Riflessioni su carne cellulare, industria della carne, agricoltura tradizionale e questione animale, a partire da un seminario della International Society for Gastronomic Sciences and Studies
Quando Enzo mi ha chiesto di scrivere un pezzo sulla carne sintetica, mi resi da subito conto che si trattava di un tema tanto attuale quanto contraddittorio, e che la sua complessità e complicazione superava di gran lunga i temi della cura e della salute. Certo il concetto di autodeterminazione, che ho posto al centro di uno dei miei progetti berlinese, rimane centrale in questo mio rinnovato percorso. Ritengo dunque che la questione del cibo sia così vasta da includere, al suo interno, non solo il tema della cura umana, cioè dell’autodeterminazione, termine che nel contesto dell’attivismo agricolo si coniuga come sovranità alimentare, ma anche quello del prendersi cura delle altre specie animali e del prendersi cura dell’ambiente, cioè la cura di quel complesso reticolo di interazioni e processi che intercorrono tra esseri viventi, componenti ambientali e che garantiscono l’armonia tra noi e il pianeta che ci ospita. In realtà già il tema della sovranità alimentare, così come venne definito nella via Campesina, include il concetto e le pratiche di sovranità alimentare e la cura dell’ambiente, inteso come rete di interazioni tra soggetti ed elementi ambientali. La cura delle altre specie ci lega inoltre emotivamente sia ai nostri simili, che alle altre specie e all’ambiente. La produzione agricola riguarda poi, direttamente, i rapporti di forza, cioè la politica di potenza. Per il controllo dei mezzi di produzione agricola si son fatte guerre e rivoluzioni. La questione del cibo, è dunque tra le più complesse e complicate, perché riguarda, forse come poche altre, sia i rapporti di potere e dominazione che quelli del prendersi cura, dell’accudimento e del rispetto dei nostri simili, delle altre specie, e dell’ambiente.
Di storia e filosofia della produzione industriale di carne mi sono iniziato ad occupare durante il mio ultimo lavoro a Berlino, cioè in quell’area mitteleuropea dove le biotecnologie oggi usate in medicina erano state sviluppate, già a fine ottocento, con la prima finalità di convertire l’agricoltura e gli allevamenti tradizionali o estensivi, in agricoltura ed allevamenti intensivi, e dove tra le tante scoperte tecnologiche vennero anche inaugurati gli antibiotici di sintesi, cioè i sulfamidici, farmaci miracolosi e, allo stesso tempo, armi che si ritorcono contro la salute umano ed animale.1 Il processo di sintesi dell’ammoniaca venne scoperto in Germania, processo attraverso cui oggi son prodotti la gran parte dei fertilizzanti, e che rese il letame degli animali da cortile, ed altri modi naturali di concimazione del suolo come l’uso di leguminose, superflui.2
Il tema della carne coltivata, che definirei piuttosto, e con più appropriatezza, carne cellulare, rientra primariamente all’interno del tema dello sviluppo e della ricerca industriale. In questo articolo mi interrogo sulle linee di continuità tra gli allevamenti intensivi e la carne cellulare, e sul come funzionano retoriche e narrative che cercano di persuadere l’opinione pubblica ad abbracciare l’idea della carne cellulare come prodotto contrapposto alla carne tradizionale, o viceversa, sulle narrative che indicano la carne cellulare come migliore ed unica soluzione ai molteplici problemi creati degli allevamenti intensivi. È davvero la carne cellulare l’unico modello alternativo alla carne tradizionale, capace di risolvere sia il problema della fame nel mondo, che di fare ammenda ai problemi ambientali, di salute, ed etici prodotti dagli allevamenti intensivi?
Durante il modulo di insegnamento sulla filosofia della carne che feci per la laurea magistrale nell’inverno 2023, gli studenti mi chiesero di allocare al tema della carne cellulare più tempo. Volvevano attingere ad informazioni a loro non facilmente accessibili, e volevano anche, e soprattutto, discutere e riflettere su di un tema che era stato cannibalizzato dal dibattito governativo, sindacale e mediatico di quei mesi e ridotto a propaganda politica (nonostante l’assenza di un vero commercio di carne coltivata, il governo del tempo decise di proibirne l’uso). A corso concluso, organizzai con la Società Internazionale di Scienze e Studi Gastronomici afferente all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, dove lavoro, un incontro con tre sociologhe, cioè Mindi Schneider, Federica Timeto e Alice Dal Gobbo, che hanno sviluppato analisi critiche sugli allevamenti intensivi, sulla questione animale, e sulla carne sintetica, tre linee di argomentazione attraverso cui strutturo le tre sezioni di cui si compone questo saggio, che è tutto sommato un commento ragionato di quell’incontro dell’otto aprile 2024, intitolato “Unravelling contradictions: Intensive animal husbandry, socio-ecological crisis, and cultivated meat”.
