Dossier “1970” — La grande reazione a catena: la “rivoluzione ecologica” nel 1970 e dintorni

Secondo capitolo dell’opera dello storico tedesco Joachim Radkau, Die Ära der Ökologie. Eine Weltgeschichte , München, C. H. Beck, 2011, tradotto da Laura Novati e Luigi Piccioni a partire dall’edizione inglese: The Age of Ecology. A Global History , Cambridge, Polity Press, 2014.

L’anno del trionfo

Quando nel 1970 Max Nicholson, uno dei primi pionieri della conservazione, pubblicò il saggio The Environmental Revolution, scelse un sottotitolo che esemplifica bene la fascinazione di quegli anni per il potere globale: A Guide for the New Masters of the World. Ancora trent’anni dopo Martin Holdgate, direttore generale della IUCN dal 1988 al 1994 e l’uomo che forse ha più familiarità con la storia della conservazione e dell’ambientalismo, si riferisce agli anni dal 1966 al 1975 come a quelli dell'”esplosione ambientale”. Ma già nel 1970, pochi mesi dopo il primo sbarco sulla luna, lo stesso Nicholson scriveva:

L’orgoglio di aver raggiunto la luna è annullato dall’umiliazione di essersi spinti fino a fare del nostro pianeta uno slum. Improvvisamente, però, la lunga lotta di una piccola minoranza per assicurare la conservazione della natura è stata raggiunta e soverchiata da un’ampia ondata di risveglio dell’opinione pubblica. […] I vecchi valori, le abitudini di pensiero e le pratiche consolidate vengono messi in discussione in tutto il mondo.

E tutto questo, secondo Nicholson, costituiva una vera e propria rivoluzione: la “rivoluzione ambientale”.

È paradossale come l’effetto principale dei viaggi nello spazio sia stato quello di renderci consapevoli di quanto sia vuoto il cosmo e che le immagini del nostro “pianeta azzurro” – con la sua atmosfera vulnerabile e sottile come un’ostia – abbiano generato una nuova preoccupazione: quella per l'”astronave Terra”, espressione coniata dagli ambientalisti e divenuta presto uno slogan molto popolare. Ma un’astronave ha bisogno di un capitano per impedire che si schianti e possiamo scorgere anche qui – nascosta all’interno di una visione globale – un’idea forte di potere.

Curiosamente, tuttavia, Nicholson – che meglio di ogni altro conosceva la logica della lunga durata – non non si preoccupava di offrire spiegazioni su come si fosse generata questa improvvisa svolta. Egli arrivava ad ammettere che “le rivoluzioni, sfortunatamente, sanno cogliere di sorpresa gli stessi rivoluzionari” facendo perdere loro la capacità di previsione e di controllo, ma ignorava la famosa affermazione del girondino Vergniaud secondo cui la rivoluzione, come Saturno, divora i propri figli. Un’affermazione che si sarebbe rivelata appropriata anche nel suo caso, dato che egli sarebbe stato presto dimenticato persino negli ambienti dell’ecologismo: quarant’anni dopo la pubblicazione in diverse lingue, il suo The Environmental Revolution si può infatti oggi trovare su Internet a pochi centesimi.

Cosa possiamo inferire da tutto questo? che la “rivoluzione ambientale” non è mai avvenuta oppure che il profondo oblio in cui è sprofondata è segno di un drammatico cambiamento di orizzonte?

Nel 1986 Edward Goldsmith e Nicholas Hildyard (redattori di “The Ecologist”) pubblicarono una raccolta intitolata Green Britain or Industrial Wasteland?, un duro attacco alla tesi che la Gran Bretagna fosse un paese all’avanguardia delle politiche ecologiche. Anche questo libro può oggi essere acquistato per un centesimo su Internet: la deindustrializzazione che ha avuto luogo in Gran Bretagna a partire dagli anni ’80 fa infatti apparire esagerate molte di quelle denunce relative all’inquinamento industriale. Nel 1987 Nicholson pubblicò un altro libro dal titolo The New Environmental Age con una prefazione del Duca di Edimburgo. In questo libro non si parlava più di rivoluzione, bensì di “interazioni decentrate” e nella galleria d’onore riservata ai “pionieri della conservazione” Nicholson elencava nomi in gran parte dimenticati da tempo.

È vero anche che, suscitando l’irritazione degli ambientalisti di lungo corso, le decine di migliaia di giovani entusiasti che il 22 aprile 1970 celebrarono la Giornata della Terra a Washington e in molte altre città credettero di essere i primi ad avvertire le gravi minacce alla natura; gran parte di loro ignorava infatti la lunga lista dei loro predecessori. Proprio per questo motivo che molti storici ambientali hanno cercato di dimostrare l’inesistenza di questa sorta di “ground zero”: le radici dell’ambientalismo risalgono in realtà a un periodo così remoto che uno storico è spesso esaurito quando arriva all’anno 1970.

Ciononostante, a più di quarant’anni di distanza sembra del tutto fuori luogo sottovalutare l’importanza di quello spartiacque.

Un caso interessante è quello di Frank Uekötter che ci ha fornito il resoconto più dettagliato delle campagne antifumo nelle città tedesche e americane dal diciannovesimo secolo in poi. Uekötter descrive una “rivoluzione pacifica” e una poco appariscente ma irresistibile crescita del “principio di precauzione” nel corso degli anni ’60 e osserva come negli anni immediatamente successivi al 1970 ciò non portò a novità sostanziali in termini di misure efficaci. In questo periodo si verificò piuttosto un grande attivismo legislativo che finiva però per sfociare in un sistematico caos nella pratica amministrativa quotidiana. Pur osservando tutto questo Uekötter non esita a parlare di una “rivoluzione ecologica” o addirittura di un “big bang ecologico” durante il quale quale molti conservazionisti iniziarono a sentirsi superati dai nuovi “ambientalisti” e si lamentarono di aver fatto le stesse cose per molto tempo senza suscitare altrettanto scalpore. Trent’anni dopo, con il senno di poi, il grande vecchio della conservazione bavarese, Hubert Weinzierl, ha ammesso che “solo il cambiamento di tono nella politica sociale intorno alla fine degli anni ’60 ha potuto creare un terreno favorevole a nuovi movimenti sociali, e quindi a un attivismo di lungo periodo. L’Anno europeo della conservazione, nel 1970, vide l’emergenza significativa di una visione globale in cui la terra era riconosciuta come la casa comune di tutte le creature viventi”.

Appare chiaro insomma che la “rivoluzione ecologica” del 1970 e degli anni intorno al 1970 ha segnato un punto di svolta reale e non è stato uno pseudo-evento. Nonostante il termine “rivoluzione” possa far pensare a una vicenda intessuta principalmente di eventi drammatici e questo sarebbe sicuramente fuorviante, prendere in considerazione una serie di date e di fatti per lo più trascurati dai libri di storia e metterli in sequenza è comunque un esercizio utile in quanto la loro sequenza già di per sé offre indicazioni interessanti. […] Spesso è infatti utile conoscere i fatti precisi e la loro successione temporale in quanto ciò fornisce una traccia per ricostruire cause ed effetti. Ma ciò che si rivela forse decisivo non è la loro relazione causale quanto piuttosto gli effetti di reciprocità e di sinergia. Se non consideriamo questi ultimi corriamo infatti il rischio di lasciare isolati i dati, di non cogliere le azioni più importanti o gli attori chiave, di non distinguere ciò che è centrale e ciò che è secondario, ciò che deve o non deve rientrare nel quadro.

Un semplice elenco di dati permette di lasciare aperte molte domande e permette di dare risposte del tipo “Sì, ma” o “No, ma” anche a domande precise e importanti. Sembra anzitutto banale ricordare che l’impulso più forte per il nuovo ambientalismo è venuto dagli Stati Uniti, anche se ciò in seguito è stato spesso dimenticato in Europa specialmente dopo che l’America sotto la presidenza di Reagan e di Bush Jr. è diventato un bastione reazionario. La primogenitura statunitense deriva non solo dalla combattività mostrata dalla società civile, ma anche dal fatto che lo sfruttamento delle risorse era stato là a lungo particolarmente spietato: in Germania l’irrorazione di DDT dagli aerei è avvenuta infatti solo nella RDT e nel 1970 si venne a sapere che nei cadaveri americani erano immagazzinate quantità molto più elevate di DDT di quelle accertate nei cadaveri della Germania occidentale.

In ogni caso fra gli Stati Uniti e i loro alleati europei si trovò presto un terreno comune sui temi ambientali. Gli ambientalisti americani che chiedevano l’intervento governativo – e venivano per questo denunciati come criptocomunisti – potevano presentare documenti provenienti dall’altra parte dell’Atlantico per dimostrare che il welfare era in realtà una buona e vecchia tradizione occidentale. Di rado gli europei hanno ricevuto complimenti così sentiti da un americano per la loro consapevolezza ambientale come capitò con Jeremy Rifkin, pioniere della riflessione sull’ambiente e sulla tecnologia. In Europa un ruolo di primo piano toccò presto alla Repubblica federale tedesca, dove l’attivismo ambientale assunse una dimensione analoga a quella statunitense. In precedenza in prima linea sulle questioni “verdi” c’era la Gran Bretagna con le sue politiche per il paesaggio, la natura e la protezione degli uccelli. Anche se in questi settori essa ha continuato ad essere forte e ben organizzata è rimasta invece indietro in settori nuovi come la lotta contro il nucleare, le emissioni e le piogge acide e sul continente gli inglesi sono stati visti come un freno fin quando il nuovo dinamismo verde non ha avuto impatto diretto anche sulle isole britanniche.

