Dossier 1972 – I demoni dell’espansione
Michel Bosquet è uno pseudonimo di André Gorz. Testo tratto da un numero speciale del “Novel Observateur” intitolato La dernière chance de la Terre e pubblicato nel giugno 1972. Una sintesi degli articoli contenuti nel numero è in https://biosphere.ouvaton.org/de-1970-a-1979/1317-1972-la-derniere-chance-de-la-terre-hors-serie-du-nouvel-observateur-juin-juillet-1972.
All’umanità ci sono voluti trenta secoli per prendere slancio; gliene restano trent’anni per frenare prima del precipizio
Meglio che vi abituate subito all’idea: quello che chiamiamo “civiltà industriale” non passerà il capo di questo secolo. Per uno o due decenni ancora vi procurerà godimenti dubbi e privilegi da pagare sempre più caro. Poi dovrà cessare: che cessino le automobili da cambiare entro i due-cinque anni (e le automobili individuali stesse); che cessino i vestiti che durano una stagione, gli imballaggi di plastica o metallo da gettare, la carne quotidiana, la libertà di generare e di concepire. Più presto tutto questo cesserà, meglio sarà; più durerà, più l’affondamento di questa civiltà sarà brutale e irreparabile la catastrofe planetaria da essa preparata.
Potete alzare le spalle e arrestare la lettura. Se la continuate, ricordatevi di questo: altre civiltà sono affondate prima della nostra, nelle guerre di sterminio, la barbarie, la carestia e l’estinzione dei loro popoli, per aver consumato quello che non si può riprodurre e distrutto quello che non si riparare. Ricordatevi anche che il vicolo cieco assoluto previsto per la civiltà detta occidentale e industriale non vi è annunciato da politici e ideologi ma da demografi, agronomi, biologi, ecologisti che, spesso, hanno una comprensione così scarsa della portata sovversiva dei loro calcoli che non cessano di stupirsi della malafede ostile con cui banchieri e industriali li accolgono.
Forse sarete di nuovo tentati di alzare le spalle. Calcoli? Possono essere sbagliati; non sarebbe la prima volta. Ve lo concedo: un buon numero di dati sui quali riposano le predizioni presenti contengono un margine d’incertezza. Tuttavia, questo non cambia nulla alla natura del problema. Lo capirete subito. Prendete le miniere di ferro, il più abbondante dei metalli utilizzabili industrialmente: al ritmo di sfruttamento attuale, le riserve conosciute bastano per altri 500 anni. È molto di più che per qualsiasi altro dei nostri materiali metallici. Ma non bisogna dimenticare una cosa: la produzione siderurgica aumenta del 3% all’anno di media. Aumenta, in particolare, perché la popolazione mondiale cresce del 2,1 % l’anno e i due terzi dell’umanità sfiorano soltanto l’età dell’acciaio. Ora, con una crescita del 3% annuo, i giacimenti conosciuti di ferro saranno esauriti in 73 anni.
Bah, direte, si troverà il modo di sostituire il ferro con qualcos’altro. Esatto. Saremo addirittura obbligati a farlo. Poiché a partire dall’anno 2020 i minerali ricchi saranno esauriti, il costo della loro estrazione e del loro raffinamento aumenterà a dismisura. Nell’anno 2100 il costo della ghisa sarà moltiplicato per dieci e il ferro dovrà essere stato rimpiazzato, nella percentuale del 60%, da altre materie. È il tasso di sostituzione più elevato che si possa attualmente sperare. Eppure, anche così, i giacimenti di ferro saranno esauriti nell’anno 2120.
Bah, direte voi: avremo scoperto altri giacimenti nel frattempo. È possibile. Supponiamo che le riserve di ferro siano il doppio di quello che oggi sono a nostra conoscenza. Avremmo un po’ di respiro, ma quanto? Il calcolo è stato fatto ed ecco la risposta: un respiro di 20 anni. Il punto morto assoluto, in caso di raddoppiamento delle riserve, interverrebbe nell’anno 2140 invece che nel 2120.