La prima osservazione riguarda dunque la differenza tra allevamenti intensivi ed allevamenti estensivi, cioè tra agricoltura industriale ed agricoltura tradizionale, ed attraverso cui arriverò a sostenere che tra questi due tipi di allevamenti ci sono differenze sostanziali. La seconda e più complicata osservazione riguarda le relazioni, emotive, culturali, etiche e materiali che sussistono tra noi e gli animali non umani, cioè quelle relazioni che giustificano o generano i comportamenti che noi, umani, intratteniamo con loro, non umani. In questa sezione mi soffermo soprattutto sugli argomenti proposti da movimenti anti-specisti e femministi. La terza osservazione, riguarda invece la relazione tra carne cellulare ed allevamenti industriali, ovvero tra carne cellulare ed allevamenti intensivi di nuova generazione. Ogni sezione si compone dunque di alcuni argomenti che le tre studiose hanno esposto durante l’incontro, e di argomenti e riflessioni che ho sviluppato negli ultimi anni di ricerca.
Industriale ed allevamenti intensivi
Ritengo che la differenza tra allevamenti intensivi e tradizionali sia un passaggio utile a dar forma agli argomenti più importanti sulla carne cellulare. Cioè credo che il primo passo per dar senso ad un argomento così complesso come quello della carne cellulare possa essere quello di sottolineare la non unitarietà delle pratiche di allevamento o di consumo di carne. La ricerca di Mindi Schneider, sociologa, agroecologa e storica, che si è occupata della storia degli allevamenti cinesi di suini, mostra bene quali sia stata la transizione alimentare ed agricola che ha portato la Cina dell’ultimo secolo da regime agricolo tradizionale a regime agricolo industriale, una transizione che, con temporalità diverse, ricalca quella delle nostre società occidentali, cioè Europee ed Americane. Erano i maiali della Cina i più ambiti, per la loro grande varietà genetica, tant’è che nella Cina del 1960 furono riconosciute più di mille varietà autoctone.3 Grazie alla loro diversità, i suini cinesi superavano quelli occidentali, in quanto raggiungevano prima la pubertà, diventavano più grassi, avevano un maggior numero di cuccioli per cucciolata e più di una cucciolata all’anno. Per questo motivo, a partire dal 1700 e fino agli anni ’80 del Novecento, gli allevatori europei hanno incrociato i loro maiali con quelli cinesi. I suini erano parte integrante di ogni cortile, usati come concimatori di piccola scala. Il loro letame era cioè concime usato nelle piccole coltivazioni di frutta e verdura, coltivazioni che sarebbero poi finite nelle cucine delle famiglie cinesi.
Mindi Schneider ha individuato il punto di svolta che l’agricoltura cinese tradizionale compie verso l’agricoltura industriale nella liberalizzazione economica operata da Mao Zedong, intorno ai primi anni settanta, cioè quando il letame dei suini che vivevano nei cortili divenne superfluo. L’uso del letame dei maiali da cortile cinesi è andato di pari passo con l’uso di fertilizzanti chimici, più costosi e quindi inizialmente meno disponibili, e che ha costituito uno dei punti di forza della rivoluzione.4 Il numero di maiali degli allevamenti cinesi aumentò dunque, con ampie fluttuazioni, da 78 milioni nel 1949 a 180 milioni nel 1959.5 Dopo la visita del 1971 del Segretario di Stato americano Kissinger, seguita da quella del Presidente americano Nixon nel 1972, nella Repubblica Popolare Cinese furono realizzate le prime grandi fabbriche di ammoniaca, realizzazione a cui contribuì sostanzialmente la multinazionale alimentare Kellogg’s. Grazie alla produzione industriale di fertilizzanti, la dipendenza dell’agricoltura cinese dal letame si dissolse, e l’allevamento di maiali fu sempre più destinato alla produzione alimentare. Il processo di industrializzazione dell’agricoltura ed allevamento cinesi degli ultimi quarant’anni, che assomiglia a quello dei paesi occidentali – cioè dismissione degli allevamenti tradizionali, e creazione di allevamenti con più capi di bestiame in meno spazio, e conseguente aumento di infezioni tra gli animali – si basa sull’integrazione verticale, in cui molti produttori lavorano per poche e grandi società. Queste società fanno capo a complessi multinazionali che controllano simultaneamente la riproduzione, l’alimentazione, la macellazione e la lavorazione degli animali.6 L’integrazione verticale e intensiva prevede anche la creazione di un numero minore di allevamenti, ma più efficienti e produttivi, noti come CAFO (Confined Animal Feeding Operations), considerati i principali siti di diffusione ambientale di batteri resistenti a molteplici antibiotici,7 e capaci di contaminare gli ecosistemi limitrofi con scarti di produzione che tra i molteplici effetti nocivi, eutrofizzano i bacini acquiferi e il suolo rendendo le aree circostanti inospitali per gran parte delle forme viventi.8
Uno dei momenti di svolta della storia degli allevamenti intensivi europei è da collocare tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, in Ungheria, quando era parte dell’impero Austro-Ungarico, e dove Karoly Ereky, ingegnere di un complesso di industrie alimentari che vantavano impianti capaci di ingrassare più di 600.000 suini all’anno.9 Ereky, che ricevette il supporto di due banche e definì il concetto di biotecnologia da lui coniato per unire management, chimica, e biologia in ambito agricolo, realizzò uno dei più grandi siti di produzione di carne del tempo. L’ingegnere ungherese concepiva sia l’animale che la produzione agricola ed alimentare come processi biotecnologici governabili nei termini meccanici di input ed output. Nel 1914 realizzò dunque un impianto capace di processare 100.000 maiali all’anno. La filosofia industriale sviluppata da Ereky era avversa all’agricoltura tradizionale dei contadini, ovvero le loro attività erano ritenute d’intralcio alla realizzazione di un’agricoltura capitalistica basata su scienza e la tecnica, la sola capace di soddisfare le politiche agricole, demografiche, economiche, e dunque militari, dell’impero Austro-Ungarico.10 Sono questi i frangenti in cui l’attenzione all’impatto sociale ed ecologico delle attività agricole-industriali lasciava il passo a ben più ambiziose finalità, perlopiù politiche, raggiunte attraverso mezzi scientifici e tecnologici, ed in parte sovrapponibili, a detta degli stessi ingegneri ed ideatori à la Ereky, alla soluzione del problema delle carestie e della fame.