La svolta ecologica in Estremo Oriente

Se i “semplici fatti” sembrano dimostrare che la “rivoluzione ecologica” del 1970 è stata in prevalenza occidentale è vero anche che essa si trasmise immediatamente al paese non occidentale che aveva avuto il maggior successo nel tenere il passo con l’Occidente sul piano industriale: il Giappone. Fino a quel momento la “cultura del silenzio” giapponese si era applicata anche agli scandali ambientali – e per quanto riguarda il nucleare essa è durata fino a Fukushima – ma da allora le proteste locali iniziarono ad avere un’ampia risonanza pubblica. Almeno per quanto riguarda alcuni casi eclatanti di inquinamento una parte dei media giapponesi e delle élite di governo fece un drammatico voltafaccia è tentò di accreditare il Giappone come un paese guida nell’affrontare la crisi ecologica a livello internazionale. Già nel 1956 il “morbo di Minamata” causato dalle emissioni di mercurio della società chimica Chisso aveva scioccato l’opinione pubblica locale, ma in breve tempo una coltre di silenzio si era stesa sulla vicenda. Nel 1969, invece, Paradise in the Sea of ??Sorrow di Ishimure Michiko divenne un bestseller e, come era già successo aSilent Spring di Rachel Carson, fu paragonato a La capanna dello zio Tom. Con una differenza: mentre la primavera di Rachel Carson che non risuonava più del canto degli uccelli era almeno in parte una metafora, le sofferenze umane descritte dallo scrittore giapponese erano reali. Anche la successiva protesta in Germania, basata sullo slogan “prima muore la foresta e poi l’uomo”, si basava su un’apocalisse immaginaria mentre invece a Minamata prima i gatti e poi gli esseri umani erano davvero morti. Gli ambientalisti giapponesi non furono tuttavia i soli a lanciare l’allarme riguardo al mercurio: anche il biologo Barry Commoner – cui fu dedicata il primo febbraio 1970 la copertina di “Time”, altro eloquente segnale della svolta ecologica – incentrò le sue campagne sul mercurio, i cui pericoli, noti fin dall’antichità, erano enormemente cresciuti a causa della rapida espansione della chimica di sintesi.

A questo si aggiunga che mentre l’Unione Sovietica e i suoi satelliti boicottarono la Conferenza sull’ambiente di Stoccolma del 1972 a causa dell’esclusione della DDR – cosa che non impedì a Mosca e Washington di firmare un accordo sulla protezione dell’ambiente – la Repubblica Popolare Cinese decise di parteciparvi presentandosi come una voce molto critica che definiva il “neocolonialismo” come il principale pericolo per l’ambiente e dichiarando al tempo stesso che non voleva avere nulla a che fare con il controllo delle nascite o con il divieto di test sulle armi nucleari. In realtà il flusso di informazioni uscito dalla conferenza di Stoccolma riguardo ai rischi ambientali finì con l’avere un impatto duraturo sulla Cina. Dieci anni dopo Qu Geping, uno dei delegati cinesi a Stoccolma e a partire dal 1973 vicedirettore di un’agenzia statale per la tutela ambientale di recente creazione, dichiarò senza mezzi termini che il vertice di Stoccolma era stato un “punto di svolta” nella storia del mondo e che da quel momento “l’ambientalismo cinese era entrato una nuova fase di sviluppo”. Aggiunse inoltre che la Cina aveva attivamente sostenuto la conferenza e aveva imparato molto da essa tanto che la prima conferenza nazionale sull’ambiente del 1973 si era ispirata a quella di Stoccolma. Se da una parte il governo maoista continuava a dichiarare che il controllo delle nascite era uno strumento reazionario malthusiano, la Cina iniziò a spaventare gli attivisti occidentali per i diritti umani proprio per il carattere draconiano delle sue politiche demografiche. Nel 1994 Qu Geping ha poi pubblicato una storia ambientale della Cina, nella quale l’aumento della popolazione nel corso di migliaia di anni è stato presentato come una perenne dannazione che ha esaurito il suolo del paese.

L’Unesco e i viaggi nello spazio: il pianeta come realtà e come finzione

Il riferimento a Stoccolma 1972 ci permette di valutare l’importanza delle conferenze internazionali e in generale della comunicazione transnazionale. Per chi apprezza soltanto le realtà tangibili e gli effetti concreti – come fanno molti attivisti ambientali che non si limitano a tenere grandi discorsi ma vogliono ottenere qualcosa di visibile – il livello internazionale ha qualcosa di immaginario e disincarnato, e c’è sempre il sospetto che i grandi summit globali equivalgano sostanzialmente a una nuova specie di turismo. In gran parte della letteratura sull’ambientalismo statunitense, la conferenza di Stoccolma o non compare affatto o ha una posizione marginale; in questo caso prevale il desiderio di considerare il movimento ambientalista nel suo genuino carattere americano. In Europa, al contrario, il vertice ha dato stimoli e forza all’ambientalismo sin dal momento in cui l’Assemblea generale delle Nazioni Unite lo ha approvato, nel 1968. Proprio in vista della conferenza diversi paesi, dalla Francia alla RDT, cercarono di migliorare la propria politica ambientale. All’inizio del 1972 – quattordici anni prima che lo facesse la Repubblica Federale – Berlino Est creò ad esempio un ministero dell’ambiente anche se sono tuttora disponibili poche informazioni sulla sua attività. […]

Anche la retorica basata sullo slogan “Una sola Terra” fu determinante per il nuovo movimento ambientalista emerso dalla seconda metà degli anni ’60. Le foto dallo spazio fornirono un’immagine concreta del “pianeta blu” e della sua atmosfera tanto che, nonostante l’ecologia del tempo fosse ancora lontana dal dare una sostanza scientifica all'”ecosistema Terra”, la visione del pianeta cambiò completamente rispetto al passato. Per ironia della sorte negli anni ’60 il successo stesso dei voli spaziali contribuì a demolire le loro principali aspettative e non c’è quindi da stupirsi che la NASA sia arrivata solo con riluttanza ad abbandonare l’idea dell’esistenza della vita su Marte. Se le persone più ricche di immaginazione degli anni ’50 avevano creduto che si sarebbe potuto emigrare verso altri corpi celesti nel caso che le condizioni sulla Terra fossero diventate troppo difficili, i viaggi nello spazio dimostrarono quanto lo spazio sia vuoto e senza vita e che questo nostro pianeta è tutto ciò su cui possiamo contare.

In un certo senso si trattò di una “svolta copernicana” al contrario: mentre da Copernico in poi la Terra era stata considerata solo un pianeta tra gli altri, ora era di nuovo qualcosa di unico nel cosmo, qualcosa di bello e vulnerabile allo stesso tempo. Nel 1966 Barbara Ward pubblicòSpaceship Earth, e il suo successivo Only One Earth: The Care and Maintenance of a Small Planet (1971), scritto in collaborazione con il microbiologo René Dubos e con l’aiuto di consulenti di cinquantotto paesi, fu il libro-guida per la conferenza di Stoccolma. Per apprezzare il cambiamento nell’orizzonte globale, è sufficiente ricordare come nel 1911 Hermann Löns aveva etichettato sprezzantemente il conservazionismo come “insignificante” mentre adesso chi guidava una campagna contro l’inquinamento di un fiuimiciattolo lo faceva nell’orgogliosa convinzione di star contribuendo a salvare il mondo.

Se nell’analisi del nuovo ambientalismo ci si concentra solo sui movimenti di base trascurando gli impulsi dall’alto e le sue caratteristiche elitarie si rischia di perdersi la metà e più dell’intera storia. I semplici fatti parlano da soli: nei media tedeschi degli anni ’70 e ’80, il mondo dell’ecologia veniva identificato – soprattutto dagli oppositori – con un’immagine di outsider e di hippy dalla valenza molto locale e circoscritta. Quella che spesso veniva vista come una sottocultura era invece un segmento della nuova cultura alta: l’impegno ambientale finiva in genere per collocare i suoi protagonisti nella buona società, anzi nella migliore, una società che non si distingueva peraltro per idealismo. La probabilità che le sue figure di spicco avessero un background autorevole era molto alta: l’uomo d’affari canadese Maurice Strong, primo direttore esecutivo dell’UNEP, segretario generale della conferenza di Stoccolma e due decenni dopo del vertice di Rio, proveniva dal settore petrolifero e dell’energia e Aurelio Peccei, “l’uomo forte” del Club di Roma e deus ex machina dietro i Limiti dello sviluppo, era direttore della sezione latinoamericana della Fiat e capo della Olivetti. Per un neo-marxista del movimento studentesco del ’68, molti dei protagonisti dell’ambientalismo potevano apparire a un primo sguardo bizzarri e sconcertanti, per usare un eufemismo.

La politica in primo piano

A partire dalla metà degli anni ’70, dopo la grande frattura sul nucleare, il movimento ambientalista riuscì a mobilitare un gran numero di persone, compresi molti sessantottini. La sequenza degli eventi mostra, tuttavia, che almeno nella Repubblica Federale Tedesca l’elemento di riferimento restava la politica istituzionale. Già nel 1969, “l’ambiente” aveva avuto un suo proprio peso nelle elezioni politiche, e il 7 novembre, in un incontro politico con Genscher, il nuovo ministro degli interni, si discusse di un “conservazionismo” in stile americano, cioè del coordinamento e della gestione unitaria di varie iniziative regionali che in precedenza erano gestite separatamente. In seguito, gli avversari dell’ambientalismo ipotizzarono persino l’esistenza di una campagna di isteria ambientale concertata dai media sensazionalisti, ma non riuscirono a fornirne le prove.

“Der Spiegel”, cui è stato spesso attribuito un ruolo di apripista, pubblicò la prima copertina “ambientale” il 5 ottobre 1970 chiedendo un “ripensamento profondo” ma rilevando che, mentre “i primi segni di questo ripensamento erano visibili in USA, Giappone e Svezia”, fino a quel momento “nella Repubblica Federale non ve n’era il minimo sentore”. Una messe di studi storici mostra oggi che molte componenti della nuova “consapevolezza ambientale” risalgono a più di un secolo fa; la citazione di “Spiegel” è quindi indicativa di come quella preistoria fosse totalmente ignorata dagli stessi intellettuali critici riformisti tra cui reclutava i suoi lettori.