Ora, nessun metallo industriale è così diffuso come il ferro. Al ritmo attuale di estrazione – dunque supponendo che questo ritmo non acceleri – le riserve conosciute di mercurio saranno esaurite in 13 anni; quelle di piombo in 15; quelle di oro in 17; quelle di zinco in 18; quelle di argento e platino in 20; quelle di stagno in 25 e quelle di rame in 40. Con cosa sarà rimpiazzato allora il ferro? Con l’alluminio? Al ritmo di estrazione attuale, c’è alluminio per 100 anni; ma se il suo consumo continua ad aumentare al tasso attuale, i giacimenti conosciuti saranno già esauriti in 31 anni. Si potrà sostituire ferro e alluminio con materie sintetiche? Lo si fa già, grazie alla petrolchimica. Ma il consumo attuale di petrolio avrà esaurito i giacimenti conosciuti in 70 anni; in 20 se il consumo continua ad aumentare al ritmo attuale.
Così, da qualsiasi parte si prenda il problema, il prolungamento delle tendenze presenti conduce in un vicolo cieco. Questo prolungamento è semplicemente impossibile. Quali che siano le scoperte e le invenzioni, il costo dei metalli necessari all’industria aumenterà vertiginosamente. Le attuali strutture di produzione e di consumo del mondo industrializzato sono condannati. Non sono più i “demoni del caso” di Apollinaire, ma quelli dell’espansione, i cui violini
dai suoni perduti
fanno danzare la nostra razza umana
sul declivio, all’indietro.
Forse giudicherete che tutto questo non è, dopo tutto, niente di davvero tragico: le nostre industrie distruttrici, inquinatrici e saccheggiatrici producono già talmente tante cose superflue che potremmo benissimo fermarci qua. Ma chi vi parla di fermare la crescita? Credete davvero che basti stabilizzare al suo livello attuale il consumo da parte del mondo industrializzato di risorse insostituibili? Questo consumo, si tratta di ridurlo, non fosse che per lasciare una parte più grande di risorse a disposizione dei popoli che non hanno ancora le loro industrie: i popoli del Terzo Mondo, la cui popolazione aumenta del 2,5% l’anno. Poiché, lo sapete già, vi è stato detto innumerevoli volte: con soltanto il 6% della popolazione mondiale, gli Stati Uniti consumano il 40% della produzione mondiale di pasta di carta, il 36% dei combustibili fossili, il 25% dell’acciaio e dei fertilizzanti, il 20% del cotone. Utilizzano, inoltre, per l’alimentazione degli Americani, il 10% delle terre agricole del resto del mondo oltre alle loro terre. L’Europa non è certo meno vorace. In totale, con il 16% della popolazione del globo, il mondo industrializzato divora l’80% delle risorse, limitate e insostituibili, della Terra. I 200 milioni di Americani, per non prendere che loro, infliggono al pianeta, con la loro agricoltura, tante distruzioni e devastazioni di quello che farebbero (se ci fossero) cinque miliardi di Indiani.
Credete che i due terzi malnutriti dell’umanità accetteranno ancora a lungo questo saccheggio, da parte di una piccola minoranza agiata, di ricchezze che sono di tutti e, più particolarmente, loro? Non sperate di cavarvela prefigurando per il Terzo Mondo un tipo di civilizzazione totalmente differente dalla nostra, di tipo essenzialmente agricolo. Anzitutto, il vostro consiglio sarebbe perfettamente cinico: “Non abbiate industrie affinché noi possiamo conservare più a lungo le nostre”. Inoltre, sarebbe gratuito e ipocrita: perché sono le potenze imperialiste, ovunque esse dominano, che distruggono (in Africa, in Asia, in America Latina) quello che resta dell’industria di villaggio e dell’agricoltura pre-industriale. Infine, il Terzo Mondo non ha aspettato i nostri consigli: tende a ispirarsi sempre più al tipo di sviluppo della Cina.
