Ecologia a parole? L’Italia, l’ambientalismo globale e il rapporto ambiente-sviluppo intorno alla conferenza di Stoccolma

“Mai forse nella storia una questione nuova che al suo primo apparire sembrò una trascurabile preoccupazione di pochi acchiappanuvole, in un arco così breve di tempo ha raggiunto il summit dell’attenzione internazionale”[1]. Così scrisse Alfredo Todisco, commentando l’avvio della Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente Umano che si tenne a Stoccolma dal 6 al 15 giugno 1972. Fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, l’ecologia divenne una priorità per la politica internazionale. Durante la distensione, le questioni ambientali furono potenziale oggetto di dialogo Est-Ovest, un terreno su cui avviare una collaborazione, come intuito dal presidente americano Richard Nixon che ritenne di fare dell’America il campione dell’ambientalismo globale[2]. Pensata come occasione di avvicinamento fra Est e Ovest e preparata meticolosamente nel corso di quasi quattro anni, la Conferenza di Stoccolma non poté assolvere questa funzione perché boicottata dal blocco orientale. Nel corso dei lavori, le preoccupazioni per il degrado ambientale e per la scarsità delle risorse si incrociarono sia con le tensioni della guerra fredda sia soprattutto con l’affacciarsi di un nuovo conflitto: lo scontro Nord-Sud sul rapporto fra ambiente e sviluppo. Un confronto che si giocava attorno a visioni contrastanti delle priorità globali[3].

La storiografia italiana ha recentemente prestato attenzione alla svolta rappresentata dalla Conferenza di Stoccolma e all’emergere di una nuova coscienza ambientale, mostrando come

la sensibilità ecologica di massa sia stata per molta parte fenomeno di importazione[4]. In Italia già esistevano sia un movimento ambientalista, volto soprattutto alla tutela delle specie e alla conservazione del paesaggio, sia una predisposizione a valutare le connessioni fra ambiente e sviluppo economico, in particolare fra gli studiosi impegnati nelle politiche per il Mezzogiorno[5]. Si trattava tuttavia di fenomeni d’élite, rappresentati da associazioni quali il Movimento italiano per la protezione della natura, poi Pro-Natura, il Touring Club Italiano, Italia Nostra. Negli anni Settanta, la preoccupazione per l’ambiente divenne invece fenomeno di massa anche in Italia. Questo saggio conferma la tesi dell’effetto traino avuto dai fenomeni globali sull’ambientalismo italiano. Studia come la cultura politica nazionale reagì alla nuova sensibilità rivolgendo un’attenzione particolare alle connesse questioni dello sviluppo e dei rapporti con il Sud del mondo. Discute come l’Italia – politica, opinione pubblica, esperti – visse in maniera contraddittoria il dibattito sul nesso fra ambiente, popolazione e sviluppo, come affrontò il collasso dell’utopia tecnologica e la sostituzione dell’ottimismo tipico degli anni d’oro della modernizzazione con una visione pessimistica dei limiti dello sviluppo. Si occupa di come il dibattito sul trade-off fra ecologia e crescita innescato dalla pubblicazione dello studio del Club di Roma sui limiti dello sviluppo e alimentato dalle discussioni sollevate dalla Conferenza di Stoccolma si rifletté sulla politica, in particolare guardando all’azione nelle organizzazioni internazionali e al ruolo degli scienziati nell’elaborazione delle decisioni politiche[6]

