Dossier “1970” — La crisi ecologica. Un problema di coscienza e di cultura

“La civiltà cattolica” CXXI (1970), vol. IV, pp. 417-26.

Il 16 novembre scorso Paolo VI si è recato di persona nella sede romana della FAO e ha rivolto un importante discorso alla Conferenza ivi riunita per commemorare il XXV° di quell’organizzazione mondiale, particolarmente impegnata nella lotta contro la fame ((Oss. Rom. , 16-17 novembre 1970. Nell’articolo ne riportiamo i passi prncipali citando tra parentesi il paragrafo corrispondente, secondo la numerazione ufficiale dell’originale.)). Il Papa ha voluto cogliere, così, un’occasione ufficiale e solenne per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica e dei responsabili di tutto il mondo sul grave dovere di coscienza che la nostra generazione ha di utilizzare in modo più razionale le risorse naturali, destinate da Dio al sostentamento di tutti gli uomini ((Le parole di Paolo VI alla FAO rivestono un’importanza particolare pure a motivo d’una duplice circostanza. Con la fine dell’anno 1970, infatti, si conclude il primo “decennio dello sviluppo” promosso dall’ONU e si apre il “secondo decennio”, già indetto su scala mondiale. Il Papa vi fa cenno nel suo discorso. [In proposito, vedi pure la lettera che il card. M. Roy, presidente della corpmissione pontificia Iustitia et pax, ha consegnato a U Thant, segretario generale dell’ONU, il 20 novembre scorso (Oss. Rom., 21 novembre 1970)]. In questi giorni, poi, si conclude pure l’annata europea della conservazione della natura, indetta dal Consiglio d’Europa. Infine, è noto che sullo stesso problema l’ONU sta preparando una conferenza internazionale a livello di governo e di esperti, prevista per il 1972 a Stoccolma. In vista di questa grande assise internazionale, la Commissione economica per l’Europa ne organizzerà una a carattere regionale a Praga nel 1971.)). Ci sembra che il filo conduttore che dà unità alla vasta problematica affrontata dal Papa sia da ricercare proprio in questo appello alla responsabilità nell’uso delle·risorse materiali. La fame nel mondo, la distruzione della natura, la pianificazione delle nascite, le spese per gli armamenti, la solidarietà tra i popoli e tra le generazioni, il riassetto del commercio internazionale sono i temi toccati nel discorso. Ma, nonostante. la loro apparente diversità, essi si riconnettono tutti a un grave problema di fondo che da dieci anni a questa parte è divenuto drammatico: l’incubo della morte biologica dell’umanità, quale conseguenza della distruzione dell’ambiente naturale.

Verso la catastrofe ecologica?

La minaccia d’una catastrofe ecologica cioè, il pericolo che l’uomo distrugga con le proprie mani l’ambiente naturale che gli dà la vita – non è affatto ipotetica. Indubbiamente la scienza e la tecnica sono in grado di incrementare e di moltiplicare i mezzi del nostro sostentamento. Ma, se la ricerca del massimo rendimento diviene fine a sé stessa, se gli scopi e i mezzi della sperimentazione scientifica- e delle realizzazioni tecniche non vengono commisurati alle necessità effettive dell’uomo e. alle disponibilità delle risorse esistenti, si rischia di compromettere in modo irrimediabile l’equilibrio stesso del nostro ambiente naturale.

Da questa osservazione di fondo, riferita al caso particolare dell’agricoltura, muove il Papa per la sua analisi:

Il miglioramento della fertilità del suolo, la sistemazione razionale dell’irrigazione, la riunione delle frazioni di terreno, la valorizzazione di zone paludose, lo sforzo di selezione vegetale, l’introduzione di varietà di cereali ad alto rendimento sembrano quasi avverare la previsione dell’antico profeta dell’epoca rurale: “Il deserto fiorirà”. Ma la concreta attuazione di queste possibilità tecniche a un ritmo accelerato non avviene senza ripercussioni dannose sull’equilibrio del nostro ambiente naturale, e il peggioramento progressivo di ciò che si è convenuto chiamare l’ environnement rischia, sotto l’effetto dei contraccolpi della civiltà industriale, di condurre a una vera catastrofe ecologica. (n. 3)

