Le disavventure della carne “sintetica”

L’hybris di forzare con la tecnica i limiti della natura, che caratterizza da sempre l’Occidente, compreso il progetto di sintetizzare su scala industriale le proteine alimentari, ispirava il Rapporto della Rand Corporation pubblicato nel 1968 sulle previsioni dei risultati della ricerca nei successivi 30 anni e ripreso con grande rilievo da una corrispondenza dagli Stati Uniti sulla rivista degli industriali chimici italiani. Nell’articolo non si risparmiavano toni a dir poco esaltati, comprensibili, peraltro, se si ha presente l’autorevolezza della fonte, quella Rand Corporation (Rand è la sintesi di Research and Development) che rappresenta, dal secondo dopoguerra a oggi, il più importante centro studi del Paese guida, allora, del Primo mondo, oggi, dell’Occidente, fondato nel 1946, con migliaia di ricercatori, e finanziato soprattutto dal Dipartimento della Difesa statunitense. Ecco le previsioni più significative:

Fra il 1988 e il 1990 saranno disponibili medicamenti, a base non narcotica, che agiranno sui centri della personalità umana e nel 1990 anche la preparazione in laboratorio di forme primordiali di vita sarà cosa compiuta. Per quell’epoca non solo si disporrà di energia termonucleare ‘controllata’, ma sarà possibile anche procedere correntemente allo sfruttamento minerario del fondo sottomarino; inoltre, verso il 1995, si avrà un controllo su base regionale delle condizioni meteorologiche. Quanto al problema della carestia nei Paesi sovrappopolati, sempre per il 1995, si conta di aver portato a termine su scala industriale la sintesi delle proteine alimentari. Infine, nel campo biologico, nell’ultimo quinquennio del secolo, saranno raggiunti tre obbiettivi la cui importanza, diremmo, è tale da sfuggire ad ogni possibile definizione: l’immunizzazione biochimica generale, la programmazione genetica per l’eliminazione dei difetti ereditari e la terapia per via chimico-fisica delle malattie psichiche1.

Insomma un mondo, quello del Duemila, fatto di esseri umani tutti ben pasciuti, forti e belli, sanissimi nel fisico e nella psiche, il “Transumanesimo”2 realizzato! Col senno del poi il lettore contemporaneo è tentato di liquidare queste previsioni come farneticanti espressioni di delirio di onnipotenza. Tuttavia mezzo secolo fa non solo riscuotevano credito nella comunità dei ricercatori, ma alimentavano fra la gente comune la fede nella tecnica e nel progresso. E in questo senso sembrano riflettere, con impressionante continuità, l’idea di una scienza che si autolegittima nel perseguire i suoi fini di progresso, quindi comunque positivi, e che acquista grazie a ciò una sorta di sacralità; un’idea che ha permeato l’intero secolo passato e che sembra esaltarsi nel nuovo, che ha unificato le diverse ideologie e i contrapposti sistemi politici, e che sembra aver ispirato, proprio all’esordio del nuovo millennio, la manifestazione di 1500 scienziati a Roma per la libertà di ricerca e, soprattutto, di ampia sperimentazione nel campo controverso degli organismi geneticamente modificati3. Una presunta “vittoria” della scienza che in quell’occasione, veniva confortata anche dalle parole garbate ed autorevoli di Rita Levi Montalcini: “L’uomo tende per sua natura ad indagare liberamente. Non si può mettere il lucchetto al cervello. […] E’ la stessa comunità sapiente che detta le regole”4.

Un tema, questo, della neutralità della scienza, in verità estremamente complesso che in altra sede abbiamo affrontato5 e che qui non vi è spazio per trattare.

Anni Settanta. Carne “sintetica” 1. Le bioproteine dal petrolio per alimentare animali senza terra

Dunque torniamo alla “carne sintetica”.

In quel tornante della storia, tra anni Sessanta e Settanta, uno dei temi ricorrenti era la crisi demografica, ovvero l’eccezionale tasso di crescita della popolazione, al 2% annuo con la previsione del raddoppio ogni 35 anni, aggravato dal fatto che con analogo ritmo non cresceva la produzione alimentare in particolare nei paesi del Terzo mondo a più alto aumento demografico. Da qui ricorrenti crisi alimentari con conseguenti morti per fame.

Ebbene, in questo contesto, l’industrializzazione della “carne sintetica” venne presentata con grande enfasi come possibile e definitiva soluzione dell’emergenza alimentare.

La tecnologia, da tempo in fase di sperimentazione e agli inizi degli anni Settanta già industrializzata in Francia, Gran Bretagna ed in Unione sovietica, consisteva nella produzione di bioproteine, in forma di mangime in polvere per il bestiame, derivate non più dalla coltivazione di terreni, ma da frazioni del cracking del petrolio, in particolare le normalparaffine, ovvero paraffine a catena lineare di atomi di carbonio CnH (2n+2).