Lecologia come grande tema di politica globale

A livello internazionale, l’ecologia era trascinata dal successo di quelli che sono stati chiamati the prophets of doom. Dopo il pionieristico lavoro di Rachel Carson sull’inquinamento da pesticidi, The Silent Spring (trad it. Primavera silenziosa, 1962), grande eco ebbero gli autori che vedevano nella tecnologia e nell’aumento di popolazione da essa favorito la causa principale della crisi ambientale. I lavori di Paul Ehrlich, Population Bomb, 1968, di Barry Commoner, The closing circle, 1971, (trad. it. Il cerchio da chiudere, 1972), e di Garrett Hardin, The Tragedy of the Commons, uscito su “Science”nel 1968, misero fortemente in dubbio la sostenibilità della crescita economica e demografica ai ritmi forsennati degli anni Cinquanta e Sessanta. Contribuirono a sensibilizzare l’opinione pubblica e costrinsero la politica ufficiale a problematizzare l’ecologia. Nei primissimi anni Settanta furono lanciate iniziative di risonanza mondiale in tema di protezione dell’ambiente. Nel 1970 si svolse in tutto il mondo, Italia compresa, la prima Giornata della Terra, Earth Day, 22 aprile 1970. Anche il Consiglio d’Europa dedicò il 1970 alla conservazione della natura. Il tema ambientale fu rilanciato due anni più tardi con l’apertura della già citata Conferenza sull’Ambiente Umano. Questa fu la prima di una serie di megaconferenze che sarebbero divenute tipiche di un modo nuovo delle Nazioni Unite di fare politica internazionale: convocare grandi assise su temi d’interesse globale, rivolte all’opinione pubblica mondiale prima che ai governi. Il suo risultato istituzionalmente più rilevante fu la creazione dell’unep, United Nations Environment Programme. Fu importante però soprattutto perché portò alla luce il dibattito fra paesi ricchi e in via di sviluppo sulle priorità ambientali.

La questione era già emersa nel 1968, alla Conferenza sulla biosfera tenutasi sotto gli auspici dell’unesco a Parigi dal 1° al 13 settembre 1968. Delle venti raccomandazioni che erano uscite dalla conferenza, la numero 19 chiedeva esplicitamente di tenere in conto le conseguenze ecologiche dei grandi progetti per lo sviluppo. Dava espressione alla preoccupazione per gli effetti che crescita, urbanizzazione e industrializzazione avevano sull’ambiente. La Conferenza sulla biosfera riguardava però il lato scientifico del problema. A Stoccolma furono invece discusse questioni più ampie, politiche, sociali ed economiche. Il progetto di una conferenza sull’ambiente umano di carattere primariamente politico risale proprio al 1968, quando la Svezia ne lanciò l’idea al Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite. Nel dicembre, l’Assemblea Generale adottò la risoluzione 2398/XXIII che indisse la Conferenza e dette mandato al Segretario generale di preparare un rapporto, il n. E/4667 del 26 maggio 1969, indicando i problemi aperti. L’anno successivo, il 15 dicembre 1969, l’Assemblea Generale adottò la risoluzione 2581/XXIV che impegnava fra l’altro le Nazioni Unite a riconoscere che nessuna politica ambientale poteva compromettere lo sviluppo nei paesi di recente indipendenza. Questo era l’aspetto politicamente centrale, e anche il più controverso. Stati Uniti e Gran Bretagna votarono contro[7]. L’Assemblea Generale stabilì inoltre gli obiettivi della conferenza e costituì un comitato preparatorio composto dai rappresentanti di 27 paesi – uno di questi era l’Italia – che si riunì nei giorni 10-20 marzo 1970[8]. Ogni governo doveva preparare un rapporto nazionale seguendo uno schema standard, documento A/Conf.48/PC/4 del 9 marzo 1970. Doveva descrivere la situazione esistente e le politiche programmate. Doveva analizzare le tendenze demografiche, incluse le caratteristiche degli insediamenti, i problemi derivanti dall’urbanizzazione, gli effetti delle condizioni ambientali sulla salute, i modi di utilizzo delle risorse naturali. Doveva altresì spiegare come intendesse conciliare ambiente e sviluppo, descrivendo le proposte di legge e le idee di azione a livello internazionale. In tutto, una trentina di pagine[9].