Dunque sin da subito l’approccio industriale alla produzione agricola e alla zootecnia si pone l’obiettivo di uniformare il più possibile tutti i fattori capaci di portare la produzione fuori controllo, come quelli derivanti dalla diversità genetica degli animali allevati. I grandi conglomerati industriali hanno dunque, tra gli obiettivi principali, quello di uniformare la varietà genetica animale, così da poter applicare un modello di produzione che possa esser valido in tutte le industrie, ed indipendentemente dal luogo in cui si trova quello specifico impianto, ovvero un modello capace di creare prospezioni di produzione basate su animali che hanno comportamenti e reazioni fisiologiche, genetiche, riproduttive, di crescita, e mediche prevedibili, ovvero pianificabili, in ogni parte del globo. Le varietà di suini cinesi, che negli anni sessanta erano circa un migliaio, sono oggi in gran parte riconducibili alle tre razze Duroc, Landrace e Yorkshire, così da aver reso l’industria suina gestibile ma da aver anche creato degli animali con capacità di adattamento, ad esempio adattamento alla fluttuazione dei fattori ambientali e resistenza alle malattie, molto ridotte.11 Nonostante i tentativi di meccanizzare il processo di produzione di carne, gli animali generano, in quanto esseri viventi, comportamenti e reazioni fisiologiche impredicibili e dunque, che sfuggono alla pianificazione industriale. L’alto tasso di animali che muore durante il percorso in cui sono costretti all’interno degli allevamenti, rappresenta proprio l’impredicibilità che inceppa il progetto iniziale, quello di trasformarli in animali da rendita.
Mindi Schneider ci invita dunque a riflettere su due storie, ovvero la storia della produzione di carne di maiale, e la storia dell’allevamento di maiali, che solo recentemente si sono sovrapposte. Il consumo di massa di carne di maiale è dunque un fenomeno recente, degli ultimi due secoli. Scheider ed altri autori ci invitano inoltre ad inquadrare il sistema industriale di produzione alimentare nei suoi vincoli con le agende commerciali e geopolitiche dei paesi coinvolti nei commerci associati a questo settore produttivo alimentare, ad esempio considerando che centinaia di milioni di suini allevati in Cina si nutrono, quotidianamente, di soia che proviene principalmente dagli Stati Uniti, dal Brasile e dall’Argentina. Schneider ci invita cioè a riflettere sul fatto che la produzione ed il consumo di carne industriale è questione che riguarda direttamente profitto e politica di potenza, ovvero commercio globale di materie prime.
La condizione animale
Federica Timeto, sociologa che ha analizzato la condizione animale da diverse prospettive, ci porta dunque nell’ambito più complicato della questione, quello dove emerge che “animali si diventa”. Cioè i soggetti degli allevamenti, che però sono più spesso considerati oggetti, vengono spogliati di qualsiasi riconoscimento valoriale che noi umani associamo, ad esempio, ad altri umani, o agli animali da compagnia. Gli animali degli allevamenti industriali sono invece definiti, in maniera coercitiva, da necessità di vario carattere, ad esempio come oggetti che incrementano la ricchezza economica. Questi soggetti non umani sono stati trasformati seguendo le finalità funzionali al regime zootecnico industrialecioè utilizzati come laboratori di produzione di cibo, fino a diventare a “laboratori di morte”.12 Fu proprio Claude Levi-Strauss, ci dice Federica Timeto, che ha messo in luce questo passaggio, indicando che è grazie alle idee di autori come Comte, uno dei presunti padri della sociologia, che venne istituita una scala naturae dove agli onnivori era assegnato il posto più vicino al cielo, cioè al divino. Per Comte il mangiare carne rappresentava infatti un segno di superiorità, e auspicava la conversione di certi animali erbivori, come i bovini, ad animali carnivori, così da assomigliare di più agli umani, e dunque diventare più affidabili.