Paolo VI non·ritorna sulla tremenda eventualità d’una distruzione violenta. Tutti sappiamo che una guerra atomica è possibile ogni momento; anzi, in certo senso è già iniziata, se è vero che sono un milione i soli bambini morti negli ultimi sedici anni, in seguito alla contaminazione radioattiva delle ossa ((Cfr il recente rapporto di E. Sternglass, cit. da V. Bettini, “Una civiltà all’assalto degli ecosistemi”, in “I problemi di Ulisse”, X (settembre 1970), 27s. Come l’A. documenta, tutto il globo è inquinato da isotopi radioattivi; essi si vanno sempre piu concentrando e ne possiamo seguire il percorso fin nei tessuti animali e. vegetali. Per esempio, rubidio tende a localizzarsi nei polmoni; lo iodio e lo stronzio rispettivamente nella ghiandola tiroide e nelle ossa interferendo sul metabolismo basale e sulla formazione degli eritrociti del sangue.)). Ma, la catastrofe ecologica può venire, oltre che per distruzione violenta, anche per asfissia, per inedia, per avvelenamento. La ragione è che tecnica e scienza non creano le risorse necessarie alla vita: solo le trasformano e le utilizzano. Il terreno e i giacimenti minerali, le piante e gli animali, l’acqua e l’aria rimarranno sempre i serbatoi e le fonti naturali insostituibili per il sostentamento dell’uomo, pure nel Duemila, pure nella società dei robots e dei cervelli elettronici.

La sopravvivenza dell’umanità, perciò, resta essenzialmente legata all’efficienza delle risorse naturali, al loro impiego razionale e responsabile.

Questa minaccia d’una catastrofe ecologica silenziosa è tanto più preoccupante, quanto meno essa è recepita dalla mentalità tecnologica del nostro tempo. Siamo talmente abituati a disporre di beni sintetici d’ogni specie, ad ottenere risultati sempre nuovi e strabilianti dalle applicazioni industriali in ogni campo, che un po’ tutti propendiamo – magari inconsciamente – a sottovalutare la natura e ad attribuire alla scienza e alla tecnica poteri taumaturgici, se non addirittura creatori. Fino al punto di accettare il mito dell’efficienza e del consumo come criterio e metro esclusivo per misurare il processo umano. In questa mentalità edonistica sta il vero pericolo. Ad essa vanno attribuiti, in causa, non solo i gravi effetti disumanizzanti che caratterizzano la società tecnologica, ma anche le devastazioni fisiche, biologiche ed economiche, che il Papa denuncia apertamente fino a scorgervi i prodromi d’un vero suicidio collettivo.

L’esaurimento delle risorse naturali

Le risorse naturali, in quanto costituiscono il serbatoio dell’energia e dei mezzi necessari al nostro sostentamento, sono esposte al duplice pericolo dell’esaurimento e dell’inquinamento. Non si tratta di pericoli teorici. La situazione oggi si è aggravata a tal segno che, senza timore d’essere accusato di pessimismo, Paolo VI ha potuto far sue le conclusioni d’un’indagine della FAO e giudicare possibile “l’annientamento del frutto di milioni di anni di selezione naturale e umana” e incombente la sorte “d’una vera morte biologica in un avvenire non lontano, se non saranno coraggiosamente decise e severamente applicate, senza ritardi, energiche misure” (n. 3).

È già preoccupante in sé il problema di quelle scorte naturali che, una volta esaurite, non si rinnovano più. È il caso – tanto per fare qualche esempio – dei combustibili fossili, come il carbone e il petrolio, dei materiali fissili; come l’uranio e il torio, e – tra i viventi – delle 338 specie di uccelli e delle 288 specie di mammiferi, che gli. zoologi danno ormai come prossime all’estinzione completa.

Ma non è meno drammatica la situazione delle scorte rinnovabili. Esse pure sono sul punto d’essere compromesse in modo irreparabile. Infatti, da un lato, è aumentato il fabbisogno mondiale in termini quantitativi, quale conseguenza dell’esplosione demografica: la popolazione del globo s’è accresciuta quasi d’un miliardo negli ultimi dieci anni e il suo ritmo d’incremento lascia prevedere che nel Duemila sfiorerà i sette miliardi. D’altro lato, il rapido progresso delle tecniche di produzione ha elevato sensibilmente pure il livello qualitativo dei beni prodotti, creando e diffondendo una larga rete di bisogni secondari, sempre nuovi e più raffinati, con un dispendio incalcolabile di risorse naturali, sottratte così al soddisfacimento dei bisogni primari di oggi e di domani.

