Dossier “1970” Italia, anni Settanta: dal movimento di protezione della natura all’ambientalismo politico

Testo della comunicazione presentata al convegno Sissco Ambiente, paesaggio e territorio nella storia d’Italia , Siracusa 6 ottobre 2017.

Un titolo fruttuosamente ‘sbagliato’

Quando per la comunicazione di oggi Gabriella Corona mi ha proposto il titolo che vedete ho subito avvertito che c’era qualcosa che che mi dava disagio. Dietro la sua “ragionevolezza” non ho infatti potuto fare a meno di scorgere uno schema oppositivo che nel corso di quasi mezzo secolo ha prodotto scontri e schermaglie retoriche e politiche che non sono del tutto placate e che anzi – come vedremo – si ripropongono oggi ma con segno paradossalmente rovesciato. Ma – quel ch’è peggio – uno schema oppositivo che è un’inesauribile fonte di equivoci e di depistaggi.

Quando Gabriella mi ha fatto la proposta ho tuttavia pensato che proprio ripercorrere la genesi di tale schema oppositivo, cercare di individuarne e illustrarne la scarsa fondatezza e descriverne la parabola storica poteva costituire una sfida stimolante, sia per questa comunicazione sia per una ricostruzione più ampia delle vicende dell’ambientalismo italiano dell’ultimo mezzo secolo.

Due topoi deboli sulla vicenda dell’ambientalismo italiano (e non solo)

Nel nostro paese la storiografia sull’ambientalismo non ha molti punti fermi e condivisi, dibatte poco – quella di oggi è una rara e preziosa occasione – e proietta ancor meno le sue elaborazioni all’esterno della comunità degli studiosi.

Tuttavia almeno due topoi si ripresentano spesso, di tanto in tanto e in modo più o meno esplicito, e anche in testi non approssimativi, di un certo impegno. In comune essi hanno il fatto di essere poco o niente sostenibili.

Il primo topos: il 1970 come anno dell’epifania ambientalista

Il primo topos ha una diffusione più ampia ma è meno strutturato e decisamente più fragile. Esso postula, in buona sostanza, che l’ambientalismo si afferma soltanto a partire dal 1970.

L’idea serpeggia nell’opinione pubblica colta ma talvolta compare anche nella ricerca, con una sottovalutazione o persino ignoranza di quanto è avvenuto nel campo dell’ambientalismo fino al 1970 e si tratta di un fenomeno non soltanto italiano. ((Joachim Radkau, The Age of Ecology, Cambridge, Polity Press, 2014, p. 90: “the tens of thousands of young enthusiasts who observed Earth Day on 22 April 1970 in Washington and many other cities believed that they were the first to have discovered the acute threat to nature; most of them had no idea at all of the long list of their predecessors. This is why many environmental historians have sought to demonstrate the historical falsity of this conception of a ‘ground zero'”.))

C’è qui un elemento di verità costituito dal fatto che il 1970 è stato un anno particolarmente ricco di eventi marcanti, eventi di alto impatto e di alto valore simbolico in tutto il mondo dal primo Earth Day alla “svolta ecologista” di Richard Nixon fino all’annata europea dell’ambiente. questo addensarsi di eventi innescò in effetti una reazione a catena sia sul piano culturale che su quello istituzionale che si propagò rapidamente a livello planetario ((L’opera appena citata di Joachim Radkau dedica un intero capitolo all’anno 1970 sotto il significativo titolo “The Great Chain Reaction”, pubblicato in traduzione intaliana in questa stessa sezione di “altronovecento”)).

È facile verificare, ad esempio, come la stampa italiana utilizzi per la prima volta la parola “ecologia” in senso non disciplinare proprio nel corso di quell’anno 1970 ((Qualche esempio basterà a dare il senso dell’improvvisa e crescente ondata di attenzione. Dopo essere comparsa incidentalmente e in un solo caso per anno nel 1968 e nel 1969, la parola “ecologia” nel senso di “questione ambientale” inizia a ricorrere sistematicamente su “La Stampa” solo a partire dal mese di febbraio del 1970, finché il 12 agosto vi dedica un editoriale Alberto Ronchey. Il 26 giugno il settimanale del Partito Comunista Italiano, “Rinascita” avvia per la prima volta un’ampia discussione sull’ecologia con un articolo di Giovanni Berlinguer (pubblicato nella sezione “Documenti” di questo stesso numero di “altronovecento”) cui seguiranno gli interventi di Sergio Scarpa, Giorgio Morpurgo, Franco Busetto, Vittorio Carreri, Giorgio Casule, Guido Manzone, Corrado Perna e Lamberto Pignatti. È solo in seguito all’avvio di questo dibattito che la parola “ecologia” compare per la prima volta nella sua accezione politica sul ben più diffuso quotidiano del PCI: Concetto Testai, “Una scienza che contesta”, “l’Unità”, 25.8.1970, p. 3. Nel mese di settembre la rivista “I problemi di Ulisse” dedica un impegnativo e denso numero monografico al tema “I guastatori della natura”. Il 5 dicembre, infine, padre Bartolomeo Sorge pubblica su “La Civiltà Cattolica” il suo articolo seminale “La crisi ecologica. Un problema di coscienza e di cultura”, peraltro primo articolo di argomento ambientale sulla rivista e commento del primo intervento papale su temi ecologici. Anche i saggi di Bettini e Sorge sono riprodotti tra i “Documenti” di questo numero di “altronovecento”.)) e gli esempi potrebbero moltiplicarsi.