Gli eventi successivi confermarono – anche se non del tutto – la fiduciosa affermazione del ministro degli Interni del 1969 di aver “inventato il movimento ambientalista”. L’iniziativa del ministero si dovette in origine a Peter Menke-Gluckert, un burocrate completamente anti-burocratico (più un think-tanker che un dipendente pubblico) capace di riferirsi ai colleghi come a dei “burocrati” e che usava il dinamismo ambientale transfrontaliero per sconvolgere le routine amministrative. Quando si presentava da qualche parte, nessuno sapeva se si trovava lì come dipendente pubblico o a titolo personale. A modo suo – e anche questo era tipico degli ambientalisti di nuovo stile – combinava la critica alla cieca ossessione della crescita con l’ottimismo progettuale degli anni ’60, la futurologia allora di moda e un’insistenza sull’importanza della scienza e dei “sistemi” in politica, e tutto ciò costituiva il retroterra del suo entusiasmo per la “politica ambientale”. Menke-Gluckert aveva importato questa nuova tendenza direttamente dagli Stati Uniti, conosceva il mondo meglio della maggior parte dei funzionari del ministero degli interni di Bonn ed era direttore della Divisione delle Risorse Scientifiche dell’OCSE, che a differenza della CEE era piuttosto avanzata sulle questioni ambientali. In quest’ultima veste aveva partecipato alla Conferenza sulla biosfera dell’UNESCO a Parigi nel 1968. Una volta ebbe a dire che la sua “salda competenza organizzativa” l’aveva appresa dall’America e la sua “alta coscienza della libertà” dall’OECD.

Menke-Gluckert incarnava insomma il nuovo stile della prima era Brandt. Quest’ultimo utilizzò del resto più volte nei suoi discorsi la nuova parola d’ordine “qualità della vita”, anche se resta l’impressione che per quanto genericamente aperto alle nuove tendenze egli non fosse influenzato dal movimento ambientalista. Brandt viveva infatti ancora immerso nelle idee della modernità e capiva meglio il romanticismo rivoluzionario del ’68 di quanto non capisse la nuova enfasi sulla natura. Come sindaco di Berlino Ovest avrebbe voluto costruire una centrale nucleare su un’isola del Wannsee in modo che la sua parte di città potesse disporre di una propria fonte di elettricità – un progetto mai discusso in sede pubblica bocciato da Bonn quando fu chiaro che i berlinesi occidentali avrebbero dovuto essere evacuati nella RDT in caso di grave incidente (si era pochi anni dopo la costruzione del Muro). Sempre all’inizio degli anni ’70, Brandt sostenne un progetto BASF per una centrale nucleare vicino alla città che anche i membri della “comunità” nucleare ritenevano discutibile e che alla fine finì insabbiato. Olof Palme (Svezia) e Bruno Kreisky (Austria), altri due carismatici leader socialdemocratici degli anni ’70, sostenevano anch’essi l’energia nucleare sulla base di una visione tradizionale del progresso. Solo la ridefinizione dei termini “sinistra” e “progressista” da parte degli oppositori del nucleare riuscì a metterli di fronte ai dilemmi più gravi del loro mandato. Va detto in ogni caso che la nuova Ostpolitik di Brandt contribuì probabilmente al formarsi di quel clima più favorevole in cui la politica ambientale ebbe modo di fiorire.

Non si può negare, in ogni caso, che un impulso decisivo venne dal basso. Le Bürgerinitiativen, cioè i gruppi d’iniziativa civici, si moltiplicarono intorno al 1970 e lo fecero con tale successo che nel 1972 fu possibile creare un’organizzazione ombrello: il Buverband Bürgerinitiativen Umweltschutz (BBU). In molti casi lo scenario della “comunicazione ecologica” di Niklas Luhmann non era applicabile. Molte iniziative non erano genericamente rivolte alla “società” – che, come ha detto lo stesso Luhmann con una battuta, non ha né un indirizzo né un telefono – ma alle autorità competenti e questo d’altro canto è stato proprio uno dei pregi della nuova politica ambientale, anche quando non ha avuto efficacia diretta. Senza la mobilitazione della società civile la politica ambientale sarebbe stata nient’altro che una moda passeggera destinata ad essere abbandonata dal successore di Brandt, Helmut Schmidt. I responsabili della politica ambientale di Bonn erano consapevoli almeno quanto le loro controparti americane che senza le Bürgerinitiativen avrebbero combattuto una battaglia persa.

Negli Stati Uniti, culla della politica ambientale, il “movimento” era più avanzato che in Germania. Si trattava tradizionalmente più di iniziative di élite sociali in contatto con il governo che di rivolte dal basso ma alla fine degli anni ’60 accanto al più vecchio Sierra Club, più orientato al consenso, all’Audubon Society e alla Wilderness Society si affermarono forze nuove e più combattive. Esse si muovevano in consonanza con il contemporaneo movimento per i diritti civili e con le proteste contro la guerra del Vietnam, ma riflettevano anche una situazione in cui i vecchi sistemi di mobilitazione comunitaria sperimentati nelle campagne contro il fumo e l’inquinamento delle acque del vicinato non funzionavano più come prima. Né i gas di scarico delle auto, né le ricadute radioattive o il DDT disperso nell’atmosfera, né il crescente flusso di emissioni industriali che le persone non potevano vedere né percepire con l’olfatto si potevano più affrontare con le precedenti modalità di ricerca del consenso. Il nuovo ambientalismo doveva fare i conti non solo con i rifiuti in sé, ma anche con fenomeni come le grandi discariche che erano spuntate senza controllo in tutte le parti del mondo.

Leader che puntano in direzioni diverse: David Brower e Barry Commoner

Era un segno dei tempi quello che vide David Brower (1912-2000), un carismatico fascio di energia – uno storico lo chiamò il “Bismarck”, un altro l'”arcidruido” degli amanti della wilderness, attaccare il Sierra Club (di cui pure era stato direttore esecutivo dal 1953) per il suo modo codardo di operare e per l’eccessiva disponibilità al compromesso, distaccandosene per fondare Friends of the Earth che si trasformà presto in un’organizzazione internazionale. Agli occhi dei suoi ammiratori, Brower era nientemeno che l'”inventore dell’ambientalismo americano moderno” per quanto non fosse ovviamente l’unico candidato a quel titolo. In cuor suo Brower era soprattutto un appassionato amante della wilderness ed era quindi disposto, se si fosse presentata l’occasione, a dichiarare guerra aperta al servizio forestale e ai progetti di dighe del Bureau of Reclamation. Alla fine degli anni ’60 aderì anche alla campagna contro l’energia nucleare, e anche allora si sentì deluso dal Sierra Club, la cui unica ossessione era mantenere i canyon dell’Ovest liberi dalle centrali idroelettriche e che vedeva di conseguenza l’energia nucleare come un gradito sollievo (per lo stesso motivo la maggior parte della vecchia generazione di ambientalisti in Svizzera e nell’Alta Baviera era filo-nucleare). Friends of the Earth creò successivamente la prima rete transnazionale di informazione anti-nucleare e gli esperti di comunicazione statunitensi furono decisivi nel dare aiuto agli oppositori della lobby atomica in altri paesi, lobby che cercava di presentare chiunque la contraddicesse come incompetente.

Nel 1970, secondo “Time Magazine”, molti americani vedevano Barry Commoner come il leader del nuovo, combattivo “ambientalismo”. Microbiologo di formazione ma sempre più insoddisfatto della disciplina incarnava a pieno titolo, più di molti colleghi, il nuovo tipo di “politico-scienziato” critico. Già attivo alla fine degli anni ’50 nella campagna contro i test sulle armi nucleari e poi nel movimento contro la guerra del Vietnam, si differenziava da Brower nell’essere un portavoce della Nuova Sinistra. Non era un prodotto del vecchio romanticismo della wilderness ma rappresentava un nuovo stile di protesta conservazionista che aveva allargato l’attenzione dalle armi nucleari alla tecnologia nucleare civile. “Tutto è connesso a tutto” è stata la sua “prima legge dell’ecologia”: ha così evitato di fissarsi su un solo rischio, denunciando le emissioni di mercurio ma lanciando al contempo avvertimenti sull’impatto sui fiumi dei detergenti a base di fosfati. Secondo lo storico della scienza Donald Fleming, diffidente del nuovo ambientalismo apparso tra i suoi colleghi, il resoconto enfatico fatto da Commoner nel 1968 sulla “presunta ‘uccisione’ del lago Erie” da parte dei fosfati fu “probabilmente la più famosa storia dell’orrore del Nuovo Movimento per la conservazione “.

Sebbene intorno al 1970 Brower e Commoner fossero entrambi attivi nella campagna antinucleare sembra stranamente che non si siano frequentati. Commoner non viene mai citato nell’autobiografica di 550 pagine di Brower, e secondo la biografia di Commoner scritta da Michael Egan essi si incontrarono solo una volta dopo che Brower incoraggiò Paul Ehrlich a scrivere la sua Population Bomb, un libro che peraltro innescò un’accesa discussione proprio con Commoner. Allo stesso modo, in Inghilterra, Max Nicholson ed Ernst F. Schumacher – l’autore del libro cult Small Is Beautiful (1973), all’epoca il più importante teorico economico sulla scena ecologica – sembrano essersi ignorati a vicenda.

Questa circostanza evidenzia un punto importante che fino ad oggi ha ricevuto poca attenzione. Le varie organizzazioni ambientaliste americane non si sono fuse in un unico grande movimento ma troppo spesso, in modo aperto o più discreto, hanno sviluppato un’accesa rivalità nella raccolta di fondi e nella ricerca di pubblicità. Sono sempre stati necessari stimoli esterni o emergenze per realizzare la messa in rete delle iniziative; i politici sono diventati poi gli l’interlocutore comune e spesso anche l’avversario condiviso capace di riportare unità in un mondo tendenzialmente centrifugo.

