Dossier “1970” — La responsabilità dello scienziato. Due articoli di Giulio Maccacaro

Ma è proprio vero che li muove la sola curiosità scientifica? Una domanda un po’ amara ma sempre più attuale sul ruolo degli intellettuali.

“Il Giorno”, martedì 31 marzo 1970.

L’avrete notato: quando la stampa o la televisione vogliono divulgare l’immagine di uno scienziato cercano di coglierlo in pose suggestive. Intento a scrutare una provetta, chino su un microscopio, fisso negli occhi di una cavia, affaccendato intorno a un apparecchio. Chi riesce a sottrarsi a tali prestazioni lo fa in nome non soltanto di un superstite senso del ridicolo ma – io credo – del sospetto di una mistificazione più sottile delle sue apparenze: che vuole lo scienziato tutto assorto in un colloquio, sostanzialmente privato, con un interlocutore che si chiama “natura” – direttamente interrogata coi sensi o mediatamente scrutata con gli strumenti – dalla quale attendere le uniche risposte che contano davvero: quelle appaganti la “curiosità scientifica”, fonte unica e genuina di ogni sapere. Così Galileo nella sua specola, Pasteur fra i suoi microbi, Fermi con i suoi atomi.

Non da ora mi chiedo quale sia – posto che sia – il senso di tale mistificazione e ad arrovellarmici nuovamente mi incalza la recente lettura dell’ultimo tra i bei “Saggi Zanichelli” (S. Feuer: L’intellettuale scientifico, Zanichelli 1969, pp. 405, L. 4.000). Le righe che seguono raccolgono alcune personali riflessioni piuttosto che una recensione del libro che, tuttavia, vivamente raccomando quale stimolante, avvincente e necessaria lettura a quanti si interessano alle origini psicologiche e sociologiche della scienza moderna.

Quella scienza che, germinata dal grembo copernichiano del sedicesimo secolo, si annuncia all’alba del diciassettesimo da Campo dei Fiori in Roma con la luce del rogo in cui Giordano Bruno preferì fosse bruciata la sua carne piuttosto che la speranza di una umanità libera di progredire nell’azione e nel pensiero. Ebbene: la “curiosità scientifica” che aveva indotto Copernico a configurare un universo ove il Sole prendesse il posto della Terra divenuta sorella agli altri pianeti, Tycho Brahe a mostrare che una cometa può attraversare senza infrangerle le inesistenti sfere celesti e cristalline, Bruno ad ipotizzare altri “mondi innumerevoli” ed escogitare esperimenti sulla relatività dei moti e dei tempi, quella “curiosità scientifica” rivolgeva di fatto le sue domande alla superstizione, al dogma, al potere. Quale cosa scientificamente più “curiosa” delle “macchie” scoperte nello splendore solare? Ma è lo stesso Galilei a definirle “il funerale o piuttosto l’estremo ed ultimo giudizio della pseudofilosofia” perché contraddittorie di quella presunta incorruttibilità e perfezione dei corpi celesti onde, nello spirito dell’epoca, derivavano tanta parte del loro potere il Santo Uffizio, il Cardinal Bellarmino e Papa Urbano VIII.

L’etica della nuova scienza era, dunque, edonistico-libertaria – come scrive Feuer – cioè pervasa dal piacere della conoscenza, dall’anelito alla libertà, dall’ottimismo nell’umana realizzazione. Per difendere e propugnare tali valori lo scienziato nuovo non chiedeva né offriva potere: in questo, anzi, combatteva la negazione di quelli.

Lo scienziato fuori dalla politica

La scoperta della scienza quale creatrice di potere appartiene ai secoli successivi: è vanto della rivoluzione industriale. Mentre lo scienziato continua a disvelare segreti ritenuti arcani, compiere esperimenti sin allora impensati, decifrare leggi credute inscrutabili, interrogare – insomma – la natura in nome di quella “curiosità scientifica” che aveva mosso i suoi predecessori, qualcuno impara a trarre da questa scienza che Keplero aveva amata come “un gioco, simile al gioco di Dio e del bambino” ben atre cose che si chiamano: ricchezza, privilegio e, soprattutto, potere. Il conte Avogadro è ancora un grande “curioso” quando calcola il numero di molecole contenute in una mole di qualsiasi sostanza, ma prima della sua morte è già nata l’industria chimica.

La disputa tra Galvani e Volta è ancora un esempio di suprema accademia scientifica, ma avviene negli anni dell’infanzia di Faraday, padre dell’industria elettrica. Pasteur si serve del suo genio per concludere la controversia sulla generazione spontanea della vita, ma l’industria tessile, quella alimentare e quella farmaceutica si serviranno del genio di Pasteur.

Così, man mano che la rivoluzione industriale cresce il sistema capitalistico, cioè la separazione tra la proprietà ed il lavoro, lo scienziato si trova ad essere – non importa quanto consapevolmente – dalla parte del capitale cui viene offrendo mezzi sempre più razionali ed efficienti per aumentare il profitto. In cambio ne riceve uno “status” accademico e sociale: mai, salvo rare eccezioni, politico.