La segreteria della conferenza aveva sede a Ginevra ed era guidata dal canadese Maurice Strong. Già Presidente della Canadian International Development Agency, questi era l’uomo ideale per guidare la conferenza: capace di raggiungere compromessi e sensibile alle richieste dei Paesi di recente indipendenza, enfatizzò sempre la compatibilità fra sviluppo e qualità ambientale. La conferenza aveva lo scopo di produrre un rapporto sullo stato dell’ambiente, una dichiarazione sull’ambiente umano e un piano dazione[10]. I lavori erano distribuiti in tre commissioni: la prima impegnata sui temi sociali e di educazione all’ambiente, la seconda su risorse e sviluppo, la terza sull’identificazione delle sostanze inquinanti[11]. Il comitato preparatorio, incaricato di predisporre un progetto di dichiarazione, decise anche di aprire alla partecipazione di osservatori, la Repubblica Federale Tedesca, la Svizzera, il Vietnam, la Santa Sede e di Organizzazioni internazionali, governative e non. Entro il termine previsto, fine marzo 1971, 86 governi presentarono rapporti nazionali. Altri, fra cui l’Italia, avrebbero inviato il loro in ritardo. Ad eccezione del colloquio sui problemi dello sviluppo organizzato a Praga nei giorni 2-25 maggio 1971 dalla Commissione Economica per l’Europa, pressoché tutti gli incontri che precedettero la conferenza furono essenzialmente dedicati alle relazioni fra sviluppo e ambiente[12]. Fra questi spicca il lavoro del Gruppo di esperti guidato dallo stesso Strong a Founex, il 4-12 giugno 1971. Il rapporto di Founex circolò nelle commissioni regionali: Commissione economica per l’Asia a Bangkok 17-23 agosto, Commissione economica per lAfrica ad Addis 23-28 agosto, cepal in Mexico city, 6-11 settembre, Ufficio economico e sociale a Beirut, 27 settembre-2 ottobre. Infine fu discusso dal gruppo di lavoro scope-unche, Scientific Committee on Problems of the Environment/un Conference on the Human Environment, a Canberra nei giorni 24 agosto-3 settembre 1971. La sua idea fondamentale era che l’ambiente fosse una dimensione critica per garantire il successo socio­economico. Ogni Paese, sosteneva, avrebbe dovuto stabilire per proprio conto gli standard ambientali minimi, sulla base del suo stadio di sviluppo e dei suoi obiettivi culturali e sociali[13].

Mentre il mondo scientifico discuteva sul ruolo chiave delle organizzazioni internazionali nell’affrontare una questione globale come quella ecologica[14], Strong organizzò anche un’ampia campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sui temi ambientali. Era rivolta soprattutto ai giovani, con mostre, programmi radio e televisivi. Only One Earth: The Care and Maintenance of a Small Planet, scritto dalla famosa economista e giornalista Barbara Ward e dal biologo René Dubos[15] era parte di questa azione di sensibilizzazione. Commissionato dal Segretariato della conferenza, il libro doveva sintetizzare la visione globale sul rispetto dell’ambiente, ricorrendo a contributi di scienziati e specialisti. Nell’introduzione, gli autori evidenziarono una grande eterogeneità di atteggiamenti riconducibile alla fiducia o meno nella duttilità degli ecosistemi, al ruolo riservato all’uomo nell’ambiente naturale, al grado di fiducia nella tecnologia, inclusa specificamente l’energia nucleare vista da alcuni come opportunità da sfruttare e da altri come “assolutamente fuori posto entro la biosfera”[16]. Il risultato fu un volume dal carattere divulgativo in cui grande spazio fu dedicato allo sviluppo – cosa che non stupisce, considerato il background di Barbara Ward che assieme al marito Robert Jackson era impegnata nell’aiuto allo sviluppo[17].