L’Earth Day

L’Earth Day, la Giornata della Terra, celebrata per la prima volta il 22 aprile 1970 e in seguito poi con cadenza annuale in molte città americane, fu percepita dall’opinione pubblica come una spettacolare inaugurazione della nuova eco-era e, nelle parole del suo coordinatore nazionale Denis Hayes, “la più grande dimostrazione organizzata nella storia umana”. Le sue origini risalgono a un’iniziativa di un senatore democatico del Wisconsin, Gaylord Nelson. Una delle più grandi ironie nella storia dell’ambientalismo è che esso ha ricevuto il primo grande impulso proprio sotto il presidente Nixon, cioè quello che gli intellettuali riformisti chiamavano il “nano tossico”: l’Environment Protection Agency è stata infatti creata proprio durante il suo mandato e altre leggi fondamentali sono stati approvate in quel periodo. Di suo Nixon non avrebbe mai avuto un’idea del genere né era particolarmente orgoglioso di questi provvedimenti tanto che a volte ne parlò in modo cinico, ma di fronte al disastro vietnamita ebbe bisogno di un tocco di progressismo per sottrarre terreno ai suoi avversari e per questo fine l’ambientalismo arrivò al momento opportuno. Dietro Nixon c’era un attivista ambientale esperto che conosceva dal 1955, Russell E. Train, che era stato fondatore dell’African Wildlife Leadership Foundation ed era ora presidente del President’s Council of Environmental Quality. L’importanza dei singoli attori non deve mai essere sottovalutata.

Tenendo conto delle controversie successive, è sorprendente come il National Environmental Policy Act (NEPA) – il provvedimento che ha creato l’EPA e che ha richiesto alle autorità federali il controllo di tutte le principali misure di verifica di impatto ambientale – sia passato al Congresso senza lunghi dibattiti o pressioni: in quel primo periodo “l’ambiente” sembrava ottenere un ampio consenso con grande facilità. Si arrivò al punto che l’edizione tascabile di Silent Spring apparve con una citazione di Nixon in copertina, ma già nel 1972 egli prese le distanze dall’ambientalismo quando comprese che il suo gioco era invico a gran parte del mondo degli affari repubblicano. Senza un movimento ampio ma anche senza le istituzioni nate in quel periodo l’ambientalismo sarebbe stato presto una storia dimenticata, tanto a Washington quanto a Bonn.

In seguito si è spesso sostenuto che la principale novità del movimento ambientalista sia stata il suo “postmaterialismo disinteressato”. Se così fosse, le sue attuali prospettive sarebbero fosche poiché sulla scia della crisi economica la sicurezza materiale è tornata ad essere la principale preoccupazione. La verità è piuttosto che nel 1970 l’amore (apparentemente) disinteressato per la natura e l’entusiasmo per la wilderness erano tutt’altro che nuovi; essi erano invece il leitmotiv di un conservazionismo istituzionalizzato da tempo che ora si trovava oscurato da nuove lotte. La decisione di convocare la Conferenza di Stoccolma era stata presa nel 1968 alla Conferenza sulla biosfera dell’UNESCO a Parigi e la nuova parola chiave “biosfera” evocava non solo il vecchio ideale della wilderness ma una natura a misura d’uomo in cui valeva la pena vivere: qualsiasi altro modello sarebbe stato in quel momento non accoglibile nel mondo delle Nazioni Unite in un momento in cui regioni dell’Africa e dell’Asia erano minacciate dalla carestia. È stato solo perché la posta in gioco non era una legge di natura ma il benessere dell’uomo o addirittura la sua sopravvivenza che l’ambientalismo ha potuto acquisire un potenziale politico, soprattutto in ambito internazionale. La “qualità della vita” era un ideale tipico della prima era ecologica. Molto di ciò che un tempo era incluso sotto la voce “sanità” o “salute pubblica” confluì nel nuovo ambientalismo e gli diede forza politica. Un altro segno dei tempi si ebbe significativamente quando la pubblicità delle sigarette fu vietata alla radio negli Stati Uniti, nel 1971. Le vecchie campagne antifumo non erano mai arrivate al punto di prendere di mira il fumo in sé e da quel momento in poi gli allarmi ambientali più efficaci avrebbero riguardato gli inquinanti pericolosi per la salute.

Al contempo, tuttavia, le iniziative ambientali presero di mira i metodi di riqualificazione urbana, un’eredità del vecchio movimento per l’igiene pubblica. Tali metodi non trovavano posto in una visione strettamente ecologica ma in realtà le proteste contro la distruzione di strutture urbane consolidate sono state spesso molto importanti per il movimento. Non c’è nella letteratura tedesca un’opera paragonabile a Silent Spring di Rachel Carson, ma se si dovesse trovare qualcosa di analogo potrebbe probabilmente trattarsi di Unwirtlichkeit unserer Stadte [L’inospitalità delle nostre città] (1965) di Alexander Mitscherlich. L’orrore per la situazione insopportabile creata dall’automobile fu infatti uno dei temi ambientali chiave nei media negli anni ’60, non solo nella Germania occidentale, quando ancora si cercavano nuove strategie per risolvere il problema. Se l’articolo di “Der Spiegel” 35 (1969), “Wucher mit dem Quadratmeter” [Approfittando del metro quadrato] suggeriva che il regime giuridico delle espropriazioni fosse ampliato per consentire un’espansione della rete autostradale due anni dopo, il titolo del numero 27 (1971), “Massentod auf Deutschlands StraBen” [Morte di massa sulle strade tedesche], con una bara in copertina, dava un nuovo chiaro: fine alla follia della velocità!

Alla base la paura e i disastri?

Negli anni seguenti si è spesso sentito dire che la nuova consapevolezza ambientale ha avuto origine nella paura, nei traumi o – come hanno detto le voci critiche – nell’isteria. Oggi ci siamo abituati alle notizie sui guasti ambientali, ma quando tali notizie non erano ancora frequenti l’orrore che suscitavano era davvero grande. Forse l’aspetto cronologicamente più importante, tuttavia, è che nessun disastro ambientale può essere in alcun modo identificato come il principio propulsore del nuovo “boom ambientale”. L’attenzione concentrata su un singolo disastro ne evidenziava la minaccia, ma la rivoluzione ecologica è nata dall’associazione concettuale di una pluralità di rischi. Il senatore Gaylord Nelson avrebbe avuto l’idea della Giornata della Terra dopo che una marea nera di petrolio apparve al largo di Santa Barbara, Los Angeles, ma quel disastro, causato dalle operazioni di perforazione della Union Oil Company, è stato presto dimenticato e non è entrato nella memoria collettiva della scena ecologica. In Inghilterra, le immagini di uccelli morenti al largo della costa della Cornovaglia in seguito al naufragio del Torrey Canyon hanno suscitato al momento l’indignazione pubblica, ma anch’esse non sono rimaste nella memoria del movimento, sebbene le superpetroliere di proprietà di dubbie compagnie e battenti bandiere di incerta provenienza costituissero un perfetto oggetto di denuncia. Di fatto lo “smog assassino” di Londra del dicembre 1952, che ha causato migliaia di morti, superava ancora e di gran lunga tutti gli scandali ambientali ancora vivi nella memoria collettiva nel 1970. La “rivoluzione ecologica” di quell’anno poggiava invece su almeno una mezza dozzina di preoccupazioni: il rischio nucleare, la crisi dei rifiuti, l’inquinamento dell’acqua e dell’aria, la sovrappopolazione e la perdita di specie. Combinarli insieme era l’impresa intellettuale più impegnativa.

La spinta propulsiva affinché la Svezia ospitasse la prima conferenza internazionale sull’ambiente fu frutto di una serie di segnali che indicavano che le emissioni industriali britanniche causavano la pioggia acida che danneggiava le sue foreste ma all’epoca non ci fu alcun allarme su vasta scala: ne scoppiò invece uno in Germania ma solo dieci anni dopo, tra i timori di “foreste morenti”. Alla Conferenza di Stoccolma, la Svezia non riuscì a mettere in primo piano la questione delle “piogge acide”; le prove scientifiche erano ancora deboli e non poterono avere l’impatto desiderato. In generale, può essere visto come un paradosso che la prise de conscience ambientale si sia verificata proprio nel momento in cui i camini fumosi delle fabbriche stavano scomparendo dai paesi industrializzati avanzati e il danno ambientale era meno evidente di dieci o venti anni prima. Quanto alla radioattività, che suscitava le più forti proteste in Germania e in altri paesi, non era percepibile da nessun organo di senso. Si può forse discutere l’idea di Jeremy Rifkin secondo cui la svolta ambientale dovrebbe essere inclusa tra i grandi “illuminismi” della storia del mondo piuttosto che tra le grandi paure; ma ciò non significa che la consapevolezza ambientale non abbia provocato una “dialettica dell’illuminismo” ((Riferimento all’opera di Horkheimer e Adorno.)) non appena si è posta a confronto con il potere politico.

Doomsday Book: Can the World Survive? di Gordon Rattray Taylor, uscito nelle librerie al momento giusto, divenne presto un bestseller internazionale, ma l’autore, meglio conosciuto per il suo precedente Sex in History, non doveva essere preso troppo sul serio come profeta di sventura. Jost Hermand preferisce pensare lo “shock apocalittico del 1972” del Club di Roma come al vero big bang. Ma anche questa tesi è confutata dalla sequenza degli eventi, poiché il boom ambientale è iniziato molto prima e ha ha costituito la base per l’enorme successo di Limits to Growth. Vent’anni prima la maggior parte degli abitanti del pianeta avrebbe pensato che fosse una banale verità che ci fossero dei limiti alla crescita mentre Menke-Glückert – che, come Günter Hartkopf, segretario di Stato responsabile a Bonn dal 1969 per le questioni ambientali, puntava più sull’ottimismo che sul pessimismo – considerava i Limits to Growth scarsamente fondato e in una certa misura addirittura controproducente e debilitante. Secondo lui il Club di Roma era un “club d’élite di aspiranti statisti” che voleva imporre la sua visione pessimistica del futuro dell’umanità. Barry Commoner, da parte sua, descrisse i Limits to Growth come “un passo indietro”, attirando l’attenzione di Paul R. Ehrlich sulla presunta mancanza di competenza ecologica dell’opera. La verità è che lo studio del Club di Roma ha immediatamente suscitato un vivace dibattito tra gli intellettuali d’élite; esso era molto stimolante ma era molto improbabile che traumatizzasse intere masse. […]

Significativamente, e in contraddizione con la consueta attenzione alla qualità visiva della rivista, la copertina del primo numero di “Der Spiegel” sull’ambiente – 5 ottobre 1970 – era divisa in quattro parti: nuvole di fumo rosso, montagne di spazzatura, un lago asciutto con del legname in superficie e una bambola avvolta da gas di scarico in un ingorgo. Non si stabiliva un ordine di priorità. Il titolo era “L’uomo sta distruggendo la Terra”, ma nel corso dell’articolo ci si riferiva alle acque reflue chimiche, cui seguiva un tale miscuglio di fatti che ci si chiede se i redattori non si siano preoccupati del modo di pubblicarli in un qualche ordine. Ancora una volta, nessun disastro in particolare aveva innescato una reazione a catena di paure mentre in Giappone, dove la politica industriale aveva mostrato un disprezzo esemplare per le popolazioni locali, furono quattro grandi scandali legati all’inquinamento a inaugurare l’eco-era. Margaret A. McKean, che ha avuto un’esperienza diretta del paese e ha scritto lo studio di parte occidentale più dettagliato su quel primo periodo, esordisce concisamente così: “Il Giappone era letteralmente la nazione più inquinata della terra”, ma dopo il primo decennio dell’eco-era “ha ora gli standard di inquinamento più severi al mondo”. Anche in questo caso, tuttavia, il ricorso a un semplice schema azione-reazione ha un potere esplicativo limitato, perché l’avvelenamento da mercurio a Minamata Bay era noto alla gente della regione dal 1956. Solo nell’eco-era i disastri ambientali divennero scandali pubblici invece di essere messi a tacere e costrinsero i politici a intervenire.