Noi tutti e tutte sappiamo però altrettanto bene che la vicenda dell’ambientalismo moderno va retrodatata di oltre cento anni, fino almeno alla metà degli anni ’60 dell’Ottocento, che gli sviluppi di quei primi cento anni sono stati tutt’altro che irrilevanti sia in termini culturali che istituzionali e soprattutto, che questi ricchi sviluppi hanno posto le basi dell’esplosione dell’ambientalismo globale dai primi anni ’70 in poi ((Luigi Piccioni, “Nazione, patrimonio, paesaggio: alle origini del moderno ambientalismo in Europa 1865-1914”, in “Storia e futuro”, n. 38, giugno 2015 ( http://storiaefuturo.eu/nazione-patrimonio-paesaggio-alle-origini-del-moderno-ambientalismo-in-europa-1865-1914/ ))).

Il secondo topos: la contrapposizione protezionismo-ecologia politica

Il secondo topos è più complesso concettualmente e quindi meno diffuso ma anche un po’ più fondato e di conseguenza più tenace.

Esso “narra” di come, nel corso degli anni ’70, sorga e si affermi in contrapposizione a un ambientalismo tradizionale, elitario e focalizzato quasi solo su oggetti di natura “pregiati”, un ambientalismo invece teoricamente complesso, dotato di una visione più sistemica ma soprattutto politicamente più radicale, insomma quella che chiamiano l’ecologia politica, nata in opposizione al protezionismo della foca monaca e delle “contesse”, come si diceva un tempo e qualche volta si sente dire ancor oggi ((Nel corso del tempo Giorgio Nebbia è tornato più volte su questa espressione. Si vedano i suoi Scritti di storia dell’ambiente e dell’ambientalismo, Brescia, Fondazione Luigi Micheletti, 2014, (“I quaderni di Altronovecento”, n. 4), alle pagine 94, 132, 207, 374 e 397. L’opera è scaricabile qui:https://www.fondazionemicheletti.eu/altronovecento/quaderni/4/AltroNovecento-4_Nebbia-Piccioni_Scritti-di-storia-dell-ambiente.pdf .))

Come dicevo all’inizio, il titolo propostomi da Gabriella riecheggiava in qualche misura e certo involontariamente proprio questo topos che contiene – come vedremo – qualche elemento di verità ma che è radicato in una retorica svalutativa coltivata per decenni e deve ad essa la sua fortuna pubblica.

Una retorica che si basa per lo più – ripeto – su una narrazione di parte secondo la quale a un ambientalismo elitario e dagli obiettivi ristretti si contrappone e quindi fa seguito un ambientalismo più dinamico, moderno, teoricamente più agguerrito e profondamente democratico.

La vexata quaestio dell’elitismo

Una delle caratteristiche salienti – se non la caratteristica saliente – di questa descrizione dell’ambientalismo tradizionale finisce con l’essere l’elitismo, in qualche caso definito e descritto in modo neutrale in altri casi definito al contrario in modo valutativo, come una sorta di peccato originario.

Una descrizione tra le più apertamente valutative – anzi di precisa e netta condanna – è rintracciabile in un testo che avuto grandissima fortuna e ha formato una generazione di ambientalisti di sinistra: L’imbroglio ecologico di Dario Paccino, pubblicato da Einaudi nel 1972((Dario Paccino, L’imbroglio ecologico, Torino, Einaudi, 1972.))

Credo proprio sia inevitabile dare direttamente la parola allo stesso Paccino:

Sono questi personaggi, apparentemente diversi, che riflettono l’immagine dello schieramento ecologico, in tutto simile a quello della realtà politica, con un suo centro, una sua destra, una sua sinistra. (…) A destra troviamo Uicn e Wwf con relative teste coronate e intellettuali cosmopoliti tipo Max Nicholson (…) Loro punti di forza: la necessità di costituire dappertutto dei «santuari»; ostentato disprezzo per il liberalismo e marxismo, nei quali andrebbe ricercata l’origine dell’odiato consumismo, che consente alla plebe di andare in automobile dove un tempo entravano solo Boleslao e Ladislao e i loro fidi; priorità dell’orso sull’uomo, essendo il primo naturalmente ecologico, mentre il secondo è un dannato distruttore ((Ivi , pp. 92-3.))