Nelle linee essenziali questo era il processo produttivo: innanzitutto andava preparato il terreno nutritivo, costituito da normalparaffine previamente isolate dai distillati intermedi kerosene e gasolio che ne contenevano tra il 18 e il 25 per cento, e depurate dal contenuto di zolfo, alle quali andavano aggiunti sali minerali nutritivi, vitamine e piccole quantità di oligoelementi; tale letto, quindi doveva essere mantenuto costantemente in temperatura tra i 30 e i 40 gradi, a seconda dei microrganismi, lieviti o batteri, impiegati per essere alimentati, e con una continua e consistente insufflazione di ossigeno; terminata la fermentazione, le cellule dei microrganismi cresciuti con il carbonio delle normalparaffine venivano separate da quest’ultime, quindi essicate, anche per sterilizzarle, ed infine polverizzate in forma di mangime per il bestiame, destinato, come si diceva allora, a produrre “bistecche dal petrolio”, senza la necessità di colture sul terreno6.

I vantaggi furono a lungo celebrati da diversi studi scientifici:

alto tenore di proteine nel prodotto finito, intorno al 50-70 per cento della materia secca; alta velocità di crescita dei microrganismi: il che significa che la massa biologica viene raddoppiata in tempi brevissimi; alta resa dei substrati che possono dare anche il 100 per cento di prodotto proteico; possibilità di ottenere enormi quantità di proteine in spazi molto ristretti come quelli di uno stabilimento, rispetto all’ampiezza delle aree che si devono coltivare per ottenere dall’agricoltura le stesse quantità di proteine7.

La tecnologia, tuttavia, presentava diverse criticità che emersero fin da subito: innanzitutto un notevole consumo energetico per mantenere il processo costantemente in temperatura e sottoposto a intensa aerazione, nonché per l’essicazione finale; inoltre si evidenziarono problemi di tossicità, per i residui nelle carni di normalparaffine (fino a 70 parti per milione), di idrocarburi, in particolare del cancerogeno benzo[a]pirene, e di metalli pesanti; infine la convenienza economica si basava fondamentalmente sui prezzi bassi del petrolio.

In Italia nel 1972, vennero costruiti due grandi impianti per produrre proteine da derivati del petrolio, uno a Saline Joniche, in provincia di Reggio Calabria, della società Liquichimica Biosintesi appartenente al gruppo Liquichimica, capo gruppo Liquigas; l’altro a Sarroch, in provincia di Cagliari, della società Italproteine costituita da Anic, ossia Eni, e BP al 50 per cento. La Liquichimica Biosintesi aveva anche costruito nel 1972 un impianto pilota a Robassomero, in provincia di Torino, per la ricerca e la preparazione del materiale per le sperimentazioni che sono state condotte in Italia. Ambedue gli impianti godettero di finanziamenti pubblici: per Biosisntesi circa 100 dei 200 miliardi investiti; per Italproteine 6 miliardi direttamente dallo Stato in aggiunta a quanto messo da Eni, all’epoca interamente pubblica.

Sia l’impianto di Sarroch, sia quello di Saline Joniche avevano una capacità produttiva di 100 mila tonnellate l’anno di lieviti proteici e avrebbero impiegato circa 700-800 dipendenti.

Il prodotto della Liquichimica Biosintesi era denominato Liquipron, un brevetto giapponese, basato si microrganismi impiegati, che si moltiplicavano utilizzando le normalparaffine, classificati come Candida maltosa. Il prodotto di Italproteine si chiamava Toprina, brevetto inglese della partner British Petroleum, che utilizzava il ceppo Candida tipolytica.

La vita dei due impianti fu alquanto travagliata, al punto che non entrarono mai effettivamente in produzione, dopo un’altalena di concessioni parziali, di divieti, di polemiche che ha caratterizzato tutta la vicenda italiana delle bioproteine.

Vi fu subito una contestazione ecologica basata sul potenziale inquinante sia dei processi produttivi che di componenti delle stesse “bistecche al petrolio” che vide particolarmente impegnato l’allora giovane Gianfranco Amendola.

Il pretore Gianfranco Amendola, coordinatore del “gruppo ambiente”, che dal 1973 si occupa del problema, ribadisce la sua avversione alla produzione delle bioproteine: era stato lo stesso gruppo infatti a sollevare fra i primi in Italia il problema, nel 1974, attraverso convegni e pubblicazioni. Secondo il magistrato, su questo argomento c’è una completa anarchia giuridico-amministrativa, manca la sorveglianza perché il prodotto non vada in commercio. Sempre secondo Amendola, ci sono grossi pericoli per 1’ambiente e non si sa se le bioproteine sono dannose o no8.