Non rallegratevi troppo presto. Non crediate che l’estensione a tutto il Terzo Mondo del modello di sviluppo cinese ci permetterà di guadagnare tempo, di rallentare la rarefazione delle risorse, di ridurre le pressioni distruttrici sull’ambiente. Perché c’è una cosa di cui non abbiamo ancora parlato, la principale: la crescita demografica. Attualmente è del 2,1% annuo (2,5% per il solo Terzo Mondo). Implica il raddoppio in trentatré anni della popolazione mondiale. Esigerà la messa in coltura, prima dell’anno 2000, della totalità delle terre coltivabili del globo. La limitazione delle nascite, anche se fosse immediata, non toglierà nulla (ci torneremo) a questa necessità. Infatti, perché una popolazione mondiale doppia rispetto all’attuale possa mangiare la metà di quello che mangiano gli Europei oggi, bisognerà ottenere dei rendimenti europei sulla totalità delle superfici coltivabili del globo.
Ora, un forte accrescimento delle rese è impossibile senza base industriale: esige delle moto-pompe, attrezzature in acciaio, macchine, dighe e canali, fertilizzanti chimici e insetticidi. Esige dunque ferro e carbone, metalli non ferrosi o rari (platino, in particolare) e molta energia elettrica: ci vuole l’energia di 5 tonnellate equivalenti di carbone per produrre una tonnellata di fertilizzanti. La costruzione di industrie metallurgiche e chimiche è quindi per il Terzo Mondo una questione di sopravvivenza. Se qualcuno deve ridurre il suo consumo di risorse limitate, non possiamo che essere noi, cioè le metropoli industriali.
Se qualcuno deve smettere di avvelenare l’atmosfera e l’idrosfera attraverso l’uso massiccio di insetticidi, di fertilizzanti e altre sostanze tossiche, questo qualcuno non potremo che essere noi. E la cosa va ancora oltre: fino alla necessità di modificare il nostro regime alimentare, fondato sulla sovra-alimentazione e sul saccheggio. Sapete, per esempio, che il Terzo Mondo non dispone che del 20% del pesce pescato negli oceani e nei fiumi mentre Nord-Americani ed Europei, da soli, se ne appropriano attualmente di più della metà? E sapete cosa ne fanno? Si servono della maggior parte del pesce (quasi la metà della pesca mondiale) per alimentare i loro volatili e i loro bovini. La principale fonte delle nostre farine di pesce è l’America del Sud (in particolare il Perù), che è in crudele mancanza di proteine. È per questo meccanismo, tra le altre cose, che l’abbondanza, da noi, di alimenti a buon mercato e nobili si fonda sulla malnutrizione del resto del mondo. È il motivo per cui bisognerà che cambino le nostre abitudini alimentari (a meno che, per conservarle, non intendiamo sterminare una parte dell’umanità).
Non sperate di cavarvela preconizzando per il Terzo Mondo la limitazione delle nascite. Questa limitazione è certo necessaria. Ma, anzitutto, non l’abbiamo ancora accettata per noi stessi (al contrario), mentre Cina e Giappone la impongono già. In secondo luogo, è già troppo tardi: di certo non sarà possibile evitare il raddoppiamento della popolazione mondiale attuale (3,6 miliardi di abitanti). Infatti, ipotizzando che da oggi all’anno 2000 il numero di figli per coppia sia ridotto a 2 in tutto il mondo, la Terra non conterà meno di 5,8 miliardi di abitanti tra 28 anni, cioè il 60% più di oggi. E questa popolazione, in ragione della sua struttura anagrafica, continuerà a crescere per quasi un secolo per stabilizzarsi infine a 8,2 miliardi verso l’anno 2100. Per impedire tutto questo sarebbero necessari una limitazione delle nascite molto più rapida o, se questa “prima soluzione”, com’è probabile, si rivelasse impraticabile, ridurre a meno di due, nel corso nel prossimo secolo, il numero di figli che una donna o un uomo sono in diritto di concepire o generare. È possibile? Al momento, la risposta parrebbe dubbia. Il raddoppiamento della popolazione mondiale attuale sembra difficilmente evitabile e questa popolazione raddoppiata dovrà essere nutrita per almeno mezzo secolo prima di cominciare a decrescere per la disciplina che si sarà imposta.