Se quella di Paccino è un’imputazione molto estrema – nei contenuti quanto nei toni – quando si tratta dell’ambientalismo precedente agli anni ’70 la categoria di elitismo si ripresenta in realtà molto di frequente, non solo nella letteratura divulgativa e giornalistica ma non di rado anche nelle opere di ricerca.

Ora, per quanto posso personalmente ricavare dai miei studi e dalla mia esperienza di militante, mi pare di poter dire che il termine “elitario” si presti nel nostro caso a tre diverse interpretazioni. Esso può significare che un patrimonio culturale, un’iniziativa pubblica, un movimento

. rimangono oggettivamente circoscritti a minoranze più o meno piccole;

. vengono intenzionalmente e consapevolmente circoscritti a gruppi di persone accuratamente selezionate quali che siano le loro visioni o i loro obiettivi;

si basano su visioni e finalità dichiaratamente elitiste come quelle indicate da Paccino quando parla di “Boleslao e Ladislao e i loro fidi”.

La popolare immagine dell'”ecologia delle contesse” – che ho sentito citare ancora lo scorso anno in un autorevole convegno pubblico – implica che quello che abbiamo deciso di chiamare il “protezionismo naturalistico” – Pro Natura, Italia Nostra, Lipu, Wwf: le associazioni nate tra il 1948 e il 1966 – combini la seconda e la terza accezione di elitismo. Secondo questa rappresentazione, insomma, esso sarebbe un movimento da un lato programmaticamente riservato a pochi eletti e dall’altro portatore di obbiettivi di conservazione di valori da riservare a pochi e minacciati dalla società di massa.

Il problema di questa rappresentazione è che una conoscenza ravvicinata e documentata di gran parte dei gruppi ambientalisti europei – ma penso anche statunitensi – del secolo che va dal 1865 al 1965 mostra chiaramente che il loro elitismo fosse concepibile soltanto nella prima accezione, quella cioè di una forzata convivenza con numeri piccoli che si accompagnava d’altra parte a grandi ambizioni di pedagogia sociale o persino di democratizzazione della società. E non sempre oltretutto i numeri erano piccoli, come ad esempio nel caso della Royal Society for the Protection of Birds, del National Trust inglese e dei vari Heimatschutzbund nei paesi di lingua tedesca nei decenni a cavallo tra Otto e Novecento che arrivavano a raccogliere decine quando non centinaia di migliaia di adesioni.

In generale la stessa cosa può dirsi – almeno sul piano delle aspirazioni – dell’associazionismo ambientalista italiano, sia nella sua prima ondata del periodo 1880-1930 sia in quella successiva al 1945.

La contrapposizione netta: quali fondamenti ha e perché tuttavia non regge

A ben guardare, però, anche il sarcasmo di Paccino aveva qualche fondamento fattuale, come pure l’idea che gli obiettivi del protezionismo naturalistico fossero notevolmente ristretti.

In primo luogo era difficile infatti negare che l’Italia Nostra delle origini e il Wwf delle origini avessero una solida e persino determinante componente alto-borghese e addirittura aristocratica. Era inoltre era altrettanto evidente una forte focalizzazione tematica da parte quantomeno del Wwf, che tra l’altro era l’associazione che nell’Italia dei primi ’70 era già più visibile e di successo.

A dispetto di questo va tuttavia osservato come:

1) tanto il Wwf quanto Italia Nostra – e il Wwf più di Italia nostra – erano associazioni che ambivano programmaticamente a una dimensione di massa e ed erano decisamente volte a una trasformazione della cultura collettiva in senso moderno e progressista;

2) erano sodalizi che coltivavano un forte senso civico e di conseguenza una politicità consapevole e molto determinata, circostanza particolarmente vera per quanto riguardava Italia Nostra, di cui in ogni caso il Wwf Italia costituiva una filiazione diretta;

3) più precisamente, alla base della cultura e dell’azione di Italia Nostra e anche del Wwf stavano una sensibilità e una cultura politica progressiste anzi più specificamente “azioniste”, legate cioè all’esperienza del disciolto Partito d’Azione, che collocavano naturalmente le due associazioni all’interno di un arco partitico che andava dal piccolo Partito radicale al Partito socialista passando per il Partito repubblicano ((Ho in corso di pubblicazione una ricostruzione della genealogia culturale delle due associazioni, ma al momento si può sempre utilmente far riferimento all’accurata esplorazione di Edgar Meyer, I pionieri dell’ambiente. L’avventura del movimento ecologista italiano. Cento anni di storia , Milano, Carabà, 1995.))