Sul tema intervengono diversi esperti, tra cui Silvio Garattini, con una posizione interlocutoria, mentre nettamente contrario si dichiarava Giorgio Nebbia. Dopo aver raccomandato particolare cautela sul tema della tossicità del processo industriale e dei prodotti, e aver notato en passant che l’operazione era stata avviata “naturalmente nell’interesse economico delle grandi compagnie petrolifere multinazionali”, Nebbia svolgeva un’esemplare analisi merceologica ed ecologica, considerando in particolare il costo energetico delle nuove proteine ricavate dal petrolio, mettendo “in evidenza che la produzione di proteine dal petrolio costa, per unità di proteina, molta più energia rispetto alla produzione di proteine da altre fonti sia vegetali, sia animali”, fonti per di più rinnovabili. Quindi concludeva con una condanna senza appello:

Da quanto precede appare che la decisione di costruire gli stabilimenti di produzione di proteine dal petrolio è stata imprudente e sbagliata dal punto di vista economico, biologico, energetico – insomma dal punto di vista merceologico9.

La controversia fu chiusa il 28 giugno 1978 dal Consiglio Superiore della Sanità che dichiarò le bioproteine dal petrolio “non ancora consigliabili”10, anche se, forse, la vera partita era già finita con la crisi petrolifera del 1973-74 che aveva fatto schizzare i prezzi dei mangimi “artificiali” ben al di sopra di quelli dei mangimi naturali.

I due impianti vennero definitivamente chiusi, con relativo sperpero di denaro pubblico.

Ma la vicenda di Saline Joniche merita di essere ricordata: Liquichimica fallisce nel 1980, ma l’impianto viene tenuto in efficienza dal liquidatore, cosicché si è continuato a fare manutenzione in quanto l’investimento era stato troppo grande per poter essere abbandonato all’incuria. Trent’anni di manutenzione per tener in vita un cadavere e garantire ad un manipolo di lavoratori un impiego e la cassa integrazione, senza alcun progetto per riconvertire la struttura. Finché nel 1999 la Enichem, a cui nel frattempo era stato ceduto l’impianto, lo vende a sua volta a cifre irrisorie al consorzio Sipi (Saline Ioniche Progetto Integrato). Quest’ultimo non riesce a reggere i costi della struttura, smantella e vende ogni materiale vendibile, soprattutto acciaio, per sanare i debiti. Nel 2006 Progetto Sei, cartello di aziende con a capo la multinazionale svizzera Repower, acquisisce il gigante di latta con l’obiettivo di costruire un’improbabile centrale a carbone. Il progetto per una mega centrale termoelettrica da 1.320 MW viene presentato nel 2008, ma solleva immediatamente l’opposizione dei cittadini e delle comunità locali, finché nel 2016 viene definitivamente abbandonato dai proponenti, accortisi di essere ormai in scandalosa controtendenza rispetto alle strategie europee di decarbonizzazione11. Dove prima del 1972 fiorivano gli orti di bergamotto, in un’area di settecentomila metri quadri, estesa per due chilometri lungo la costa, ora rimangono tra un’immensa colata di cemento i ruderi arrugginiti della fabbrica abbandonata con il camino alto 174 metri, simbolo di un passato nefasto12.

Così cala il sipario sulla prima avventura della carne “sintetica” in Italia13.

Anni Duemila. Carne “sintetica” 2. Bistecche “coltivate” in laboratorio con cellule staminali e senza animali

Il contesto in cui si colloca questo nuovo esperimento è, ovviamente, molto diverso dal precedente, come è diversa la tecnologia in campo, anche se in comune hanno l’ossessione occidentale di andare oltre i limiti naturali.

E’ profondamente mutato il quadro geopolitico. All’epoca l’Occidente che si definiva come Primo mondo aveva la preoccupazione di consolidare la propria egemonia in competizione con il Secondo mondo, il blocco comunista, sulla scia del famoso discorso “sullo stato dell’Unione” del gennaio 1949 del presidente Truman che al “punto IV”, tra l’altro, recitava:

E’ solo aiutando i suoi membri più sfavoriti ad aiutarsi da soli che la famiglia umana potrà realizzare la vita decente e soddisfacente alla quale ciascuno ha diritto. Solo la democrazia può fornire la forza vivificante che mobiliterà i popoli del mondo in vista di un’azione che permetterà loro di trionfare non solo sui loro oppressori ma anche sui loro nemici di sempre: la fame, la miseria e la disperazione14.

Ora, crollato il Secondo mondo, l’Occidente, dopo aver accarezzato l’idea dell’unum imperium, non sembra rassegnarsi alla prospettiva della nuova realtà multipolare e si affanna a rivendicare una supremazia esclusivamente nel nome del presunto monopolio della libertà, o meglio, nel concreto, del liberismo economico, ovvero del diritto delle multinazionali a perpetuare a proprio piacimento l’estrattivismo e l’accaparramento delle risorse globali, mentre la lotta alla fame, alla miseria e alla disperazione del discorso di Truman non viene più neppure evocata nell’attuale narrazione made in Occidente, che oggi rivendica sfacciatamente il diritto al mantenimento dei propri privilegi.