Il documento che più fece parlare di sé subito prima della Conferenza fu il rapporto Limits to Growth pubblicato nel febbraio 1972 e commissionato da un think tank indipendente, il Club di Roma, guidato dall’ingegnere italiano Aurelio Peccei e dallo scienziato scozzese Alexander King. Il Club di Roma si fondava sulla convinzione che Est e Ovest dovessero collaborare per risolvere insieme problemi urgenti: aumento demografico galoppante, consumo e rischio di esaurimento delle risorse, degrado ambientale, squilibrio Nord-Sud. Aurelio Peccei, già protagonista di importanti capitoli della storia imprenditoriale italiana – Fiat, Alitalia, Italconsult, Olivetti – era ‘anima dell’operazione. Testimoniava il passaggio dall’ottimismo tecnologico della modernizzazione al pessimismo demografico tipico di parte del pensiero ambientalista negli anni Settanta. Nonostante il suo curriculum si prestasse a raccontare una storia di vicinanza al grande capitale, in realtà era un libero pensatore e questo lo relegava ai margini della scena del grande capitalismo italiano. Le sue idee non rispecchiavano il pensiero della classe dirigente o della grande industria italiana, contrariamente a quanto suggerito dai critici di sinistra[18]. Finanziato dalla Fondazione Volkswagen, lo studio promosso dal Club di Roma, importante quanto controverso, era il risultato di un progetto intitolato The Predicament of Mankind del 1970 che affrontava quella che era definita “la problematica”: come garantire la sopravvivenza del genere umano in una prospettiva di incremento demografico, esaurimento delle risorse e crescente inquinamento. La ricerca fu condotta dall’economista Dennis Meadows del Massachusetts Institute of Technology. Fondata sui criteri dell’analisi di sistema proposta dai pionieristici lavori di Jay Wright Forrester per l’applicazione di modelli informatici allo studio delle dinamiche sociali, valutava come variassero nel tempo grandezze correlate con altre. I fattori considerati erano popolazione, produzione agricola, risorse naturali, produzione industriale e inquinamento. Lo studio proponeva di riconoscere l’esistenza di limiti oggettivi e di abbandonare le strategie di sviluppo sociale ed economico basate sul principio della crescita continua. Il modello voleva dare delle linee di tendenza, non dei dati scientificamente incontrovertibili: intendeva anzitutto fare colpo sull’opinione pubblica. Tuttavia la commistione fra approccio analitico-statistico-matematico e intento divulgativo non fu efficace quanto sperato dagli ideatori. Nonostante i dati sulle vendite e gli sforzi di Donella Meadows per tradurre in linguaggio accessibile e non tecnico i contenuti delle analisi, i Limits restarono un lavoro di difficile lettura. Inoltre si attirarono immediatamente le critiche delle grandi testate e del mondo accademico tutto. “Foreign Affairs” pubblicò una recensione dal titolo The Computer That Printed Out W*O*L*F*,  ridicolizzando l’attenti al lupo contenuto nel lavoro. La “New York Times Book Review” liquidò i risultati come “poco meno che pseudoscienza”. Un editoriale del “Newsweek” parlò di sciocchezze irresponsabili. L’accademia non tardò a demolirne la correttezza scientifica[19].

LItalia si prepara a Stoccolma: fra interesse istituzionale e grande equivoco sui limiti dello sviluppo

In questo clima di fermento internazionale sui temi ecologici, anche in Italia si risvegliò uno specifico interesse. Nelle istituzioni, il protagonista di tale risveglio fu il Presidente del Senato Amintore Fanfani che dal 1970 prese a interessarsi alle discussioni in ambito internazionale sulla “sopravvivenza del genere umano”[20]. Il 26 febbraio 1971 costituì un Comitato di orientamento sui problemi dell’ecologia, da lui presieduto, introducendo il tema ambientale nell’agenda parlamentare[21]. I critici parlarono di fanfecologia, avvicinando l’azione di Fanfani all’analoga e strumentale attenzione riservata ai temi ecologici da Richard Nixon, sottolineando che in entrambi i casi si trattava di un modo per andare incontro alla protesta giovanile evitando che questa si dirigesse verso progetti rivoluzionari.