La fisionomia del protezionismo italiano degli anni Sessanta aveva insomma caratteri fortemente politici, essenzialmente in chiave “riformista”, latamente liberalsocialista.

Di conseguenza, piuttosto che una contrapposizione un movimento composito e convergente

Ora, quel che succede è che questo assetto culturale dell’associazionismo ambientalista “storico” italiano come si configura a partire dalla fine degli anni ’50 ha conseguenze determinanti sul modo in cui l’ambientalismo italiano “esplode” e si configura a partire dai primi anni ’70. Ecologia politica inclusa.

Quel che insomma si è verificato a partire dai primi anni ’70 – come aveva già visto Simone Neri Serneri nel 2001 ((Simone Neri Serneri, “Culture e politiche del movimento ambientalista”, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta. II. Culture, nuovi soggetti, identità , a cura di Fiamma Lussana e Giacomo Marramao, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 367-399.))e come hanno poi più approfonditamente osservato Michele Citoni e Catia Papa((Michele Citoni e Catia Papa, Sinistra ed ecologia in Italia, 1968-1974, Brescia, Fondazione Luigi Micheletti, 2017 (“I quaderni di altronovecento”, n. 8; urlhttp://www.fondazionemicheletti.it/altronovecento/Default.aspx?id_articolo=35 ).))- è statanon una contrapposizione bensì una effettiva, progressiva convergenzain cui percorsi e identità anche molto diverse si sono fertilizzate e influenzate reciprocamente e hanno trovato – soprattutto a partire dalla metà degli anni ’60 – un gran numero di vertenze e di elaborazioni su cui operare congiuntamente in modo per lo più non conflittuale.

Una primogenitura protezionistica, contestata ma evidente

Per avere un quadro d’insieme dell’evoluzione dell’ambientalismo italiano dagli anni ’60 in poi bisogna considerare oltretutto che l’associazionismo – protezionista, “borghese” o come lo vogliamo chiamare – svolge un ruolo incontestabilmente pionieristico in quasi tutte le questioni importanti e soprattutto nella prima introduzione di temi, culture e visioni riguardanti il rapporto uomo-società-ambiente naturale.

Se è opportuno ricordare ancora una volta che Italia Nostra nasce nel 1955, la Lenacdu (poi Lipu) nel 1965 e il Wwf nel 1966, alla vigilia di un progressivo aumento della visibilità della questione ambientale in senso lato, con una vera e propria esplosione – italiana e internazionale – nel corso del 1970, è altrettanto opportuno ricordare che in quell’anno fatidico sulla scena ambientalista italiana ci sono solo le associazioni: il 1968 e l’autunno caldo sono rimasti infatti totalmente estranei all’esplodere della questione ambientale((Luigi Piccioni, “Paccino e Peccei: una relazione lasca col Sessantotto”, in L’ultima rivoluzione. Figure e interpreti del Sessantotto, a cura di Pier Paolo Poggio e Carlo Tombola, Brescia, Fondazione Micheletti, 2019, pp. 203-205.)) salvo negli anni seguenti operare una convergenza verso di essa a partire dalla questione della tutela della salute sui luoghi di lavoro, come testimonia una crescente letteratura e in questo stesso numero di “altronovecento” i contributi di Marino Ruzzenenti e Angelo Baracca.

Se a partire dal 1970-71 si iniziano invece – e molto faticosamente – a gettare le fondamenta anche in Italia di quella che siamo soliti chiamare l’ecologia politica è anzitutto come reazione – una reazione articolata, si badi – a un’onda culturale e politica che finora solo le associazioni protezioniste hanno saputo fare propria e poi hanno sospinto energicamente. Ma questa capacità di primogenitura non si limita al biennio 1970-71: assai emblematico è il fatto che nel 1974 – quando ormai l’ecologia politica ha mosso da tempo i suoi primi passi – la prima denuncia del nucleare civile provenga dal Wwf e anticipi oltre due anni il primissimo manifestarsi di un’opposizione collettiva alle centrali atomiche esistenti e in progetto((Realtà delle centrali termonucleari. Morte pulita , Roma, World Wildlife Fund Italia, 1974.)). Fa persino una certa impressone leggere Gianni Mattioli – di lì a poco una delle figure più visibili dell’ecologia politica italiana e della battaglia contro l’atomo – che in un’intervista confessa come ancora nell’autunno del 1976 il gruppo energia di Democrazia Proletaria fosse filo-nucleare e che la sua conversione di 180 gradi avvenne solo quando Paolo Degli Espinosa andò a Montalto di Castro e si accorse che “sul campo” tutti erano già da tempo contrarissimi – e con ragioni del tutto convincenti – alle centrali ((Roberto Della Seta, La difesa dell’ambiente in Italia. Storia e cultura del movimento ecologista , Milano, Franco Angeli, 2000, pp. 41-42.)) Nella prima fase della mobilitazione delle popolazioni della Maremma laziale, oltretutto, un ruolo decisivo era stato svolto da Italia nostra e dal suo staff legale.