In questo quadro, il Transumanesimo, all’epoca anticipato da Julian Huxley, allo stesso tempo erede ed innovatore della controversa illusione eugenista novecentesca15, ha registrato nel nuovo secolo un’evoluzione importante facendo leva su due fattori: innanzitutto le nuove tecnologie derivanti dagli sviluppi della genetica molecolare e dalla bioingegneria, nonché i nuovi orizzonti dell’informatica e della cibernetica, in particolare la cosiddetta Intelligenza artificiale; in secondo luogo l’entrata in campo delle multinazionali Big Tech sia nel finanziare la ricerca sia nelle cosiddette Startup per la sperimentazione operativa.

Il Transumanesimo, peraltro, anche nel suo programma filosofico, non si preoccupa di nascondere la propria ispirazione classista ed esclusivista. E’ del tutto evidente che l’accesso alle nuove tecnologie, condizione indispensabile per la transizione transumanista, è riservato ad una ristretta élite bianca, occidentale e ricca, come si evince da uno dei testi classici e fondativi del movimento,

Lettera a madre natura, di Max More del 1999:

Emendamento n. 1: Non sopporteremo più la tirannia dell’invecchiamento e della morte. Per mezzo di alterazioni genetiche, manipolazioni cellulari, organi sintetici e ogni altro mezzo necessario, ci doteremo di vitalità duratura e rimuoveremo la nostra data di scadenza. Ognuno di noi deciderà quanto a lungo potrà vivere. Emendamento n. 2: Espanderemo la portata delle nostre capacità cognitive con strumenti computazionali e biotecnologici. Intendiamo superare le abilità percettive di ogni altra creatura e inventare nuovi sensi per espandere la nostra comprensione e il nostro apprezzamento del mondo intorno a noi. Emendamento n. 3: Miglioreremo la nostra organizzazione e capacità neurale, incrementando la nostra memoria ed espandendo la nostra intelligenza. Emendamento n. 4: Forniremo la neocorteccia di una “meta-mente”. Questa rete distribuita di sensori, processori di informazioni e intelligenza, incrementerà la nostra consapevolezza di noi stessi e ci permetterà di modulare le nostre emozioni. Emendamento n. 5: Non saremo più schiavi dei nostri geni. Ci assumeremo la responsabilità dei nostri programmi genetici e otterremo il totale controllo dei nostri processi biologici e neurologici. Porremo rimedio a tutti i difetti individuali e della specie lasciatici in eredità della nostra storia evolutiva. Ma non ci fermeremo qui: potremo scegliere sia la forma del nostro corpo che le sue funzioni, raffinando ed aumentando le nostre abilità fisiche ed intellettuali, fino a livelli mai raggiunti da nessun altro essere umano nella storia. Emendamento n. 6: Ridefiniremo, muovendoci allo stesso tempo con audacia e con cautela, i nostri modelli motivazionali e le nostre risposte emotive in modi che, come individui, riterremo salutari. Cercheremo una soluzione ai tipici eccessi emotivi umani, introducendo emozioni più raffinate. Avendo così rimosso le barriere emotive ad una razionale auto-correzione, potremo fare a meno di insalubri certezze dogmatiche. Emendamento n. 7: Riconosciamo il tuo genio nell’uso di composti basati sul carbonio per crearci. Tuttavia, non limiteremo le nostre capacità fisiche, intellettuali ed emotive rimanendo puri organismi biologici. Nella ricerca del controllo sul nostro organismo, ci integreremo progressivamente con le nostre tecnologie.

Inoltre, accanto alla condizione necessariamente privilegiata dei potenziali transumanisti fruitori delle nuove tecnologie, va considerato l’enorme potere di dominio e di controllo, sottratto ad alcuna validazione democratica, degli attori di questa rivoluzione biotecnologica della condizione umana, ovvero di quel manipolo di magnati che controllano le Big Tech17. Ma sembra che l’Occidente, disposto a scatenare guerre in ogni dove nel mondo per salvare la democrazia, non si preoccupi più di tanto di una prospettiva che farebbe impallidire la distopia (ma lo era davvero?) del fratello di Julian Huxley, Aldous, narrata ne Il mondo nuovo18.

Ebbene è da questo “mondo nuovo” che proviene anche la nuova avventura della carne “sintetica” o “coltivata”, con gli stessi attori e, in parte, con le stesse motivazioni. Così, quando qualche anno fa scesero in campo pezzi da novanta come Bill Gates, il miliardario inglese Richard Brandson, fondatore della Virgin e soprattutto la Cargill Inc, una delle più grandi aziende alimentari mondiali (che significativamente, tra l’altro, produce anche carni) per finanziare una delle Startup leader della “nuova” carne, la Memphis Meats, che nella solita Silicon Valley aveva subito raccolto 22 milioni di dollari di investimenti, il nome scelto per il prodotto innovativo fu “carne pulita”, per distinguerla dalla consueta carne, inquinata ed inquinante per l’ambiente, o, addirittura, quella rossa, sospetta cancerogena. La promessa, allora, era che nel 2021 sarebbe arrivata sulle nostre tavole. Comunque il battage dei mass media fu all’altezza dell’impresa19.