Sepolti negli articoli della stampa regionale nella Germania occidentale e considerati dalla maggior parte degli intellettuali come questioni locali, invece nella “rivoluzione ecologica” americana del 1970 i rischi nucleari costituivano già un problema. I principali critici negli Stati Uniti erano esperti che si erano dissociati dall’establishment nucleare, figure piuttosto rare in Germania. Dalla seconda metà degli anni ’60, anche la cerchia ristretta del Comitato consultivo per la salvaguardia dei reattori (ACRS) aveva fatto trapelare informazioni sempre più ampie sulla possibilità di incidenti ai reattori non controllabili con le procedure allora in uso e che avrebbero richiesto l’evacuazione di intere regioni. Ciò portò alla regola non scritta che le centrali nucleari dovessero essere costruite solo in aree scarsamente popolate, anche se nella Germania occidentale ne erano previste in costruzione nella regione di Francoforte e di Mannheim-Ludwigshafen.

Alvin M. Weinberg, semidio della ricerca nucleare statunitense e a lungo direttore del centro di ricerca di Oak Ridge, disse a Natale 1971 in un discorso a Filadelfia all’Associazione americana per il progresso della scienza: “Noi popolo del nucleare abbiamo fatto un patto faustiano con la società”. Per coloro che conoscono l’opera di Goethe, il riferimento suona stranamente criptico. Spontaneamente uno identifica il ricercatore nucleare con Faust, ma non si tratta piuttosto del diavolo? Ad ogni modo, è chiaro che in quella fase le critiche dovevano basarsi principalmente su rischi ipotetici e non potevano essere fatte sulla base di incidenti effettivamente avvenuti. Le conseguenze dell’incidente del reattore Windscale della Gran Bretagna dell’8 ottobre 1957 non erano all’epoca note al pubblico, così come gli aspetti più inquietanti dell’incidente del 5 ottobre 1966 nel reattore autofertilizzante “Enrico Fermi”, a trenta miglia da Detroit (che furono finalmente rivelati nel 1975 nella mostra We Almost Lost Detroit, basata su finte dichiarazioni di uno degli ingegneri coinvolti). In ogni caso, rispetto alle scene di battaglia che più tardi hanno accompagnato la politica antinucleare tedesca la “controversia” statunitense ha assunto forme abbastanza “civili”.

In realtà, insomma, il periodo formativo dell’eco-età fu definito molto più dall’intelletto che dalla pura emozione, come testimonia il ruolo guida degli scienziati. Oppure dobbiamo pensare che anche loro erano mossi in maniera eccessiva da delle paure inconscie? Alla vigilia della Giornata della Terra, Barry Commoner dichiarò agli studenti di Harvard: “Siete la prima generazione nella storia dell’uomo a portare lo stronzio-90 nelle ossa e il DDT nel grasso; i vostri corpi registreranno nel tempo tutti gli effetti della distruzione ambientale sull’umanità”. Durante un processo al DDT a Washington, si disse che un capo cannibale aveva proibito ai suoi compagni di tribù di mangiare gli americani perché contenevano troppo DDT … È abbastanza evidente che la paura del cancro – che ha sostituito la vecchia paura delle malattie infettive – era un movente sottorraneo della nuova consapevolezza ambientale e un denominatore comune in una molteplicità di fobie, in particolare di quella delle radiazioni. Il cancro è diventato metafora dei rischi ambientali: “la crescita fine a sé stessa è l’ideologia della cellula cancerosa”. “È stata la paura del cancro, la grande prateria di tutti i demagoghi ambientali, a suscitare le nostre preoccupazioni per la Terra?” si chiedeva James Lovelock in modo paradossale dato che lui stesso considerava l’energia nucleare inevitabile. Siccome oltretuil cancro genera un panico tale che molti preferiscono non parlarne – neanche Rachel Carson parlava in pubblico della propria malattia – spesso abbiamo bisogno di leggere tra le righe e ciò rende difficile produrre qualsiasi prova definitiva. Il cancro non era stato un problema nel vecchio dibattito sul fumo, ma dagli anni ’50 iniziarono ad accumularsi le prove che l’inquinamento atmosferico aumentava il rischio di cancro cosicché le emissioni industriali si trasformarono da tema municipale a tema nazionale. Negli anni ’60 iniziò anche a crescere il sospetto sugli effetti cancerogeni dei gas di scarico delle automobili al punto che Kenneth Hahn, un membro del Board of Supervisors di Los Angeles, scrisse il 16 febbraio 1970 al procuratore generale che c’era motivo di credere ad una cospirazione delle industrie automobilistiche e petrolifere per bloccare la produzione di automobili e carburanti che non producessero gas di scarico nocivi. Dal canto suo l’EPA ha cercato di lasciare un suo segno nella guerra al cancro anche se con scarso successo in quanto mancavano le competenze necessarie.

Oppure l’ecocidio in Vietnam?

È stato affermato che a innescare la “rivoluzione ecologica” nel 1970 è stato un grave disastro ambientale di origine antropica, la guerra biologica condotta dall’aeronautica americana in Vietnam, quando più di quaranta milioni di litri di Agent Orange (più altri erbicidi) spruzzato dagli aerei hanno defogliato vaste aree di foresta. Arthur Galston, professore di biologia vegetale a Yale, coniò il termine “ecocidio” per questo crimine in analogia a “genocidio” e chiese l’istituzione di un tribunale simile a quello di Norimberga. In Vietnam, l’incubo evocato alcuni anni prima in Silent Spring divenne realtà: le stime vietnamite calcolano che fino a un milione di persone ne subirono le conseguenze nell’arco di tre generazioni, e in seguito è stato dimostrato che anche migliaia di soldati americani ne furono colpiti. Nel 1970, nessun altro disastro ecologico in un’altra parte del mondo era neppure lontanamente paragonabile per dimensioni o oscenità all’ecocidio in Vietnam.

Carl Amery ritiene ovvio che la rivolta studentesca americana abbia avuto dall’Agent Orange la “decisiva ondata di adrenalina” che l’ha resa il motore del nuovo ambientalismo. Eppure è piuttosto sorprendente che, dopo tutto ciò che da allora è venuto alla luce, il Vietnam abbia giocato un ruolo piuttosto marginale nell’impennata ecologica del tempo. Non compare affatto nelle vaste memorie di David Brower, che invece celebrano la firma del Wilderness Act da parte del presidente Johnson il 3 settembre 1964 come uno dei più grandi successi della sua vita. Il movimento ambientalista non fu emanazione diretta del movimento contro la guerra del Vietnam in quanto corrispondeva a un diffuso bisogno di aggregazione: era un nuovo obiettivo primario in una società divisa. Il tema dell’ecocidio l’avrebbe ricondotto al vecchio scenario di lotta e il tema della guerra l’avrebbe distolto dalla questione fondamentale allora appena riconosciuta, le conseguenze non intenzionali del progresso pacifico. Ad ogni modo, nel 1970 il presidente Nixon si impegnò a rispettare il protocollo di Ginevra del 1925 sulle armi biologiche, che gli Stati Uniti non avevano sino ad allora sottoscritto. Quando la diossina – la tossina contenuta nell’Agent Orange – fu scoperta dieci anni dopo nei rifiuti sul Love Canal, presso le Cascate del Niagara, fu oggetto di una celebre causa intentata dal movimento ambientalista, nonostante lo scandalo fosse minuscolo rispetto all’ecocidio in Vietnam. Fu solo in seguito che Ralph Nader lanciò l’allarme: “Tre once di diossina potrebbero uccidere più di un milione di persone”.

Gli attivisti vietnamiti guidati da Barry Commoner furono tra i promotori della Giornata della Terra del 22 aprile 1970, ma gli slogan che denunciavano l’ecocidio non dominavano la scena e molti esponenti della Nuova Sinistra li sostennero con sentimenti contraddittori. Lo stesso Commoner si lamentò della “confusione della Settimana della Terra” (sic): “La Settimana della Terra rispecchia delle convinzioni personali più che una conoscenza oggettiva”. Nei media statunitensi la Giornata della Terra fu tuttavia celebrata come un evento storico di portata mondiale. Un osservatore contemporaneo scrisse: “Dall’attacco giapponese a Pearl Harbor nessuna questione di pubblico interesse ha ricevuto un sostegno così massiccio in tutti i media, sia locali che nazionali”. Al tempo una fronda conservatrice anti-ecologica non aveva ancora preso forma e la Giornata della Terra si presentava soprattutto come uno spettacolo pittoresco che mostrava ciò che la nazione aveva in comune, non come un’arena per grandi scontri. Secondo un giornalista, la giornata si era svolta in un clima “sorprendentemente spensierato”, anche se i manifestanti trasportarono pesci morti attraverso la Fifth Avenue per denunciare l’inquinamento dell’Hudson. Il giorno dopo, il “New York Times” scrisse della campagna: “I conservatori erano favorevoli. I liberali erano favorevoli, democratici, repubblicani e indipendenti erano favorevoli e così lo erano anche i rami esecutivo e legislativo del governo “.