Federica Timeto sviluppa poi una serrata critica del regime medico associato a quello dell’industria della carne. L’uso che la ricerca medica ha fatto degli animali, utilizzati da sempre come soggetti sperimentali, ovvero sezionati, centrifugati, iniettati con molteplici sostanze più o meno tossiche, ci dice dunque Timeto, ha portato alcune autrici come Hayley Singer, a coniare il termine di “regime farmacocarnista”. Con questo termine Singer ha criticato l’idea, proposta dalla stessa industria, che utilizzare farmaci negli allevamenti sia di beneficio per tutti. Perché tutto sommato questi farmici sono naturali, ci dicono i pamphlet industriali. Gli ormoni e gli antibiotici esistono in natura, sarebbe perciò una somministrazione tutto sommato naturale, ci dice la pubblicità.13 Non si capisce però quale beneficio possano avere gli animali a crescere più velocemente ed acquisire più massa muscolare attraverso l’ingestione di ormoni o antibiotici, se non nel guadagno economico che ne trae l’industria, e nella realizzazione di progetti politici ed economici dei governi che stanziano sovvenzioni per estendere l’uso di queste biotecnologie. Non si capisce neanche quale possa essere il beneficio, ci dice Federica Timeto, per polli e galline, e altri animali costretti negli allevamenti industriali a subire evirazioni di parti del corpo affinché gli allevatori possano meglio gestire le varie fasi di produzione.
La liberazione totale a cui richiama Federica Timeto, in cui l’economia è una funzione delle società umane, e in cui la società umana è una funzione di quella animale e dell’ambiente, non è solo auspicabile, infatti in questa visione è la relazione sentimentale quella che lega in modo significativo e valoriale gli umani ai non umani e all’ambiente, ma anche rivelatrice di due strade che portano in luoghi distanti. La prima strada indica quella che è una vecchia critica contro il maltrattamento degli animali, già sviluppata nel Seicento dal medico Johann Jakob Wepfer, uno dei primi anatomo-patologi e tossicologi europei che sosteneva che gli esperimenti sugli animali causano così tanta ed intollerabile sofferenza da portare inevitabilmente ad una estrema crudeltà anche tra gli umani.14 La seconda strada, che percorre gli argomenti di Carlo Salzani e Zipporah Weisberg, entrambi illustrati dalla Timeto come critici radicali della condizione animale, potrebbe indicare invece l’equiparazione tra allevamenti intensivi ed allevamenti tradizionali, entrambi intesi come luoghi dove vengono commessi crimini dello stesso tipo. Questo punto di consonanza tra allevamento intensivo ed allevamento estensivo potrebbe generare un cortocircuito che richiede una riflessione, perché potrebbe portare, per assurdo, alcuni argomenti della liberazione totale a risuonare con gli argomenti che ingegneri e biotecnologi come Ereky hanno sviluppato per dare avvio all’industria biotecnologica alimentare, o meglio ancora, agli argomenti che vengono usati per giustificare ricerca e sviluppo della carne cellulare. Ovvero, seppur la critica radicale della violenza verso gli animali e la critica alla proprietà applicata agli animali sia non solo condivisibile, ma anche necessaria per sviluppare una cultura di nelle interazioni con gli ambienti che abitiamo, ovvero con le altre specie e con il paesaggio, la critica agli allevamenti tradizionali ha storicamente lasciato spazio a quelli industriali. Inoltre, l’abolizione degli allevamenti tradizionali di sussistenza è stata storicamente utilizzata, ad esempio in Africa o nelle Americhe, come mezzo coloniale di occupazione ed espropriazione di territori indigeni, così ché le popolazioni locali perdessero la loro terra, la loro sovranità alimentare, fino a trovarsi in pericolo di sopravvivenza, cioè espropriate dei mezzi agricoli e culturali di sussistenza utilizzati da secoli.15 Alcuni argomenti della liberazione totale e del transfemminismo, quando non contestualizzati, ovvero quando utilizzati in senso universalistico e senza tener conto della grande diversità di cui si compongono le tante culture del mondo, entrano in conflitto con visioni e pratiche in cui gli allevamenti o anche la caccia costituiscono un mezzo di sussistenza diretta. Sarebbe dunque auspicabile sviluppare quello che Nicola Perullo ha indicato come “dietetica della cura” ovvero porsi la domanda “Quando mangiare cosa?”.16 Qualsiasi critica radicale potrebbe poi impedire di comprendere culture estremamente diverse tra loro, come ad esempio quella Inuit, dove da secoli la caccia alla foche, che è un mezzo di sussistenza diretta, viene avversata in diversi modi, sia dal governo canadese che da organizzazioni non governative come Green Peace, che non fanno distinzione tra le attività da cui direttamente dipende la vita di un’intera comunità indigena, e le attività commerciali finalizzate all’accumulo di ricchezza.17 Come si pongono dunque i movimenti femministi, animalisti o antispecisti, o la liberazione totale nei confronti delle culture contadine attiviste, come quelle della via Campesina, dove nel 1996 è stata valorizzata la sovranità alimentare, programma che non pertiene né i programmi governativi né la sicurezza alimentare, ma che definisce un programma di autodeterminazione alternativo al regime neoliberale?18