Questa situazione, che è ancora tale nei primi decenni del nostro secolo, caratterizza tutta un’epoca durante la quale la scienza è divenuta creatrice di potere – come tale incoraggiata, sostenuta e di fatto acquisita al servizio del sistema capitalista – ma non pone ancora per sé un’esplicita domanda di potere.

I cervelli fra i due poteri

Questa domanda, con altre non meno sinistre, comincia a formularsi negli anni di incubazione del secondo conflitto mondiale, esplode nel deserto di Alamogordo e da allora risuona minacciosa nel cielo del nostro destino. I nuovi stregoni – siano essi fisici, chimici, medici o biologi – hanno bisogno per le stesse “necessità di sviluppo” della loro scienza – espresse in termini di finanziamenti, personale. Attrezzature, installazioni, protezioni, eccetera – di quel potere, che essi stessi sono in grado di conferire. Pertanto cominciano a barattarlo con chi lo detiene di più: sia esso un sistema, un governo, un esercito. Essi hanno imparato a trattare con i grandi “managers” dell’impresa pubblica e privata, con ministri militari e diplomatici. Essi stessi – quando li incontrate, sempre più spesso, nelle “halls” degli aeroporti, nelle anticamere dei ministeri, a conferenze di vertici – assomigliano sempre più a dei “managers” e a dei diplomatici: qualcuno starebbe così bene in divisa!

Ormai molti di loro non sono più “contro” il potere, come nel diciassettesimo secolo, e nemmeno “con” il potere, come nel diciannovesimo: essi si battono “per” il potere. Pronti, da Lysenko a Teller, a servirlo per ottenerlo, non importa se per l’uomo, non importa se contro l’uomo. Se i visitate nei loro laboratori li trovate ancora come li avete lasciati al museo delle cere scientifiche: intenti a scrutare una provetta, chini su un microscopio, fissi negli occhi di una cavia, affaccendati intorno a un apparecchio.

Vi diranno che è la “curiosità scientifica” che li muove, come ai tempi … No, io non so se a Campo dei Fiori lo scienziato moderno preferirebbe bruciare sé stesso o aggiungere combustibili nucleari e napalm al rogo della libertà altrui.

Perché – questo è il mio dubbio – il vero interlocutore dello scienziato non è mai stato né sarà mai più la “natura”, ma – ora e sempre – il “potere”. La sua scelta non si pone – oggi meno che mai – tra questa e quella “curiosità scientifica”, ma tra l’uno e l’altro potere: quello privilegiato e quello partecipato. Quello per cui sia disposto a lavorare e a battersi

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Il dramma del dottore (Jim Shapiro di Harvard). La responsabilità politica del lavoro scientifico

“Il Giorno”, 21 aprile 1970.

Che cosa significa avere 26 anni per un ricercatore scientifico? Vuol dire – se i doni naturali e la buona sorte lo hanno favorito – dare le prime importanti prove del proprio valore, confermare a se stesso una vocazione già coltivata, tendere l’intelligenza con energie ancora intatte, sognare grandi scoperte, riconoscimenti ambitissimi, allori indeperibili. A 26 anni: Newton era per salire sulla cattedra lucasiana ((Cattedra di Matematica fondata nel 1663 da Henry Lucas presso l’Università di Cambridge (N.d.C.).)) già tenuta da Barrow; Darwin viaggiava col Beagle a esplorare quel mondo naturale nel quale avrebbe letto le grandi leggi dell’evoluzione; Freud neolaureato in medicina, si preparava all’incontro con Charcot e con Breuer; Einstein cominciava a pubblicare le prime tesi sulla relatività; Fermi aveva enunciato i principi di quella “statistica” che porta il suo nome ma non ancora compiute le scoperte che gli avrebbero meritato il premio Nobel; Francis Crick ignorava anche il nome di Jimmy Watson, un ragazzo quattordicenne con il quale undici anni dopo avrebbe descritto al mondo la doppia elica del DNA.

A 26 anni, Jim Shapiro ha deciso di abbandonare per sempre la ricerca scientifica. Credo di essere il primo a darne notizia sulla stampa italiana, ma soltanto alcuni mesi fa i giornali e le emittenti televisive di tutto il mondo hanno parlato di lui, ne hanno diffusa l’immagine, esaltato il successo. Era novembre e dalla Harvard Medical School di Boston giungeva l’annuncio più emozionante dell’anno in tema di Biologia molecolare: tre ricercatori – J. Shapiro, J. Beckwith e L. Eron – avevano realizzato quello che, or non è molto, sembrava ancora un sogno lontano: isolare allo stato puro un gene di nota funziona biologica. Si trattava del “lac operon” di una cellula batterica: il gene, costituito da due eliche di DNA non più lunghe di un millesimo di millimetro, contenente tutte le informazioni necessarie per costruire un enzima che dà alla cellula la possibilità di utilizzare il lattosio per il suo metabolismo. Come Shapiro e i suoi colleghi siano riusciti a tanto, non è qui il caso di illustrare, né sarebbe facile in poche righe: basti dire che l’eleganza dei loro metodi e l’ingegnosità delle loro tecniche suscitarono incondizionata ammirazione in tutto il mondo scientifico.