Il Comitato di orientamento sui problemi dell’ecologia era composto da alcuni senatori, rappresentativi di tutto l’arco costituzionale, e da un gruppo di esperti. Fra questi vi era Vincenzo Caglioti, presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche e principale referente scientifico del governo in materia di ecologia. Gli altri erano Giovanni Battista Marini-Bettolo, direttore dell’Istituto Superiore di Sanità, che riferì sulle conseguenze per la salute dei vari fattori dell’inquinamento dell’ambiente, Roberto Passino, direttore dell’Istituto di ricerca sulle acque che parlò di inquinamento idrico, Mario Pavan, direttore dell’Istituto di entomologia agraria all’Università di Pavia, con un contributo sui problemi faunistici, Ruggero Tomaselli, direttore dell’Istituto e dell’Orto Botanico a Pavia, che riferì di vegetazione sul territorio italiano, infine Giorgio Nebbia, direttore dell’Istituto di merceologia dell’Università di Bari, che parlò di tecnologia, economia e società. Gli esperti riferirono in Senato fra aprile e maggio. Fra le relazioni spiccano per significato politico quelle di Caglioti, Pavan e Nebbia[22]. Caglioti rifletté espressamente sul rapporto fra ambiente e sviluppo. Interessato all’analisi di sistema e al modello di Forrester sugli effetti di un drastico aumento dell’inquinamento e di una crescita esponenziale della popolazione, suggerì di “incoraggiare gli studi in corso iniziati dal Club di Roma e dalla Fondazione Agnelli su taluni ecosistemi relativi alla società italiana”[23]. Pavan, che fra l’altro era capo della delegazione italiana presso il Comitato europeo per la salvaguardia della natura costituito nel 1970 dal Consiglio d’Europa, era critico su tutta la linea: l’azione dello Stato era “del tutto carente e antiquata e talvolta contraria agli interessi ecologici”[24]. Nebbia si occupò in modo ampio del rapporto fra economia e ambiente, partendo dalla produzione di rifiuti, citando il rapporto commissionato dall’ENI su L’intervento pubblico contro inquinamento, del giugno 1970, per sottolineare la fattibilità di investimenti nel disinquinamento.

La discussione avvenne in Senato il 27 e 28 maggio 1971. Il dibattito parlamentare fu particolarmente vago. Nel discorso introduttivo, Fanfani dichiarò l’intenzione di dare all’ecologia “priorità di tempo e di impegno su ogni altra politica”. Non fece mai esplicito riferimento a Stoccolma, ma solo un vago cenno a iniziative in ambito internazionale. Gli interventi più informati furono quelli di Camillo Ripamonti, ministro per la Ricerca scientifica, e Mario Pedini, sottosegretario agli Affari esteri. Anche Ripamonti citò le analisi sui costi del degrado ambientale effettuati su iniziativa dell’ENI e la nascita della TECNECO, una società sussidiaria di ingegneria ambientale che si occupava di disinquinamento delle acque. I due studi promossi dall’ENI, quello ENI-ISVET già menzionato sui costi economici dell’inquinamento del giugno 1970 e lo studio TECNECO che sarebbe stato completato nel 1973, furono più volte citati e utilizzati come frutto dell’attività del governo italiano[25]. Era questo il prodotto di una visione ottimistica, dominata dalla fiducia nella capacità catartica della tecnologia e secondo la quale era opportuno affidare le questioni ambientali a organismi di consulenza decentrati, con una forte caratterizzazione tecnica e che salvaguardassero gli interessi del ministero dell’industria e dei lavori pubblici[26].