Carne cellulare ed industria della carne
È la carne cellulare una tecnologia innovativa dirompente, cioè rivoluzionaria? Quali sono le continuità che la carne cellulare ha con gli allevamenti industriali? A queste domande risponde Alice Dal Gobbo, sociologa esperta di ecologia politica, concentrandosi sugli aspetti ontologici, politici ed ecologici dalla carne cellulare, soffermandosi perlopiù sulla questione dell’Antropocene, e sulle modalità con cui alcuni processi neoliberali sfruttano i processi biologici per incrementare flussi finanziari e di capitale. La tesi di Alice dal Gobbo si regge dunque sull’analisi della carne coltivata come strategia capitalistica capace di contestualizzare le modalità di sfruttamento delle risorse naturali e del vivente nelle nuove condizioni di crisi ecologica e sociale che stiamo vivendo. Sostiene cioè che con la messa in campo della carne cellulare i processi capitalistici fanno fronte all’impatto che hanno gli allevamenti intensivi su ambiente, salute e società.
Jason Moore, che ha coniato il termine di “capitalocene”, ha mostrato chiaramente la composizione del regime ecologico capitalista dove da una parte, la natura è composta dall’ambiente naturale, ovvero dagli animali non umani, dalle donne e da altri soggetti umani inseriti nelle tassonomie razziali.19 I soggetti dominanti, cioè quelli che possono agire un potere ed un presunto controllo sulla natura si pongono invece al di fuori della natura stessa. In questa ecologia globale del capitale, i processi produttivi si appropriano dei corpi dei soggetti sfruttati, umani e non umani, del loro lavoro e della loro vita, cioè della produzione (consapevole, inconsapevole, consensuale, spontanea o forzata) e della riproduzione (generativa o rigenerativa) dei viventi. Questa logica porta a giustificare l’appropriazione che i processi produttivi operano su questi soggetti, e alla negazione delle conseguenze che tali processi producono sull’ambiente. La crisi ecologica, di dice Alice Dal Gobbo, inizia con lo sfruttamento, per finalità di accumulazione finanziaria o economica, dei processi riproduttivi attuati dai corpi dei soggetti viventi.
La narrativa più ampia in cui Alice Dal Gobbo colloca la carne sintetica è quella dell’Antropocene, che è un approccio che riduce il problema ambientale a delle soluzioni di carattere tecnologico, ad esempio la carne coltivata, e che riduce, sottodimensionandola, l’entità dell’impatto ambientale dell’industria. Ma l’Antropocene è anche di più. Indicando cioè come responsabili della degradazione ambientale tutti gli abitanti umani della terra, elude l’individuazione di quelli che sono i soggetti che maggiormente producono impatto ambientale nocivo, cioè quei settori industriali che seguono le priorità delle agende governative dei rispettivi paesi, e che sempre più spesso si distanziano dalla difesa e lo sviluppo dei beni comuni, e dalla giustizia sociale ed ambientale. Per dirla in breve, se tutti sono responsabili delle varie crisi ambientali, sanitarie e sociali che stiamo vivendo, nessuno lo è veramente. Un tipico argomento di questa logica si basa sull’individuazione delle responsabilità ambientali e di salute al livello individuale. Dunque sarebbero gli stili di vita individuali a creare inquinamento, cambiamento climatico e a far ammalare le stesse persone che si ammalano, e non le politiche e gli incentivi legati alla produzione che immette nell’ambiente cancerogeni o elementi clima-alteranti. L’argomento che ha poi generato una meritata replica radicale, è quello dei planetary boundaries, cioè limiti che pur richiamando giustamente l’attenzione sulla questione ambientale, eludono, ancora una volta, il problema strutturale. Dalla naturalizzazione di una serie di crisi sociali, economiche e politiche è partita la necessità di sviluppare quelli che un team di ricercatori provenienti da varie discipline ha definito i social boundaries, i soli capaci di permettere alle comunità locali di sviluppare, in autonomia, saperi per limitare i modelli produttivi industriali sulla base di esigenze sociali ed ambientali locali.20 L’Antropocene, propone dunque, certo criticando e sostenendo la necessità di moderarlo attraverso interventi di “mitigazione” il modello di sfruttamento illimitato delle risorse naturali della grande industria.21 Insomma, la storia narrata da quello che un tempo sarebbe stato chiamato, il padrone. Oppure, ci dice Alice Dal Gobbo, quella che Stefania Barca ha chiamato la “master narrative”. Dunque modelli come quelli dell’Antropocene o della salute planetaria possono molto facilmente dar luogo a quello che ho definito altrove “trappola mimetica”, cioè un dispositivo con cui i paesi più potenti e le classi più ricche cercano di persuadere, più o meno pacificamente, le comunità povere ad abbandonare i modelli di sussistenza tradizionali e locali per adottare modelli su scala industriale, con dinamiche che spesso portano questi paesi e comunità a sviluppare dipendenze economiche e politiche, e dunque a perdere la loro capacità di autodeterminazione.
