Dossier “1970” Le radici operaie dell’ambientalismo italiano

Se assumiamo il 1970 come anno in cui sboccia la “primavera ecologica” siamo indotti a presupporre che la nuova pianta si alimentasse con radici già ben conficcate nel terreno negli anni precedenti. Ed effettivamente donne e uomini di scienza e di coscienza da tempo riflettevano e producevano elaborazioni importanti sulla crisi ecologica (in Italia Laura Conti, Giorgio Nebbia, Valerio Giacomini, tra gli altri), mentre nel vasto campo del protezionismo naturalista associazioni e singoli studiosi di diversa impostazione già operavano da tempo immemorabile.

Ma vi era un altro soggetto, troppo spesso ignorato, che ha offerto un contributo rilevante all’ambientalismo italiano: il movimento sindacale. Proprio il decennio che ha preceduto la “primavera ecologica” è stato ricco di elaborazioni e esperienze innovative e pionieristiche che hanno coinvolto ricercatori e esperti di igiene ambientale insieme ad attivisti e gruppi operai di fabbrica.

Il movimento sindacale italiano alle prese con la propria profonda crisi degli anni Cinquanta: le condizioni di lavoro come terreno per un rilancio di iniziativa e di ruolo.

Gli anni Sessanta sono stati per il movimento sindacale italiano, per la Cgil che pretendeva di ereditare il lascito ideale della Liberazione dal fascismo, gli anni della ripresa dal punto più basso di una crisi profonda consumatasi nel decennio precedente, dopo la scissione sindacale del 1948, con la violenta polemica tra le diverse confederazioni Cgil, Cisl e Uil che aveva indebolito strutturalmente la forza contrattuale dei lavoratori. La clamorosa sconfitta della Fiom alla Fiat nelle elezioni per le commissioni interne del 1955, quando i metalmeccanici della Cgil scesero dal 63 al 36 per cento dei voti, è passata alla storia come l’episodio simbolo di quella crisi, che investì direttamente il più grande sindacato operaio dell’epoca (la Fiom nel 1959 registrava il minimo degli iscritti dal dopoguerra, 185.000, contro i 637.000 del 1949) ((G. Polo, “Fiom 1901-2001. Il secolo dei meccanici”, in “Il manifesto” 16 giungo 2001,https://www.fiom-cgil.it/net/index.php/la-fiom/cenni-storici/6102-fiom-1901-2001-il-secolo-dei-meccanici .)). Lo shock provocato dalla sconfitta alla Fiat fu enorme e le forze conservatrici puntarono esplicitamente a ridurre ancor più il prestigio della Cgil fra i lavoratori e a ridimensionarne il peso, spingendo per una scissione della componente socialista. La Cgil avrebbe potuto rifugiarsi in un atteggiamento vittimista e consolatorio, adducendo motivazioni, peraltro reali, come la repressione del manager della Fiat, Valletta, i reparti confino e i licenziamenti politici, l’anticomunismo feroce del sistema all’epoca dominante. Invece la Cgil di Giuseppe Di Vittorio reagì con un’analisi rigorosa delle ragioni della sconfitta: una vera e propria autocritica, tanto più coraggiosa quanto più prescindeva dalle condizioni oggettive di difficoltà in cui i suoi dirigenti e i suoi militanti avevano dovuto agire. Si scavò nelle ragioni interne alla stessa politica sindacale propria della centrale di ispirazione socialcomunista: troppo rivolta ai grandi problemi nazionali e di politica internazionale, alle grandi mobilitazioni per la Pace e contro la Nato, ma poco attenta alle condizioni materiali dei lavoratori nei singoli luoghi di lavoro.

Si ammise l’errore di aver trascurato, pur nell’asprezza dello scontro politico di quegli anni, il rapporto fra condizione operaia e processo tecnologico, di aver sottovalutato il controllo operaio sul ciclo produttivo. Fu una vera e propria svolta per la Cgil, che accettò la sfida di misurarsi con la realtà dell’impresa riorientando la propria politica contrattuale, troppo accentrata dalla Confederazione, in direzione di una più diffusa articolazione. Un terreno che peraltro, fin dalla fondazione, era privilegiato dalla Cisl, pur in una versione che la Cgil considerava troppo ridotta ad un contrattualismo puramente economicistico e troppo condiscendente alle esigenze dell’impresa ((Cfr. S. Turone, Storia del sindacato in Italia (1943-1969). Dalla Resistenza all’Autunno caldo , Laterza, Bari 1976, pp. 215-313.)). Tuttavia, fu su quel terreno, a partire dai luoghi di lavoro, che si poté dare inizio ad un nuovo processo unitario, favorito anche da un ripensamento di settori della Cisl, dei metalmeccanici innanzitutto, delle proprie tesi collaborative, di fronte alla protervia di quelli che allora venivano definiti padroni ((Le prime e inedite esperienze di unità sindacale si realizzarono a Brescia, in particolare con la lotta contro il premio antisciopero alla Om-Fiat, tra il 1959 e il 1962, in piena guerra fredda tra mondo “libero” e mondo comunista, in cui sostanzialmente i democristiani della Fim-Cisl concorsero ad abbattere il muro del ghetto in cui la Fiat aveva confinato i comunisti della Fiom-Cgil. Cfr. F. Gheza, Cattolici e sindacato. Un’esperienza di base, Coines Edizioni, Roma 1975, pp. 107-124.)).

Centrali diventarono, dunque, i temi delle condizioni materiali di lavoro nelle fabbriche, della pesantezza e durezza del lavoro, del deterioramento della salute dei lavoratori per l’insalubrità o la pericolosità dei reparti di produzione e dei macchinari. Ma risalire la china non fu facile.

Infatti per tutti gli anni Cinquanta, ma anche per parte del decennio successivo, l’azione del sindacato per la sicurezza e la tutela della salute dei lavoratori si dispiegava essenzialmente su di un terreno meramente risarcitorio. L’impostazione era sostanzialmente quella che, in seguito, sarebbe stata definita della “monetizzazione della salute”. Emblematico, in questo senso, fu l'”accordo nazionale per la previdenza e l’assistenza aziendale ai lavoratori della ceramica e degli abrasivi soggetti e colpiti dalla silicosi” del’8 marzo 1963. In esso si istituivano Fondi assistenziali integrativi per la silicosi, “morbilità professionale tipica [sic!] in determinate lavorazioni della ceramica e degli abrasivi”, per misure sanitarie individuali e prestazioni mediche o eventuali supplementi alimentari e soggiorni climatici, nonché per “l’assegnazione ai lavoratori riconosciuti silicotici, con percentuale superiore al 60% che vengono allontanati dalle lavorazioni silicotigene e trasferiti col loro consenso ad altre mansioni, di un sussidio integrativo, in misura pari alla differenza fra i minimi tabellari delle loro categorie, per la durata di tre anni dal trasferimento”. Il danno veniva assunto come inevitabile, intrinsecamente connaturato a determinati processi tecnologici, per cui non rimaneva altro che rivendicarne un adeguato risarcimento economico. Proprio per questo i contratti di categoria in generale prevedevano un’indennità per le lavorazioni nocive.

Come si è detto, alcuni settori, sia della Cgil, sia della Cisl, stavano già riflettendo sull’urgenza di ricercare vie di uscita da questa crisi e percepivano l’importanza di un avvicinamento delle differenti organizzazioni a livello di azione comune per affrontare i temi della condizione di lavoro. Tornare uniti nelle fabbriche per occuparsi dei problemi concreti, della quotidianità del lavoratore fu pertanto la nuova parola d’ordine. E l’ambiente di lavoro divenne uno dei terreni privilegiati su cui portare la sfida della ricostruzione di un sindacato forte, incisivo e, almeno nell’azione, unito.

L’innovativa attività di ricerca di Giovanni Berlinguer

Mentre il movimento sindacale si trovava invischiato in un difficilissimo passaggio della propria storia, sul fronte della ricerca scientifica lavorava sui temi della condizione di lavoro, una figura che avrà un ruolo rilevante nella storia del nostro Paese, Giovanni Berlinguer (1924-2015), fratello di quello che sarebbe diventato segretario nazionale del Partito comunista, partito nel quale anch’egli militava ed avrebbe avuto ruoli importanti. Tra gli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, Berlinguer da laureato in Medicina e chirurgia nel 1952, si dedicò alla ricerca in medicina sociale ed igiene, discipline in cui avrebbe ottenuto l’abilitazione all’insegnamento, in seguito esercitato nelle università di Sassari e successivamente di Roma fino al 1999 (( )). Ebbene, proprio nel 1961, all’esordio di quel decennio fondamentale per la ripresa dell’iniziativa sindacale nei luoghi di lavoro, Berlinguer pubblicava un saggio, La macchina uomo ((G. Berlinguer, La macchina uomo, Editori Riuniti, Roma 1961.)) dedicato ad approfondire tutte le tematiche della condizione e dell’igiene del lavoro. Il testo uscì in un’edizione agile e popolare, particolarmente significativa L’enciclopedia tascabile degli Editori Riuniti, che, come si legge nella quarta di copertina ((“L’Enciclopedia tascabile, che si articola in quattro sezioni fondamentali: storia, economia e po­litica (collana arancione); letteratu­ra, arte e spettacolo (collana gial­la); filosofia e pedagogia (collana verde); scienze e tecnica (collana azzurra), vuole offrire al lettore un solido ed organico strumento di conoscenza, legato alla proble­matica più viva del mondo mo­derno e sostanziato dai migliori risultati delle correnti più avan­zate del pensiero contemporaneo”. Cfr. Ibid., Quarta di copertina.)), aveva il compito di informare e formare il “popolo comunista”.

Indubbiamente al lettore di oggi il titolo può far storcere il naso, rivelando un eccesso di “scientismo”, rispetto al quale tante lezioni apprese in questi 60 anni, non ultima quella della pandemia da Covid 19 in corso, ci hanno indotto un certo disincanto. È lo stesso atteggiamento che ritroviamo in quell’articolo del 1970 in cui sempre Berlinguer affrontava il tema della crisi ecologica aggiungendo che la posta in gioco sarebbe stata “l’alternativa fra il dissennato depauperamento e ilvantaggioso dominio della natura” ((G. Berlinguer, “Inquinatori e inquinati”, in “Rinascita” 26 giugno 1970, ora nella sezione “Documenti” di questo numero di “Altronovecento”.))[corsivo nostro]. Ma di questa controversa questione del rapporto tra uomo e natura parleremo più avanti.

Ciò che qui ci interessa è rilevare i tratti più significativi ed innovativi di quell’opera pionieristica, scientifica e nel contempo militante, di Berlinguer. Nella prima sezione introduttiva si soffermava sui fattori ambientali che condizionano il lavoro: la temperatura, la ventilazione, l’umidità; le polveri presenti nell’aria; l’illuminazione; i rumori e gli scuotimenti; la fatica e le pause; nonché i fattori sociali esterni, quali i servizi, i trasporti, l’abitazione ((G. Berlinguer, La macchina… cit., pp. 32-34.)). Nella parte centrale, La fatica e il riposo, l’analisi approfondiva nel dettaglio le nuove forme di organizzazione del lavoro che si erano imposte diffusamente anche nelle industrie italiane: dal cottimo, con una prevalenza del salario legata alla produttività individuale del lavoratore che incentivava l’autosfruttamento, al taylorismo raffinato dal sistema Mtm (misura dei tempi e dei metodi) che comportava una parossistica parcellizzazione del lavoro del singolo operaio, ridotto alle sequenze di un macchinario. Sono significativi i titoli dei capitoletti di questa sezione: Orari e produttività; I turni di lavoro; Ritmi e paura; La misura dei tempi; Esiste il tempo libero?; Igiene dell’ozio. Su quest’ultimo tema vale la pena citare quanto scriveva Berlinguer, prefigurando la battaglia per le 40 ore che sarà una delle conquiste dell’autunno caldo di fine decennio: “Due esigenze nascono contemporaneamente: la prima è che il massimo numero di lavoratori abbia la maggior parte possibile di tempo libero (quantità); la seconda è che di tale tempo sia fatto l’uso migliore (qualità)”((Ibid., p. 130.))Il capitoloigiene e sicurezza si apriva con una significativa citazione dal De morbis articficium, del 1770, di Bernardino Ramazzini, padre della medicina del lavoro, che avrebbe dato il nome a quell’istituto di ricerca bolognese animato da Cesare Maltoni, di cui si parlerà in seguito: “Consiglio dunque al medico che visita un infermo del popolo […] di sedersi qualche tempo su uno scranno come sopra una sedia dorata, interrogare l’infermo […] e a tali domande sia permesso di aggiungere la seguente: qual è il mestiere del malato?” ((Ibid., p. 144.)) . Quindi venivano individuate le criticità dell’igiene del lavoro: agenti tossici, agenti fisici e agenti derivanti da tensione emotiva ((Ibid., pp. 148-149.)), fattori che vedremo riproporsi nel “modello operaio”. Infine, scontata la critica alla legislazione vigente ed alle evidenti carenze della stessa, l’enfasi veniva posta sulla prevenzione:

La prevenzione è in realtà il punto più debole di tutto il nostro sistema sanitario, sia nel campo più generale della salute pubblica, che in quello della vita di fabbrica. La scienza medica si pone oggi l’obiettivo, ambizioso ma rea­lizzabile ed economicamente conveniente, oltre che umana­mente necessario, di impedire l’insorgere o l’aggravarsi delle malattie, prima che provochino danni irreparabili. […] Sarà necessario spostare l’ac­cento della prevenzione dalle malattie acute ed infettive, la cui diffusione tende a diminuire, a quelle croniche e degenerative, con metodi nuovi e con ravvicinamento del­l’opera del sanitario agli ambienti di lavoro. […] Accanto alle visite mediche preventive, altre misure sono necessarie nella fabbrica per impedire che, per causa di­retta o indiretta del lavoro, vi sia un peggioramento della salute degli operai. […] L’ostacolo principale alla effettiva tutela sanitaria e alla prevenzione non sta nel livello della scienza medica del lavoro: sta innanzitutto nel modo come le acquisizioni scientifiche vengono riflesse nelle leggi e nei regolamenti, e sta in secondo luogo nell’applicazione delle norme, che già vengono codificate con ritardo e con limi­tazioni rispetto alle esigenze medico-sociali, e per giunta restano inattuate in un gran numero di casi. Il problema centrale è quello dei controlli che gli specialisti, i poteri locali e i rappresentanti dei lavoratori possono realmente esercitare. ((Ibid., pp. 155-159.))