Nel suo entusiasmo ecumenico ottenuto mediante quel momento di “illuminismo”, un attimo felice che per un po’ occultò le differenze, la Giornata della Terra ricorda il Festival di Woodstock e i suoi “figli dei fiori” di otto mesi prima. Nella sua conferenza del 1966 sulle “radici storiche della nostra crisi ecologica” (che divenne un testo fondante nella storia dell’ambientalismo), il medievalista Lynn White aveva posto i beatnik, precursori degli hippy, sullo stesso piano di Francesco d’Assisi, in quanto pionieri della riconciliazione tra uomo e natura e il mondo hippy fece proprio il complimento di questo storico. L’enciclopedia di 700 pagine della cultura hippy che pullula di parole chiave sul “movimento ambientalista” lo descrive come “derivato dal movimento hippie back-to-the-earth“. In effetti sembrerebbe esserci un’affinità di atmosfere e anche se il soggetto non è stato quasi mai studiato né è facile dimostrarlo empiricamente, è tuttavia plausibile sia logicamente che psicologicamente che tale contatto sia stato produttivo. L’ambiente naturale può essere infatti preservato al meglio se gli esseri umani riscoprono che l’amore e il godimento della natura offrono una gioia più grande della ricerca senza fine del denaro e dei beni di consumo. Nel 1970, quando Elisabeth Mann-Borgese (1918-2002), la figlia minore di Thomas Mann e famosa “donna del mare”, presentò delle proposte di legge sulla protezione del mare a una conferenza Pacem in Maribus a Malta, chiese ai partecipanti di cantare insieme We all live on a yellow submarine: un’atmosfera di Woodstock tra l’élite degli esperti di diritto del mare!

Nonostante i tocchi hippy durante i festeggiamenti della Giornata della Terra spesso ci si trovò in compagnia di gente estremamente seria. Il Natural Resources Defense Council (NRDC), una delle nuove ONG ambientaliste che hanno poi esercitato un’efficace attività di lobbying a Washington, era stato fondato nel 1970 con il sostegno finanziario della Fondazione Ford, da studenti della Yale Law School e da attivisti mobilitati contro la prevista centrale idroelettrica sul fiume Hudson. Più in generale, i laureati della Yale Law School, una delle migliori del paese, parteciparono in numero impressionante alla nuova ondata ecologica: Denis Hayes, l’organizzatore della Giornata della Terra, veniva da lì e Charles A. Reich, il cui bestseller The Greening of America apparve nel 1970, era docente alla Law School. Più che in altri paesi, la professionalizzazione fu una delle prime caratteristiche del movimento ambientalista e raccontare la storia del movimento statunitense come passaggio “dall’iniziativa spontanea all’organizzazione professionale”, come è stato fatto con l’esperienza tedesca, non sarebbe adeguato. I due aspetti, quello della spontaneità e quello della professionalizzazione, si fusero in modo pittoresco solo all’inizio. Reich intravide in Woodstock la prima luce della “rivoluzione” imminente, la presa di coscienza di una gioventù in rivolta contro lo stato corporativo sclerotico e utilizzò per il suoThe Greening of America il motto di Woody GuthrieThis Land Is Your Land e quello degli Youngbloods Get Together (che, secondo la rivista “Rolling Stone”, era l'”inno informale della fine degli anni ’60”). Anche i manifestanti tedeschi presso l’impianto di stoccaggio delle scorie nucleari di Gorleben si riscaldavano nell’aria primaverile ancora fresca del 1979 ballando al ritmo di This Land Is Your Land. Negli Stati Uniti, tuttavia, l’ambientalismo ha fin dall’inizio avuto anche un elemento decisamente conservatore. Uno dei suoi testi programmatici più influenti fu The Tragedy of the Commons, il saggio di Garrett Hardin del 1968.

Attorno alle questioni ambientali si formò negli Stati Uniti una nuova élite, autopromossasi e ben informata, con un’ampia visione anche a livello regionale. A dire il vero, la sua posizione all’interno dell’ establishment scientifico era spesso ancora incerta. L'”ecologia” che essa invocava non era necessariamente la stessa del passato, quella di una disciplina ancora grezza e fino a quel momento non politica, ma non riusciva ancora a fornire una salda base scientifica a molti dei suoi avvertimenti sui rischi per l’ecosistema terrestre. Ciononostante se la mettiamo a confronto coi grandi movimenti precedenti appare chiaramente che le informazioni – ottenute attraverso la scienza o attraverso i viaggi – non erano mai state così centrali in un movimento. Per lo storico Samuel Hays, “la politica della scienza” riassume la nuova politica ambientale iniziata nel 1970. La grancassa di Limits to Growth, i cui dati avevano alle spalle il supporto tecnologico del MIT, la fede nel computer – se non il computer stesso – all’epoca fecero storia, anche se la più semplice logica matematica avrebbe potuto chiarire che la crescita zero era un’assurdità. Un legame stretto tra conservazione e scienza popolare esisteva sin dai tempi delle associazioni di naturalisti del diciannovesimo secolo, ma siccome le conoscenze scientifiche specialistiche erano incomprensibili ai non addetti la divulgazione (che una volta era esclusivamente riservata a esperti illustri) divenne una forma particolare di comunicazione mediatica. Non è quindi strano che in seguito il movimento ambientalista abbia trovato il suo posto nella sociologia della scienza.

Woodstock era una fine, la Giornata della Terra un inizio. Quest’ultima non fu un happening subculturale, ma un evento che ha unito la subcultura e l’alta cultura e coloro che stavano sui due versanti dell’aspra discussione sul Vietnam. Tuttavia questa festa dell’unità non fu la fine della storia: essa fu piuttosto un inizio, anche se ancora una volta ben presto seguito da una precoce disillusione. Un potenziale di protesta e degli elementi controculturali rimasero in ogni caso presenti nel movimento ambientalista, negli Stati Uniti come altrove, e trovarono nuove orizzonti non appena si trovarono ad affrontare un fronte ostile. Uno dei suoi successi più precoci e spettacolari arrivò tuttavia già nel 1970, quando il movimento si alleò con coloro che si opponevano in termini di razionalità economica al progetto Supersonic Transport (SST), promosso congiuntamente dal governo e dall’industria, anche se era chiaro da tempo a molti analisti economici che, a parte far infuriare la gente che viveva nei pressi, l’aereo non aveva alcuna prospettiva di profitto. Alla fine anche Boeing, il maggior investitore, perse interesse all’impresa. Quella che sembrò una vittoria per l’ecologia – dal momento che gli attivisti avevano preso di mira il boom sonico in quanto scandalo ecologico – era in buona misura una vittoria per l’economia. Data la crisi dei viaggi spaziali, anche la NASA prese le distanze dal progetto SST (a cui aveva precedentemente aderito) cercando di dimostrare le proprie credenziali ecologiche mediante la rivelazione del pericolo del volo supersonico per lo strato di ozono. Le convergenze tra apparati economici e di ricerca, aperte o nascoste, sono rimaste fino ad oggi una precondizione per il successo del movimento ambientalista, ancor più dopo l’avvento della rivoluzione elettronica.

Il 1968 e il 1970

Il rapporto ambiguo e sfaccettato tra le iniziative ambientaliste e la rivolta studentesca e la sottocultura degli anni ’60 è stato sorprendentemente poco studiato. Il movimento ambientalista ha infatti messo a frutto l’eredità del ’68, con i suoi sit-in, assemblee di protesta, manifestazioni, occupazioni di piazze e scontri con la polizia soprattutto nel suo stile di azione, anche se non in modo coerente o ovunque. La Giornata della Terra fu di per sé un insegnamento di dimensioni senza precedenti. Numerosi sono stati i rapporti di continuità stabiliti tra i movimenti degli anni ’60 e ’70: Daniel Cohn-Bendit e Rudi Dutschke, i leader studenteschi francese e tedesco, hanno trovato la propria strada presso i Verdi.

Ciò non significa necessariamente che ci fosse una continuità ideologica. È vero, il rifiuto del progresso in versione tecnologica, come quello della società dei consumi, era già uno dei leitmotiv del 1968, e il movimento ambientalista aveva mostrato caratteristiche anticapitaliste sin dagli esordi. Non di rado si ha l’impressione che la sua retorica abbia sostituito il proletariato sfruttato con la natura sfruttata. Allora si conoscevano poco gli spaventosi guasti all’ambiente dei paesi comunisti e né ci si preocccupava troppo al riguardo in quanto parlarne avrebbe disturbato l’azione. Persino un intellettuale relativamente indipendente come Hans-Magnus Enzensberger, il cui socialismo radicale aveva subito una prima doccia fredda a Cuba, scrisse nel 1973 nel suo Kursbuch, il sismografo della Nuova Sinistra: “La società cinese offre certamente le migliori possibilità di sopravvivenza ecologica per gli esseri umani. Una gestione parsimoniosa delle risorse naturali è una componente essenziale della cultura cinese”. Il governo cinese, affermava, era stato “l’unico al mondo” ad aver sviluppato “strategie coerenti a scongiurare la catastrofe”. Eppure la natura era qualcosa di molto diverso dal proletariato ed era impossibile non tenerne conto quando si approfondivano le questioni ambientali. Uno dei mentori di Dutschke era stato Ernst Bloch, il cui entusiasmo per l'”atomo pacifico” superava quello della lobby nucleare occidentale. Ancora nel 1977, Dutschke lamentava, in una nota di un taccuino, che la “mobilitazione di massa” contro le centrali nucleari gli stava causando “difficoltà teoriche e politiche”, e perciò preferiva passare il tempo leggendo ai suoi figli i romanzi d’avventura di Karl May. Lui e molti altri sessantottini sono arrivati ??ad una nuova considerazione della natura solo dopo una serie di delusioni politiche e crisi esistenziali; la natura non era stata un problema nel ’68. […]