Autori come Bruno Latour o Isabelle Stengers sostengono che oggetti ibridi come la carne cellulare, cioè collocati a cavallo tra la sfera naturale e quella umana, sono capaci di disattivare lo sfruttamento tra umani dominanti e natura dominata, e dunque di reinventare nuove ecologie che facciano a meno dello sfruttamento, nel nostro caso degli animali allevati, prospettive che giungono anche da approcci femministi à la Haraway. Tuttavia, illustra Alice Dal Gobbo, l’auspicio di un superamento delle gerarchie di dominazione proposta da questi autori trova spesso un “approdo sicuro” nei processi di accumulazione capitalistici e di etica neoliberale, cioè in quei processi capaci di mettere a profitto, appropriandosene, gli stessi processi produttivi e riproduttivi. La carne coltivata è stata in effetti utilizzata come dispositivo politico capace, in teoria, di eliminare la sofferenza animale. La campagna “End the Slaughter Age” promossa nell’estate del 2023 attraverso la piattaforma dell’Unione Europea per raccogliere firme dei cittadini europei, e finalizzata ad interrompere la sofferenza animale era associata alla promozione della carne cellulare. Riferendosi alla carne cellulare, il sito riportava in grassetto “The technology to save the world exists” ed uno dei tasti da cliccare per accedere al modulo di sottoscrizione incalzava “Sign HERE to save the world!”.22 Le informazioni contenute nel sito gettavano poi le basi per consolidare la presunta battaglia in atto combattuta tra sostenitori della carne cellulare e quelli in difesa dell’industria della carne, indicando che “The meat and agricultural lobby spread a lot of false information about the cultivated meat.” Dunque un tipo di narrativa classica e molto schematica, dove due fazioni si fronteggiano, e che si colloca molto bene nelle logiche dell’Antropocene, una narrativa che cerca di far credere che il progetto messianico della carne cellulare sia contrastato dalle lobby della carne e dell’agricoltura. Tra le tante associazioni che supportavano l’iniziativa promossa, quelle più numerose erano proprio quelle animaliste, anti-speciste, anti-vivisezione, vegane o vegetariane, che coerentemente con i loro principi si battono per abolire l’uccisione degli animali. Le narrative sulla carne cellulare rimangono però nella sfera del possibile, mentre sarebbe necessario un confronto empirico con le dinamiche effettive, confronto ad esempio proposto nell’attenta analisi di Arianna Ferrari, che ha scandagliato gran parte delle questioni tecniche, industriali ed etiche della “carne coltivata”, e che ha messo in luce che è proprio la grande industria degli allevamenti a finanziare progetti di ricerca e sviluppo sulla carne cellulare.23 Dunque, incalza Dal Gobbo, o la carne cellulare permette, in pratica, un approccio sostenibile alla questioni dell’impatto ambientale, sanitario, ed animale, oppure sostiene i processi di accumulazione capitalistici. Indicative sono le continuità e le fratture tra carne tradizionale e carne cellulare. La possibilità di una produzione di carne senza l’animale che la produce, quell’animale che pone problemi sempre nuovi agli ingegneri, ai veterinari, ai pianificatori, andrebbe a soddisfare proprio le logiche industriali del controllo, della standardizzazione e dell’efficientamento della linea produttiva. Seppur la carne cellulare viene prospettata come un modo per evitare l’uccisione di animali, rimane un’ineludibile connessione con la carne dell’animale, cioè una soluzione che effettivamente ripropone la carne, proprio come quella naturale, anzi, in qualche modo la stessa, o il più vicino equivalente o surrogato, in termini di sapore, consistenza, ed immaginario. Anche se non funzionerà, ci dice Alice Dal Gobbo, la carne cellulare fa passare in secondo piano soluzioni ai problemi prodotti dagli allevamenti intensivi che sono già disponibili, ad esempio la riduzione di consumo di carne industriale attraverso politiche che sovvenzionano diete basate su proteine vegetali. Cioè, la carne cellulare potrebbe funzionare come un prodotto non tanto materialmente realizzabile su larga scala, quanto piuttosto come prodotto pubblicitario, per stabilire un’egemonia tanto dell’immaginario che materiale capace di riaffermare l’idea che il consumo di carne in quantità industriale sia cosa giusta, e così da giustificare la pratica stessa degli allevamenti intensivi, siano essi finalizzati tanto alla produzione di carne quanto alla produzione di cellule per produrre carne.