La soggettività negata dei lavoratori e le condizioni in cui erano costretti erano individuate come la vera causa degli stessi infortuni, che quindi andava rimossa:

Non è però perdere il proprio tempo il ricercare e il ri­muovere quelle cause soggettive o psicologiche degli in­fortuni che dipendono dalla fatica dell’operaio, dai ritmi e dagli orari di lavoro, dalle malattie, dalla qualifica pro­fessionale, dai salari insufficienti, dal senso di insicurezza dell’operaio nella fabbrica e nella società, dalla compres­sione della libertà nelle fabbriche, e così via: cioè da fat­tori non imputabili al singolo, ma all’organizzazione del lavoro in senso lato. (( Ibid. , p. 169.))

La centralità dei lavoratori veniva giustamente evocata anche rispetto al ruolo del “sanitario relativo agli ambienti di lavoro” e alle previste visite sia all’atto dell’assunzione sia periodicamente da finalizzare alla prevenzione. La figura del medico d’azienda, prevista a quei tempi per tali compiti, non era con tutta evidenza di per sé una garanzia, se la sua opera non fosse stata sottoposta al controllo operaio:

L’opera del medico d’azienda può essere veramente svolta secondo «scienza e coscienza» quando la fabbrica e lo stato costituiscono una reale armonia, senza contrasti di classe; o quando, in una fase di transizione, la proprietà privata viene sottoposta a limiti e controlli democratici, in primo luogo da parte degli operai. Quando cioè le garanzie del medico sono associate a quelle del lavoratore. ((Ibid. , p. 185.))

Controllo operaio e sicurezza, non casualmente, è il titolo del paragrafo finale di questo capitolo che rappresenta il cuore dell’opera. Constatata l’insufficienza del sistema pubblico di controllo, in particolare dell’Inail, per Berlinguer era determinante il ruolo dei lavoratori organizzati all’interno delle fabbriche, attraverso le strutture allora riconosciute dai contratti di lavoro, le commissioni interne, che, va ricordato, erano elette su liste di organizzazione:

Dove le Commissioni interne non esistono, o non funzio­nano, i contratti, di lavoro vengono violati, le norme di igiene e sicurezza restano sulla carta, i tempi e gli orari di lavoro sono fissati unilateralmente, le istituzioni sociali dell’azienda vengono gestite con metodi paternalistici e in funzione del profitto. Molto dipende dal grado di coscienza operaia che esiste in ogni fabbrica, evidentemente: più la rappresentanza è democratica, più essa gode dell’appog­gio dei lavoratori, maggiori diventano le sue possibilità di influire sull’organizzazione dell’azienda. ((Ibid. , p. 190.))

Si citava, quindi, la Svezia, come esperienza più avanzata di controllo degli operai sulle proprie condizioni di lavoro:

… in Svezia, che forse può vantare la più antica legislazione in materia, la legge 29 giugno 1912 prevede che in determinate aziende gli operai possano eleggere uno o più delegati perché li rap­presentino in tutte le questioni relative alla sicurezza e all’igiene del lavoro: i delegati dovranno tenersi continua­mente al corrente delle condizioni esistenti nel luogo di la­voro e adoperarsi per migliorarle al fine di garantire l’integrità fisica e la salute dei lavoratori, e dovranno essere sentiti (e le loro proposte prese in considerazione) dagli imprenditori e dai direttori dei lavori in tutte le questioni riguardanti la sicurezza o l’igiene. ((Ibid. , p. 191.))

Delineava, infine, i possibili percorsi per consolidare in Italia il controllo dei lavoratori sulla sicurezza e la prevenzione delle malattie:

È necessaria in Italia una nuova legge? Indubbiamente sarebbe utile, ma ci pare che se fosse attuato integralmente l’accordo sulle Commissioni interne, se questi organismi avessero più ampi poteri e vivessero ovunque di vita autono­ma, si potrebbe, almeno per ora, non dar vita a nuovi comi­tati. Le riforme successive dovrebbero piuttosto essere orien­tate sia verso la creazione delle unità sanitarie aziendali, co­me organi di un servizio sanitario nazionale, sia verso una collaborazione effettiva tra quelli che dovrebbero essere i tre pilastri della tutela della salute nelle aziende: il medico di fabbrica, la Commissione interna e l’Ispettorato del la­voro. Cioè lo specialista, il lavoratore e lo Stato. ((Ibid. , p. 192.))

L’ultimo tema con cui si chiudeva il lavoro di Berlinguer, Psicologia della libertà, era particolarmente significativo sotto diversi aspetti: sia perché poneva uno dei nodi, forse irrisolti, di un dibattito sviluppatosi nei decenni successivi, liberazione nel lavoro o dal lavoro, sia perché faceva intuire che cosa già ribolliva nel profondo di una coscienza operaia, per troppi anni negletta e compressa, che di lì a poco necessariamente sarebbe esplosa in una delle più importanti stagioni di lotte sociali. Veniva citata una recente inchiesta compiuta dall’ufficio studi delle Acli, l’associazione cattolica dei lavoratori che avrebbe svolto un ruolo importante nell’avvicinamento della Cisl all’idea di un’unità d’azione con la Cgil: in essa veniva rilevato che tra le aspirazioni di fondo dei lavoratori al primo posto, ovviamente, vi era la “sicurezza del posto di lavoro”, ma subito dopo, sorprendentemente, venivano le richieste di “essere più rispettati nel lavoro, rispettare la libertà, la dignità, le idee di tutti, senza discriminazioni e rappresaglie”, ben prima degli aumenti salariali o altre rivendicazioni strettamente sindacali, che pure meritavano preoccupata attenzione ((Ibid., p. 234.)) . E commentava l’autore:

Le due aspirazioni più diffuse, nella pratica, tendono a coincidere. […] L’aspirazione del lavoratore alla libertà, in relazione sia al lavoro che egli compie sia alla più ampia comunità in cui egli vive, è una riconosciuta necessità non solo per risollevare l’uomo alla sua naturale dignità, ma anche per garantire la sua igiene mentale ((Ibid., p. 235.)).

Veniva qui prefigurato il tema della umanizzazione del lavoro e della dignità dell’operaio che avrebbe accompagnato e sostenuto il nuovo protagonismo per un ambiente più salubre e che sarebbe sfociato nelle lotte del ’69 e nell’introduzione in fabbrica della Costituzione con lo Statuto dei diritti dei lavoratori. Si potrebbe concludere che Giovanni Berlinguer, con quel libretto dell’Enciclopedia tascabile, avesse ben seminato.

Il “modello operaio” di intervento sull’ambiente di lavoro

Da questo contesto politico e culturale, infatti, provenivano due figure chiave della nostra narrazione, che certamente avevano presente la lezione di Berlinguer, Ivar Oddone (1923-2011)((F. Carnevale, “In memoria di Ivar Oddone”“Epidemiologia e prevenzione”, 2011, n. 5,https://www.epiprev.it/attualit%C3%A0/memoria-di-ivar-oddone-1923-2011 .))e Gastone Marri (1921-2006)((“È morto Gastone Marri, il padre della “medicina dei lavoratori”, “www.rassegna.it”21 maggio 2006. http://archivio.rassegna.it/2006/sicurezza/articoli/marri.htm .)), il primo medico del lavoro a Torino, il secondo Direttore a Roma dell’Inca Cgil, il patronato che assisteva i lavoratori infortunati o affetti da malattie professionali, figure che, insieme allo stesso Giovanni Berlinguer, ho avuto il piacere e la fortuna di conoscere e frequentare personalmente. Costoro ebbero un ruolo fondamentale, insieme ad alcuni gruppi di delegati ed operai della Farmitalia e della Fiat di Torino, nell’avviare nei primi anni Sessanta un’esemplare e rivoluzionaria esperienza sull’ambiente di lavoro e la salute nella fabbrica. ((Regione Piemonte, Dal gruppo operaio omogeneo alla prevenzione, Torino 1976.))

Essi ribaltarono, con un lavoro rigoroso di ricerca e di intervento sul campo, quel paradigma risarcitorio cui si è fatto cenno e fino ad allora egemone, sviluppando una nuova metodologia di intervento negli ambienti di lavoro e una pratica conseguente che trovò una sistematica definizione nel cosiddetto “modello operaio” (( I. Oddone, G. Marri, S. Gloria, G. Briante, M. Chiattella. A. Re, Ambiente di lavoro. La fabbrica nel territorio, Esi, Roma 1977; I. Oddone, A. Re, G. Briante, Esperienza operaia, coscienza di classe e psicologia del lavoro, Einaudi, Torino 1977.)), divulgato attraverso una dispensa che sarebbe diventata una sorta di “libretto rosso dei delegati” ((La definizione è di Valerio Castronovo. Cfr. V. Castronovo,Fiat. 1899-1999. Un secolo di storia italiana, Rizzoli, Milano 1999, p. 1.214.)). Questa metodologia metteva gli stessi operai nelle condizioni di prendere coscienza della nocività e del rischio di cui soffrivano, dei possibili danni alla salute, delle misure da adottare; ma, innanzitutto, si trattava di un’impostazione che valorizzava la partecipazione e la lotta dei lavoratori e quindi la capacità di organizzarsi e di contrattare all’interno della fabbrica.

Come si è detto, la situazione dei lavoratori alla fine degli anni ’50, per quanto riguardava la tutela della salute, era caratterizzata da un livello elevato di infortuni sul lavoro e dalla diffusione di patologie professionali tradizionali, come la silicosi, l’asbestosi, la sordità, il saturnismo. Nelle grandi fabbriche esistevano soltanto alcuni comitati paritetici con pochi poteri e nella realtà subalterni agli imprenditori. Gli istituti sindacali di assistenza sviluppavano principalmente un lavoro per il riconoscimento della causa professionale delle malattie e per la richiesta del relativo indennizzo. Il sistema istituzionale di assistenza ai lavoratori era centralizzato e frammentato in varie entità tra il Ministero della Sanità e del Lavoro e della Previdenza Sociale: l’Ispettorato del Lavoro per i controlli, l’Enpi per gli infortuni, l’Inail per gli indennizzi, le mutue aziendali e gli ospedali convenzionati per la cura delle malattie. ((G. Berlinguer, La macchina… cit., pp. 141-199.))In conclusione un sistema, a volte corrotto, inefficace e, soprattutto, che ignorava la questione prioritaria, cioè la prevenzione.

Ad Oddone, Marri e compagni ((Andrebbe citato anche Giancarlo Vicinelli dell’Inca Lombardia che collaborò attivamente all’impresa di Oddone e Marri.))fu subito chiaro che per ottenere un mutamento radicale, per rompere la pratica della monetizzazione e affermare il principio che “la salute non si vende”, era indispensabile una mobilitazione e una partecipazione consapevole di chi era direttamente colpito da questa situazione, quindi, degli operai. Per questo, però, la predicazione ideologica non era sufficiente come neppure serviva delegare ai tecnici il compito di studiare il problema e trovare soluzioni. I lavoratori avrebbero mantenuto un atteggiamento passivo mentre sarebbe stato necessario che essi stessi divenissero i diretti protagonisti dell’iniziativa contro la nocività e per la prevenzione nei luoghi di lavoro.