La fusione con i sessantottini fu un problema secondario per il movimento ambientalista della Germania occidentale, dominato soprattutto dal movimento anti-nucleare, dagli obiettivi di lotta in stile ’68 e su posizioni anticapitaliste. In Danimarca, dove di solito le azioni erano meno turbolente, le proteste ambientaliste iniziarono già nel marzo 1969 con un avvenimento che portò lo scontro a estremi disgustosi, mettendo in ombra la maggior parte degli eventi tedeschi. Durante una conferenza all’Università di Copenaghen, cui partecipavano figure di spicco della rispettabile società di storia naturale NOA, un gruppo di studenti entrò nell’auditorium sbarrando le porte. Uno di loro raccontò:

ci siamo chiusi tutti dentro. Eravamo una ventina di persone. Dopo aver chiuso le porte, abbiamo interrotto la ventilazione e abbiamo iniziato ad avvelenarla. È stata un’azione piuttosto violenta. Siamo saliti sul palco e abbiamo parlato dell’inquinamento atmosferico. Abbiamo bruciato immondizia e tabacco in grandi quantità. Abbiamo versato l’acqua di scarico di una fabbrica vicina in un acquario con pesci rossi che sono morti lentamente. Sulle pareti laterali abbiamo proiettato film sul cancro e sull’inquinamento; avevamo un altoparlante e una sirena che suonava in continuazione. Abbiamo spruzzato acqua del lago Endrup sul pubblico. Avevamo portato con noi un’anatra selvatica che abbiamo ricoperto d’olio. “Venite a salvarla!”, abbiamo gridato. “Parlate di inquinamento. Perché non fate niente al riguardo?” Alla fine abbiamo tagliato la testa all’anitra per porre fine alla sua sofferenza, e siamo scesi dal palco passando davanti alla prima fila di sedie in modo da spruzzare sangue sui vestiti di chi sedeva lì. Dopo un’ora abbiamo aperto le porte e detto che volevamo avviare un movimento ambientalista e che la riunione di fondazione si sarebbe tenuta nella stanza accanto.

Questo è stato il lancio di NOAH.

Questo evento – che fece infuriare gli animalisti – fu un evento unico nella “rivoluzione ecologica” nata nel 1970 e intorno al 1970 e in ogni caso non scatenò il caos ma fu il preludio alla creazione di una nuova organizzazione avvenuta in modalità differenti rispetto agli avvenimenti tedeschi dello stesso periodo. NOAH si è presentato come un movimento che ha finalmente preso sul serio gli obiettivi del vecchio NOA e si è unito con Friends of the Earth, fondato lo stesso anno.

La “bomba demografica”

Un altro denominatore comune nel movimento ambientalista emergente, sia negli Stati Uniti che altrove, fu l’orrore per la crescita incontrollata della popolazione mondiale. Ancor più della bomba atomica, fu questa “bomba demografica” – in analogia al titolo del bestseller di Paul R. Ehrlich del 1968 – a sconvolgere molti ambientalisti. Mentre Alvin M. Weinberg, la massima autorità della comunità nucleare, cercava di usare la crescita demografica come argomento a favore dei reattori autofertilizzanti che avrebbero fornito energia senza fine, i dissidenti nucleari John W. Gofman e Arthur R. Tamplin, che lavoravano nel famoso Lawrence Laboratory, allusero alla bomba demografica piuttosto che alla bomba atomica nel titolo sarcastico del loro Population Control through Nuclear Pollution (1970). I limiti demografici imposti dalle risorse naturali ma disprezzati dalla cecità umana, hanno dato fondamento alla moderna consapevolezza ambientale ancor prima del clamore suscitato dai Limits to GrowthThe Tragedy of Commons di Garrett Hardin, pubblicato per la prima volta nel 1968, sosteneva che la crescita della popolazione fosse la radice di tutti i problemi ambientali. Questo era stato già un tema caro ai difensori delle terre selvagge, principalmente africane, ma negli anni ’60 a fare notizia furono l'”esplosione demografica” in India e carestie che ne conseguirono. Ehrlich si riferiva non solo alle statistiche, ma alla sua stessa esperienza: nel 1966, pilotando un taxi in una “puzzolente notte calda a Delhi”, fu improvvisamente sopraffatto dalla sensazione “infernale” di annegare in una marea umana e negli anni ’70 prevedeva che “centinaia di milioni di persone” sarebbero morte di fame. Quanto a Barry Commoner, non ricevette mai tante lettere critiche come quando, pur non contestando che la pressione demografica avrebbe esacerbato la situazione critica in alcune parti del Terzo Mondo, mise in dubbio che la crescita della popolazione fosse il problema ecologico prioritario.

Un altro evento importante del 1970 fu l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace a Norman E. Borlaug per i suoi studi sulle coltivazioni di cereali. Fu acclamato come il “padre della Rivoluzione Verde” in un periodo in cui “verde” era un termine più ambiguo di quanto lo sarebbe stato un decennio dopo. Affermando che senza DDT i suoi successi “sarebbero stati impossibili”, Borlaug tuonò che il mondo sarebbe stato condannato a morire di fame se un “gruppo di interesse potente e isterico” fosse riuscito a impedire l’uso dei fertilizzanti chimici facendo approvare “leggi insensate”. Il tono era alto, tanto quanto quello usato negli attacchi dell’industria chimica a Rachel Carson. I nuovi tipi di grano migliorarono negli anni ’70 la situazione alimentare dell’India a un livello tale che nessuno avrebbe potuto prevedere un decennio prima e Paul Ehrlich divenne oggetto di scherno diffuso, anche se nel 1996, in una rabbiosa risposta ai suoi critici, indicò con un po’ di ragione ciò che era già noto in linea di principio alla conferenza di Stoccolma del 1972 e cioè che la “Rivoluzione Verde”, con il suo elevato uso di acqua ed erbicidi in una situazione di continua crescita della popolazione, avrebbe aggravato a lungo termine la crisi ambientale. E, nel sostenerlo, Ehrlich poté riferirsi allo stesso Borlaug.

In sostanza il punto di vista di Ehrlich era che in gran parte del mondo la Rivoluzione Verde ha avviato il declino dei piccoli agricoltori tradizionali e la perdita di competenze basata su una lunga esperienza agricola – un processo che probabilmente trova la massima accelerazione nelle trasformazioni in corso. Di conseguenza, l’aumento della popolazione ha portato alla crescita esplosiva degli slum e mentre nel 1968 era ancora possibile liquidare le critiche alla crescita illimitata della popolazione indiana come frutto di arroganza occidentale, negli anni ’90 il controllo rigoroso delle nascite era diventata invece da tempo una politica governativa.

Un tipico rimprovero alla retorica della “bomba demografica” è che essa distoglie l’attenzione dalle responsabilità del Primo Mondo e suggerisce che favorire lo sviluppo è inutile e dannoso. Eppure lo stesso Nehru fu aperto sostenitore della “pianificazione familiare” dall’inizio degli anni ’50, e persino Gunnar Myrdal, sostenitore dell’aiuto allo sviluppo e pioniere del welfare state scandinavo, alla Conferenza di Stoccolma poté affermare che in un certo senso “la crescita della popolazione era il fattore chiave del problema ambientale”. Barbara Ward e René Dubos parlano in Only One Earth dell’esplosione demografica, senza virgolette. Nella Bundesrepublik, Georg Picht, all’epoca un riformatore pionieristico, prese una posizione ferma in Mut zur Utopie [Coraggio per l’Utopia], del 1970, a favore del “controllo sistematico delle nascite” da applicare subito. Fu solo molto più tardi che i Verdi denunciarono la “falsità” di un nesso causale tra distruzione ambientale e sovrappopolazione.

Di per sé la “bomba demografica” non costituiva un oggetto di denuncia adatto per un movimento in attacco anche se nel 1970 un gruppo di azione femminile, Zero Population Growth, iniziò ad operare negli Stati Uniti non senza una certa conflittualità con le femministe. Anche i seguaci di “Peace and Love”, godendo di nuove libertà grazie alla pillola, provarono una certa attrazione per la propaganda anticoncezionale intesa come espressione di un contropotere in lotta con l’establishment conservatore. Si aggiunga che gli indiani d’America, che trovavano notevoli consensi sulla scena ecologica, si erano distinti per i loro precedenti (anche se non esattamente attraenti) nel deliberato abbassamento dei tassi di natalità: tra i Cheyenne, famosi per gli ultimi western di John Ford, un uomo di carattere avrebbe giurato alla nascita del primo figlio di non volerne altri per sette o anche quattordici anni. Se è vero che la coercizione massiccia era legittima nel modello della “bomba demografica” di Ehrlich proprio allora un improvviso calo delle nascite, dovuto alla pillola, cominciò a manifestarsi in Occidente, tanto che fu possibile immaginare che l’amore, nient’altro che l’amore, avrebbe sostituito la coercizione in un futuro non troppo lontano.

Konrad Lorenz, il più noto scienziato comportamentale del suo tempo, i cui Civilized Man’s Eight Deadly Sins (1971) divennero un testo ambientalista chiave nel mondo di lingua tedesca e che sostenne appassionatamente il movimento di protesta austriaco – definì la sovrappopolazione il primo peccato mortale. Le sue ragioni non erano solo ecologistiche: “l’amore umano caldo e sincero”, scrisse, si estinguerebbe se le persone vivessero troppo strette l’una all’altra e ciascuno non avessero uno spazio proprio. Nel 1973 Lorenz ricevette il Premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia. Ma cosa avrebbero potuto fare gli ambientalisti per influenzare le tendenze del Terzo Mondo? Fondamentalmente non sembravano esistere impegni pratici che si potevano assumente in relazione all'”esplosione demografica”; di conseguenza essa non poteva costituire un denominatore comune del movimento. Nel mondo occidentale, oltretutto, c’erano più motivi di preoccupazione per il calo dei tassi di natalità che per la crescita della popolazione e la nuova consapevolezza ambientale non implicava in linea generale nessun discorso demografico.