Nel suo intervento, Pedini riferì del Comitato interministeriale per coordinare l’azione dell’Italia nelle organizzazioni internazionali e in particolare alla Conferenza di Stoccolma, un “organismo di fatto” insediato presso il Ministero Affari Esteri e da lui stesso presieduto. Sottolineò l’intento di mettere al centro la collaborazione regionale nel Mediterraneo e fece specifico riferimento alla preoccupazione dei paesi in via di sviluppo in merito al trade-off fra ecologia e crescita: “Il collegamento fra i due problemi – ambiente e sottosviluppo, ricchezza e povertà dell’uomo – dovrà essere articolato su tre aspetti principali: aspetto finanziario, assistenza tecnica nel campo della salvaguardia dell’ambiente, trasferimento delle tecnologie avanzate e loro implicazioni in materia di ecologia”[27]. Le sue parole parevano preludere a un ruolo dell’Italia fortemente propositivo. Riecheggiavano le posizioni del ministro degli esteri Aldo Moro, che nel 1969 parlando all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite aveva individuato nella conferenza di Stoccolma una priorità e espresso la propria fiducia nel progresso tecnico-scientifico come strumento per proteggere l’ambiente umano[28]. Giovanni Migliuolo, rappresentante italiano a capo dell’Intergovernmental Working Group che lavorava alla stesura della Dichiarazione sull’Ambiente Umano, si era impegnato a tutelare gli interessi del Terzo mondo[29]. Tuttavia, la storia della partecipazione italiana alle decisioni delle organizzazioni internazionali in tema di cooperazione allo sviluppo non prometteva nulla di buono[30]. All’UNCTAD, United Nations Conference on Trade and Development, ad esempio, l’Italia si era presentata generalmente con delegazioni poco preparate e aveva mantenuto una posizione defilata, allineata con quella degli alleati occidentali. Anche nella sessione tenutasi alla vigilia della Conferenza di Stoccolma a Santiago del Cile, 13 aprile-20 maggio 1972, aveva avuto un ruolo marginale e, contrariamente alla retorica dell’affinità di interessi con i paesi in via di sviluppo, si era opposta alle loro richieste.

Intanto, nella stampa quotidiana e periodica, i temi ecologici acquistarono una certa visibilità. Peccei si dette molto da fare per promuovere i Limits e trovò anche qualche alleato inatteso, ad esempio l’Unione Democratica Dirigenti d’Azienda, UDDA. Per conto dell’UDDA Leo Solari organizzò una conferenza di lancio dei Limits dal titolo Processo alla Tecnologia? che si tenne nei giorni 27-29 febbraio 1972 a Roma, presso la sede della FAO. Vi parteciparono alcuni importanti membri del Club di Roma, Aurelio Peccei, Hugo Thiemann, Eduard Pestel, Alexander King, Yoiki Kaya, Adeoye Lambo, oltre a diverse personalità appartenenti al mondo della ricerca scientifica, attive nella pubblicistica sui temi ambientali e coinvolte nei lavori di Stoccolma, Giorgio Nebbia, Vincenzo Caglioti, Giuseppe Montalenti, Adriano Buzzati-Traverso. Erano stati invitati anche grandi nomi quali Paul Ehrlich e Alfred Sauvy[31].  ILimits destarono una certa attenzione in Italia, dove peraltro furono fraintesi a causa della traduzione fuorviante del titolo[32]. Non divennero però certo un documento ufficiale della politica italiana, nonostante l’endorsement, anche metodologico, di molte figure dell’ambiente scientifico italiano vicine alle istituzioni. Fra queste è opportuno ricordare Vincenzo Caglioti, il quale, oltre a segnalare la ricerca del Club di Roma al Senato citò i Limits nella relazione tenuta al convegno nazionale dei giuristi cattolici italiani, dove parlò de I problemi della civiltà tecnologica ed esortò a considerare i risultati del rapporto come una tendenza, e a interpretarli in tal modo, passando dall’espansione illimitata a un’evoluzione equilibrata[33].