Per comprendere il loro percorso mi sembra illuminante, e dunque meritevole di una lunga citazione, la testimonianza di Fulvio Perini su Ivar Oddone ((Fulvio Perini è nato a Torino il 3 giugno 1948, sindacalista nella Cgil dal 1971 al 2006, è stato membro del Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro dal 2001 al 2009 e nel comitato scientifico dell’Istituto Superiore di prevenzione e sicurezza sul lavoro dal 2007 al 2010. Collabora con Actrav, l’organismo di rappresentanza dei lavoratori nell’ambito dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, sempre in materia di salute e sicurezza dei lavoratori.)),

Il suo percorso di ricerca ha una origine professionale, interrogandosi sulle origini delle malattie che incontrava curando i propri pazienti come medico della cassa mutua. L’esperienza sull’amianto Ivar Oddone l’ha più volte citata come contraddizione e stimolo che lo spinse al passaggio da intellettuale illuminato che informava i lavoratori sul danno a ricercatore in un progetto per la elaborazione di un modello per il controllo della nocività ambientale. Scriveva: ” si sente spesso parlare di classe operaia da sensibilizzare … chi afferma questo o è disinformato o è incapace di interpretare la realtà di un atteggiamento operaio di fronte ai danni da lavoro “. Voleva conoscere il lavoro nei nuovi processi produttivi, quelli che tutti noi abbiamo chiamato taylorismo. Racconta Aldo Surdo, membro di Commissione interna alla Fiat dal 1953 al 1970 […]: ” Una volta […] Pugno mi disse: Senti, c’è un medico che vuole sapere come si lavora in linea, cosa succede in linea … i tempi … il modo di produrre … e vorrebbe parlarne. Sei disposto ad incontrarlo? Io gli dissi che avrei fatto con lui un incontro invitando anche Osella che, oltre che membro di Commissione Interna, era anche stato nel Consiglio di Gestione. La riunione l’abbiamo fatta in casa di Oddone, lui ha cominciato a fare domande e noi rispondevamo … la cosa che abbiamo notato, tutti e due, è che le domande che faceva Oddone erano domande che entravano nel merito di come lavoravano gli operai: la fatica, lo sforzo fisico, la posizione, eccetera … il problema dei ritmi, dell’accelerazione quando mancava il rifornimento di pezzi o perché c’era stato un guasto in verniciatura e quindi bisognava recuperare .” Terminando con un giudizio: ” Comunque, era un tipo diverso dal solito; conoscevamo qualche altro medico compagno. Trattavano bene i compagni, erano magari medici della mutua Fiat, qualcuno di questi, ma questo medico, invece, cercava di capire quale era il tipo di fatica che facevano gli operai “. Questo incontro risale al 1959. In quegli anni matura un’altra scelta, quella del superamento della figura del consulente del sindacato, il conoscitore che si sostituisce ai rappresentanti diretti dei lavoratori nei rapporti con l’impresa perché più “competente”. Partecipò nel 1961 come esperto del sindacato alle trattative sull’ambiente di lavoro alla Farmitalia di Settimo Torinese – la prima grande lotta per cambiare l’ambiente di lavoro che durò quasi un mese – e maturò la scelta definitiva di operare in modo che fossero i lavoratori ed i loro rappresentati diretti ad elaborare le proposte credibili di soluzione dei problemi di nocività. Iniziò una nuova esperienza. Non era ancora quella dell’istruzione al sosia, ma la preparazione degli incontri con la direzione aziendale e delle trattative avveniva nei giorni precedenti, in riunioni presso la Camera del Lavoro o la quinta Lega dove se ne simulava lo svolgimento in funzione degli obiettivi sindacali in materia di ambiente di lavoro. Questa esperienza sollecitò altri due ambiti di approfondimento: cosa pensavano i sindacalisti professionali e cosa ne pensavano i lavoratori delle nocività in fabbrica. Il fascicolo con le interviste ai sindacalisti fece emergere la necessità di offrire strumenti non solo ai lavoratori ma anche al sindacato. Ben più interessante l’esperienza del rapporto con i lavoratori, della necessità di conoscere il loro linguaggio. La ricerca del rapporto con i lavoratori, lo studio del loro linguaggio, dei loro problemi e delle loro attese avveniva in un contesto in cui il sindacato era ancora fuori dalla fabbrica. […] Alla Fiat Mirafiori degli anni ’50 e ’60 era proprio così, i membri di commissione interna della Fiom non potevano lasciare il loro posto di lavoro pena le sanzioni disciplinari o il licenziamento. L’unica possibilità era data dalle comunicazioni radio della Commissione interna ai lavoratori durante le pause per mensa, ed il grado di condivisione alle proposte del membro di commissione interna che parlava era dato dai suoni più o meno intensi che si potevano emettere percuotendo con una posata il gamellino. Nelle comunicazioni si trattavano molti problemi, compresi quelli sui rischi, compreso quello che adesso chiamiamo genericamente mobbing: Aldo Surdo si prese tre giorni di sospensione dal lavoro quando affermò nella comunicazione radio “Stiano attenti i capi con i loro ricatti e le loro minacce”. […] Aldo Surdo è uno dei tre operai indicati tra gli autori della dispensa, assieme ad Armando Caruso e Natale Cerruti, e sarà lui a presentare la proposta di un primo modello capace di garantire un minimo di efficienza ai fini del controllo della nocività ambientale. […] Si era giunti ad una elaborazione che verrà chiamata la “dispensa”. Il lavoro che portò al modello della dispensa durò anni, con un lavoro alle porte della Fiat Mirafiori da parte della quinta lega Fiom. Era essenzialmente di inchiesta sulle condizioni di lavoro e di informazione, sempre alle porte, sui risultati, con cartelloni e “spicheraggi”. I questionari erano molto semplici e rappresentavano una delle modalità per affrontare il problema del linguaggio. Questa attività era accompagnata da riunioni settimanali in quinta lega con il funzionario sindacale ed i membri di commissione interna, senza permessi sindacali, che non c’erano. Fu in quegli anni che si giunse alla definizione dei lavoratori come “esperti grezzi”. Con il 1966 il lavoro alle porte comincia ad essere svolto congiuntamente dalla Fiom e dalla Fim Cisl, ma non c’erano ancora le condizioni di un lavoro permanente di elaborazione comune per un modello di intervento e controllo sull’ambiente di lavoro fondato sulla partecipazione diretta dei lavoratori. Si giunse, così, alla prima elaborazione del modello con una pubblicazione Fiom torinese, ancora senza i disegni dell’omino e delle sue esposizioni ai fattori di nocività. Era quello presentato da Aldo Surdo alla conferenza nazionale della Fiom a Desenzano. Nel 1969 verrà pubblicata nella forma che conosciamo dalla Fiom nazionale ed un anno dopo ci sarà la ristampa unitaria ((F. Perini, Ivar Oddone e l’azione del sindacato, testimonianza in occasione del Convegno in ricordo di Ivar Oddone, organizzato dalla Cgil di Torino il 29 novembre 2012. Sull’esperienza alla Fiat si veda: A. Milanaccio, L. Ricolfi, Lotte operaie e ambiente di lavoro. Mirafiori 1968-’74, Einaudi, Torino 1976.)).

Oddone, mentre procedeva con le sue esperienze sul campo in particolare con gli operai delle Fiat e della Farmitalia, trovava un interlocutore attento ed interessato a Roma, alla Cgil nazionale, e precisamente al Patronato Inca, in Gastone Marri che ne era diventato dirigente dai primi anni Cinquanta. Grazie anche al rapporto stretto che intratteneva con Giovanni Berlinguer, Marri da tempo riteneva che l’Inca non dovesse limitarsi all’attività assistenziale risarcitoria dei danni subiti dai lavoratori (malattie professionali e infortuni), ma che dovesse diventare parte attiva in quell’opera di prevenzione, quindi di intervento sull’ambiente di lavoro, indispensabili per evitare i danni subiti dai lavoratori. Nel 1964 promosse un importante convegno a Roma, sui rischi da lavoro ((Atti del Convegno nazionale sui rischi da lavoro , Roma, 17-18-19 aprile 1964, promosso e organizzato, d’intesa con la CGIL, dall’Istituto nazionale confederale di assistenza, Glaux, Napoli 1964.)), da cui scaturì la costituzione, l’anno dopo, del Crd, Centro ricerche e documentazione sui rischi e danni da lavoro, che dal 1968 pubblicò ogni due mesi “La rassegna di medicina dei lavoratori”, rivista uscita fino al 1973 e trasformatasi nel trimestrale “Medicina dei lavoratori” quando si costituì il Crd unitario, sempre diretto da Marri, ma facente capo alla Federazione Cgil-Cisl-Uil, esperienza durata fino al 1983, quando si concluse la fase della Federazione unitaria. In questi anni la collaborazione con Oddone fu strettissima, in particolare nella preparazione e stesura della dispensa Ambiente di lavoro. 

La dispensa fu lo strumento per attivare il circuito virtuoso della partecipazione attiva e consapevole di lavoratori, rendendo omogenea e facilmente realizzabile l’analisi dell’ambiente di lavoro come causa di malattia, usando una griglia ed un linguaggio comuni a tutti gli operai. In questo senso si trattava di individuare delle categorie conosciute da ogni operaio per classificare i fattori di nocività, categorie presenti nella loro mente, nella loro esperienza e nel loro linguaggio. Il primo gruppo di fattori fu identificato, quindi, come l’insieme degli elementi a cui si pensa quando si valuta la salubrità di una casa: illuminazione, umidità, ventilazione, rumore. Il secondo gruppo fu definito come l’insieme degli elementi che vengono alla mente a chiunque pensi alla fabbrica: gas, fumi, vapori, polveri. Un terzo gruppo di elementi era rintracciabile nelle denunce degli operai in relazione al tipo di attività lavorativa ed ai suoi effetti sul fisico umano: stanchezza, fatica derivata dal sollevamento e dall’impegno muscolare. Infine un quarto gruppo si riferiva al logoramento psichico causato dall’organizzazione del lavoro, vale a dire, secondo la terminologia in uso nella contrattazione sindacale, gli “effetti stressanti”: ritmi eccessivi, monotonia, ripetitività, ansia ((Questa procedura si tradusse in una dispensa elaborata nel 1967, pubblicata nel 1969 dalla Fiom e poi assunta unitariamente dalla Federazione dei Lavoratori metalmeccanici nel 1971 e successivamente dalla Federazione Cgil-Csil-Uil. Cfr I. Oddone e altri, op. cit., pp. 5-59.)). Con questa metodologia gli stessi operai avevano la possibilità di analizzare il proprio ambiente di lavoro, attraverso l’esperienza soggettiva, e di elaborare una “mappa grezza dei rischi” presenti nella fabbrica. L’esperienza degli operai assumeva così valore scientifico, sia per la conoscenza del processo produttivo, sia per la valutazione della nocività((La medicina del lavoro , dossier di “Sapere”, n. 775, Bari febbraio 1975. Su questo straordinario periodo si veda anche F. Carnevale, A. Baldasseroni, Mal di lavoro. Storia della salute dei lavoratori, Laterza, Bari 1999, pp. 230-277.)). La dispensa appare ancora oggi un capolavoro, sia per i contenuti che, con un percorso dal basso, convergono con le acquisizioni scientifiche più avanzate, quelle che abbiamo visto nel libro di Berlinguer, sia per la metodologia fondata su una partecipazione reale e attiva dei lavoratori, sia per le tecniche comunicative “rivoluzionarie”, dal linguaggio semplice comprensibile a tutti e allo stesso tempo rigoroso, alla grafica del famoso operaio stilizzato alle prese con i simboli delle diverse fonti di nocività ((Questi ricchissimi materiali si posso facilmente rintracciare e scaricare in un sito dedicato alle lotte sindacali della Fiat di Mirafiori: G. Marri, I. Oddone, Ambiente di lavoro, Editrice sindacale italiana, Roma 1967; http://www.mirafiori-accordielotte.org/wp-content/uploads/2012/10/1967-Oddone-e-Marri-Lambiente-di-lavoro.pdf La dispensa, testohttp://www.mirafiori-accordielotte.org/wp-content/uploads/2012/10/1967-dispensa-AdL-con-testo.pdf e in power point http://www.mirafiori-ccordielotte.org/wp-content/uploads/2012/10/1967-2a-la-dispensa.ppsx .)).

In questo contesto, come la tecnologia non era più un idolo al quale immolare la salute dei lavoratori, anche il ruolo dei tecnici non risultava più assoluto ed esclusivo, ma di appoggio e consulenza all’azione degli operai e del sindacato. Centrali e decisive erano sempre la soggettività operaia e la “validazione consensuale dei lavoratori”. Ad esempio la valutazione della compatibilità della stanchezza fisica o degli effetti stressanti presupponeva necessariamente il giudizio degli uomini che erano sottoposti a quelle condizioni. Come conseguenza, la centralità dei tecnici fu sostituita dalla centralità operaia che concretamente metteva così in discussione la presunta oggettività della scienza. D’altra parte molti tecnici si impegnarono in questa esperienza apportandovi conoscenze importanti da utilizzare proficuamente, senza però pretendere di risolvere da soli il problema del risanamento degli ambienti di lavoro. Per questo obbiettivo, per rimuovere alla radice i rischi, occorreva un rapporto di forze dentro la fabbrica che soltanto la partecipazione cosciente e la mobilitazione dei lavoratori potevano conseguire.