La Terra potrà nutrire i sette miliardi di abitanti del XXI secolo? La risposta è: sì, ma non a lungo e non senza delle precauzioni di cui la nostra civiltà, fino a oggi, non ha avuto cura. Poiché l’agricoltura causa delle distruzioni tanto più rapide e irreparabili quanto più essa è industriale e produttivista. Nel periodo 1882-1952 – la sola per cui si posseggano cifre – il 15% di tutte le terre coltivate sono diventate marginali (cioè non adatte per uno sfruttamento regolare); inoltre, il 38,5% delle terre coltivate (contro il 9,9% nel 1882) avevano perduto, alla fine del periodo considerato, la metà del loro humus; l’estensione dei deserti e delle terre non coltivabili è aumentata di 1,5 miliardi di ettari in questi 70 anni, cioè di una superficie superiore di un quarto a quella delle terre attualmente coltivate; più di un terzo (36,8%) delle foreste esistenti nel 1882 è stato distrutto (cioè 1,9 miliardi di ettari); in rapporto al totale delle terre coltivate, la proporzione delle “terre buone” è caduta dall’85% al 41,2%.
Le tecniche che si sono generalizzate nel corso degli ultimi venti anni hanno ulteriormente aggravato e accelerato queste devastazioni. Per conservare la fertilità e la sostanza dei suoli è indispensabile, infatti, restituire quello che viene loro tolto. È quanto succede naturalmente nelle foreste: le foglie cadono, sono decomposte da microorganismi che, dal canto loro, arricchiscono il suolo di azoto organico. I prodotti della decomposizione sono subito assimilati dalla vegetazione. Ora, uno degli effetti del metodo industriale è di rompere questo ciclo dell’azoto. L’allevamento, per esempio, si fa sempre meno su pascoli e sempre più (nell’ordine del 50% negli Stati uniti) in recinti. Gli escrementi degli animali non sono più sparsi sulle superfici dove erano stati raccolti i foraggi: si accumulano nei recinti, non si trasformano più in humus e si liquefanno. L’azoto organico si trasforma in composti volatili o solubili e questi ultimi si infiltrano nel suolo, inquinano pozzi e fiumi. L’allevamento è già, negli Stati Uniti, una causa di inquinamento dell’acqua più importante degli scarichi della somma di tutte le città. La penuria di acqua potabile, la regressione della fauna acquatica, l’impoverimento e il venir meno dei suoli hanno nell’allevamento una delle loro ragioni principali.
Una seconda ragione, d’altronde complementare, è l’uso intensivo dei fertilizzanti azotati. In effetti, se non si restituisce ai suoli il letame animale e umano, bisogna apportare loro dell’azoto sotto altre forme. In un primo tempo, l’apporto massiccio di fertilizzanti chimici ha per effetto un accrescimento spettacolare delle rese. Negli Stati Uniti le rese per ettaro sono aumentate del 77% in vent’anni (e la produzione agricola dell’11%). Per ottenere questo risultato, durante questo periodo l’apporto di fertilizzanti azotati ha dovuto essere moltiplicato per 7,5. Tuttavia, l’utilizzo massiccio di fertilizzanti azotati non può essere spinto, e nemmeno proseguito, indefinitamente. Perché queste sostanze non solo inquinano i corsi d’acqua e i mari: l’azoto inorganico apportato al suolo inibisce il lavoro dei micro-organismi, provoca la loro regressione o la loro mutazione e distrugge in tal modo il ciclo naturale dell’azoto. Bisogna allora apportare al suolo delle quantità crescenti di fertilizzanti industriali per mantenere la sua fertilità. E questa, alla lunga, finisce comunque per diminuire.