Ciononostante, a giudizio degli esperti, la consistenza delle scorte naturali del nostro pianeta e del cosmo è tale che – razionalizzandone l’uso, l’incremento e la distribuzione nel tempo – non abbiamo motivo di disperare; sempre che il progresso della scienza e della tecnica sia posto a servizio effettivo dell’uomo, riconosca perciò i suoi limiti, e non sia considerato fine a sé stesso.

Il pericolo dell’inquinamento

L’esaurimento delle scorte naturali, in certa misura, è un fenomeno ineluttabile, che si può controllare e contenere solo in parte. L’impegno maggiore, perciò, va rivolto a scongiurare l’altro pericolo: quello dell’inquinamento, della contaminazione e della distruzione volontaria della natura e del suo patrimonio. Questo processo, infatti, è per lo più provocato e responsabile; quindi si può e si deve evitare. Purtroppo oggi è facile moltiplicare gli esempi di questo sperpero colpevole, che, in alcuni casi, può rivestire moralmente la figura d’un vero reato di rapina, compiuta ai danni dell’umanità. Basta scorrere i giornali. Noi stessi ne diventiamo corresponsabili, quando giustifichiamo chi li commette, in nome della massima efficienza, del massimo profitto, del massimo consumo. Eppure basta tanto poco per rendersi conto che il disprezzo della natura è un boomerang, che si ritorce contro di noi!

Si vuole che la campagna produca quanto più può? Ma ecco che i fertilizzanti e i pesticidi, a cui si ricorre senza discriminazione, poi inquinano i corsi d’acqua e sotto forma di veleno ritornano a distruggere le colture irrigate; ecco che gli antiparassitari a base di DDT e di dieldrina finiscono col distruggere anche gli insetti e gli animali utili, giungendo talvolta – com’è stato accertato per il pesce – ad intossicare gli alimenti e l’uomo ((Nel grasso degli orsi polari si è trovato DDT proveniente dall’atmosfera Nel tessuto adiposo degli italiani sono stati rilevati 20 milligrammi di DDT per chilo (cfr M. Pavan, “L’annata europea della conservazione della natura”, loc. cit., 19).)). Le zone di montagna non rendono a sufficienza? Allora, si abbandonano a sé stesse: in Italia sono cinquantamila i chilometri quadrati di terreno abbandonato ((Ivi , 18.)). Ma nessuno pensa alla vendetta della natura: dal disboscamento verrà l’erosione del terreno dall’erosione verranno gli smottamenti e le frane, da queste l’occlusione degli alvei dei fiumi, fino alle alluvioni a catena dei nostri giorni. Le aree urbane sono più redditizie, in termini di profitto se destinate all’edilizia? Ed ecco che si specula sui prezzi·, che salgono alle stelle; si distrugge il verde, senza scrupolo. Ma poi siamo costretti a vivere in quei mostruosi agglomerati di cemento che sono le nostre città, senza spazio e senza respiro; omeglio, dove si respira l’ossido di carbonio delle automobili e l’anidride solforosa delle ciminiere e dei camini, smog e nebbia ((Si calcola che l’anidride solforica immessa ogni giorno nell’atmosfera superi le 60.000 tonnellate. Questa, a contatto con l’umidità dell’aria, dà origine allo smog, che corrode monumenti e opere d’arte, danneggia la vegetazione, irrita le vie respiratorie e i bronchi, talvolta uccide (cfr G. B. Marini-Bettolo, “L’inquinamento delle acque e dell’atmosfera”, loc. cit., 39).)).

