G come Giustizia. L come Libertà, citando un paragrafo del romanzo poliziesco Venere privata dello scrittore italiano Giorgio Scerbanenco (1966) ed evocando l’ossessione del protagonista per la verità, di fronte all’immobilismo e all’arretratezza della società italiana e, più nello specifico, della città di Milano, spazio privilegiato per il crimine e l’ingiustizia. Ilio Negri firma una serie di poster intitolati No alla civiltà, se questa è civiltà composti da un pacchetto tipografico monotono posto sopra le rappresentazioni grafiche e visive de “L’ignoranza uccide”, “L’acqua uccide”, “L’iconoclastica uccide”, “Il rumore uccide”, “Il fitocidio uccide”, “L’erotismo uccide”, “La violenza uccide”, “Il disordine uccide”, “L’aria uccide”, “La droga uccide”, “L’incoscienza uccide”, “La strada uccide”, “La fame uccide”. Infine, l’Ex-Voto di Pino Tovaglia e Teresita Hangeldian Camagni recita: “Ex voto passato, presente, futuro – ex voto ogni giorno, ogni momento – per ringraziare Dio, il Diavolo, l’Uomo di essere ancora capace di vivere”.
Sembra quindi che queste opere si muovano in continuità con lo sviluppo, in Italia, di forme di denuncia della relazione tra uomo e ambiente. La storiografia del movimento ambientalista italiano concorda nel riconoscere la nascita della stagione dell’ecologia politica, che vedeva nella questione ambientale il cuore di un progetto globale di trasformazione della società, all’inizio degli anni settanta (seppure con alcune spinte anticipatorie negli anni cinquanta e sessanta). In Italia si cominciano a riconoscere i risvolti negativi di un “miracolo economico” caratterizzato da un rapido aumento della produzione delle merci, da una discreta diffusione del benessere, pur con vistose disuguaglianze e contraddizioni, da intensi spostamenti della popolazione dal Sud al Nord. Nonostante questo fermento, all’inizio del nuovo decennio l’associazionismo e la cultura ambientalista italiani sono ancora piuttosto fragili. Il WWF, che costituisce la grande novità italiana in termini di efficacia e di visibilità, può contare ancora su poche migliaia di iscritti e su poche sedi locali, mentre un ambientalismo di sinistra comincia appena a manifestarsi, incontrando la diffidenza sia del Pci che dei gruppi extraparlamentari.
Le premesse di questo fenomeno vanno rintracciate negli Stati Uniti, dove la lotta contro le industrie inquinanti era già stata presente nelle mobilitazioni studentesche della fine degli anni sessanta, dando origine alla cosiddetta “primavera silenziosa” (con riferimento al libro Silent Spring di Rachel Carson, 1962): il 22 aprile 1970, a New York e in altre decine di città degli Stati Uniti, milioni di americani scendono in piazza per celebrare l'”Earth Day”, un evento che presenta vistose ricadute sulla stampa italiana. Due infatti sono le novità di questo evento: la vastità della partecipazione e la dimensione politica della protesta. È questo infatti l’anno in cui le idee e gli stimoli della “primavera” dell’ecologia americana iniziano a penetrare nel nostro paese, attraverso, da una parte, la creazione di nuovi canali di contro-comunicazione di matrice ambientale e, dall’altra, la traduzione dei principali libri-manifesto.