Non si tratta, evidentemente, di rinunciare improvvisamente a fertilizzanti e insetticidi; senza di essi sarebbe impossibile nutrire la popolazione attuale del mondo e, a fortiori, quella dei decenni a venire. Peraltro, l’utilizzo di fertilizzanti e insetticidi chimici deve essere ridotto e considerato come un espediente provvisorio: se dovesse durare, innescherebbe la distruzione irreparabile di equilibri e cicli naturali, indispensabili alla conservazione della vita. Bisogna dunque trovare dei sostituti ai metodi distruttivi attualmente in uso. Questi sostituti esistono. Si tratta di raccogliere e di rimettere nei campi i rifiuti organici delle città; di tornare ai letamai, alle rotazioni delle colture; si tratta di dare la preferenza alla policoltura-allevamento sulla monocultura industriale dei grandi spazi. E bisogna sostituire urgentemente il DDT con degli insetticidi meno persistenti ma dalle tre alle nove volte più costosi, in attesa di mettere al bando gli insetticidi chimici in favore delle regolazioni biologiche.
Tutto questo è possibile. Ma tutto questo è ugualmente incompatibile con il nostro modo di vita e di produzione, cioè con la civiltà industriale uscita dal capitalismo – perché non ce n’è un’altra: l’URSS stessa ha adottato le tecniche americane, poi, nel 1955, con le parole di Krusciov, ha preso il livello di consumo americano per modello, lanciandosi poco dopo nel dissodamento del Kazakhstan, dove dodici milioni di ettari (una superficie agricola uguale a quella delle isole britanniche) divennero, in qualche anno, un deserto di polvere.
Questa incompatibilità con la civiltà industriale (e capitalistica) si rende evidente con le misure suggerite, a titolo di ipotesi di lavoro, dall’équipe del prof. Meadows (MIT). Dopo che tutte le altre ipotesi hanno condotto a dei vicoli ciechi catastrofici, questa équipe multidisciplinare ha costatato che, a certe condizioni, si potrebbe realizzare un equilibrio praticabile che permetterebbe di far durare per svariati secoli le risorse disponibili e di mantenere un ambiente propizio a una vita piacevole.
Le condizioni di questo equilibrio durevole sono state calcolate nell’ipotesi di una stabilizzazione della popolazione mondiale a quattro miliardi verso la fine del secolo. Questo obiettivo non rappresenta né un maximum né un optimum (l’optimum, secondo Paul Ehrlich, si troverebbe all’incirca sui 500 milioni di abitanti…): si tratta semplicemente di una grandezza indicativa che permette di ragionare su dei dati numerici. Se il livello dei quattro miliardi di abitanti è superato – cosa probabile -, l’equilibrio resta possibile, ma a condizione o di ridurre ancora i livello di consumo per abitante che indicheremo più avanti, o di ridurre molto sensibilmente la popolazione in un secondo tempo. Senza una di queste due misure, la riduzione del consumo e della popolazione sarà operata da catastrofi “naturali” e da stermini reciproci ai quali le forme di vita civilizzate potrebbero benissimo non sopravvivere.
Vediamo ora la condizioni per un equilibrio durevole. Scontando un piccolo margine di incertezza quanto a date e grandezze, le condizioni hanno una validità generale, il che significa: più si tarderà, più la realizzazione di queste condizioni di equilibrio sarà difficile e spiacevole. Queste condizioni sono:
- Un tasso di natalità uguale al tasso di mortalità a partire dal 1975; le coppie sono dissuase dall’avere più di due figli;
- Arresto della crescita industriale dal 1975 per i “Paesi ricchi”, dal 1990 per gli altri. A partire da queste date, l’industria si limiterà a rimpiazzare le capacità di produzione esistenti (cosa che non esclude l’innovazione); non creerà capacità nuove; sarà tre volte più potente di oggi ma molto differente e distribuita in tutt’altra maniera dal punto di vista geografico;
- Modifica radicale delle tecniche al fine di assicurare ai prodotti una durata di utilizzo massimale. Per esempio: le macchine, apparecchi e veicoli, sono concepite per durare trent’anni o più (era il caso delle macchine del secolo scorso); i tessuti sono praticamente indistruttibili (era il caso delle lenzuola delle nostre nonne e dei primi tessuto di nylon); le lampadine elettriche non si fulminano (i fabbricanti attuali ne hanno accorciato deliberatamente la longevità); i trasporti via ferro rimpiazzano i trasporti stradali (questi sono sei volte più inquinanti, sterilizzano quattro volte di più i suoli e si degradano dalle otto alle dieci volte più in fretta, a parità di servizio), etc.;
- La lotta contro l’inquinamento, il recupero e il riciclaggio di tutte le materie è spinta al massimo;
- Grazie alla politica esposta nei punti 3. e 4., il consumo di risorse minerali è ridotto a un quarto del livello attuale, e questo (ci torneremo) per una produzione industriale più che tripla;
- La priorità, in materia di investimenti, è data all’agricoltura, in particolare alla conservazione e all’arricchimento dei suoli, utilizzando al meglio la totalità delle superfici coltivabili, anche se questo è “non conveniente” secondo i criteri attuali.