Derivazioni, convergenze, ponti

Nonostante il clima di contrapposizione ideologica plasticamente rappresentato dalla scrittura di Paccino e nonostante alcune evidenti differenze – e divergenze – tra l’ambientalismo delle associazioni tradizionali e quello dei nuovi gruppi di sinistra, la nascita dell’ecologia politica italiana si verifica insomma in larga parte – poche sono le eccezioni, tra cui quella della lotta contro la nocività in fabbrica – a partire dalle elaborazioni e dal concreto operare del protezionismo naturalista.

Oltre a quello – davvero eclatante – del nucleare si possono citare diversi altri esempi:

a) la prima “virata a sinistra” dell’ambientalismo italiano avviene all’interno di un’associazione protezionistica assai tradizionale qual’è Pro Natura, grazie alla gestione avviata nel corso del 1970 che vede alla presidenza Valerio Giacomini e Dario Paccino come responsabile della nuova rivista del sodalizio, “Natura e società” ((S. N. Serneri, “Culture e politiche del movimento ambientalista”, cit., p. 369.));

b) nel comitato di redazione di “Ecologia” – prima vera palestra dell’ecologia politica italiana – sono presenti diversi esponenti dell’associazionismo protezionistico come Valerio Giacomini, Alfredo Todisco, Sergio Frugis, Franco Corbetta e Fulco Pratesi anche se dopo pochi numeri tra alcune di queste figure e il direttore Virginio Bettini si consumerà un divorzio traumatico ((Elena Davigo, “The origins of the Italian ecology movement. The birth of Nuova Ecologia”, in State of Nature. 2nd International Workshop of the Nature and Nation Network. Bucarest 2-4 December 2011 , a cura di Marco Armiero, Wilko Graf Von Hardenberg e Valentin Quintus Nicolescu, Bucarest, Pro Universitaria, 2012, pp. 44-59; Catia Papa, “Alle origini dell’ecologia politica in Italia”, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta. II. Culture, nuovi soggetti, identità, a cura di Fiamma Lussana e Giacomo Marramao , Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 422-24.));

c) il nucleo di giovani ambientalisti di sinistra che produce “Denunciamo” – che esce proprio come inserto di “Ecologia” – si è avvicinato all’ambientalismo all’interno delle attività della sezione milanese di Italia Nostra((La vicenda è rievocata da Andrea Poggio nel suo Ambientalismo, Milano, Editrice Bibliografica, 1996, pp. 30-35.));

d) quando nel 1971 il Pci tenta – in modo invero assai faticoso e confuso – di assumere per la prima volta la questione ambientale traducendola in un’ottica di classe non può fare a meno di coinvolgere ((Come relatore al convegno dell’Istituto Gramsci su “Uomo natura e società” del novembre 1971, i cui atti usciranno tre anni dopo per i tipi degli Editori Riuniti.))una figura-ponte da tempo attivamente impegnata nell’associazionismo protezionista, come Giorgio Nebbia, iscritto a Italia nostra, al Wwf e a Pro natura e animatore a Bari delle attività di questi sodalizi ((Fondazione Luigi Micheletti. Archivio Giorgio e Gabriella Nebbia. Busta Corrispondenza W. Giorgio Nebbia a Fulco Pratesi 24.8.1968; Id., Busta Corrispondenza FA FE. Giorgio Nebbia alla sede centrale di Pro Natura Italica 26.7.1969. Si veda al riguardo Luigi Piccioni, “Giorgio Nebbia e l’ecologia. Un profilo biografico”, in Giorgio Nebbia, La terra brucia. Per una critica ecologica al capitalismo, a cura di Lelio De Michelis, Milano, Jaca Book, 2020, p. 18.)).

Entro una galassia ambientalista unitaria, la nascita dell’ecologia politica italiana

Affermare tuttavia che in Italia tra protezionismo ed ecologia politica non c’è stata contrapposizione netta né rottura, ma piuttosto convergenza e continuità non significa negare la novità costituita dalla comparsa di un ambientalismo con una forte caratterizzazione politica.