A voler continuare, dovremmo parlare del turismo (quante volte, per incrementarlo inconsideratamente, si dà il via a piani di fabbricazioni e lottizzazioni di cui fanno le spese i parchi naturali, le spiagge, la bellezza nativa del paesaggio!), dell’inquinamento dell’acqua dolce e dell’acqua marina (quante volte, per un concetto sbagliato di risparmio, si preferiscono i danni incalcolabili dell’inquinamento alla spesa d’installare un depuratore!) ((, Secondo un’inchiesta del ministero della Marina mercantile, l’inquinamento raggiunge in Italia 1’87% delle località costiere; tale inquinamento è dovuto per il 60% alle fognature, per il 33% alle industrie, per il 7% alle imbarcazioni. Ogni giorno vengono versate in mare 10.000 tonnellate di idrocarburi! (cfr E. Bonnefous, “Un pericolo imminente: l’inquinamento delle acque marine”, loc. cit., 44).))e di altri casi numerosi. Ma l’accenno che vi abbiamo fatto è sufficiente a farci concludere che ci troviamo in presenza di una situazione seria e di una prospettiva terribile. Quanto basta a confermare la falsità del principio che sta alla base della mentalità tecnologica: di quel mito della massima produttività ad ogni costo, che causa e giustifica simili effetti.

La conclusione s’impone con evidenza: se applichiamo il principio del massimo rendimento, senza tener conto dei limiti naturali e umani a cui occorre subordinare ogni sforzo produttivo, ne risentono sia la natura, sia lo stesso conseguimento del benessere materiale. I danni fisici e biologici cui abbiamo accennato costituiscono, infatti, una perdita assai pesante pure sotto l’aspetto economico e industriale, sebbene nessuna azienda finora abbia avuto il realismo di iscriverla nel suo, bilancio, insieme ad altre diseconomie esterne. Secondo calcoli eseguiti in Europa occidentale, nel 1967 il costo economico di quei danni si aggirava già sui due miliardi di dollari((V. Caglioti, “Uomo e ambiente nella moderna società tecnologica”, loc. cit., 13.)).

È urgente, dunque, spezzare il circolo vizioso instaurato dalla ricerca del profitto per il profitto, rompere l’incantesimo della mentalità tecnologica, prima che le conseguenze negative raggiungano dimensioni irreparabili e rendano inabitabile l’habitat naturale dell’uomo((Cfr G. Nebbia, “Il futuro del nostro pianeta”, in “Futuribili”, n. 9-10 (aprile-maggio 1969), 39-51; Id., “Una nuova cultura per risolvere l’attuale crisi ecologica”, “Acqua e aria”, n. 13 (settembre 1970), 3-13. Per lo studio dedegli effetti negativi e delle prospettive positive della mentalità tecnologica dal punto di vista sociale, cfr. il nostro precedente articolo: “Per una critica cristiana della società tecnologica”, in Civ. Catt. 1970 III, 110-120.)).

Le tentazioni della crisi ecologica

La reazione istintiva dell’uomo di fronte alla prospettiva terribile della morte biologica è l’egoismo. Infatti, se consideriamo la crisi ecologica oltre che nel suo aspetto fisico, biologico ed economico anche sotto il profilo morale, essa si presenta soprattutto come crisi d’egoismo. In fondo, i problemi macroscopici che ne derivano su piano sociale che altro sono, se non tentazioni d’egoismo di chi vuol sopravvivere a costo di sacrificare la vita e i diritti altrui?

Prima fra tutte, Paolo VI denuncia la tentazione “di dedicarsi con autorità a diminuire il numero dei convitati, anziché a moltiplicare il pane che viene diviso “.

Decisamente contraria ad un controllo delle nascite, che, secondo la giusta espressione del nostro venerato predecessore il papa Giovanni XXIII, si farebbe con “dei metodi e dei mezzi che sono indegni dell’uomo”, la Chiesa chiama tutti i responsabili ad operare con audacia e generosità per uno sviluppo integrale e solidale, il quale, fra gli altri effetti, favorirà senza alcun dubbio un dominio cosciente della natalità attuato dai coniugi, divenuti capaci di affrontare liberamente il loro destino” (n. 6).