Dunque tra le tante caratteristiche che la carne cellulare dovrebbe avere, le più assodate sembrano essere quella di fungere da dispositivo generativo di bisogni, e di prodotto utile a sdoganare, rafforzare e migliorare le logiche industriali.
Derive metaboliche, culturali e politiche
La carne cellulare sembra a tutti gli effetti essere uno di quei dispositivi sviluppati all’interno della logica capitalistica che potrebbero costituire un’innovazione per i processi produttivi stessi, ma che non risolvono i problemi ambientali, di salute e sociali creati dall’industria della carne, se non nella pubblicistica. Quello che però risulta interessante è la capacità del discorso e delle narrative sulla carne cellulare di orientare fasce della società, come quelle costituite dalle associazioni animaliste, o di alcuni movimenti femministi che potrebbero collocarsi vicino alla critica dei regimi industriali e di sfruttamento ambientale e sociale, ma che invece sembrano condividere i messaggi, a volte messianici, e ottimisti sulle capacità tecnologiche di risolvere problemi politici, economici e culturali. A me sembra dunque necessaria una riflessione che metta questi diversi mondi in comunicazione, se non direttamente, attraverso riflessioni condivise e capaci di generare una nuova e più estesa consapevolezza di questioni e contraddizioni che riguardano la questione alimentare, quella che più di tante soffre delle circostanze generate nell’opportunismo politico che nei decenni ha creato strutture e posture. Uno dei modi per creare riflessioni appropriate e consapevolezza sulla questione della carne consiste dunque nel mostrare, come hanno fatto le tre sociologhe Mindi Schneider, Federica Timeto e Alice Dal Gobbo, le derive metaboliche, culturali, e politiche. Ovvero di mostrare come la relazione di codeterminazione tra animali ed ambienti sia stata interrotta e radicalmente modificata dalle pratiche industriali, e di come tali pratiche abbiano anche mutato tanto le relazioni culturali e sentimentali tra umani, non umani ed ambienti, quanto quelle economiche e politiche.
1 Utilizzati in dosi minime come fattori di crescita, gli antibiotici sono anche utilizzati contro le infezioni degli animali, necessari dunque alla produzione industriale di carne, e allo stesso tempo capaci di indurre i microrganismi a sviluppare resistenza, fino a portare molti pazienti con mali solitamente curabili, a morire per malattie causate da microbi resistenti a questi stessi farmaci. Una resistenza che i microrganismi sviluppano in gran parte negli allevamenti intensivi, e che poi, grazie alla loro capacità di scambiarsi materiale genetico attraverso il tocco, viaggia attraverso l’ambiente, nelle acque, nei cibi, nel suolo, negli animali selvatici, dagli allevamenti intensivi o dai siti di produzione farmacologica, agli umani, fino agli ospedali. Per delle estese disamine del problema Cfr. Lesch J. E. (2007) The First Miracle Drugs. How the Sulfa Drugs Transformed Medicine, Oxford University Press; Levy, S. B. (1992) The Antibiotic Paradox. How Miracle Drugs are Destroying the Miracle, Plenum Press, New York.
2 Al tempo della sua scoperta, il processo Haber-Bosch era invece stato prevalentemente ideato ed usato per produrre esplosivi. Alcuni parti della ricerca di quel tempo erano indirizzate a produrre diversi tipi di armi, ad esempio gas. Sulla sintesi Haber-Bosch si veda l’articolo su Vaclav Smil.
3 Lander, B., Schneider, M., & Brunson, K. (2020). A History of Pigs in China: From Curious Omnivores to Industrial Pork. The Journal of Asian Studies, 79(4), 865-889.
4 Schmalzer, S. (2016). Red Revolution, Green Revolution: Scientific Farming in Socialist China. Chicago: University of Chicago Press, p. 12.
5 Kuo, L. T. (1972). The Technical Transformation of Agriculture in Communist China, Praeger: Westport (CN), p. 99.
6 Schneider, M. (2019). China’s Global Meat Industry: The World-Shaking Power of Industrializing Pigs and Pork in China’s Reform Era. In B. Winders & E. Ransom (Eds.), Global Meat: Social and Environmental Consequences of the Expanding Meat Industry (pp. 79-100), The MIT Press: Cambridge (MA).
7 Van Boeckel, T. P., Brower, C., Gilbert, M., Grenfell, B. T., Levin, S. A., Robinson, T. P., . . . Laxminarayan, R. (2015). Global trends in antimicrobial use in food animals. Proceedings of the National Academy of Sciences, 112(18), 5649-5654.
8 Uno degli elementi di inquinamento ambientale è proprio l’ammoniaca contenuta nei liquami dell’allevamento, che si libera sia nell’aria che nei bacini acquiferi.