Si trattò in effetti di un fenomeno in realtà molto composito ma con alcuni tratti comuni e nuovi rispetto alla tradizione associativa protezionistica. Le principali novità possono essere sintetizzate nell’ambizione a costruire un ambientalismo

a) programmaticamente “di massa” non solo in quanto rivolto a un pubblico ampio ma anche perché democratico, partecipativo e attento anzitutto ai bisogni degli strati popolari della società italiana;

b) apertamente e programmaticamente critico del modello di sviluppo capitalista e industrialista, nei suoi vari aspetti;

c) consacrato a connettere strettamente le rivendicazioni ambientali con quelle civili, sociali, di genere e pacifiste.

ed è indubbiamente la Lega per l’Ambiente-Arci – sorta nei mesi a cavallo tra il 1979 e il 1980 – a portare a sintesi con la massima efficacia e originalità tutte queste caratteristiche ((A. Poggio, Ambientalismo, cit., pp. 64-76.)).

L’età d’oro dell’ambientalismo italiano: la campagna antinucleare e l’affermazione delle liste verdi (1977-87 circa)

Questo sistematico convergere – al di là di alcune differenze anche significative ma che non compromettono il lavoro comune – trova l’espressione più efficace e visibile nel movimento contro il Piano energetico nazionale che si sviluppa a partire dal 1975, ha la sua massima espansione nel decennio 1977-1987 e si conclude con la vittoria nel referendum propiziata dall’incidente di Chernobyl e dalla fronda governativa socialista contro il nucleare.

Il decennio in questione con una coda fino ai primi anni ’90 è – come già nei primi anni 2000 avevano ormai agio di constatare i sociologi ((Donatella della Porta e Mario Diani, Movimenti senza protesta? L’ambientalismo in Italia, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 17-20.))- quello del massimo sviluppo del movimento ambientalista italiano: unità di intenti e di azione, notevole capacità propositiva, grande visibilità e influenza, ampio seguito popolare, importanti risultati conseguiti, affermazione di una rappresentanza politica ambientalista, il tutto – e questo è un punto centrale – con una caratterizzazione politica complessivamente molto avanzata, cioè con visione complessa della questione ambientale e un taglio fortemente democratico e progressista.

Appare a questo proposito particolarmente significativa una testimonianza di Arturo Osio, fondatore e a lungo segretario del Wwf Italia:

Avremmo potuto fare molto di più ma abbiamo dovuto contenerci perché il Wwf internazionale un po’ ci controllava, non è che amasse molto le nostre deviazioni rispetto alla tematica specifica delle specie in estinzione o della raccolta di fondi. Eravamo visti un po’ così, insomma … Poi, dopo, quando cominciarono a fare delle indagini – indagini che avevano fatto loro senza dirci niente – sulla popolarità del Wwf in Italia, qual’era l’associazione più conosciuta in Italia, rimasero stupefatti … Così dovettero abbozzare e per anni non tornarono più sulla problematica ((Arturo Osio (1932), testimonianza raccolta a Colico il 6.4.2016.)).

Questa peculiare “politicità diffusa” dell’ambientalismo italiano – che in alcune fasi non mancò di creare disagi e scontri all’interno di associazioni come Italia Nostra e Pro Natura ((Una dura polemica interna riguardo a scelte di viabilità nazionale portò ad esempio nel 1978 all’uscita di Susanna Agnelli da Italia Nostra. R. Della Seta, La difesa dell’ambiente in Italia, cit., p. 44.))- andrebbe studiata in modo più approfondito, ma credo sia comunque possibile avanzare qualche prima ipotesi sulle sue radici:

a) l’inevitabile carattere di denuncia e di opposizione assunto dal protezionismo associativo degli anni ’50 e ’60 di fronte al carattere selvaggio dello sviluppo italiano degli anni del boom economico;

b) al di là della comune postura polemica, l’effettiva derivazione di gran parte della nascente ecologia politica italiana da visioni, agende e strutture proprie dell’associazionismo protezionista;

c) come osservato ancora una volta dai sociologi ((Si veda ad esempio il saggio di Giovanni Lodi, “L’azione ecologista in Italia: dal protezionismo alle Liste verdi”, in La sfida verde. Il movimento ecologista in Italia, a cura di Roberto Biorcio e Giovanni Lodi, Padova, Liviana, 1988, pp. 17-26.)), la forte egemonia culturale e sociale esercitata da partiti e movimenti latamente di sinistra tra la fine degli anni ’60 e per tutti gli anni ’70 non ha mancato di influire sull’identità culturale e sulle pratiche dell’associazionismo protezionista.

Un declino avvertito ma mai messo a tema

Sono in ogni caso gli anni ’80 la fase più fortunata dell’ambientalismo italiano, segnata in particolare da due vicende di rilievo: la grande mobilitazione antinucleare e la nascita di una rappresentanza politica verde. La fine del decennio, che appare ai contemporanei come l’epoca della consacrazione definitiva del movimento, finirà invece col configurarsi come l’inizio di un ripiegamento.