Sulle nostre tavole non è arrivata neppure nel 2024, ma men che meno sarebbe arrivata, o arriverà, sulle tavole degli affamati del mondo che la carne se la sognano e che faticano a trovare un piatto di riso e fagioli per riempire lo stomaco. Come ci ricorda opportunamente Miguel Benasayag, il filosofo argentino che ha scelto di vivere nelle periferie di Parigi, le preoccupazioni ecologiche (e ancor più quelle antispeciste e animaliste) sono prerogative di chi ha la pancia piena:

Ditelo a un operaio in cassa integrazione di angosciarsi perché la sua auto scassata del 1999 inquina troppo e contribuisce al disastro ambientale. O a una mamma single e precaria di struggersi davanti agli scaffali del supermercato perché le banane non sono biologiche20.

Ma torniamo alla carne “sintetica” o “coltivata” e vediamo per sommi capi qual è il processo produttivo. In rete si trovano tanti schemi e dati spesso di fonte delle stesse aziende produttrici. Qui ci affidiamo ad una fonte, il National Geographic, che, pur facendo trasparire un’adesione al progetto, garantisce forse una maggiore correttezza di informazioni:

La produzione di carne coltivata consiste nel “prendere cellule da animali normalmente allevati per produrre carne e usare quelle cellule come ‘starter’ per far crescere la carne al di fuori dell’animale”, spiega David Kaplan, direttore del Centro per l’agricoltura cellulare della Tufts University. Per Claire Bomkamp, scienziata a capo del dipartimento per la carne e i frutti di mare coltivati presso il Good Food Institute, è “la stessa cosa della carne tradizionale, ma “togliendo dal processo produttivo gli animali”. Il primo passo per la creazione di carne coltivata prevede di procurarsi cellule animali, spesso tramite biopsia di un animale – vivo o appena macellato – oppure prelevando delle cellule da un ovulo fecondato. Queste cellule vengono poste in mezzi di coltura per stimolarne la proliferazione. […] A differenza delle carni di origine vegetale, la carne coltivata in laboratorio viene prodotta partendo da vere cellule animali. […] Le cellule usate possono essere cellule staminali (che hanno la capacità di sviluppare quasi tutte le parti di un animale), oppure le cosiddette cellule satellite, che rigenerano e riparano i muscoli. Alcune cellule possono arrivare a riprodursi anche 30-50 volte prima che sia necessaria una nuova biopsia. Ma quello che è considerato il ‘Santo Graal’ – che Kaplan e altri stanno sviluppando – è rappresentato dalle cellule ‘rese immortali’, ovvero cellule che attraverso una manipolazione o una mutazione genetica sono in grado di moltiplicarsi all’infinito senza bisogno di ulteriore tessuto animale fresco. Il risultato, in teoria, è un prodotto che ha l’aspetto, l’odore, il sapore e la consistenza della carne che siamo abituati a consumare, e che è disponibile in modo illimitato21.

Liliana Maci, giornalista impegnata nella divulgazione scientifica, in un lungo e argomentato saggio, aggiunge utili informazioni sulle sostanze chimiche che entrerebbero nel processo:

Il processo di coltivazione della carne in laboratorio richiede l’uso di vari tipi di sostanze, che sono generalmente presenti nel terreno di coltura utilizzato per nutrire e stimolare la crescita delle cellule. Oltre ai già citati aminoacidi, zuccheri, vitamine e minerali, ci sono i fattori di crescita. Si tratta di proteine che segnalano alle cellule quando e come crescere e dividersi. Alcuni dei fattori di crescita utilizzati nella coltivazione della carne possono esserederivati da sieri animali, come il siero fetale bovino, ma ci sono sforzi in corso per sviluppare alternative senza animali a questi prodotti. Anche gli antibiotici possono essere utilizzati per prevenire la crescita di batteri e altri microrganismi che potrebbero contaminare la coltura cellulare. […] Tra gli obiettivi di produzione della carne coltivata c’è comunque anche quello che sia sicura per il consumo umano. Pertanto le sostanze chimiche utilizzate nel processo devono essere approvate per l’uso in prodotti alimentari e il prodotto finale deve essere sottoposto a rigorosi test di sicurezza22.

Qualche annotazione da parte di un non esperto. Innanzitutto anche il National Geographic sembra cadere nell’ottimismo scientista secondo il quale la tecnica e l’artificializzazione ci permettono di andare oltre i limiti naturali del Pianeta, laddove conclude che questo prodotto (la carne “sintetica”) “è disponibile in modo illimitato”.

Inoltre sembra doveroso segnalare che alla base vi sarebbero anche tecniche di manipolazione genetica, che farebbe includere la carne “sintetica” nella grande e controversa famiglia degli ogm. Infine, altra criticità, l’uso degli antibiotici o altre sostanze conservanti per mantenere integra la carne mentre si sta “coltivando”, necessità che sembrerebbe indotta dal fatto che, a differenza della carne naturale, mentre si forma non è irrorata dal sistema sanguigno e quindi non è “viva”.