Questo metodo, pertanto, prevedeva che le conoscenze servissero al cambiamento, con un rapporto stretto tra teoria e pratica: a partire dalla mappa dei rischi elaborata dai lavoratori nel gruppo operaio omogeneo si effettuavano le indagini dei tecnici con strumenti adeguati per misurare esattamente, dove possibile, il livello dei rischi e per definire un piano di risanamento con l’obbiettivo di risolvere i problemi che pregiudicavano la salute dei lavoratori nella fabbrica: tutto ciò, infine si traduceva in una vera e propria piattaforma di rivendicazioni che, sostenuta dalla lotta dei lavoratori, diventava la base della contrattazione con gli imprenditori. Quindi la contrattazione collettiva nell’impresa rappresentava lo sbocco di tutta l’iniziativa sulle condizioni ambientali, era la via per conseguire l’eliminazione o comunque la riduzione dei rischi nella fabbrica, cioè per una prevenzione primaria efficace. In questo percorso va rilevata l’importanza del gruppo operaio omogeneo, formato dai lavoratori che all’interno del processo produttivo si trovavano in analoghe condizioni ed esposizioni ai rischi. Esso diventerà la base di un radicale cambiamento della rappresentanza dei lavoratori in fabbrica: fino ad allora, con le Commissioni interne elette sulla base delle tre sigle sindacali, Cgil, Cisl e Uil, le rappresentanze rispecchiavano le diverse e contrastanti ideologie, ma, spesso, non le reali condizioni e i bisogni dei lavoratori. Con l’affermarsi dei gruppi operai omogenei, protagonisti della lotta per migliorare le condizioni e l’ambiente di lavoro, la logica delle Commissioni interne venne superata e si affermarono nuove forme unitarie e più combattive di rappresentanza sindacale, i Consigli di fabbrica i cui membri erano eletti su scheda bianca appunto dai gruppi operai omogenei. Una rivoluzione organizzativa che alimentò la grande stagione di lotte unitarie tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta ((B. Trentin, Il sindacato dei consigli. Intervista di Bruno Ugolini, Editori Riuniti, Roma 1980.)).

Le grandi lotte culminate con l’autunno del 1969 raccolsero e rilanciarono questo straordinario patrimonio accumulato nel decennio. Secondo Sergio Bologna, delle quattro grandi idee-forza di quel movimento, oltre agli aumenti uguali per tutti, tre sarebbero riconducibili a quelle tematiche dell’ambiente di lavoro che sin qui abbiamo evocato:

La seconda idea-forza fu quella di conquistare il rispetto per la propria dignità come persona prima ancora che come operaia/o. Mancavano gli spogliatoi, le docce, le perquisizioni personali erano una routine. E poi le multe, le sospensioni, i favoritismi, i ricatti. Un sistema che umiliava la persona. Questo spiega la collera e la durata della rabbia nel corso di un decennio, era la dignità offesa della persona che si vendicava, era la convinzione che era necessario uno stato di vigilanza permanente, altrimenti si tornava alla condizione precedente l’autunno caldo. Lo Statuto dei Lavoratori, approvato nel maggio 1970, teneva conto di questo: agli artt. da 1 a 13 che riguardavano “Della libertà e dignità del lavoratore”, si impediva alle guardie giurate di entrare nelle linee di produzione, si trasferiva dai medici aziendali all’Inps la titolarità delle visite fiscali, si vietava il controllo del personale a distanza con apparecchiature audiovisive. Le norme più efficaci furono l’art. 7 sulle sanzioni disciplinari e l’art. 13 sul trasferimento ad altre mansioni del lavoratore. Lo Statuto rappresentò il riconoscimento di legge che la condizione operaia in Italia era tale da offendere la dignità della persona.

Terza idea-forza, la riduzione dei ritmi di lavoro mediante l’autoriduzione. […] Questa forma di lotta si diffuse rapidamente e fu praticata per tutto il decennio; si accompagnava a rivendicazioni salariali che dal cottimo si trasferivano alla paga base.

Quarta idea-forza: la difesa dell’integrità fisica del lavoratore. Pilastro fondamentale nel cambiamento di mentalità delle masse operaie fu l’atteggiamento verso la propria salute, la lotta contro la nocività dell’ambiente e delle lavorazioni. È il lascito più consistente di quella stagione, dovuto in gran parte al coinvolgimento della classe medica, che vedeva aprirsi nuovi orizzonti alla deontologia professionale con l’emergere di nuovi modelli di prevenzione e trattamento della malattia. Si ebbe una forte innovazione nella medicina del lavoro. Su questo terreno si aprì un rapporto tra operai e tecnici che permise di discutere del rinnovamento degli impianti o della gestione delle manutenzioni in maniera costruttiva ((S. Bologna, Il ‘lungo autunno’: le lotte operaie degli anni settanta, in F. Amatori (a cura di), L’approdo mancato. Economia, politica e società in Italia dopo il miracolo economico , Annali Feltrinelli, LI, 2016-2017, Feltrinelli, Milano 2017, pp. 119-121.)).

Gli anni ’70 furono il periodo di maggior sviluppo della contrattazione articolata nelle imprese ad un livello qualitativo molto elevato, innanzitutto sulle condizioni di lavoro (orari, carichi, ritmi, ambiente…). Furono firmati migliaia di accordi, che coinvolsero milioni di lavoratori e che introducevano apprezzabili miglioramenti nella prestazione del lavoro dipendente, ma anche nell’instaurazione all’interno delle aziende di sistemi di abbattimento delle emissioni inquinanti, a volte con effetti positivi anche sull’ambiente circostante ((Sarebbero auspicabili delle ricerche territoriali e di dettaglio per far emergere pienamente la ricchezza e la straordinarietà di quella stagione che, a mio parere, ha in qualche modo rifondato l’Italia del dopoguerra, riavvicinandola all’immagine che era stata delineata dal Patto costituzionale, riducendo lo iato tra costituzione formale e costituzione materiale. Un lavoro simile a quello compiuto per la storia della Resistenza. Citiamo a mo’ di esempio la ricerca sul Bresciano, R. CucchiniM. Ruzzenenti, L’ambiente di lavoro tra razionalità tecnologica e ragioni dell’uomoL’esperienza bresciana negli anni Settanta , “Altronovecento”, n. 3, giugno 2000, http://www.fondazionemicheletti.it/altronovecento/articolo.aspx?id_articolo=3&tipo_articolo=d_saggi&id=203 Le fonti sono sterminate, oltre all’archivio della Cgil centrale -di cui si dà conto nell’articolo di Ilaria Romeo in questo stesso numero di “Altronovecento”- gli archivi delle Camere del Lavoro provinciali, dei sindacati dell’industria e l’imponente archivio del Crd di Marri conservato presso l’Inail e digitalizzato, Repository della documentazione sindacale sulla prevenzione dei rischi, la salute e sicurezza sul lavoro, il cui accesso è libero, previa la registrazione al portale Inail e l’invio di una email all’apposita casella di posta crd@inail.it.)).

Contemporaneamente il movimento sindacale si mobilitò per ottenere, oltre ad importanti provvedimenti per le pensioni e le case popolari, la riforma del sistema sanitario. Quest’ultima, approvata nel 1978, si fondava su alcuni assunti di base: la salute intesa come condizione di benessere è un diritto di tutti i cittadini garantito dallo Stato e il livello di assistenza deve essere uguale in tutto il paese e assicurato a tutti. Il “modello operaio” veniva esplicitamente riconosciuto per la tutela della salute nei luoghi di lavoro ed alcuni principi da esso elaborati erano recepiti come fondamenta di tutto l’impianto del nuovo sistema sanitario: le priorità della prevenzione e quindi di un ambiente risanato e della partecipazione ((G. Carnevale, C. Perucci, Guida pratica ai nuovi servizi sanitari, NIS, Roma 1980)).

Il “modello operaio” ebbe in quegli anni anche una risonanza internazionale: fu studiato e praticato, con gli opportuni adattamenti, da vari sindacati europei e anche oltreoceano ebbe notevole seguito, dall’America Latina ((Al sottoscritto è occorsa l’opportunità di contribuire in un progetto di cooperazione internazionale tra Progetto sviluppo, Ong delle Cgil, e sindacato Cut del Brasile tra il 1989-1990 alla costruzione di una struttura finalizzata alla prevenzione negli ambienti di lavoro, che si basava, appunto, su conoscenze ed esperienze condivise del “modello operaio”, l’Instituto Nacional de Saúde no Trabalho, Inst. http://www.fetecpr.org.br/instituto-nacional-de-saude-no-trabalho-inst/ .))al Giappone.

Una costola di questo movimento, di grande rilevanza sia per il contributo originale di elaborazione e di ricerca offerto nel corso degli anni, sia per la costanza di impegno ed il lascito tuttora vivo, fu quella che ebbe origine dal felice incontro tra Luigi Mara (1940-2016) ((Luigi Mara e Medicina democratica: la stagione del modello operaio di lotta alla nocività, Atti del convegno presso l’Università egli studi di Milano, 20 ottobre 2018, in “Medicina Democratica”, n. 237-239, gennaio-giugno 2018.)), che proprio in quel cruciale 1969 aveva dato vita al Gruppo di prevenzione ed igiene ambientale del Consiglio di fabbrica della Montedison di Castellanza, e Giulio Alfredo Maccacaro (1942-1977)((Conoscenze scientifiche, saperi popolari e società umana alle soglie del Duemila: attualità del pensiero di G. A. Maccacaro, Atti del convegno internazionale presso l’Università degli studi di Milano, 23-25 gennaio 1997, “Quaderni di Medicina Democratica”, Milano ottobre 2018.)), medico, scienziato, organizzatore sociale e culturale, che diresse, rinnovandola, la rivista “Sapere” dal 1974 alla sua scomparsa prematura il 23 gennaio 1977 e fondò la rivista degli epidemiologi italiani, nel 1976, “Epidemiologia & Prevenzione” ((“Epidemiologia e prevenzione”, rivisita dell’associazione italiana di epidemiologia,https://www.epiprev.it)). Insieme daranno vita a Medicina Democratica, Movimento di lotta per la salute, a Bologna il 15-16 maggio 1976, e alla rivista “Medicina democratica”, movimento e rivista tutt’ora attivi operanti con grande efficacia a livello nazionale ((Atti del convegno di Medicina Democratica a 40 anni dal suo primo congresso di Bologna (1976), tenutosi a Milano il 20-21 gennaio 2017, in “Medicina democratica”, n. 231-232, gennaio-aprile 2017.)). Se, scontando un certo schematismo, si volesse individuare la specificità di questo filone rispetto a quello sindacale sopra ricostruito, credo lo si possa rintracciare, da un canto, in una più severa critica alla presunta oggettività della scienza, soprattutto rispetto a quella fiducia che traspare in particolare in Berlinguer, dall’altro, in una ferma coerenza, mantenuta fino ad oggi, tra i principi e la pratica sociale e sindacale, intransigenza che emerse ad un certo punto nel conflitto tra il Consiglio di fabbrica di Castellanza e la direzione nazionale del sindacato dei chimici((E. Davigo, Salute e ambiente in fabbrica. Il Consiglio di fabbrica della Montedison di Castellanza (1969-1982) , in “Medicina Democratica”n. 227-230, maggio-dicembre 2016, pp. 15-46.)). Sta di fatto che, anche grazie a questa testarda coerenza, l’esperienza di Medicina democratica, pur minoritaria, continua, mentre il sindacato sembra aver totalmente archiviato e dimenticato quel patrimonio ((Ricordava Fulvio Perini, nella testimonianza citata su Ivar Oddone: “Quando ci lasciò Gastone Marri, il segretario di un importante sindacato di un Paese europeo telefonò alla Cgil per esprime le condoglianze, scoprendo che per la Cgil nazionale era uno sconosciuto”.)).

L’eredità della stagione del “modello operaio” per la salute nei luoghi di lavoro

E qui veniamo al lascito ambientalista di quella stagione. Nella ricerca che avevamo compiuto 20 anni fa con Roberto Cucchini sulla provincia di Brescia, uno dei territori a più intensa industrializzazione d’Italia, concludevamo che nel complesso in quegli anni si ottennero risultati che modificarono profondamente gli ambienti di lavoro e soprattutto l’atteggiamento dei lavoratori verso i rischi e le nocività indotte dalle tecnologie produttive. Da questo punto di vista si può riconoscere un significato universale di alcuni aspetti del “modello operaio” che hanno valore ancor oggi e che anticiparono molti principi della stessa cultura ambientalista che si sarebbe sviluppata in particolare nel decennio successivo:

– l’esperienza soggettiva e la partecipazione cosciente di chi è coinvolto direttamente come presupposti necessari per ottenere la prevenzione dei rischi e il risanamento ambientale.