Il Papa condanna, perciò, quelle forme di birth control che vengono imposte “con autorità” o che richiedono il ricorso a “metodi e mezzi che sono indegni dell’uomo”. Questo anche perché – soggiunge più avanti Paolo VI – l’uomo non può mai essere sacrificato al benesere economico e, oltre tutto, sempre e solo lui può essere l’artefice- dello sviluppo:

Le più belle realizzazioni tecniche, e così i più grandi progressi economici, sono incapaci di produrre di per sé stessi lo sviluppo d’un popolo. […] Non si può far nulla a lungo termine senza l’uomo, si può invece con l’uomo tutto intraprendere e realizzare, perché la verità è che sono anzitutto lo spirito e il cuore a riportare le vere vittorie (n. 7).

La tentazione del potere e del prestigio è un’altra forma di egoismo, caratteristica della crisi ecologica che stiamo attraversando:

essa conduce al tragico assurdo di spingere gli uomini, anzi intere nazioni, ad impiegare somme favolose per le armi belliche a mantenere focolai di rivalità e di discordia, a realizzare operazioni di puro prestigio, mentre le enormi somme di danaro, così sperperate, potrebbero bastare, se ben impiegate, a trar fuori dalla miseria un buon numero di paesi (n. 9).

Anche i soprusi che si commettono nel commercio internazionale sono ricordati da Paolo VI come un modo egoistico di concepire i rapporti tra i popoli:

solo l’egoismo può spiegare lo scandalo consistente nell’acquisto, a prezzi minimi, della produzione dei paesi poveri da parte dei Paesi ricchi, i quali, a loro volta, vendono molto cari i loro prodotti a questi stessi Paesi poveri (n. 9).

Infine, il nazionalismo esasperato e il razzismo rappresentano la tentazione estrema d’un egoismo di gruppo, che impedisce la collaborazione internazionale ossia l’unica via efficace per evitare che la crisi ecologica degeneri in catastrofe:

questa, infatti, si potrà sventare a condizione che si verifichi il passaggio dalle economie di profitto, egoisticamente separate, ad un’economia solidaristica dei bisogni volontariamente assunti (n. 10)

È naturale che, dinanzi a questo quadro disumano del nostro tempo, l’interrogativo che- il Papa si pone risulti velato da una punta d’amarezza:

L’uomo che ha saputo assoggettare l’atomo e vincere lo spazio, saprà infine dominare il proprio egoismo? (n. 9)

Un problema di coscienza

Dunque, l’uomo non ha bisogno di difendere l’ambiente naturale solo per ragioni d’ordine fisico, biologico od economico. Non ne può fare a meno soprattutto. per il suo sviluppo personale e sociale, per la necessità che egli ha di pace, di sollievo, di·contemplazione, di amore. Specialmente a motivo di queste esigenze spirituali, l’utilizzazione delle risorse naturali diviene un grave problema di coscienza. e di cultura.

S’impone – dice il Papa – “un mutamento radicale nella condotta dell’umanità,·se questa vuole essere sicura della sua sopravvivenza”; non è più soltanto questione di dominare la natura: oggi l’uomo deve imparare a “dominare il suo stesso dominio” sulla natura, poiché “i progressi scientifici più straordinari, le prodezze tecniche più strabilianti; la. crescita economica più prodigiosa, se non sono congiunte ad un autentico progresso sociale e morale, si rivolgono, in definitiva, contro l’uomo” (n. 4).

Ma l’utilizzazione responsabile delle risorse naturali si pone all’uomo, in primo luogo, come un problema di coscienza, soprattutto perché esse sono proprietà comune di tutta l’umanità. Nessun individuo, dunque, nessun·popolo e nessuna generazione può appropriarsene indebitamente, dissiparle egoisticamente.

Questo principio della destinazione universale dei beni e della loro proprietà comune a tutti gli uomini è un cardine dell’insegnamento sociale. della Chiesa. Pio. XII non esita a considerarlo “il diritto fondamentale” dell’ordine naturale, al quale tutti gli altri sono subordinati((Pio XII, Radiomessaggio nel cinquantesimo della “R:erum novarum” (1° giugno 1941), nn. 7-8 (cfr. I. Giordani,Le encicliche sociali dei papi, vol. I: Da Pio IX a Pio XII, 4a ed., Roma, Studium, 1956, 723).)).