Protagonisti della nuova “contestazione ecologica” in Italia sono poche e circoscritte élite raccolte attorno a singoli intellettuali, a riviste e a gruppi organizzati. A partire dal 1970, l’ambiente diviene un tema su cui si esercitano eminenti giornalisti e che occupa editoriali e prime pagine dei quotidiani. Animano il dibattito figure come Antonio Cederna (“Il Mondo”, “Il Corriere della Sera”), Alfredo Todisco (“Corriere della Sera”), Mario Fazio (“La Stampa”), Giulio Maccacaro, Giorgio Nebbia (“Il Giorno”), Virginio Bettini (“Avvenire”). Nel 1972, il giornalista Dario Paccino, allora segretario dell’associazione Federnatura, pubblica L’Imbroglio ecologico, nel quale sottolinea la diffidenza della sinistra nei confronti dei conservazionisti, delle associazioni protezionistiche tradizionali (come il WWF) e dei difensori della natura. La figura di Paccino è tra le più emblematiche dello sforzo di ancorare il pensiero ecologico all’obiettivo di una trasformazione strutturale della società. Negli stessi anni, Bettini, giovane ricercatore universitario, e Nebbia, professore di merceologia all’Università di Bari, abbracciano, come intellettuali di sinistra, le idee dell’ecologia politica. Nel 1972, Bettini cura l’edizione italiana de Il cerchio da chiudere di Barry Commoner e nel 1971 fonda la prima rivista italiana di ecologia globale “Ecologia” (1971-1973, undici fascicoli in tutto). È qui in particolare che emerge la scelta di privilegiare l’impostazione dell’animatore dell’ambientalismo statunitense Commoner, che si pone in contrasto con le tesi enunciate da Paul Ehrlich tre anni prima e, in parte riprese dal rapporto sui Limiti dello Sviluppo pubblicato dal Club di Roma nel 1972. Altre riviste che sorgono in quegli anni sono: “Sapere”, “Denunciamo” e “Nuova Ecologia”.
Come delinea la storia dell’ambientalismo, immaginare un futuro sostenibile nella “stagione dei movimenti” significa denunciare, criticare, informare, creare conoscenze e metodologie ed educare il pubblico a nuovi comportamenti. Significa trasformare l’ideologia del futuro e le relative forme di pensiero utopico e distopico in una pratica condivisa e materiale. Significa dare forma alla “crisi”, identificarne i paradossi e proporre una narrativa politica. Non stupisce quindi la natura della mostra curata da Illiprandi, che si accompagna ad altre iniziative sorte in Italia nello stesso periodo. Emblematico in questo senso, il caso di “Se”, inserto pubblicato – per un paio di anni tra il 1970 e il 1972 – dalla storica rivista di architettura e design “Abitare” sotto la direzione di Piera Peroni, come giornalismo d’inchiesta sui temi dell’abitare contemporaneo, strettamente correlato alle forme di informazione del movimento ambientalista nazionale e ai suoi personaggi. Ulteriore dimostrazione di questa convergenza, è la conferenza Uomo Natura Società, organizzata nel novembre del 1971 dall’Istituto Gramsci vicino a Roma, in cui si notano le relazioni, oltre che di Nebbia e Paccino, di Alessandro Mendini e Maldonado, il cui volume La Speranza progettuale del 1970 viene frequentemente citato. È questa una delle rare occasioni in Italia in cui la critica marxista canonica offre l’occasione di un’azione politica incentrata sui valori ecologisti nella ricostruzione della società.
Ma qual è la fortuna della mostra di Iliprandi e, più in generale, della Biennale di Rimini? È possibile riconoscerne successivi sviluppi e impatti? Nonostante la sua organizzazione complessa, la Biennale di Rimini non proseguirà le proprie attività negli anni successivi all’edizione del 1970, lasciando quindi apparentemente cadere gli embrioni di quella forma di progettazione ambientale qui proposta. Dal 1971 la programmazione del Centro si trasforma infatti nelle Giornate di studio internazionali (1973-2014), che assumono progressivamente una posizione politica vicina al Partito Socialista Italiano. Mentre la rivista “Strutture Ambientali” continua a documentarne il dibattito, seppure allontanandosi da discorsi vicini ai temi del progetto. Tuttavia, nel periodo immediatamente successivo all’evento, la discussione che si sviluppa sembra davvero riconoscerne i meriti. Se la stampa quotidiana è particolarmente attenta a rintracciare i segnali di una “cybertopia”, la critica specializzata ne esprime una comprensione più profonda. “Casabella”, media partner della Biennale e ospite insieme ad “Architectural Review” di una mostra sugli strumenti editoriali per l’ambiente, offre, attraverso le parole di Mendini, una lettura che si traduce nel manifesto Il design al