Qui sta davvero il punto: la “rivoluzione ecologica” del 1970 non può essere spiegata a partire da una causalità singola, che sia l’esito di un recente disastro ambientale, dei discorsi specifici o gli interessi di gruppi sociali distinti. Delle cause specifiche possono apparire in relazione a vicende temporalmente e spazialmente limitate, ma iniziano a sfilacciarsi non appena l’orizzonte si allarga. Anche Edda Muller, che sottolinea la priorità della politica nella Germania Ovest, non può fare a meno di pensare che gli inventori della politica ambientale di Bonn non fossero ancora consapevoli “della portata, e poi dell’esplosività, della questione”; sospetta persino che “sia sempre rimasto poco chiaro” cosa avrebbe potuto fornire l’impulso decisivo. Uno studio sull’emergenza parallela dell’attivismo ambientale in Francia si trova con nient’altro che “domande senza risposta” sulle sue origini. Anche Commoner affermò nel 1971: “Nonostante il riferimento costante a esperienze di vita quotidiana palpabili – aria viziata, acqua inquinata e cumuli di rifiuti, un’atmosfera di irrealtà avvolge la crisi ambientale”.

Cosa dimostra la vana ricerca di una causa sufficiente?

Nel suo famoso studio Suicide (1897), opera fondamentale della sociologia, Émile Durkheim ha operato per exclusionem: ha cioè di seguito escluso una causa dopo l’altra per spiegare la frequenza di suicidi in certi paesi e luoghi, prima di arrivare al vero punto: la causa è la “società” o più precisamente l’anomia sociale. Allo stesso modo, si potrebbe essere tentati di cercare in ultima analisi la sconcertante genesi della moderna coscienza ambientale nell’emergere della società globale: il discorso attuale sulla globalizzazione non ha la sua prima radice nella retorica degli anni ’60 sull'”astronave Terra” e sul nostro minacciato “pianeta azzurro”? Dobbiamo stare attenti, però: fino ad ora la “società globale” è stata una costruzione eterea, la cui reale esistenza è incerta e lo stesso vale per la “società postmaterialista” – un concetto che si pensava avesse un valore esplicativo. Dal 1970 la spinta verso consumi ad alto contenuto di risorse non è affatto scomparsa; i pessimisti pensano addirittura che non sia mai stata così grande. Non dobbiamo dimenticare che, anche nei processi penali, la ricerca di un colpevole per exclusionem può essere ingannevole: non si sa mai se ogni possibilità è stata eliminata.

Durkheim intendeva sostenere che le spiegazioni storico-causali convenzionali sono ingenue e che si deve pensare piuttosto in termini di sistemi sociali e delle loro interrelazioni. La rivoluzione ecologica del 1970 ne offre un ottimo esempio. Eppure proprio a questo proposito non dovremmo liquidare come ingenua la possibilità che la causa ultima risieda proprio nei problemi ambientali, e che dopo tutto ci sia qualcosa di simile a una logica della storia (non in problemi particolari, però, ma nella loro connessione ad opera dell’intelletto). Il movimento ambientalista è un fenomeno diffuso, ma anche i problemi si presentano in modo diffuso, e oltre quarant’anni fa erano molto più difficili da percepire di quanto non lo siano oggi. Potrebbe essere che proprio questo fatto si sia rispecchiato nel movimento ambientalista.

A un certo punto divenne insomma palese che dietro i singoli problemi si era aperto un nuovo e massiccio complesso di problemi. Questo era già emerso all’inizio del primo grande boom dell’industrializzazione, alla fine del diciannovesimo secolo, ma poi era arrivata la guerra che aveva allontanato l’attenzione dal tema. La fine dell’epoca delle guerre mondiali e quindi lo sgretolamento dei fronti della Guerra Fredda hanno invece consentito di cogliere i problemi comuni che l’umanità deve affrontare dopo decenni di crescita storicamente senza precedenti, sia demografica che economica, nonché di crescita delle emissioni atmosferiche e combustione di combustibili fossili. La “sindrome degli anni ’50” di Christian Pfister ha molto da dire in proposito: la tesi è che gli anni ’50 hanno conferito nuove dimensioni al mutamento ambientale antropogenico, rispetto alle quali tutto ciò che è avvenuto in precedenza sembra antiquato.

Ma c’è un altro altro punto da sottolineare. La tutela ambientale è diventata un impegno a sé stante quando in cui le antiche sicurezze nel rapporto uomo-ambiente stavano rapidamente scomparendo. Per la maggior parte della storia umana, la legge dell’inerzia era stata una garanzia contro un consumo realmente illimitato dell’ambiente; senza la tecnologia moderna sarebbe stato uno sforzo troppo estenuante abbattere intere foreste, estrarre carbone dalle profondità del sottosuolo e pesce dagli oceani. Anche quando si svilupparono le reti ferroviarie, gran parte del mondo rimase sottosviluppata ed enormi quantità di risorse naturali rimasero intatte. Ma tutto questo è cambiato radicalmente dalla metà del ventesimo secolo. La legge dell’inerzia cedette il posto, per così dire, a un saccheggio della natura che non avrebbe avuto limiti se si fosse concesso alle cose di continuare nello stesso modo.

O si pensi alla rivoluzione tecnologica, che sin dagli anni ’50 ha vanificato tutti i precedenti cambiamenti introdotti nell’agricoltura! In precedenza era nell’interesse degli agricoltori, almeno nel Vecchio Mondo, mantenere intatto il loro ecosistema, il che significava rispettare un certo grado di diversificazione delle culture, una corretta combinazione di coltivazione della terra e allevamento di bestiame e un’attenzione particolare al riciclaggio dei rifiuti animali, ai livelli di humus e al mantenimento di siepi che proteggono il terreno e offrono nidi agli uccelli che si cibano di insetti nocivi. Gran parte di questa stabilità ecologica presente nell’agricoltura è andata perduta a causa di fertilizzanti chimici, pesticidi e allevamenti industriali. E anche se i tecno-ottimisti una generazione fa si aspettavano ancora che il trattamento delle acque reflue, il riciclaggio e varie invenzioni chimiche avrebbero più o meno automaticamente risolto il problema dei rifiuti, tutta questa serie di speranze si è rivelata del tutto illusoria. Anzi, concluso il periodo dell’immediato dopoguerra, il problema dei rifiuti è aumentato in modo esponenziale e ha assunto una nuova dimensione con la diffusione dei rifiuti plastici non riciclabili. Per quanto meticolosa sia la ricerca di nessi causali nella “rivoluzione ecologica”, si arriva sempre al nocciolo della questione, cioè al gigantesco nodo dei problemi che essa si trova a fronteggiare.

Non appena il movimento ambientalista ha varcato la soglia del potere politico ed è entrato in azione, ha dovuto fissare delle priorità fra la quantità di problemi e puntare su alcune soluzioni. Poiché nel “pensiero in rete” tutto è legato a tutto il resto, ecologisti lungimiranti si sono accorti che c’era sempre un elemento insoddisfacente e provvisorio in tali decisioni; questa tensione interna all’azione continua a definire ancor oggi, consciamente o inconsciamente, la protezione ambientale. E con le decisioni sono iniziati i conflitti. L’impennata delle leggi americane emanate dal 1970 in poi non solo ha fissato limiti alla pressione accettabile sull’ambiente, ma ha anche prescritto alcune modalità tecniche di intervento: riduzione dei gas di scarico delle automobili con convertitori catalitici, filtri per i tubi delle acque reflue, dispositivi di pulizia per le emissioni delle centrali elettriche. Gli americani erano spesso superiori agli europei in questa attitudine al concreto e al tecnico, ma l’armonia della Giornata della Terra svanì presto e iniziarono gli scontri tra industria e agenzie ambientali. D’altra parte, gli attivisti americani, a differenza dei loro omologhi in Europa, erano ben forniti di esperti legali che trovavano un campo inesauribile di attività nella nuova legislazione. Una volta che essa fosse stata avviata e messa in funzione, l’opera di perfezionamento legislativo difficilmente poteva essere fermata, anche sotto l’amministrazione Reagan.

A partire dal 1970, le nuove “politiche ambientali” affrontarono una serie di sforzi precedentemente eterogenei, ciascuno con la propria storia, riportandoli a un’unica grande entità tendente a diventare globale. Ma questa convergenza è stata inevitabilmente ottenuta a prezzo di tensioni interne, in parte evidenti e in parte latenti, che agitano l’eco-età. René Dubos, la principale fonte di ispirazione della Conferenza di Stoccolma del 1972, riprese la parola d’ordine di David Brower: “Pensa globalmente, agisci localmente!”, un ovvio paradosso che suonava bene quando il pensiero e l’azione erano agli inizi come nell’Era del Progresso e nell’era del New Deal, quando non si dubitava dell’armonia prestabilita tra i movimenti di base e i progetti di pianificazione ad alto livello. Il risultato più tangibile di Stoccolma fu l’istituzione dell’UNEP a Nairobi, la prima grande agenzia delle Nazioni Unite ad essere situata in un paese del Terzo Mondo, che si trasformò in un apparato senza denti e scodinzolante, in seguito deriso come un “deposito di spazzatura”. Esso si scontrò con il processo decisionale e con le responsabilità di organizzazioni ONU più affermate, come la FAO e l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). La tensione tra la spinta alla pianificazione centrale e l’autonomia locale agita a tutt’oggi la protezione ambientale in molte parti del mondo. Lo stesso concetto di “protezione dell’ambiente” ha in sé il vecchio dualismo di “conservazione” e “salute pubblica”, spesso legate solo esteriormente l’una all’altra; sono prodotti di passioni diverse e dell’azione di tipi umani diversi, e questo contrasto continua a manifestarsi. Per secoli, l’amore per la natura ha riflesso in parte l’amore per l’umanità, ma in parte anche l’orrore degli esseri umani per la massa; è un’ambiguità che tuttora rimane addosso all’amore per la natura. Le tensioni ancora latenti fino al 1970 sono esplose e hanno contribuito a creare una situazione in cui non c’è più solo l’ambientalismo mainstream, ma una molteplicità di storie diverse.

Una volta potenziato, l’illuminismo ecologico è soggetto “alla dialettica dell’illuminismo”.