A cavallo tra gli anni ’80 e gli anni ’90 il movimento inizia infatti a perdere slancio e a percorrere quella parabola che ha condotto nei decenni successivi alla scomparsa di una rappresentanza politica ambientalista autonoma, a un associazionismo ambientalista spaccato con modalità e su linee di frattura inedite e a un’influenza sui media e sulle istituzioni notevolmente ridimensionata rispetto al passato oppure come caratterizzata in senso fortemente consociativo.

Un declino fatto di temporalità diverse

A osservarlo più da vicino, questo declino – pur temperato dall’emergere da altre forme di mobilitazione, soprattutto giovanili e locali – sembra in realtà composto da archi temporali diversi: alcuni temi si appannano presto, alcuni protagonisti perdono peso e in qualche caso addirittura spariscono dalla scena, altri resistono più a lungo oppure si prolungano fino ad oggi, talvolta trasformandosi.

Alcuni elementi vanno in crisi presto o relativamente presto:

a) l’ecologia di classe, la lotta operaia per la salute in fabbrica e sul territorio esterno alla fabbrica sembrano esaurire la loro spinta già verso la metà degli anni ’70 ((M. Citoni e C. Papa, Sinistra ed ecologia in Italia, cit., pp. 64-65.));

b) il cruciale nesso riformista tra programmazione economica e pianificazione territoriale si esaurisce a livello nazionale già alla fine degli anni ’60 e, trasferito in parte alle regioni, si appanna via via fino a scomparire quasi del tutto nel corso degli anni ’80 ((Cristina Renzoni, Il Progetto ’80. Un’idea di paese nell’Italia gli anni Sessanta , Firenze, Alinea, 2012, p. 27.));

c) nel corso degli anni ’80 si affievolisce anche il dibattito sulla neutralità della scienza e della tecnica e sul nesso tra modo di produzione capitalista e crisi ambientale che tanto peso aveva avuto nella definizione dell’ecologia politica degli anni ’70 ((Sul dibattito sulla neutralità della scienza si vedano i bilanci a firma degli autori e di Arianna Borrelli, Marco Lippi, Dario Narducci e Giorgio Parisi contenuti nella ri-edizione del 2011 (Milano, Franco Angeli) dell’opera di Giovanni Ciccotti, Marcello Cini, Michelangelo De Maria, Giovanni Jona-Lasinio, L’ape e l’architetto. Paradigmi Scientifici e Materialismo Storico, originariamente pubblicata nel 1976 da Feltrinelli.)) mentre per qualche anno, tra la metà degli anni ’80 e i primi anni ’90, gode di una discreta popolarità una discussione sul paradigma della complessità associato alle questioni ambientali ((Interesse diffuso ben testimoniato dall’esperimento della rivista mensile “Arancia blu” fondata e diretta da Enzo Tiezzi tra il 1990 e il 1992. Su Tiezzi, su quella discussione e su “Arancia blu” si veda Lucio Passi, Enzo Tiezzi. Verso il nuovo ambientalismo, Roma, La biblioteca del Cigno, 2013. Ma al riguardo si vedano le notazioni nel saggio di Angelo Baracca contenuto in questa stessa sezione di “altronovecento”.));

d) per quanto riguarda la pianificazione urbana e territoriale in sé la crisi comincia già nella prima metà degli anni ’80 e si aggrava progressivamente fino all’estesa deregulation odierna ((Edoardo Salzano, Fondamenti di urbanistica, Bari-Roma, Laterza, 2003, cap. X.)).

Resta invece molto forte, almeno fino al referendum del 1987, la mobilitazione antinucleare ((Una recente messa a punto su un soggetto sul quale si sta risvegliando un certo interesse è costituita dall’articolo di Catia Papa, “Energia, democrazia, sviluppo: il movimento antinucleare in Italia (1976-86), in “Meridiana”, XXXIV (2020), n. 98, pp. 241-53.)) e fino alla fine del decennio quella – anche popolare – per alcune grandi riforme ambientali, soprattutto per le aree protette ((Carlo Alberto Graziani, “Le aree naturali protette”, in Trattato di diritto agrario. 2. Il diritto agroambientale, a cura di Luigi Costato, Alberto Germanò, Eva Rook Basile, Utet, 2011, pp. 361-440.)).

Tante crisi intrecciate e qualche causa comune

Se la ricostruzione delle cause e delle esatte parabole di queste diverse ma convergenti crisi costituisce una sfida teorica stimolante ma ancora tutta da approntare, esse sembrano comunque essere state influenzate da un insieme di fenomeni anch’essi convergenti ma in senso opposto a quello degli anni ’70.