Avremmo bisogno a questo punto di un nuovo Giorgio Nebbia che ci faccia una puntuale analisi merceologica ed ecologica del processo produttivo, degli input e degli output di energia e materia nel processo produttivo per valutarne i vantaggi non solo rispetto alla carne prodotta dall’agroindustria degli allevamenti intensivi, ma anche rispetto alla carne prodotta naturalmente dall’agricoltura biologica.

Per ora dobbiamo accontentarci di un primo studio che però confronta la carne “coltivata” con la carne da allevamenti intensivi in relazione alle emissioni climalteranti, che, nelle conclusioni, non sembra confermare una significativa differenza tra le due, in considerazione dell’elevato consumo energetico della carne di “coltura”:

L’entità della produzione di bestiame richiesta per gli altissimi livelli di consumo di carne bovina presi a modello in questa sede comporterebbe un significativo riscaldamento globale, ma non è ancora chiaro se la produzione di carne da coltura possa rappresentare un’alternativa più sostenibile dal punto di vista climatico. L’impatto climatico della produzione di carne da coltura dipenderà dal livello di generazione di energia decarbonizzata che si potrà raggiungere e dalle specifiche impronte ambientali della produzione. È necessario un LCA (analisi del ciclo di vita) dettagliato e trasparente dei reali sistemi di produzione di carne di coltura. Sulla base dei dati attualmente disponibili, la produzione di carne di coltura non autorizza necessariamente un consumo sfrenato di carne23.

Insomma c’è ancora molto lavoro da fare per verificare se vi siano effettivamente dei vantaggi ecologici e sanitari con la carne “coltivata”: innanzitutto occorre trasparenza da parte delle imprese di tutti i dati biochimici per permettere esaustive analisi dei cicli di vita; quindi il confronto non deve considerare solo gli allevamenti dell’attuale agroindustria, ma anche quelli dell’agricoltura biologica, nonché i prodotti proteici vegetali naturali che potrebbero e dovrebbero in buona parte sostituire le proteine animali (come ci ricordava sempre Giorgio Nebbia, dal punto di vista proteico gli animali sono grandi dissipatori di proteine, per cui per ottenerne un’unità animale ne servono dieci unità vegetali).

Probabilmente si scoprirebbe che anche in questo caso dal punto di vista ecologico la natura è imbattibile.

Prima di concludere questo excursus storico, occorre accennare al dibattito che si è sviluppato in Italia. La questione è deflagrata con l’iniziativa di Coldiretti in sinergia con il governo Meloni per un provvedimento di legge che ha poi visto la luce il 1° dicembre 2023, con il numero 172, Disposizioni in materia di divieto di produzione e di immissione sul mercato di alimenti e mangimi costituiti, isolati o prodotti a partire da colture cellulari o di tessuti derivanti da animali vertebrati nonché di divieto della denominazione di carne per prodotti trasformati contenenti proteine vegetali, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 281. Ne è seguito un dibattito in gran parte inficiato dal carattere esplicitamente politico e propagandistico dell’iniziativa, accertato il fatto che quel divieto è comunque condizionato nella sua efficacia da ciò che deciderà a questo proposito l’Unione europea. Di conseguenza il dibattito spesso si è sviluppato sulla faglia destra-sinistra, o oscurantismo-scientismo, prescindendo del tutto dal merito dei problemi.

A rimettere le cose a posto, fortunatamente, è intervenuta con saggezza l’associazione Slow Food, al cui documento ci affidiamo in conclusione di questo lavoro24.

1 M.A. Morselli, La ricerca negli Stati Uniti nei suoi aspetti e programmi, in “La chimica e l’industria”, Milano, anno 50, n. 3, (marzo 1968), p. 393.

2 Può apparire un anacronismo evocare un termine balzato all’attenzione del dibattito politico e culturale solo nel corso dell’attuale secolo. Tuttavia non può sfuggire che questa “nuova” tendenza n realtà ha radici lontane, nell’eugenetica che dominò la scena occidentale nel secolo scorso. Cosicché, sembra sia stato proprio un eugenista incallito e di grande prestigio, Julian Huxley, a inventare questo termine nel 1957, quindi un decennio prima del Rapporto della Rand: “Dovremo partire da nuove premesse, per esempio, […] che la qualità della gente, non la quantità, è ciò su cui dobbiamo puntare e quindi che una politica concordata è necessaria ad evitare che la presente crescita demografica risulti nella distruzione delle nostre speranze per un mondo migliore […] La razza umana può, se desidera, trascendere se stessa, non in maniera sporadica, un individuo qui, in un modo, un individuo là, in un altro modo, ma nella sua totalità, come umanità. Abbiamo bisogno di un nome per questa nuova consapevolezza. Forse il termine transumanesimo andrà bene: l’uomo che rimane umano, ma che trascende se stesso, realizzando le nuove potenzialità della sua natura umana, per la sua natura umana. Io credo nel transumanesimo: quando saremo in numeri sufficienti ad affermare ciò con convinzione, la specie umana sarà sulla soglia di un nuovo genere di esistenza, tanto diverso dal nostro quanto il nostro è diverso da quello dell’Uomo di Pechino. E’ allora che vedremo la cosciente realizzazione del nostro reale destino”. Cfr.: J. Huxley, Transumanesimo, in ID, New Bottles for New Wine, Chatto & Windus, London 1957, pp 13-17, traduzione ripresa da https://www.estropico.com/id218.htm.