Il risultato di tutto questo? Non è né cupo né ascetico. Le risorse minerarie continuano certo a declinare, ma questo declino è così lento che l’industria, la demografia e la tecnologia hanno il tempo di adeguarsi e di prevenire i vicoli ciechi. La popolazione mondiale si stabilizza a quattro milioni di abitanti. C’è, in questa ipotesi, il doppio del cibo per abitante attuale. La longevità è in media di 65 anni. La produzione totale a testa è di 1.500 dollari all’anno, cioè la metà di quella americana e i tre quarti della francese; ma questa produzione è distribuita in modo grosso modo egualitario. La produzione industriale e i servizi sono a un livello più che triplo rispetto all’attuale ma hanno una natura molto differente:
- Le industrie di villaggio, comunitarie e semi-artigianali occupano un posto preponderante o, almeno, molto più importante che nel mondo industrializzato di oggi. È normale: i prodotti sono molto più curati poiché devono durare a lungo.
- Le concentrazioni urbane hanno lasciato il passo a delle comuni agro-industriali equilibrate, quasi autarchiche per i prodotti correnti che non esigono grandi istallazioni. Poiché è questo il solo modo di restituire ai suoli i rifiuti organici urbani senza dover sopportare enormi spese di trasporto. È anche il miglior modo di economizzare le risorse energetiche: passata una certa soglia, la grande città è molto più costosa – in trasporti, strade, fogne, tubature d’acqua etc. – che le città più piccole. Infine, non è che nei comuni integrati, “a scala umana”, che l’aggiustamento della produzione ai bisogni e dei bisogni alle risorse – così come la preoccupazione di proteggere e curare l’ambiente – possono riposare su decisioni collettive piuttosto che su vincoli burocratici e polizieschi.
A leggere queste proposte, il cui orientamento è comune a quello dell’équipe americana del MIT e a quello del “Piano per la sopravvivenza” inglese, si pensa irresistibilmente alle utopiche comuniste e alle comuni cinesi. Eppure non era intenzione degli autori, che prendono grande cura nel non politicizzare il dibattito. Il loro punto sono le condizioni di un equilibrio che assicuri la sopravvivenza. La loro preoccupazione è di rendere la vita il più economica e piacevole possibile. La loro certezza comune – molto diffusa tra gli under 35 anni negli Stati Uniti e, sempre di più, in Europa occidentale – è che l’abbondanza delle merci, la crescita della produzione e del consumo (del PIL), l’accelerazione dell’innovazione tecnica costituiscono, nei Paesi industrializzati, uno spreco assurdo: perché volere sempre di più se si può vivere meglio consumando e producendo meno ma altrimenti?
Questione di puro buon senso ma eminentemente sovversiva. Perché più è la parola-chiave del capitalismo. Bisogna vendere di più per fare più profitti; investire di più per produrre di più; lavorare più in fretta perché le macchine siano ammortizzate più in fretta e possano essere rimpiazzate da macchine ancora più efficaci, ancora più redditizie. Bisogna dunque che i prodotti si consumino più in fretta affinché la gente ne acquisti quantità più grandi che permetteranno di far girare più in fretta le macchine più potenti che… etc. La questione: “Produrre cosa? Produrre di più di cosa?” è estranea allo spirito del sistema. La merce non è che la forma transitoria che prende il capitale nel perseguimento del suo scopo: accrescersi. E, di fatto, la crescita capitalista è la crescita di qualsiasi cosa; può essere la somma di due grandezze di segno contrario la cui addizione, per buona logica (non capitalista), è uguale a zero. È, per esempio, il denaro vinto da colui che aumenta i propri profitti inquinando, più il denaro che guadagna colui che pulisce, raccoglie e filtra i rifiuti altrui.