servizio dell’uomo. La rivista “IN. Argomenti e Immagini di Design” introduce invece una specifica formula interpretativa che riconduce l’evento, programmaticamente, all’idea di Utopia. Particolarmente interessante è il saggio di Ceccato (“Utopia, Futurologia e Scienza. L’utopia e l’uomo del futuro”), che esprime evidenti collegamenti con il campo dei future studies – conosciuto in Italia alla fine degli anni sessanta grazie anche alla rivista “Futuribili” (1967-1974), diretta da Piero Ferraro, e a figure come Eleonora Barbieri Masini e Nebbia. Questa prospettiva aiuta a capire alcuni dei possibili lasciti di questo evento, a dimostrazione di come le culture del progetto si fondano e integrino con un pensiero interdisciplinare dedicato a riflettere sui futuri possibili. L’anno dopo la Biennale, Gui Bonsiepe pubblica, sulla rivista “Futuribili”, il saggio “Ecologia e progettazione industriale”, in cui conduce una lucida analisi delle implicazioni ecologiche del design, ponendo alla comunità professionale una sfida importante: “Se saremo capaci di attuare una riforma dei metodi e dei contenuti delle discipline tecnico scientifiche, potrà essere giustificata nel future l’affermazione: la sopravvivenza grazie alla progettazione, invece della catastrofe a causa della progettazione”. Non appare trascurabile anche un altro dato importante che riguarda un altro dei protagonisti di questo dibattito: Maldonado. Sei anni dopo la manifestazione di Rimini, senza un’apparente soluzione di continuità, una porzione di questo dibattito approderà nelle aule dell’Università. È il 1976 quando Maldonado inizia a insegnare a Bologna; lo stesso periodo nel quale assume la direzione di “Casabella”, succedendo a Mendini (1970-1976), e pubblica il suo celebre Riesame. Come egli stesso ricorda in una recente intervista, l’interesse per la “questione ambientale” aveva già caratterizzato i suoi ultimi anni di permanenza a Ulm attraverso la proposta di una “convergenza progettuale di architettura, disegno industriale e disegno (e pianificazione) urbano” allo scopo di “studiare (ed eventualmente guidare) i processi di interazione tra edilizia, oggetti e strutture urbane, e ciò in funzione di un sistema ambientalmente (ma anche socialmente) sostenibile”. La pubblicazione, nel 1970, del volume La speranza progettuale Ambiente e società ne è la prova. L’artista e designer argentino apre una breccia nel dibattito italiano nel momento in cui la controcultura ecologista americana, incarnata da studiosi come Rachel Carson, Barry Commoner, Murray Bookchin, Richard Buckminster Fuller, Stewart Brand, ha già raggiunto il suo culmine, ma anticipando i due eventi che sanciranno il delinearsi di una visione eurocentrica sulla relazione tra l’uomo e l’ambiente: la Prima conferenza delle Nazioni Unite sulla protezione dell’ambiente naturale (Stoccolma 1972) e la pubblicazione del volume I limiti dello sviluppo – rapporto del System Dynamics Group Massachusetts Institute of Technology (MIT) per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell’umanità . Rispetto alla letteratura statunitense, il tono del volume di Maldonado è pragmatico e razionale: l’ecologia critica che propone è una riflessione sul contenuto politico delle relazioni tra gruppi di sistemi complessi e sulla fattibilità del progetto come programmazione ambientale. Con un’impronta metodologica di evidente derivazione ulmiana, viene introdotta, nel corso di laurea in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo della Facoltà di Lettere e Filosofia, la disciplina universitaria della “progettazione ambientale”; un curriculum nel quale si propone un’integrazione tra culture del progetto, arti, comunicazione e scienze umane per offrire un approccio complesso, a tratti “enciclopedico”, alla società moderna. Un vero e proprio esperimento d’innovazione culturale, arricchito dal bagaglio della riflessione semiotica, in un contesto nel quale, come ricorda Raimonda Riccini, “Maldonado era stato chiamato a partecipare insieme con Umberto Eco e altri protagonisti della cultura italiana e internazionale di quegli anni”. Il nuovo progetto formativo si propone di svecchiare il tradizionale curriculum delle facoltà di lettere, attraverso un approccio paritetico alle diverse arti, l’apertura a temi e saperi ritenuti sino ad allora ‘minori’ e l’integrazione di competenze multidisciplinari. Un episodio unico in Italia che vede la luce nello stesso periodo in cui altri insegnamenti di progettazione industriale stanno nascendo nei percorsi politecnici o nelle scuole di architettura.