3 La vittoria degli scienziati. Accordo con Amato sul biotech, ma è scontro nel governo. “La Repubblica”, 14 febbraio 2001, pp. 4.

4 G.M. Pace, La Montalcini ritrova il sorriso. Nessun lucchetto al cervello, “La Repubblica”, 14 febbraio 2001, p. 3.

5 P.P. Poggio, M. Ruzzenenti, “Primavera ecologica” mon amour. Industria e ambiente cinquant’anni dopo, Jaca Book, Milano 2020, pp. 89-111.

6 P. Bellucci, Le bioproteine. Esperienze e ricerche per una fonte alimentare alternativa, Milano, Feltrinelli 1980, pp. 75-80.

7 Ibid., p. 80.

8 Ibid., p. 151.

9 Ibid., pp. 203-205.

10 Ibid., p. 170.

11 Ibid., pp. 221-225.

12 R. Ragni, Vittoria! La centrale a carbone di Saline Joniche non si farà mai, 29 novembre 2016, https://www.greenme.it/ambiente/centrale-carbone-saline-ioniche/.

13 D. Praticò, Memorie. La storia della Liquichimica di Saline: ‘ndrangheta e bistecche di petrolio, 23 novembre 2011, http://www.strill.it/rubriche/memorie/2011/11/memorie-la-storia-della-liquichimica-di-saline-ndrangheta-e-bistecche-di-petrolio/.

14 H. S. Truman, Fourth State of the Union Address, 5 January 1949, https://en.wikisource.org/wiki/Harry_S._Truman%27s_Fourth_State_of_the_Union_Address.

15 Il movimento eugenista, nato verso la fine dell’Ottocento, occupò in Occidente buona parte del secolo scorso, impegnando biologi, sociologi, antropologi, genetisti, medici, psichiatri. Non vi è qui lo spazio neppure per tratteggiare per sommi capi questa importante vicenda. Basti ricordare che dall’eugenetica si svilupparono filoni innovativi di medicina che ispirarono la creazione della medicina sociale e preventiva da parte dell’eugenista di fama internazionale Ettore Levi (1880-1932), la medicina del lavoro, di cui il socialista ed eugenista Gaetano Pieraccini (1864-1957) fu uno dei più importanti fondatori, nonché la grande riforma del welfare state inventata dall’eugenista britannico William Beveridge (1879-1963). In effetti l’eugenetica, per la prima volta, si pose il problema della salute di una popolazione non più solo dal punto di vista del singolo ammalato da curare, ma come questione sociale, dunque da affrontare con politiche ed iniziative che investissero le istituzioni e l’organizzazione della società nel suo complesso. Il lato oscuro dell’eugenetica, fin dal 1883, quando fu inventata da Francis Galton (1822-1911), cugino e sodale di Charles Darwin, fu sempre la convinzione che vi fosse una razza superiore da tutelare e da migliorare fisicamente e mentalmente (ovviamente l’indoeuropea o “ariana”, possibilmente di buona famiglia) e che bisognasse contrastare i pericoli sempre incombenti di una degenerazione e decadimento della razza eletta, indotti da incroci con razze inferiori, o dall’incontrollata proliferazione di gruppi asociali (prostitute, emarginati, psicolabili, criminali…). Le politiche selettive violente (sterilizzazioni forzate dei soggetti asociali) inaugurate negli Stai Uniti fin dal 1907 si diffusero poi in Europa, raggiungendo il parossismo in Germania, in epoca nazista, con la soppressione in particolare, ma non solo, dei malati mentali, eufemisticamente e vergognosamente definita “eutanasia”. Ma, nonostante quell’esperienza tragica, il movimento eugenista proseguì anche nel secondo dopoguerra in particolare nei paesi scandinavi, e, forse, oggi vive una rinvigorita stagione proprio grazie alle nuove biotecnologie. Cfr.: B. Müller-Hill, I filosofi e l’essere vivente, Garzanti, Milano 1984; A. Pichot, La société pure. De Darwin à Hitler, Flammarion, Paris 2000; C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, Rubettino, Soveria Mannelli 2004; A. Rutherford, Controllo. Storia e attualità dell’eugenetica, Bollati Boringhieri, Torino 2023.

16 M. More, Lettera a madre natura, 1999. Questo teso è considerato da Nick Bostrom, fondatore, nel 1998, della Word Transhumanists Association, come “una delle migliori introduzioni alle idee del Transumanesimo”, https://disf.org/educational/max-more-lettera-a-madre-natura. Sulla World Transhumanist Association, oggi Humanity Plus, si veda il sito https://www.humanityplus.org; per la sezione italiana si veda http://www.transumanisti.it/.