I mezzi di informazione vicini alle questioni ambientali ed attenti ai Limits non erano molti. In compenso però erano importanti. In particolare il “Corriere della Sera”, dove la recensione fu affidata a una firma d’eccezione, il genetista Adriano Buzzati-Traverso che commentò il lavoro alla prima uscita e poi anche in occasione della pubblicazione in italiano[34]. Questi rifletté anche sul significato culturale del rapporto, parlando di “fine dello sviluppo” e apprezzando il lavoro del Club di Roma che definì opera di pionieri che aprono la strada a ricerche future, prevedibilmente criticati da economisti ancorati al mito della produzione. Molto critici furono infatti gli economisti italiani che intervennero in ritardo e con scarsa enfasi a commentare i Limits allineandosi con le posizioni critiche dei colleghi anglosassoni[35]. I Limits suscitarono anche l’attenzione della stampa specializzata. Non si trattava ancora di un dibattito serrato, tuttavia ne scrissero la rivista “Ecologia”, diretta da Virginio Bettini, e la rivista “Sapere”, diretta dall’editore Raimondo Coga. “Futuribili” pubblicò un’ampia recensione nell’aprile 1972 e un numero dedicato, Politica demografica per un mondo libero, nel maggio, con articoli fra gli altri di Giorgio Nebbia e del biologo Luciano Bullini. Dette spazio inoltre a svariati contributi, a favore e contro, nel corso dello stesso anno, e anche a rassegne sulle recensioni ottenute e sui convegni organizzati per commentare i Limits. La riflessione su progresso e modernizzazione coinvolgeva in maniera esplicita la questione del rapporto fra ecologia e sviluppo. Sul piano della politica internazionale “Futuribili” pubblicò articoli sul ruolo dell’UNCTAD e sulla Comunità Economica Europea, soprattutto del Presidente della Commissione Europea Sicco Mansholt, notoriamente favorevole alle idee del Club di Roma[36]. Quanto alla prospettiva italiana, ritornava il discorso sulla modernizzazione con un esplicito riferimento al Mezzogiorno come modello di sviluppo[37].

Anche il Partito comunista italiano “scoprì l’ambiente” nei primi anni Settanta[38]. Come notò l’esponente più coinvolto nelle questioni ambientali, Giovanni Berlinguer, l’ecologia era ormai diventata di moda e aveva sostituito nel discorso pubblico l’enfasi sulla programmazione, caratteristica del decennio precedente[39]. Icomunisti ebbero un atteggiamento contraddittorio rispetto all’ecologia, accusata di essere un esempio di politica demagogica, nella variante fanfaniana, e comunque considerata una truffaldina ideologia capitalista. Una delle opere più fortunate e simbolo dell’interpretazione marxista sui temi ambientali fu il libro di Dario Paccino, uscito per i tipi di Einaudi nel 1972, che nel titolo, Limbroglio ecologico, rivelava il nucleo del proprio argomento. Il PCI dedicò ben due importanti convegni all’ecologia. Il primo, Uomo, natura, società, fu organizzato dall’Istituto Gramsci e si tenne dal 5 al 7 novembre 1971[40]. Leggeva il tema ambientale attraverso la lente ideologico-sistemica del marxismo, riconoscendo che la questione ecologica era ancora estranea al movimento operaio. Il secondo, organizzato dall’associazione Italia-URSS, si tenne poco dopo, il 13-15 gennaio 1972 a Bologna. La mozione letta a conclusione dei lavori suggeriva di orientare lo sviluppo tecnologico al soddisfacimento delle esigenze primarie dell’umanità e proponeva come strade da seguire la proprietà comune dei beni naturali, l’uso razionale e la gestione sociale delle risorse, lo sviluppo della ricerca scientifica. Terminava poi augurandosi la buona riuscita della conferenza di Stoccolma e auspicando un ruolo in tema di protezione ambientale anche per la Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa[41]. Alla vigilia, infatti, i temi ecologici erano ancora considerati un terreno ideale su cui avviare la cooperazione Est-Ovest e l’atteggiamento collaborativo, almeno in ambito scientifico, restò una costante.