9 L’impianto di ingrassamento Kobanya fallì a causa di un’epizoozia. Cfr. Bud, R. (1994) The Uses of Life: A History of Biotechnology: Cambridge University Press
10 Cfr. Bud, R. (1994) The Uses of Life; Bud, R. (1992) ‘The zymothechnic roots of biotechnology,’ The British Journal for the History of Science, 25, pp. 127-144.
11 D’altronde i CAFO di ultima generazione sono dei veri e propri laboratori dove i fattori ambientali vengono stabilizzati attraverso vecchie e nuove tecnologie ed automazioni. Brian L., Schneider M., Brunson K. (2020) A History of Pigs in China: From Curious Omnivores to Industrial Pork. The Journal of Asian Studies, 79(4), pp. 865-889.
12 Cfr. Claude Levi-Strauss (2016) Chapter 13, “A Lesson from wisdom in mad cows” in C. Levi-Strauss, We are all cannibals. And other essays. Columbia University Press, pp. 112-119.
13 Per una pubblicità che sostiene la sicurezza a la naturalità degli impianti ormonali negli animali di allevamenti, vedi le immagini dell’industria zootecnica Canadese dell’Alberta: https://irp-cdn.multiscreensite.com/f1ef9cf3/files/uploaded/AlbertaBeefHormonesHighRespdf-578.pdf (accesso dell’11 giugno 2024); per una breve analisi degli stessi argomenti utilizzati qualche decennio prima circa gli antibiotici, vedi l’ultimo capitolo di Kirchhelle, C. (2020). Pyrrhic Progress: The History of Antibiotics in Anglo-American Food Production. New Brunswick (NJ): Rutgers University Press.
14 Cfr. Andreas-Holger Maehle & Ulrich Tröhler (1987) “Animal Experimentation from Antiquity to the End of the Eighteenth Century: Attitudes and Arguments” in Nicolaas A. Rupke (a cura di) Vivisection in Historical Perspective (London, 1987), pp. 14-47, p. 22.
15 AA. VV. (2017) Indigenous Peoples’ Rights And Unreported Struggles: Conflict And Peace, Institute for the Study of Human Rights, Columbia University Press.
16 Nicola Perullo (2022). “Per un’estetica relazionale come dietetica della cura: sul mangiare carne”, Teoria, 42(1): pp. 133-148.
17 Sui conflitti e le incomprensioni culturali e politiche tra governo canadese, attivismo internazionale e cultura Inuit si veda l’eloquente documentario Angy Inuk del 2017, realizzato della regista Alethea Arnaquq-Baril.
18 Son sicuro che confronti tra le culture contadine attiviste e i movimenti femministi, antispecisti ed animalisti siano avvenuti, confronti che mio malgrado non conosco. Sulla via Campesina vedi l’articolo di Nora McKeon su Gli Asini del 11 febbraio 2024, La via Campesina, accessibile qui: https://gliasinirivista.org/la-via-campesina/
19 Le tassonomie raziali umane sono storicamente e pseudoscientificamente state utilizzate per giustificare sfruttamento, violenza e negazione dei diritti fondamentali
20 Ulrich Brand, Barbara Muraca, Éric Pineault, Marlyne Sahakian, Anke Schaffartzik, Andreas Novy, Christoph Streissler, Helmut Haberl, Viviana Asara, Kristina Dietz, Miriam Lang, Ashish Kothari, Tone Smith, Clive Spash, Alina Brad, Melanie Pichler, Christina Plank, Giorgos Velegrakis, Thomas Jahn, Angela Carter, Qingzhi Huan, Giorgos Kallis, Joan Martínez Alier, Gabriel Riva, Vishwas Satgar, Emiliano Teran Mantovani, Michelle Williams, Markus Wissen & Christoph Görg (2021) From planetary to societal boundaries: an argumentfor collectively defined self-limitation, Sustainability: Science, Practice and Policy, 17:1, 264-291,
21 Se nel marzo del 2024 la Subcommission on Quaternary Stratigraphy ha decretato che il termine Antropocene non potrà indicare nessuna epoca geologica, al livello Europeo il piano è in qualche modo andato a segno, con la sospensione informale del Green Deal europeo del 2020 sancita nella dichiarazione di Anversa siglata a febbraio 2024 da alcune delle più grandi industrie multinazionali.
22 Il sito dell’associazione non è ad oggi raggiungibile, ma sono disponibili i materiali archivistici, ad esempio la registrazione del sito così come si presentava il 14 marzo 2023, accessibile qui: https://web.archive.org/web/20230314133518/https://endtheslaughterage.eu/en/
23 Tra i tanti lavori che Arianna Ferrari ha sviluppato sul tema, quello di “Carne Coltivata” è sicuramente uno dei più aggiornati. Cfr. A. Ferrari (2024) Carne coltivata. La rivoluzione a tavola? Fandango, Roma.