L’americano Al Capp, in un episodio del suo fumetto “Li’l Abner”, illustra il punto come segue: “Un uomo d’affari sveglio compra un ‘chtounk’ in Slobovia. Questo animale impesta a tal punto l’aria da farla diventare irrespirabile in tutta la città. Che pacchia: la possibilità di respirare potrà essere venduta cara, sotto forma di depuratori d’aria, a tutte le famiglie. L’uomo d’affari farà fortuna distribuendo gli apparecchi grazie al sindaco e il sindaco sarà rieletto per aver salvato i cittadini dall’asfissia e procurato del lavoro”. Morale: inquinare per disinquinare, disinquinare per inquinare ancora può essere un buon mezzo per fare soldi e alimentare la “crescita economica” facendo aumentare il PIL per abitante, ma non comporta nessun miglioramento della qualità di vita.
Quando gli ecologisti, con l’équipe del MIT, reclamano l’arresto della crescita industriale e fanno di questo arresto la “priorità delle priorità” per i Paesi ricchi, emettono in realtà una proposizione di cui misurano raramente la portata sovversiva: la logica economica è la negazione pura e semplice della logica capitalista. Cos’è, infatti, un capitalismo senza crescita, in cui il capitale cessa di accumularsi e di accrescersi? Delle due l’una: è un capitalismo morto o un capitalismo in crisi. Questo è tanto vero che ogni rallentamento della crescita industriale è accolto dagli uomini d’affari come una novità allarmante. Le vendite di macchine o di prodotti chimici smettono di aumentare del 10 o 15% all’anno? Nessuno vi dice: “Tanto meglio, lavoreremo meno; le nostre macchine si consumeranno meno in fretta; consumeremo e saccheggeremo meno risorse insostituibili”. Al contrario, tutti gridano: “Che disgrazia, gli affari vanno male, i prezzi si abbasseranno, faremo meno profitti, i nostri capitali non troveranno modo di essere investiti in modo conveniente, le fabbriche chiuderanno, ci sarà disoccupazione”. Una rivista francese sosteneva, poco tempo fa, che tre figli sono la media ideale per le coppie francesi; poiché la Francia, diceva, “per svilupparsi a un ritmo soddisfacente dovrebbe avere venti o trenta milioni di abitanti in più”.
Insomma, un capitalismo senza crescita, in cui si investe solo per riparare o rimpiazzare quello che è consumato, è un capitalismo che non funziona più. Ed è quello che gli ecologisti domandano in realtà; peggio che la non-crescita: con dei prodotti materiali il più durevoli possibile, la struttura industriale girerebbe, a seconda dei settori, tra le quattro e le dieci volte meno veloce di adesso. La velocità di circolazione del capitale, e quindi dei profitti, sarebbe ridotta della stessa proporzione. Ci potranno essere molti servizi collettivi, parecchio tempo libero, molte attività culturali e produzioni “immateriali”? Certamente; solo a condizione che questa economia del profitto nel frattempo fallita sia stata rimpiazzata da una economia decentralizzata e distributiva; e che l’attività libera, l’autodeterminazione sovrana dei produttori associati su scala di comuni e regioni abbiano prevalso sul lavoro salariato e sui rapporti di mercato.
Coscientemente o (più spesso) incoscientemente, gli ecologisti, alla fine dei conti, portano una cauzione scientifica a tutti coloro che, in maniera apparentemente irrazionale, sentono l’ordine presente come un disordine barbaro e lo rigettano – rifiutando le forme attuali della produzione, del consumo, del lavoro, della tecnica e pretendendo che si possa vivere meglio producendo e consumando meno, a condizione di produrre, consumare e vivere altrimenti. I protagonisti del Maggio 1968, in un certo senso, non dicevano altro.