– la necessità di rimuovere alla fonte i fattori di rischio e di inquinamento, rifiutando la logica della monetizzazione e dell’indennizzo.

– la “non delega” all’onnipotenza della scienza e quindi ai tecnici, il cui ruolo, tradizionalmente considerato assoluto e indiscutibile, diventò di consulenza e sostegno ai lavoratori, depositari, in ultima istanza, del diritto di verifica e di controllo, la cosiddetta “validazione consensuale”.

Ma non vi fu soltanto una “rivoluzione culturale”: notevoli furono anche i risultati concreti di questo movimento che portò poi, come già si è detto, alla Riforma sanitaria e, successivamente, nel 1994, al Decreto legislativo 626 ((Su questo importante strumento legislativo per la prevenzione e la sicurezza nei luoghi di lavoro si veda: Conferenza dei presidenti delle Regioni e delle Province Autonome, Linee guida per l’applicazione del D. Lgs 626/94, ASL, Ravenna 1996. Sulla cultura e le esperienze che l’hanno preparato si veda: S. Garzi, Promozione della salute ed azioni innovative nei luoghi di lavoro, Angeli, Milano, 1993.))sulla sicurezza e la salute negli ambienti di lavoro: il fenomeno degli infortuni, pur ancora a livelli non tranquillizzanti, si era ridimensionato, come sono diminuiti nuovi casi di malattie professionali tradizionali (silicosi, asbestosi, saturnismo…). A livello nazionale, a questo proposito, è significativo l’andamento nel corso degli anni. “La riduzione maggiore si è verificata nel periodo compreso tra il 1970 ed il 1986, durante il quale si è potuta registrare una diminuzione degli infortuni di circa il 50%. Dal 1986, tuttavia si è dovuto registrare un nuovo incremento del dato infortunistico, stimato attorno al 22%. L’inversione di tendenza […] fu causata da diversi fattori: […] le grandi ristrutturazioni aziendali, che hanno influito negativamente sugli investimenti per la sicurezza, la forte caduta del controllo sindacale sulle condizioni di lavoro, la scarsità dei controlli pubblici, resi più difficili dal decentramento e dalla dispersione sul territorio delle attività produttive. Soltanto dal 1991 il numero degli infortuni ricomincia a diminuire”. ((C. Smuraglia (relatore), Documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sulla sicurezza e l’igiene del lavoro, Atti parlamentari, Senato della Repubblica, doc. XVII, n. 4, 28 luglio 1997, pp. 15-16.))

Inoltre quel movimento ebbe il pregio di tenere insieme il tema del risanamento degli ambienti di lavoro con quello della giustizia sociale: l’ambiente nocivo non colpiva in egual modo il titolare dell’impresa, i gruppi dirigenti, gli impiegati e gli operai dei reparti più nocivi, come anche nella società il degrado ambientale non coinvolgeva nello stato modo i quartieri popolari, sovraffollati e spesso privi di servizi, e i quartieri alti della borghesia. Quel movimento rappresentò anche un imponente processo di conquiste sociali, di liberazione dei lavoratori, di redistribuzione più equa del reddito, di miglioramento della qualità dei servizi essenziali per tutti e dei diritti universali (sanità, scuola, abitazione, previdenza, parità tra i sessi…). Potremmo usare una formula che recentemente è stata importata dagli Usa, concludendo che fu anche un grande movimento di “giustizia ambientale”.((Negli Usa la maggiore esposizione ai rischi del degrado ambientale colpisce i settori popolari meno abbienti, spesso anche “razzializzati” in quanto non “bianchi”. M. Melosi,Ambientalismi di razza. Il movimento per la giustizia ambientale negli Stati Uniti (1980-2000), in “Zapruder. Storie in movimento”, n. 30, gennaio-aprile 2013, pp. 8-21.))Ma dirò di più: personalmente da tempo sono convinto che non si può affrontare efficacemente la crisi ecologica se insieme non si aggredisce la crisi sociale. Un libretto uscito un po’ di anni fa ((R. Wright, Breve storia del progresso, Mondadori, Milano 2006))mi aveva sollecitato appunto questa riflessione: scritto da un paleoantropologo, esaminava la storia delle grandi civiltà antiche e cercava di spiegare perché alcune fossero collassate: i sumeri, i maya, l’impero romano. Secondo Wright queste grandi civiltà erano collassate essenzialmente perché a un certo punto hanno dilapidato l’ambiente, sono vissute immaginando di poter consumare sempre di più di quanto l’ambiente naturale poteva loro offrire, come stiamo vivendo noi, utilizzando un pianeta e mezzo: a un certo punto si arriva alla resa dei conti e si collassa. E faceva un’osservazione interessante, individuando dei fattori di crisi in comune a tutti i casi studiati: il “Treno incontrollato”; il “Dinosauro”, il “Castello di Carte”. Il “Castello di Carte”, nel caso della civiltà attuale, ci rinvia alla nostra fragilità strutturale, i “piedi d’argilla” dei combustibili fossili. Il primo, invece, altrettanto facilmente comprensibile, si riferiva al fatto che queste civiltà si trovarono ad un certo punto come su un treno impazzito, non c’era più nessuno al comando che era in grado di governarle: ad esempio nel caso dell’impero romano dopo il terzo secolo, la crisi era evidente, era una crisi strutturale, ma non c’era nessuno che aveva né la capacità, né la volontà di mantenere in piedi l’impero e di garantirgli una prospettiva. Qualcosa di analogo sta succedendo nel mondo attuale dove è difficile vedere qualcuno che stia pensando alla crisi che attraversa l’umanità ed il pianeta e al modo come uscirne. L’altro elemento più intrigante, però, della riflessione del nostro paleontologo, era quella che lui chiamava sindrome del Dinosauro. Tutte quelle civiltà antiche, ovviamente, erano società molto gerarchizzate come, ad esempio l’impero romano. Un fattore che ha fatto sì che non si affrontasse per tempo il tema dell’insufficienza delle risorse. Roma, al centro del sistema dell’Impero, viveva in un lusso sfrenato, parassitario, drenando in continuazione risorse dalle province, incurante di quanto stesse accadendo alla periferia e se potessero continuare all’infinito quei meccanismi di depredazione. Perché appunto la società era molto gerarchizzata: chi comandava e viveva in questo lusso era convinto che la pacchia potesse durare in eterno, non faceva i conti con la penuria, con la mancanza delle risorse. Chi era costretto a fare i conti con la scarsità erano quelli che non contavano nulla; chi invece comandava se la godeva perché convinto o illuso di poter continuare a depredare all’infinito. Ebbene, anche nella crisi del mondo attuale mi pare si possa intravvedere la sindrome del Dinosauro. È pur vero che manca una guida unitaria che si occupi delle sorti dell’umanità e che il mondo appare politicamente acefalo, in preda ad una sorta di anarchia o meglio al caos. Tuttavia, anche in questo contesto c’è chi ha un’enorme influenza su decisioni globali, e sono i grandi potentati economici e finanziari, che si sono sempre più rafforzati negli ultimi decenni. Ora è chiaro che chi sta al vertice del potere economico, chi detiene questa ricchezza è convinto che la pacchia possa continuare all’infinito, perché effettivamente lui vive nell’abbondanza, possiede tante risorse per durare a lungo, mentre riduce in miseria chi è ai margini e che non conta nulla, drena tutte le risorse del pianeta, se le accaparra a dismisura. Dal suo punto di vista, che conta enormemente a livello delle grandi decisioni, la crisi ecologica è percepita come lontana e il sistema paradossalmente potrebbe reggere all’infinito, più di quanto sia realisticamente possibile, cosicché, quando collasserà, quando entrerà in crisi l’effetto sarà catastrofico, non ci sarà più né spazio né tempo per tenerlo in piedi, crollerà tutto ((M. Ruzzenenti, Crisi ecologica e crisi sociale, due facce della stessa medaglia , in “Medicina Democratica”, n. 177/179, gennaio-giugno 2008, pp. 27-30.)). Ecco perché, come ci aveva insegnato il “modello operaio”, la questione sociale anche oggi andrebbe affrontata insieme alla questione ecologica, perché solo se noi smontiamo questo meccanismo, solo se noi depotenziamo la sindrome del Dinosauro metteremo l’umanità in condizioni di governare razionalmente e con la necessaria previdenza la grande transizione della fuoriuscita dalla società termoindusriale, possibilmente senza traumi distruttivi.

Sottolineati i meriti del “modello operaio”, bisogna considerare che sono rimaste, comunque, aperte diverse questioni. Perché, ad esempio, questa esperienza non riuscì ad incidere in modo altrettanto profondo negli indirizzi generali della politica economica ed industriale, quindi ambientale, e non riuscì ad incontrarsi con il movimento e la cultura ecologista che si andava affermando nel Paese?

Eppure l’incidenza di queste lotte anche fuori della fabbrica ad un certo punto aveva cominciato a farsi sentire, come traspariva con evidenza dalle parole preoccupate di Giovanni Agnelli: “La contestazione dal basso, che inizialmente aveva impugnato i principi e le modalità di esercizio del potere in fabbrica, stava investendo anche le strategie aziendali: le scelte produttive, le innovazioni tecnologiche, la destinazione degli investimenti”.((V. Castronovo, op. cit, p. 1.222.))Si cominciò parlare allora non solo di come produrre ma anche di che cosa e per che cosa, per quale modello di sviluppo. Alcuni settori più avveduti del sindacato ((B. Trentin, Da sfruttati a produttori. Lotte operaie e sviluppo capitalistico dal miracolo economico alla crisi, De Donato, Bari 1977.)), preoccupati del possibile impasse cui poteva andare incontro il movimento, a maggior ragione in un ciclo economico che stava esaurendo la spinta dei “trent’anni gloriosi”, tentavano di far pesare anche sul piano politico il potere conquistato dal sindacato, contribuendo a rimodellare non solo la società, ma anche una struttura industriale che proprio in quegli anni mostrava la propria arretratezza tecnologica e le storture di una “razza padrona” parassitaria e poco incline all’innovazione. ((P. P. Poggio, M. Ruzzenenti, “Primavera ecologica” mon amour. Industria e ambiente cinquant’anni dopo, Jaca Book, Milano 2020, pp. 145-167.))Come è noto, e ciò vale anche per le istanze della “primavera ecologica” sbocciata in quegli anni, non vi furono interlocutori politici e imprenditoriali all’altezza: il sistema reagì con la violenza stragista e con una formidabile controffensiva ideologica, culturale e di potere, nella convinzione, rivelatasi errata, di uscire dalla crisi semplicemente annichilendo la forza del sindacato e riducendo drasticamente il cosiddetto “costo del lavoro” . Con gli anni Ottanta vi fu un passaggio di fase, con la chiusura violenta della grande stagione di lotte e di riforme del decennio precedente, che spinse la maggioranza del sindacato a riconvertirsi ad una politica di responsabile assunzione della logica dell’impresa e del mercato (i sacrifici, le compatibilità) nell’illusione di poter regger meglio per questa via moderata alla furibonda controffensiva padronale. Da allora il sindacato si trova sostanzialmente in scacco, incapace, quindi, anche di confrontarsi con i nuovi soggetti ecologisti che, all’interno di un’impostazione politica spesso confusa e contraddittoria, tendevano a collocare lo stesso sinda­cato fra i centri forti della resistenza alle iniziative ambientaliste.((M. Ruzzenenti, Le radici verdi del sindacato italiano, in “Capitalismo Natura Socialismo”, n. 11, agosto 1994, Datanews, Roma, pp. 136-141.))Esemplari sono le tante storie di crisi ambientali di complessi industriali che hanno visto contrapposti il sindacato nella difesa dell’occupazione e i cittadini nella difesa della salute, prima fra tutte l’Ilva di Taranto. E così il sindacato visse un’incredibile dispersione se non rimozione di quello straordinario patrimonio di elaborazioni e di esperienze che qui si è cercato di ricostruire per sommi capi. Sta di fatto che quell’incontro non si realizzò. Non solo. Il sindacato, pressato dal dispiegarsi di una possente strategia del sistema capitalistico occidentale che va sotto il nome di restaurazione neoliberista, venne costretto sulla difensiva, in un ambito che un tempo si sarebbe definito corporativo, con un ruolo sempre più marginale, ridimensionato dalla sottrazione continua di tutele, fino alla manomissione dello stesso Statuto dei diritti dei lavoratori. Solo una classe dirigente miope, politica ed imprenditoriale, poteva compiacersi di questo risultato. Chi avesse davvero a cuore le sorti del nostro Paese, preoccupato del suo declino economico, culturale, sociale e ambientale, dovrebbe invece rimpiangere il contributo attivo di un movimento sindacale forte, capace di proporre una via d’uscita dalle strettoie in cui ci troviamo, rese ancor più evidenti dalla crisi del Covid-19: un Piano del lavoro e dell’ambiente, centrato su una nuova qualità dell’economia, della convivenza civile e del patrimonio naturale.