E se tutti facessero come lui?

Per la prima volta teneva nella sua mano, in molte copie, un messaggio genetico di intellegibile significato: avrebbe potuto decifrarlo, simbolo dopo simbolo; romperlo e ricomporlo; distruggerlo e modificarlo; restituirlo alla sua sede originaria così mutato da mutare il destino stesso di una cellula o di un organismo: un batterio, una pianta, un animale. Un uomo?

Furono gli stessi ricercatori di Harvard ad ammonire – fatto ben insolito – sulle possibili implicazioni, minacciose anche se remote, della loro scoperta così da dichiararsene più preoccupati che soddisfatti. Uno di loro, come ho detto, ha sofferto tanto intensamente tale preoccupazione – espressa da lui in termini di “responsabilità politica del lavoro scientifico” – da portarla alle estreme conseguenze: lasciare la ricerca ad un’età e all’indomani di un successo che gli avevano aperto la strada verso i più ambiziosi traguardi. Una decisione drammatica sulla quale ogni ricercatore dovrebbe almeno riflettere. Anzitutto per chiedersi che cosa accadrebbe se tutti i ricercatori del mondo si comportassero come Jim Shapiro. La domanda è già stata posta negli anni scorsi pur con diversa formulazione: “Quanto perderebbe l’umanità se la ricerca scientifica fosse sospesa per il prossimo decennio?”. Cattiva formulazione perché prevede tante risposte quante sono le ipotesi su un inscrutabile futuro forse colmo di frutti come una cornucopia o di sventure come un vaso di pandora. Potrebbe essere più sensato riproporla così: “Quanto avrebbe perso l’umanità se la ricerca riprendesse oggi dopo essere stata sospesa nell’ultimo decennio?”. La mia risposta è “Moltissimo” sul piano del progresso scientifico-tecnologico e “Pochissimo” sul piano del benessere umano.

Rapporti tra scienza e potere

Sono le lame di questa forbice che hanno reciso lo stelo della vocazione scientifica di Jim Shapiro. È tra i poli di questa contraddizione che lampeggia il timore di una scienza non devota ma aliena o addirittura ostile agli uomini. Ed è lo spettro di questo anticipato rimorso che turba la coscienza di alcuni, non molti uomini di scienza. Ne dà testimonianza, ad esempio, la recente nascita della già molto nota Bssrs (Società Britannica per la Responsabilità Sociale della Scienza). Una seconda domanda che si pone a chi riflette sul caso del tanto giovane quanto celebre collega di Harvard è: “Per quale attività egli ha optato lasciando la ricerca?”. La risposta: “Politica” l’ha data egli stesso senza esitazione e senza dissimulazione del suo non intendere il termine nel senso dei Nixon o degli Humphrey, dei Johnson o dei Goldwater. Mi è difficile resistere alla tentazione di riconoscere in ciò conferma delle ipotesi già proposte da questa pagina sui rapporti tra “scienza” e “potere”. Ma mi sembra più importante notare che la scelta di Shapiro – da lui vissuta come dilemma – non è tale in senso assoluto ma relativamente al sistema nel quale si pone. Voglio dire che, con la sua decisione, egli ha espresso un giudizio: non tanto sulla ricerca scientifica ed il suo risultato quanto sulla società da cui l’una è espressa e l’altro usato in modi finalmente politici. Nello stesso tempo egli ha testimoniato – con coerenza spinta sino ai limiti della rinuncia – per una scienza che, anziché imbiancare di neutralità il proprio sepolcro morale, sia pronta a riconoscersi coinvolta e partecipe di tutte le responsabilità sociali e politiche ed a queste coordini le sue opzioni e il suo sviluppo.

Il suo messaggio, così come io lo intendo, non è dunque: “Si deve lasciare la ricerca per la politica” ma “Si deve operare per l’avvento di una società nella quale il ricercatore non debba più scegliere tra il suo impegno scientifico e il suo impegno politico”. Una società nella quale egli non si senta più possibile strumento di un potere privilegiato, ma creatore egli stesso di una totale partecipazione del potere.

Per questa battaglia Shapiro ha preso il suo posto di combattimento, per la stessa altri lottano all’interno delle istituzioni scientifiche; consapevoli tutti di una reciproca solidarietà. I disertori sono quanti vengono teorizzando la dieresi tra società scientifica e società politica, tra le “necessità” della prima e le “responsabilità” della seconda, tra i diritti dell’una e i doveri dell’altra. Sono gli stessi che, in America come in Europa, di fronte a un giovane studioso che nel giro di qualche mese ha fatto due grandi scoperte, hanno esaltato con ogni clamore la prima e coperto la seconda di pavido silenzio. Quale sia il significato di così diverso comportamento è l’ultima domanda che propongo alla riflessione del lettore.