Il Concilio ha ripreso poi questa dottrina, approfondendola. La costituzione dommatica Lumen gentium parla del dovere che tutti abbiamo “secondo la disposizione del Creatore”, di operare affinché i beni creati ”siano fatti progredire dal lavoro umano, dalla tecnica e dalla civile cultura per l’utilità di tutti assolutamente gli uomini, e siano tra essi più convenientemente distribuiti”. Poiché se è vero che il Creatore ha profuso con larghezza divina nel mondo e nel cosmo i mezzi necessari al sostentamento dell’umanità, è altrettanto certo che egli lascia alla nostra intelligenza il compito di sfruttarli e d’incrementarli razionalmente e alla nostra coscienza la responsàbilità di non sciuparli, ma di amministrarne saggiamente la distribuzione, secondo le necessità presenti e future dell’umanità.

La costituzione pastorale Gaudium et spes afferma:

Dio ha destinato la terra e tutto ciò che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e popoli e pertanto i beni creati devono, secondo un equo criterio, affluire a tutti. […] Si deve sempre tener conto di questa destinazione universale·dei beni. Perciò l’uomo,·usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a 1ui, ma anche agli altri. A tutti gli uormni spetta il diritto·di avere una parte di beni sufficienti (n. 69).

Tuttavia, il fatto della comune proprietà dei beni necessari alla vita e della loro destinazione universale non implica soltanto il dovere di ripartirli con equità tra coloro che appartengono alla presente generazione; esso estende la nostra responsabilità pure nei confronti delle generazioni che seguiranno:

Eredi delle generazioni passate e, beneficiari del lavoro dei nostri con temporanei, noi abbiamo obblighi verso tutti, e non possiamo disinteressarci di coloro che verranno dopo di noi ad ingrandire la cerchia della famiglia umana. La solidarietà universale, che è un fatto,·e per noi un beneficio, è altresì un dovere. Se la terra è. fatta per fornire a ciascuno i mezzi della sua sussistenza e gli strumenti del suo progresso, ogni uomo ha dunque il diritto di trovarvi ciò che gli è necessario ((Paolo VI, Enciclica Populorum progressio, nn. 17, 22. Cfr. pure la cost. past. Gaudium et spes, n. 70.)).

A questo vincolo morale, che ci lega agli uomini. di tutti i tempi, si riferisce chiaramente Paolo VI nel suo discorso alla FAO, quando mette in rilievo la necessità della solidarietà universale:

Coloro che nel Duemila avranno la responsabilità del destino della grande farmglia umana, nascono ora in un mondo che ha scoperto tanto bene quanto male, la sua interdipendenza, la sua solidarietà nel bene nel male il suo dovere di unirsi per non perire, in breve, di operare insieme per edificare il comune futuro destino dell’umanità.

E conclude:

Il benessere è nelle nostre mani, ma è necessario volerlo costruire insieme, gli uni per gli altri e mai più gli uni contro gli altri (n. 5).

Un problema di cultura

In secondo luogo, l’utilizzazione razionale delle risorse naturali si pone oggi all’uomo come una scelta nuova di cultura. Affinché la difesa della natura sia possibile, si richiede quel cambiamento radicale di mentahta e di condotta dell’umanità, che Paolo VI sintetizza incisivamente nel dominio dell’uomo sul suo stesso dominio della natura. In altre parole, la nuova cultura della società tecnologica, di cui tutti avvertiamo la necessità, deve partire dalla premessa della preminenza dell’uomo sui risultati della scienza e della tecnica, ossia dal rifiuto di considerare il massimo rendimento come fine ultimo del progresso. Occorre sapersi accontentare, affinché tutti possano sopravvivere.

Questa dottrina essenziale al messaggio cristiano:

Sì, è una gran fonte di guadagno il sapersi accontentare! – esclama l’Apostolo nella 1a lettera a Timoteo – Poiché niente abbiamo portato in questo mondo e niente, senza dubbio, possiamo portar via. Quando abbiamo, dunque, il nutrimento e di che vestirci, di questo accontentiamoci. Quelli che vogliono arricchirsi cadono nella tentazione, nell’inganno e in molti desideri insensati e dannosi, che travolgono gli uomini nella rovina e nella perdizione. La cupidigia del danaro, infatti, è la radice di tutti i mali” (6, 6-10).