17 Ci limitiamo qui a ricordare uno studio del Fondo monetario internazionale del 2021 che rileva i progressi fatti dalle multinazionali nell’ultimo quarantennio, ossia da quando il “market power” di queste entità ha iniziato a crescere. Dunque il mark up, preso in considerazione in questo studio sulle multinazionali, misura il rapporto fra i prezzi e il costo marginale di produzione, quindi può essere utilizzato indirettamente per valutare il livello di concorrenza, nel senso che un mark up crescente implica una concorrenza decrescente, e viceversa. Un mark up crescente implica inoltre che le imprese abbiano accresciuto la propria quota di profitti. Ebbene questa tendenza si è sviluppata in larghissima parte nelle economie avanzate, dove i mark up delle multinazionali sono cresciuti di oltre il 35%, a fronte di un aumento del 30% delle concentrazioni industriali. Ciò ha determinato un aumento della profittabilità, intesa come rapporto fra i dividendi e le vendite, del 40%. Insomma lo strapotere delle Big Tech e in generale delle multinazionali è tale da preoccupare perfino i cultori del liberismo che vedono compromessa la sacra concorrenza di mercato. Cfr. M. Sgroi, Big pharma e Big tech, così le multinazionali si sono prese il mercato, in “Il sole-24ore”, 17 marzo 2021, https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2021/03/17/mercati-multinazionali-governi/. Si veda il documento integrale dell’ International Monetary Fund, Rising Corporate Market Power: Emerging Policy Issues, file:///C:/Users/Utente/Downloads/SDNEA2021001.pdf.

18 Si potrebbero qui citare alcuni dei recentissimi esperimenti “innovativi” di cui intuiamo le straordinarie e inquietanti potenzialità, ma anche l’invalicabile carattere classista di tecnologie che, qualora si confermassero benigne, rimarrebbero riservate ad élites privilegiate: M. Sideri, I confini della biotecnologia: la rivoluzione (e i pericoli). Autorizzata la prima terapia con la tecnica Crispr, una sorta di «taglia e incolla» del Dna sul genoma umano, in “Corriere della Sera”, 6 gennaio 2024; M. Monti, C. A. Redi, La scimmia clonata cambia la scienza. In Cina è stata sperimentata una tecnica rivoluzionaria: il macaco ReTro apre la strada a prospettive importanti sul piano degli interventi terapeutici e della fecondazione assistita, in “Corriere della Sera” , 28 gennaio 2024; M. Gaggi, Il primo chip in un cervello. La nuova frontiera di Musk. L’intervento su un volontario tetraplegico. Dibattito sugli scenari futuri, in “Corriere della Sera”, 31 gennaio 2024; «Puoi prendere una cellula di un ottantenne e trasformarla, per ora in vitro, in quella di un quarantenne», M. Gaggi, Longevity Valley. Qui la ricerca prepara una vita lunga e sana, in “Corriere della Sera”, 17 marzo 2024.

19 B. Ardù, Bill Gates e Richard Branson, la strana coppia in nome della carne sintetica, in “Repubblica.it”,25 agosto 2017, http://www.repubblica.it/tecnologia/2017/08/25/news/carne-173798358/; Redazione Sky tecnologia, Carne sintetica, il nuovo investimento di Bill Gates e Richard Branson, in “TG24Sky.it”, 28 agosto 2017, http://tg24.sky.it/tecnologia/2017/08/28/bill-gates-richard-branson-startup-carne-sintetica.html; D. Cavalcoli, Carne sintetica entro il 2021: tutto quello che c’è da sapere, in “Corriere.it”, 10 settembre 2017, https://www.corriere.it/tecnologia/cards/carne-sintetica-entro-2021-tutto-quello-che-c-sapere/c-era-volta-carne_principale.shtml.

20 A. Sacchi, Il pessimismo è un lusso che i poveri non possono permettersi. Intervista a Miguel Benasayag, in “la Lettura”, 24 marzo 2024, pp. 2-3.

21 K. Mulvaney, Carne coltivata in laboratorio: tutto quello che c’è da sapere, in “Nationalgeographic.it”, 24 agosto 2023, https://www.nationalgeographic.it/carne-coltivata-in-laboratorio-tutto-quello-che-ce-da-sapere.

22 L. Maci, Carne coltivata: cos’è, come si produce, vantaggi e rischi di un alimento innovativo, in “Economyup.it”, 20 novembre 2023, https://www.economyup.it/innovazione/carne-coltivata-cose-come-si-produce-vantaggi-e-rischi-di-un-alimento-innovativo/.

23 J. Lynch, R. Pierrehumbert, Climate Impacts of Cultured Meatand Beef Cattle, in “Frontiers in sustainable food systems”, v. 3, 1 February 2019, https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/fsufs.2019.00005/full.

24 Slow Food sulla carne (anche quella coltivata), https://www.slowfood.it/slow-meat-2/sf-carne-coltivata/. Il documento integrale di Slow Food si trova nella sezione Documenti.