Si può provvisoriamente provare a elencarne alcuni:

a) l’incipiente e sempre più grave crisi delle sinistre, tanto di classe quanto riformiste, delle loro culture e del loro radicamento sociale;

b) il successo, di contro, e la pervasiva diffusione della cultura e della prassi politico-istituzionale neoliberiste;

c) la crisi – oggi globale, ma in cui l’Italia ha avuto una funzione anticipatrice – del sistema tradizionale dei partiti e il precoce affermarsi di una politica-spettacolo populista, personalistica e fortemente semplificatoria sia per quanto riguarda le visioni politico-culturali, sia per quanto riguarda i contenuti qualificanti, sia per quanto riguarda i programmi;

d) la storica fragilità italiana della cultura e della prassi partecipativo/democratiche;

e) l’altrettanto storica fragilità italiana dell’armatura istituzionale pubblica, unica possibile garante della corretta applicazione delle politiche ambientali.

Qualche quesito e una questione tanto paradossale quanto sintomatica

L’analisi di questo declino è però – è bene ripeterlo – tutta da costruire.

Mentre disponiamo infatti di qualche canovaccio – sia pure ancora impressionista – degli svolgimenti storici dell’ambientalismo italiano tra l’immediato dopoguerra e la fine degli anni ’80 – non a caso gli anni della cosiddetta “prima repubblica” – gli sviluppi successivi appaiono oggi come una terra incognita, nonostante l’anomalia italiana costituita dal fatto di essere uno dei pochi paesi europei privo di rappresentanza parlamentare verde dovrebbe suscitare qualche curiosità.

Oltre a porre le due questioni correlate del perché di questa lacuna analitica e di cosa dobbiamo cominciare a mettere dentro a questa terra incognita, vorrei concludere additando un interessante paradosso che ci riporta alla contrapposizione da cui siamo partiti tra protezionismo naturalistico ed ecologia politica.

Il paradosso dell’inversione dei ruoli

Se vogliamo continuare a prendere per buona – ma a fini di sola semplificazione – la contrapposizione tra due ambientalismi, uno più elitario, moderato, apolitico e al tempo stesso istituzionale, e l’altro più di massa e democratico, radicale, aggressivo, politicizzato e movimentista ci ritroviamo oggi di fronte a una curiosa inversione di ruoli.

Sparito l’ambientalismo di classe e di fabbrica, ridotto a pochissima cosa quello di critica dei saperi borghesi, della scienza e della tecnologia, il quadro che abbiamo di fronte oggi è caratterizzato anzitutto da una nuova contrapposizione: quella tra il vecchio associazionismo protezionista che continua a svolgere un ruolo di denuncia non troppo dissimile da quello di quaranta anni fa e i principali eredi dell’ecologia politica degli anni ’70 che si caratterizzano da un lato per un’adesione convinta ai paradigmi dell’ambientalismo neoliberista (denuncia della “sindrome nimby”, esaltazione e promozione della “green economy”, assunzione della teoria dei servizi ecosistemici, etc) e dall’altro per uno schiacciamento progressivo su una “politica politicata” che appare allontanarsi sempre di più non solo dalla partecipazione di base ma anche da qualsiasi forma di accountability.

Ammesso che questa mia analisi – basata soprattutto su un'”osservazione partecipata” delle vicende degli ultimi due o tre lustri – abbia un fondo di verità, credo che anche l’interpretazione di questo paradosso costituisca una sfida storiografica molto stimolante.

Cosa rimane ancora fuori

È bene che io lo confessi: nonostante potesse sembrare cosa agevole, il compito affidatomi da Gabriella era in realtà temibile e il carattere approssimativo, di torso incompiuto pieno di domande più che di risposte, di questo paper credo che lo dimostri.

Vorrei solo accennare in conclusione a una complicazione, tanto per non farmi mancare niente: quel che rimane fuori da questo quadro e che chiede di essere preso in considerazione.

Al momento vedo soprattutto tre temi, alcuni dei quali godono già di una letteratura più o meno consistente mentre altri restano poco o per niente conosciuti:

a) cosa sono e come si configurano all’interno dell’ambientalismo degli anni ’70 e ’80 i radicali, che pure in quella fase furono dei protagonisti di primissimo piano;

b) come si configura la parabola della rappresentanza verde – ed ecologista in genere – rispetto alle varie componenti dell’ambientalismo italiano;

c) come si configurano e come pesano i movimenti spontanei, di base – e in particolare le vertenze territoriali – nella fase alta degli anni ’70-’80 e poi nella successiva fase di declino fino ad oggi.

Altro ancora potremmo aggiungere, ma per ora penso che tutto questo basti. Grazie dell’invito e dell’attenzione prestatami.