Dunque, si potrebbe dire che tutto sia andato disperso? Non credo sia così. Se il sindacato è stato ammutolito, il “modello operaio” ha trovato mille anfratti e mille rivoli per fecondare fino ai giorni nostri la cultura ambientalista italiana e non solo italiana. Ne ricordiamo qui alcuni. Avevamo già evocato l’Istituto Ramazzini animato per decenni da Cesare Maltoni a Bologna, espressione di quella cultura, pioniere nell’ambito della cancerogenesi ambientale e industriale, della prevenzione oncologica, della chemioprevenzione, fin dagli anni Sessanta. ((Maltoni è stato uno dei primi a documentare la cancerogeneità dell’amianto e, negli anni Settanta, a dimostrare la cancerogeneità, oltre che di composti chimici come la formaldeide e la trielina, del cloruro di vinile monomero, fondamentale per il processo che verrà intentato ai dirigenti Montedison di Porto Marghera per gli operai morti di Cvm. Ha ricoperto il ruolo di Direttore Scientifico dell’Istituto Ramazzini e della Fondazione Europea di Oncologia e Scienze Ambientali “B. Ramazzini” fino alla sua scomparsa. Cfr. AA. VV., Cesare Maltoni, cancerologo, Pendragon, Bologna 2016.))È solo il caso di notare che oggi l’Istituto Ramazzini, attraverso la dottoressa Fiorella Belpoggi, Direttrice dell’Area di Ricerca sull’elettrosmog, è in prima linea nel rivendicare il principio di precauzione nella messa in opera della controversa rete 5G. ((5g, Appello al Parlamento. La dott.ssa Belpoggi ascoltata in Commissione a Montecitorio , in “Ramazzini News”, n. 1 (2019), p. 7.))Il meglio dell’epidemiologia italiana fa capo alla già citata rivista “Epidemiologia & Prevenzione” che trae esplicitamente ispirazione da quella storia e che svolge ancora oggi un ruolo di primo piano nell’evidenziare le ripercussioni sulla salute umana delle varie formi di inquinamento ambientale. E tra gli epidemiologi di questa grande scuola come non ricordare Lorenzo Tomatis ((L. Tomatis, Il fuoriuscito, Sironi, Milano 2005.)), che pubblicava nelle più importanti riviste internazionali a partire dagli anni Sessanta numerosi studi sugli effetti cancerogeni del Ddt, delle nitrosammine e di altri composti chimici, e diede un grande impulso alle Monografie dell’Agenzia internazionale di ricerca sul cancro dell’Oms sorta nel 1965 a Lione, agenzia che lui stesso diresse per oltre un decennio, tra il 1982 e il 1993.((  ))Sullo stesso terreno, ma con un’attitudine più militante, la già citata “Medicina democratica” animata fino alla sua morte prematura da una personalità straordinaria, per impegno, dedizione, rigore scientifico e disponibilità, Luigi Mara, che mi ha fatto dono per anni della sua preziosa amicizia. Proviene direttamente da quella stagione l’associazione degli operatori dell’ambiente di lavoro, Snop ((La Snop, Società nazionale egli operatori della prevenzione, è stata fondata il 7 febbraio 1985, a Bologna, da un gruppo di operatori dei “servizi di prevenzione nei luoghi di lavoro” delle Usl, provenienti da diverse regioni d’Italia, per dare finalmente una veste strutturata e ben organizzata al Coordinamento nazionale degli operatori dei servizi di prevenzione del territorio nato nel 1977. https://www.snop.it.)). Da alcuni anni, sempre ascrivibile alla medesima corrente culturale, opera l’Isde, l’associazioni dei medici per l’ambiente ((l’Associazione Medici per l’Ambiente, isde Italia. www.isde.it.)). Se poi considerassimo le biografie di alcuni figure impegnate sul fronte dell’ambiente e dell’ecologia troveremmo in molti casi quella matrice: dalla più nota, Laura Conti che arrivò all’ecologia, appunto da medico igienista e del lavoro((Laura Conti, protagonista nella denuncia della tragedia di Seveso, “come medico è stata attiva nelle organizzazioni di base specialmente accanto ai lavoratori nelle loro lotte per il miglioramento dell’ambiente di lavoro, quando l’inquinamento era pagato dagli operai due volte, dentro la fabbrica e poi a casa, nelle periferie urbane. Era così arrivata all’ecologia, prima che questa diventasse moda”. G. Nebbia, Un amore per la vita. Il fondo ‘Laura Conti’. https://www.fondazionemicheletti.eu/italiano/documentazione/archivio/dettaglio.asp?id=134&pagina=3)), al meno noto, ma altrettanto impegnato da sempre, Edoardo Bai, membro del Comitato scientifico di Legambiente e di Isde, che recentemente ha dato un importante contributo per far emergere il caso dei Pfas e della vasta contaminazione della falda di mezzo Veneto ((E. Bai, I Pfas, le sostanze perfluoro alchiliche, una contaminazione globale, in “Medicina democratica”, n. 240-241, luglio-ottobre 2018, pp. 57-75.)), anch’esso già medico del lavoro della scuola del “modello operaio”; la medesima scuola in cui si è formato Giorgio Assennato, che da direttore dell’Arpa Puglia, ha fatto esplodere, con rigorose indagini ambientali l’impatto sanitario insostenibile dell’acciaieria Ilva di Taranto ((Giorgio Assennato, dal 1974 al 2011 è stato professore ordinario di Medicina del Lavoro presso il Dipartimento di Medicina Interna e Medicina Pubblica dell’Università degli Studi di Bari, presidente del Comitato Scientifico del Registro Tumori Puglia, dal 2006 al 2016, nel periodo caldo dell’Iva di Taranto, è stato Direttore dell’Arpa Puglia, e dal 2019 designato dal Ministero dell’Ambiente nella Commissione nazionale Via-Vas. Sull’attività di indagini all’Ilva si veda: https://www.scienzainrete.it/autori/assennato/1011 .)), oppure Roberto Lucchini chiamato negli Usa a coordinare il gruppo di studio sulle patologie che hanno colpito gli operatori, in particolari i vigili del fuoco, intervenuti subito dopo il crollo delle Torri Gemelle ((Roberto Lucchini, già professore associato dal 2005 di Medicina del lavoro all’Università di Brescia, dal 2012 Professor of Medicine, Mount Sinai School of Medicine, New York, USA. Director of the Division of Occupational and Environmental Medicine, Director of the World Trade Center Data Center, Director of the Education and Research Center for Region II New York/New Jersey. Sulla sua esperienza negli studi sanitari sugli operatori impegnati dopo l’abbattimento delle Torri gemelle si veda: 11 settembre, Roberto Lucchini: “Le Torri Gemelle hanno lasciato cinquantamila malati, le esalazioni tossiche furono sottovalutate” , in “ilfattoquotidiano.it”, 20 settembre 2020, https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/09/11/11-settembre-roberto-lucchini-le-torri-gemelle-hanno-lasciato-cinquantamila-malati-le-esalazioni-tossiche-furono-sottovalutate/5928047/ .)), o ancora Paolo Ricci che da epidemiologo ha collaborato alle varie edizioni dello studio Sentieri sulle patologie nei siti industriali inquinati a livello nazionale ((Il progetto Sentieri. Studio Epidemiologico Nazionale dei Territori e degli Insediamenti Esposti a Rischio da Inquinamento , è stato avviato nel 2007 nell’ambito del Programma strategico nazionale Ambiente e salute, coordinato dall’Istituto superiore di sanità e finanziato dal Ministero della salute, in collaborazione con l’Airtum, Associazone italiana registro tumori, che si è avvalsa tra gli altri dell’epidemiologo Paolo Ricci, con lo scopo di studiare la mortalità e la morbilità delle popolazioni residenti nei Sin (Siti di interesse nazionale per le bonifiche) a partire dal 1995 e contribuire a individuare le priorità negli interventi di risanamento ambientale finalizzati alla prevenzione delle patologie causate da fonti di esposizioni ambientali nei Sin. Ad oggi sono stati pubblicati 5 Rapporti.https://www.epiprev.it/sentieri/home .)). Ma, si parva licet, anche il sottoscritto è arrivato all’impegno ambientalista passando per quella scuola da sindacalista della Cgil.

Se poi guardiamo ai nuovi movimenti che si agitano con maggiore efficacia e consenso popolare in Italia scopriamo che al centro pongono la tutela della salute dagli effetti tossici dell’inquinamento ambientale: dalle campagne contro il nucleare civile alle lotte per contrastare gli inceneritori, dalla grande mobilitazione della Terra dei fuochi contro il biocidio, al movimento No Tav, dalla lotte popolari conto l’Ilva di Taranto alle mobilitazioni per la bonifica dei siti inquinati, dall’insorgenza delle popolazioni del Veneto occidentale per risanare l’inquinamento delle falde da Pfas alle grandi manifestazioni popolari promosse dal Tavolo Basta veleni di Brescia, dalle varie iniziative di cittadini contro lo smog alla lotta contro il cambiamento climatico del movimento Fridays For Future. ((Per un’aggiornata rassegna dei nuovi movimenti ambientalisti, si veda: P. P. Poggio, M. Ruzzenenti, op. cit., pp. 172-182.))Molti di questi comitati e movimenti associano nella loro denominazione la salute e l’ambiente e, curiosamente, per promuovere la partecipazione consapevole della cittadinanza, utilizzano la metodologia della mappe grezze dei rischi georeferenziando sul territorio le fonti inquinanti, puntano sulla rimozione della contaminazione e in favore di tecnologie pulite come prevenzione primaria per una buona salute dei cittadini; per questo si avvalgono di esperti “di parte” dopo aver scoperto a loro spese la non neutralità della scienza, leggendo le consulenze, spesso accomodanti o “negazioniste”, commissionate dalle controparti imprenditoriali private, a volte anche pubbliche. Torna così la “validazione consensuale” delle assemblee pubbliche dei cittadini interessati, come luogo di partecipazione che rivendica il diritto di decidere sulla vivibilità e salubrità del proprio ambiente di vita, quella procedura che dà tanto fastidio a chi l’ha voluta bollare semplicisticamente come sindrome Nimby ((Da anni opera un’agenzia, Nimby Forum, formata da enti pubblici e privati che dà la caccia ai vari “nefasti” fenomeni Nimby, ritenuti paurosamente in crescita nel nostro Paese:www.nimbyforum.it.)). Si tratta di un nuovo ambientalismo, spesso estraneo alle associazioni “tradizionali”, profondamente radicato nel territorio, indipendente dai poteri costituiti, capace di produrre una vasta partecipazione popolare e una conflittualità efficace fatta di no intransigenti ma anche di proposte alternative, che è in forte crescita ed espansione nel Paese, come registra con preoccupazione l’osservatorio di Nimby Forum.

Mi permetto un’ardita considerazione venendo al presente di questa inquietante pandemia da Covid-19: forse quella storia che si è fin qui ricostruita ha un qualche ruolo nel fatto che l’Italia abbia reagito con maggiore rigore di altri Paesi, senza piegarsi alle pretese della Confindustria e delle varie lobby dei negozianti, dei ristoratori, del calcio e dello sci, come è stato riconosciuto a livello internazionale anche dalla stessa l’Oms, e che un ministro abbia ribadito che prima del prodotto interno lordo viene la tutela della salute ((Va aggiunto che, ciononostante, non si è potuta evitare la catastrofe del record internazionale di decessi, proprio a causa degli effetti disastrosi sul sistema sanitario nazionale prodotti dalla controffensiva neoliberista che ha devastato il nostro stato sociale. Cfr. M. Ruzzenenti, Ieri, domani: la pandemia vista da Brescia, “Gli asini”, n. 75-76, maggio-giugno 2020, pp. 75-82.)).