Il Concilio si è fatto eco dell’insegnamento costante della Chiesa sul dovere morale che abbiamo di accontentarci d’un livello di vita degno dell’uomo (questo; infatti, è il significato del termine tecnico µet? a?ta??e?a? usato da san Paolo), senza lasciarci prendere dalla cupidigia del danaro e dalla ricerca smodata del benessere in sé stesso:

Oggi più che mai, per far fronte all’accrescimento della popolazione e per rispondere alle crescenti aspirazioni del genere umano, giustamente si tende ad aumentare la produzione di beni nell’agricoltura e nell’industria e la prestazione dei servizi. Per ciò sono da favorire il progresso tecnico, lo spirito di innovazione, la creazione e l’ampliamento di nuove imprese, l’adattamento nei metodi dell’attività produttiva e lo sforzo sostenuto da tutti quelli che partecipano alla produzione, in una parola tutto ciò che possa contribuire a questo sviluppo. Ma il fine ultimo e fondamentale di tale sviluppo non consiste nel solo aumento dei beni produttivi né nella sola ricerca del profitto o del dominio, bensì nel servizio dell’uomo, dell’uomo integralmente considerato, tenendo cioè conto delle sue necessità di ordine materiale e delle sue esigenze per la vita intellettuale, morale, spirituale e religiosa; diciamo di ciascun uomo e di ciascun gruppo umano, di qualsiasi razza o zona del mondo ((Cost. past. Gaudium et spes, n. 64.)) .

E nell’enciclica Populorum progressio Paolo VI specifica:

Avere di più, per i popoli come per le persone, non è dunque lo scopo ultimo […]. La ricerca esclusiva dell’avere diventa un ostacolo alla crescita dell’essere. Ogni programma elaborato per aumentare la produzione, non ha in definitiva altra ragion d’essere che il servizio della persona […]. Non basta promuovere la tecnica perché la terra diventi più umana da abitare […]. La tecnocrazia di domani può essere fonte di mali non meno temibili che il liberalismo di ieri. Economia e tecnica non hanno senso che in rapporto all’uomo che devono servire (n. 34).

Coscienza e cultura, dunque, impongono oggi all’uomo di convertirsi dall’egoismo all’amore. Per superare la crisi ecologica e per sottrarci alla minaccia della morte biologica, non ci resta altra via che l’amore.

Amare e difendere la natura, innanzi tutto: “L’uomo può e deve amare anche le cose che Dio ha creato. Da Dio le riceve, e le guarda e le onora come se al presente uscissero dalle mani di Dio” ((Ivi , n. 37.)). Ma – aggiunge Paolo VI – amarla per l’uomo: “In nessun caso le preoccupazioni di ordine militare né le motivazioni di ordine economico permetteranno di sodisfare alle gravi esigenze degli uomini nel nostro tempo. È necessario l’amore per l’uomo” (n. 11).

Amare la natura per l’uomo oggi vuol dire compiere cose così concrete da sembrare banali. Significa rivalorizzare i terreni abbandonati; non sciupare senza motivo le risorse disponibili; favorire a costi minori l’uso dell’energia idroelettrica, che non inquina l’aria; vuol dire, insomma, spingere al massimo la produzione, ma senza oltrepassare egoisticamente quei limiti, oltre i quali il mondo non potrebbe più continuare ad essere una casa accettabile per l’uomo, per ogni uomo.

Amare la natura per l’uomo vuol dire, ancora, non accontentarsi di proibire le esplosioni atomiche nell’atmosfera, ma bandire per sempre la costruzione di armi atomiche, biologiche e chimiche, delle quali poi è pericoloso anche solo disfarsi; devolvere allo sviluppo dei popoli più arretrati le disponibilità dei popoli più favoriti; organizzare sotto un’autorità soprannazionale lo sfruttamento e la distribuzione delle risorse naturali fra tutte le nazioni della terra. Il problema della crisi ecologica è di tale natura che si potrà solo risolvere mediante la cooperazione internazionale.

In una parola, amare oggi significa riscoprirci fratelli della natura e del mondo: quello di oggi e quello di domani. Ciò insegna il messaggio cristiano. “Questa parola di amore è la nostra – ripete al mondo la Chiesa per bocca di Paolo VI -. Noi ve l’affidiamo umilmente come il nostro tesoro più caro (n. 11).