L’ambientalismo tra antropocentrismo e biocentrismo

Vi è un limite evidente in questa cultura ambientalista del “modello operaio”. Al centro vi è la tutela della salute e dell’integrità di tutti gli umani, senza discriminazione alcuna, cercando di porli al riparo dagli effetti boomerang indesiderati delle devastazioni naturali (inquinamento e distruzione di risorse) prodotte dalla tecnica. Difficile trovare qui, di norma, un atteggiamento teso a considerare la natura come un valore in sé da preservare. Come si è visto, diceva Giovanni Berlinguer che era auspicabile un “vantaggioso dominio della natura”, nel quale possiamo leggere sia la lezione leopardiana, per cui la natura di per sé sa essere anche matrigna (epidemie, esondazioni, siccità, eruzioni vulcaniche e terremoti ((Un rapporto dell’United Nations Office for Disaster Risk Reduction (Undrr), attraverso le statistiche del database degli eventi di emergenza (Em-Dat) gestito dal Center for Research on the Epidemiology of Disasters (Cred), registra i disastri che hanno ucciso dieci o più persone; colpito 100 o più persone; provocato uno stato di emergenza dichiarato; o una richiesta di assistenza internazionale. Ebbene nel periodo dal 2000 al 2019, ci sono stati 7.348 gravi eventi catastrofici registrati che hanno colpito 4,2 miliardi di persone, causando 1,23 milioni di morti di cui 721.318 per terremoti. https://www.undrr.org/publication/human-cost-disasters-2000-2019 .))…) consigliando l’umanità ad unirsi solidalmente per costruire un comune ricovero, ma anche una certa arroganza, e illusione, della tecnica di poter inglobare la natura originaria in una seconda natura artificiale di livello superiore più adatta a soddisfare i bisogni umani. E magari, nelle posizioni più estreme, di poter fare a meno della natura originaria. Basti pensare che la stessa Enciclopedia tascabile degli Editori Riuniti, che pubblicava nel 1961 la ricerca pionieristica di Berlinguer, editava l’anno dopo un testo, La plastica al servizio dell’uomo, che inneggiava appunto alle meraviglie della nuova era della plastica, auspicando in conclusione che ad essa si affiancasse l’era del nucleare, indispensabile per garantire l’energia necessaria a sintetizzare quei nuovi portentosi materiali artificiali ((E. G. Couzens, V. E. Yaesley, La plastica al servizio dell’uomo, Editori Riuniti, Roma 1962.)). È palese qui l’eccesso di antropocentrismo che secondo alcuni, come noto, avrebbe dato origine addirittura ad una nuova era geologica, l’antropocene ((P. Crutzen, Benvenuti nell’Antropocene L’uomo ha cambiato il clima, la Terra entra in una nuova era , Mondadori, Milano 2005.)).

Si potrebbe allora invocare la primazia non solo temporale, ma anche culturale, del protezionismo naturalista, certamente attivo in Italia e nel mondo da molto tempo prima, almeno dall’Ottocento ((L. Piccioni, Il volto amato della patria. Il primo movimento italiano per la tutela della natura (1883-1934) , Università di Camerino, Camerino 1999. (seconda edizione aggiornata e ampliata Temi, Trento 2014;http://www.ecostat.unical.it/Piccioni/Pubblicazioni/Pubs%20PDF/Piccioni%202014.%20Volto%20amato%20della%20patria%202a%20ed.pdf).)). Un movimento con diverse anime e motivazioni, com’è noto, ma che aveva in comune la protezione e la preservazione del patrimonio naturale, di un territorio selvaggio, di una specie come valore in sé a prescindere dal “vantaggio” che ne potesse derivare per gli umani, quindi programmaticamente scevro di antropocentrismo. Se è unanime il riconoscimento del carattere pionieristico di questi movimenti anticipatori in tempi relativamente lontani dell’ambientalismo e dell’ecologismo nel quale è ascrivibile l’esperienza del “modello operaio”, non di meno sono mancate critiche, non solo al presunto e controverso carattere elitario. Il punto più discutibile del protezionismo naturalista a me pare vada visto in quanto Giorgio Nebbia evidenziava nel lontano 1970: “Non c’è dubbio che la ‘destra economica’ trovi più comodo commuoversi per la scom­parsa delle alghe rosse del lago di Tovel o degli orsi d’Abruzzo che affrontare una serie di modificazioni dei cicli di produzione e di riforme della politica dei consumi; che rinun­ciare alla speculazione edilizia; che genera­lizzare l’impiego dei depuratori di acque usate” ((G. Nebbia, La crisi dei rapporti tra l’uomo e la biosfera, estratto dal periodico “Le scelte del consumatore” anno VI, n. 1, gennaio 1970, Unione nazionale consumatori, Roma 1970, p. 20.)). Sia ben chiaro, non si intende con ciò che il protezionismo sia necessariamente di destra e regressivo sul piano dei rapporti sociali, bensì che possa esporsi a derive ideologiche reazionarie.

Potrei citare alcuni casi, se vogliamo, estremi, ma straordinariamente significativi.

Arnaldo Mussolini, fratello del Duce, direttore del quotidiano del regime, era impegnato in prima persona in quello che lui definì il “culto degli alberi”. Ogni anno la “festa degli alberi” impegnava gli alunni di tutte le classi in iniziative a sostegno delle specie arboree, festa istituita dal Regio Decreto 3267 del 30 dicembre 1923 “Riordinamento e riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni montani”. A questa campagna propagandistica diede un grande impulso, appunto, Arnaldo Mussolini, primo presidente del Comitato Nazionale Forestale e portato dagli studi in agraria ad amare la natura e le foreste. Nel giornale “Il Bosco” del 15 giugno 1928, aveva tracciato le linee fondamentali di quell’azione che considerava, con il giornalismo, una missione. Poiché il Comitato Nazionale Forestale non aveva in proprio mezzi sufficienti per promuovere il rimboschimento, doveva “volgarizzare questo principio fondamentale nella coscienza di tutti gli Italiani” servendosi “delle scuole, del cinematografo, delle istituzioni e delle società che sfruttano e si interessano di economia montana”, dando vita “a mostre ed a esposizioni”, valorizzando “le iniziative dei privati […] che si interessano di boschi, di foreste, di corso delle acque e di agricoltura montana”. E aggiungeva:

in Italia si deve generalizzare un nuovo convincimento, che io vorrei definire il culto dell’albero, e come tale la propaganda del Comitato Nazionale Forestale può interessare le montagne e le marine, le rupi scoscese e i greti dei fiumi, la pianura, i viali alberati della città e le piantagioni che dovrebbero allinearsi lungo le strade nazionali, le autostrade, i relitti ferroviari e le stesse stazioni fiorite. […] Vi è poi un problema di educazione civile e di rispetto verso gli alberi. Il vandalismo, prima che delle capre, è stato operato dagli uomini. In questa materia molto può fare la scuola. Quindi il Comitato Nazionale Forestale si metterà in comunicazione diretta coi Provveditori agli Studi, perché la festa degli alberi non sia solo una cerimonia fredda, per quanto caratteristica, ma sia un rito degno di tutto l’amore e di tutto il rispetto delle giovani generazioni ((Arnaldo Mussolini, di due anni più giovane di Benito, si occupò in particolare della stampa del regime, finché morì prematuramente a 46 anni, colpito da infarto, il 21 dicembre 1931. Cfr. E. Zucconi, “In silenzio e da lontano”. Profilo di Arnaldo Mussolini,www.nuoviorizzontieuropei.com/personaggi/arnaldo_mussolini.htm , un testo, peraltro, essenzialmente agiografico.)).

Altro caso fu quello di Walter Darré, ispiratore della politica agraria nazista e Ministro del Reich all’alimentazione e alla agricoltura. Darré, autore nel 1930 diLa nuova nobiltà di sangue e suolo ( Neuadel aus Blut und Boden), propugnava un rinnovamento spirituale e razziale della Germania tramite un distacco dall’industria e una riconversione all’economia agraria, basata sulla cultura tradizionale del piccolo proprietario terriero e su un rinnovamento dei sistemi produttivi che puntassero a favorire la fertilità naturale dei suoli e l’impiego massiccio di manodopera, evitando il ricorso agli additivi chimici e alla meccanizzazione spinta; insomma si trattava di realizzare un nuovo sistema colturale che successivamente Darré individuò nell’agricoltura bio-dinamica, ideata negli anni Venti da Rudolf Steiner, che sostenne finché rimase al potere. ((P. Staudenmaier, Organic Farming in Nazi Germany: The Politics of Biodynamic Agriculture, 1933-1945 “Environmental History” 18 (2013), 383-411.))Questa visione era accompagnata da una sorta di mistica del contadino germanico del nord, sulla cui purezza razziale, da preservare e sviluppare con un’eugenetica aggressiva (sterilizzazione obbligatoria dei “tarati”) e con la discriminazione antisemitica e antislava, andava rifondata la nuova Germania. Darré “definì i contadini tedeschi come un gruppo razzialmente omogeneo di discendenza nordica che formava il nucleo culturale e razziale della nazione tedesca”. (( A. Bramwel, Ecologia e società nella Germania nazista. Walter Darré e il partito dei verdi di Hitler , Reverdito, Gardolo di Trento 1988, p. 88.))

Ma ancor più rilevanti sono i casi a livello internazionale dello statunitense Madison Grant e del tedesco Ernst Haenkel, che hanno preceduto nel tempo e ispirato il nazismo.

Madison Grant (1865-1937), zoologo, conservazionista, era amico intimo di diversi presidenti degli Stati Uniti, tra cui Theodore Roosevelt e Herbert Hoover, ed era anche un appassionato ambientalista. Ebbe il merito di aver salvato molte specie naturali dall’estinzione e fu co-fondatore della Save the Redwoods League con Frederick Russell Burnham, John C. Merriam e Henry Fairfield Osborn nel 1918. Aiutò a costruire la Bronx River Parkway, a salvare i bisonti americani come organizzatore dell’American Bison Society, e contribuì a creare il Glacier National Park e il Denali National Park ((Madison Grant, https://en.wikipedia.org/wiki/Madison_Grant)). Un personaggio che ebbe grande influenza negli Usa e nel mondo nel promuovere il protezionismo naturalista, come anche nel diffondere una visione della storia dell’umanità fondata su un darwinismo razzista radicale che sfociava nel rivendicare una politica eugenetica violenta. La sua opera The Passimg of the Great Race ((Quest’opera è stata recentemente tradotta in italiano da una casa editrice di ispirazione neonazista, M. Grant, Il tramonto della grande razza, Thule Italia, Roma 2018.)), tradotta in numerose lingue riscuotendo un enorme successo internazionale, si preoccupava del pericolo che la grande razza bianca dolicocefala nordica, cui appartenevano i primi conquistatori del Nord America, fosse destinata al tramonto e ad essere sopraffatta da razze inferiori successivamente immigrate, come quella negra o quelle provenienti dal Sud Europa o dall’Asia. Il suo appassionato protezionismo naturalista e il suo amore per il bisonte ed i parchi selvaggi non gli impedivano di invocare una politica violentemente eugenetica, che peraltro all’epoca si stava già praticando in alcuni stati Usa ((La prima legislazione eugenista di sterilizzazione forzata degli “scarti” fu adottata dalla stato dell’Indiana nel 1907. Cfr. S, Khül, The nazi connection. Eugenics, American racism and German National Socialism, Oxford University Press, Oxford 1994.)):

Il valore e l’efficienza di una popolazione non si enumerano in base a ciò che i quotidiani chiamano anime, ma dalla proporzio­ne di uomini di vigore fisico e intellettuale. La piccola popolazio­ne coloniale dell’America era, nella media e singolarmente, ben superiore agli attuali abitanti, sebbene questi ultimi siano oggi aumentati di venticinque volte. Nell’eugenetica, l’ideale verso cui l’arte di governare dovrebbe dirigersi è, naturalmente, il mi­glioramento nella qualità, piuttosto che nella quantità. Questo, comunque, è al momento un consiglio verso la perfezione, men­tre ora dobbiamo invece affrontare le condizioni per come sono. Il basso tasso di natalità nelle classi superiori è in qualche modo compensato dalle cure ricevute dai bambini nati e dalle maggiori probabilità di diventare adulti e riprodursi a loro volta. L’alto tasso di natalità delle classi più umili, in condizioni normali, è bilanciato da una pesante mortalità infantile, che elimina i bam­bini più deboli. Laddove l’altruismo, la filantropia o il sentimentalismo inter­vengono con gli scopi più nobili e impediscono alla natura di penalizzare le sfortunate vittime della riproduzione sconsiderata, la moltiplicazione dei tipi inferiori viene incoraggiata. Gli sforzi indiscriminati per preservare i neonati tra le classi inferiori sono spesso una minaccia alla razza. […] Coloro che leggono queste pagine capiranno che c’è poca spe­ranza per l’umanità, ma il rimedio è stato trovato, e può essere rapidamente e misericordiosamente applicato. Un rigido sistema di selezione attraverso l’eliminazione di quelli che sono deboli o inadatti -in altre parole, dei falliti sociali- risolverà l’intera que­stione in un secolo, oltre a permetterci di liberarci degli indeside­rabili che affollano le nostre prigioni, ospedali e manicomi. L’individuo può anche essere nutrito, educato e protetto dalla comu­nità durante la sua vita, ma lo Stato, attraverso la sterilizzazione, deve badare affinché la discendenza termini con quell’individuo, altrimenti anche le future generazioni saranno condannate a un fardello sempre crescente di vittime di un fuorviato sentimen­talismo. Questa è una soluzione pratica, misericordiosa e inevi­tabile dell’intero problema, e può essere applicata a un gruppo molto ampio di scarti sociali, iniziando sempre con i criminali, i malati e gli insani, ed estendendola gradualmente a quelli che potrebbero essere definiti deboli piuttosto che imperfetti, e forse, in ultimo, ai tipi di razza senza valore. ((M. Grant, op. cit., pp. 72-74.))

E veniamo ad un monumento della scienza tra Ottocento e Novecento, Ernst Haeckel (1834-1919), biologo, zoologo e altro ancora, tra cui filosofo ed artista. Com’è noto, scoprì, descrisse e denominò migliaia di nuove specie e coniò molti termini in biologia, in particolare, di interesse per il nostro discorso, sarebbe stato il primo a introdurre il concetto di ecologia. Elaborò una visione del mondo che denominò monismo, una sorta di panteismo materialista accompagnato da un’accesa polemica anticattolica in un’opera del 1899, Gli enigmi dell’universo, che solo in Germania vendette 400.000 copie e fu tradotta in diverse lingue ((A. Pichot , La société pure. De Darwin à Hitler, Flammarion, Paris 2000, p. 105.)). Fu il più importante divulgatore in Europa della teoria evoluzionistica ed i suoi testi ebbero una grande diffusione in tutto il mondo. Per dare l’idea dell’importanza scientifica del personaggio, nel 2000 gli venne intitolato un asteroide, 12323 Haeckel, scoperto nel 1992. (())Come biologo e zoologo è ancora oggi ritenuto uno dei più grandi naturalisti. ((A. Lucifredi, Piccole storie di grandi naturalisti. Haeckel, l’arte e l’albero della vita , 1 agosto 2019, https://rivistanatura.com/ernst-haeckel-larte-e-lalbero-della-vita/ .))

Curiosamente, in generale sia da parte dei naturalisti sia da parte degli storici del protezionismo, del razzismo e del nazismo, viene sistematicamente ignorato il fondamentale contributo offerto da Haeckel al razzismo scientifico e, indirettamente, all’ideologia nazista. Gli storici preferiscono in genere ricorrere a personaggi molto più marginali, come il giramondo ambasciatore Joseph Arthur De Goubineau, o il bibliotecario erudito Georges Vacher De Lapouge, la cui influenza reale all’epoca fu infinitamente minore di quella, evidentemente agli occhi odierni più imbarazzante, dell’illustre scienziato Haeckel. Del resto è universalmente riconosciuto l’immenso amore di costui per gli animali, come si manifestava in questo passo in contrapposizione alle vessazioni loro inflitte dai cristiani:

Il cristianesimo ignora quel lodevole amore per gli animali, quella pietà per i mammiferi, per i nostri parenti e amici (cani, cavalli, bestiame), […] Coloro che hanno vissuto a lungo nel sud dell’Europa cattolica sono stati spesso testimoni di queste orribili torture inflitte agli animali e che risvegliano in noi, i loro amici, la più profonda pietà e la più vivida ira. […] Il darwinismo ci insegna che siamo discendenti diretti dei Primati e, se andiamo più indietro, di una serie di mammiferi, che sono “nostri fratelli”. Nessun naturalista monistico e compassionevole si renderà mai colpevole del trattamento malvagio degli animali inflitto loro dal credente cristiano che, nel suo delirio antropico di grandezza, si considera “figlio del Dio dell’amore” ((Citazione tratta da E. Haeckel, Gli enigmi dell’universo, in A. Pichot, op. cit., pp. 103-104.)).

Ma questo immenso amore per gli animali e per il vivente in generale che faceva di Haeckel un moderno Francesco d’Assisi, non gli impedì di elaborare una complessa tassonomia razziale impressionante e spietata: dodici differenti specie distinte in 36 razze umane, con al vertice, ovviamente, le razze bianche nordiche degli anglosassoni e dei tedeschi, raggruppati nella specie eletta indo-germanica. ((A. Pichot, op. cit., pp. 327-331.))Un razzismo che lo portò a conclusioni francamente sconcertanti:

Un esame critico imparziale conferma anche la legge di Huxley: le differenze psicologiche tra l’uomo e gli antropoidi sono più piccole di quelle tra l’uomo e le scimmie inferiori. Questo fatto fisiologico corrisponde esattamente alle scoperte anatomiche che ci rendono consapevoli delle differenze nella struttura della corteccia cerebrale, “organo dell’anima”, la cui importanza non può essere negata. L’alto significato di questo fatto diventa ancora più palpabile se si considerano le straordinarie differenze nella vita psichica della specie umana. In alto vediamo un Goethe e uno Shakespeare, un Darwin e un Lamarck, uno Spinoza e un Aristotele e in basso troviamo i Weddas e gli Akkas, gli Australiani e i Dravidas, i Boscimani e i Patagoni! La vita psichica presenta differenze infinitamente maggiori, quando si passa da questi spiriti geniali a questi rappresentanti degradati dell’umanità, che tra questi ultimi e gli antropoidi. ((Citazione tratta da E. Haeckel, Origine dell’uomo, in A. Pichot, op. cit., pp. 233-234.))

Pur con una certa fatica, alcuni studiosi hanno finalmente cominciato a far emergere questo lato a dir poco imbarazzante della figura di Haeckel. Oltre alla fondamentale opera dell’epistemologo e storico delle scienze del Cnrs francese André Pichot, già citata, che meriterebbe una traduzione italiana, va menzionato lo studio coraggioso e discusso di Daniel Gasman,Haeckel’s Monism and the Birth of Fascist Ideology ((D. Gasman, Haeckel’s Monism and the Birth of Fascist Ideology, Peter Lang, New York 1998.)) e la recentissima presa di posizione di una conferenza di zoologi convocata dall’Istituto per la Zoologia e le Ricerche Evoluzioniste dell’Università Friedrich Schiller di Jena, che fu il regno di Haeckel, il 2 agosto 2019, proprio in occasione del centenario della sua morte, in una serata sul tema, Jena, Haeckel e la questione delle razze umane, ossia il razzismo crea le razze. La dichiarazione di Jena che ne è scaturita così si concludeva:

Quindi, facciamo sì che le persone non siano mai più discriminate per speciosi motivi biologici e rammentiamo a noi stessi e agli altri che è il razzismo ad aver creato le razze e che la zoologia/antropologia ha avuto una parte infausta nel produrre giustificazioni presuntamente biologiche. Oggi e in futuro, non usare il termine razza dovrebbe far parte della decenza scientifica. (( K. J. Tarasoff, Dichiarazione di Jena: Il concetto di razza è il risultato del razzismo, non il suo prerequisito , 22 marzo 2020. https://serenoregis.org/2020/03/26/dichiarazione-di-jena-il-concetto-di-razza-e-il-risultato-del-razzismo-non-il-suo-prerequisito-koozma-j-tarasoff/. Va aggiunto che nel mondo scientifico anglosassone, soprattutto nordamericano, il riferimento alle razze (caucasica, nera o afro-americana, asiatica, latina…) è ancora d’uso comune negli studi demografici, genetici, epidemiologici e sanitari, criminologici…, nonostante da più parti vi siano stati appelli come quest’ultimo degli zoologi di Jena.))

Ci si può chiedere a questo punto: com’è possibile conciliare una cultura di protezionismo naturalista, di amore per gli animali e tutti i viventi, con uno spietato razzismo e con un violento eugenismo?

Come è stato detto, in verità per Madison Grant la battaglia per salvare il bisonte americano era equivalente a quella per salvare la “grande razza” bianca nordica dall’estinzione. Mentre per Haeckel la tassonomia razziale degli umani era figlia diretta della tassonomia “scientifica” degli animali e dei viventi. Si trattò, in sostanza, di biologizzare la società umana in un sistema monistico di evoluzionismo darwinista, insomma in un biocentrismo radicale in cui le relazioni tra gli umani, la loro cultura, i comportamenti individuali e collettivi erano ridotti alle medesime leggi “scientificamente decifrate” che governerebbero l’universo vivente. E la natura, com’è noto, non ha un’etica, è in certo qual modo spietata nella competizione per la sopravvivenza. Il nazismo fu, forse, il tentativo più radicale di realizzazione di questa concezione e non a caso sia Madison Grant che Ernst Haeckel furono riferimenti essenziali (( E’anche la tesi suggestiva dello storico americano Timothy Snyder, secondo il quale le due guerre, ancor più la seconda, si combatterono perché i popoli avevano l’assillo di conquistare terre per sfamarsi, l’Italia di Mussolini il mitico “posto al sole”, la razza ariana, nella concezione biocratica di Hitler, il lebensraum, il “granaio d’Europa” dell’Est slavo. Vi sarebbe stato, insomma, alla base un problema bio-ecologico di paura per la scarsità di risorse, alimentari innanzitutto, rispetto al fabbisogno, paura che seppe sfruttare l’insorgenza fascista e nazista, appoggiandosi al “razzismo scientifico”, fino a scatenare la “guerra totale”. In questo senso la “rivoluzione verde” sviluppatasi nel dopoguerra in agricoltura, aumentando enormemente la produttività, sarebbe stata la vera condizione che ha permesso un così lungo periodo di pace all’umanità occidentale. Ora, però, la nuova “crisi ecologica” e lo spettro della fine dei fossili, se non affrontati con previdenza e radicalità in anticipo, potrebbero innescare nuovi conflitti devastanti, di fronte all’inevitabile esaurirsi degli effetti benefici della “rivoluzione verde”. Cfr. T. Snyder, Terra nera. L’Olocausto tra storia e presente, Garzanti, Milano 2015, pp. 396-401.)).

Dunque, tornando alla nostra riflessione, forse il biocentrismo non è di per sé un correttivo accettabile all’antropocentrismo, come guida ad un’ecologia capace di pacificare l’umanità con la natura, senza omettere di pacificare gli umani tra di loro. A trovare un giusto equilibrio tra i due poli forse può aiutarci anche l’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, laddove affronta direttamente il tema:

Questa situazione ci conduce ad una schi­zofrenia permanente, che va dall’esaltazione tec­nocratica che non riconosce agli altri esseri un valore proprio, fino alla reazione di negare ogni peculiare valore all’essere umano. Ma non si può prescindere dall’umanità. Non ci sarà una nuo­va relazione con la natura senza un essere uma­no nuovo. Non c’è ecologia senza un’adeguata antropologia. Quando la persona umana viene considerata solo un essere in più tra gli altri, che deriva da un gioco del caso o da un determini­smo fisico, «si corre il rischio che si affievolisca nelle persone la coscienza della responsabilità». Un antropocentrismo deviato non deve neces­sariamente cedere il passo a un “biocentrismo”, perché ciò implicherebbe introdurre un nuovo squilibrio, che non solo non risolverà i proble­mi, bensì ne aggiungerà altri. Non si può esigere da parte dell’essere umano un impegno verso il mondo, se non si riconoscono e non si valoriz­zano al tempo stesso le sue peculiari capacità di conoscenza, volontà, libertà e responsabilità. La critica all’antropocentrismo deviato non dovrebbe nemmeno collocare in secondo piano il valore delle relazioni tra le persone. Se la crisi ecologica è un emergere o una manifestazio­ne esterna della crisi etica, culturale e spirituale della modernità, non possiamo illuderci di risa­nare la nostra relazione con la natura e l’ambien­te senza risanare tutte le relazioni umane fonda­mentali ((Lettera enciclica Laudato si’ del Santo Padre Francesco sulla cura della casa comune , Tipografia vaticana, Città del Vaticano 2015, p. 56)).

Del resto l’enciclica, tra le tante cose in massima parte condivisibili, recuperava, già nel titolo, la lezione del protezionismo naturalista, l’amore per tutto il vivente, la necessità di preservare il patrimonio naturale dal depauperamento e dall’inquinamento; ma, subito dopo, evocava l’amore per tutti gli uomini, “fratelli tutti” come dirà nell’enciclica successiva ((Lettera enciclica Fratelli tutti del Santo Padre Francesco sulla solidarietà e l’amicizia sociale , Tipografia vaticana, Città del Vaticano 2020.)), denunciando che nell’attuale contesto non tutti si trovano nella stessa condizione, che la crisi ecologica colpisce in maniera più violenta i poveri e gli emarginati, che dunque la cura dell’ambientale deve accompagnarsi alla giustizia sociale, echeggiando così appieno anche i valori culturali ed etici del “modello operaio”. Potremmo concludere con le parole di Papa Francesco a commento di alcune citazioni di testi sacri:

In questi racconti così antichi, ricchi di profondo simbolismo, era già contenuta una convinzione oggi sentita: che tutto è in relazione, e che la cura autentica della nostra stessa vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giusti­zia e dalla fedeltà nei confronti degli altri ((Lettera enciclica Laudato si’… , cit., pp. 92-93.)).