The world’s most dangerous political issue: i temi discussi a Stoccolma

La Conferenza di Stoccolma[42] vide la partecipazione di 112 stati, degli istituti specializzati delle Nazioni Unite, di 44 organizzazioni non governative e di ben 1500 giornalisti. Era affiancata da una vera e propria controconferenza organizzata dai movimenti ambientalisti, il Forum dell’ambiente, che dette risalto al significato politicamente sensibile dell’ecologia e trasformò l’avvenimento in un grande happening internazionale. Pensata come un modo per rilanciare, insieme, il ruolo delle Nazioni Unite come luogo di dialogo e la collaborazione Est-Ovest su temi globali, la conferenza non soddisfece certo tutte le aspettative. Barry Commoner, nel famoso articolo Motherhood in Stockholm che divenne una sorta di manifesto critico, sottolineò come vi fosse un convitato di pietra: la questione nucleare. I lavori, argomentava, correvano lungo un binario molto stretto e limitato, costretti dalle logiche della politica mondiale a non discutere del rischio maggiore per la sicurezza dell’ambiente umano: la possibilità di una guerra atomica. Così i temi rilevanti finivano con l’essere altri, mentre lo scontro fondamentale e potenzialmente esplosivo diventava quello fra ricchi e poveri, fra bianchi e non bianchi. La “questione più pericolosa a livello mondiale” era una questione di giustizia sociale e redistributiva fra le nazioni e fra le razze[43].

Il quadro delineato da Commoner alla vigilia si verificò puntualmente. I lavori confermarono la tensione della guerra fredda e testimoniarono un’ostilità crescente, anche se trattenuta, nelle relazioni Nord-Sud. Il fallimento dell’UNCTAD di Santiago del Cile, consumatosi poche settimane prima, era un pessimo biglietto da visita per Stoccolma. Il clima politico in cui si aprì l’incontro non era dei migliori. Con l’eccezione di Romania e Jugoslavia, i paesi del blocco orientale, che pure avevano collaborato alle fasi preparatorie e avevano inviato i loro rapporti nazionali, boicottarono l’incontro in segno di protesta per la non ammissione della Germania orientale come osservatore. La novità fu la partecipazione della Repubblica Popolare Cinese che, da poco ammessa alle Nazioni Unite, approfittò di Stoccolma per recuperare un ruolo di protagonista della politica internazionale, grande portavoce, assieme a India e Brasile, degli interessi dei paesi in via di sviluppo. Le crisi internazionali irruppero sulla scena, con tutta la loro violenza, proprio all’apertura della conferenza. In particolare la guerra in Vietnam, con le conseguenze ambientali delle distruzioni al napalm dei bombardamenti americani, fu un commensale scomodo al tavolo delle trattative sull’ambiente. Tanto che nei discorsi d’apertura sia il Segretario generale delle Nazioni Unite Kurt Waldheim sia il padrone di casa, il primo ministro svedese Olof Palme furono espliciti nella loro condanna, il primo affermando la necessità di bandire la guerra che è “la forma più odiosa di inquinamento”, il secondo menzionando espressamente il Vietnam, descritto come “guerra ecologica” per l’uso indiscriminato di erbicidi e bulldozer. Riportando l’attenzione sul punto che più gli stava a cuore, Strong aprì invece i lavori stabilendo alcuni punti fermi: la non applicabilità del concetto no-growth, tipico delle teorie neomalthusiane e del modello dei Limits, e la necessità di conciliare ambiente, sviluppo e crescita demografica.

Nonostante gli sforzi di Strong per avvicinare le posizioni, Stoccolma fu il luogo di un rinnovato scontro Nord-Sud e la questione ambientale divenne una sorta di nuova frontiera coloniale, il luogo della contrapposizione ideologica fra i timori per le conseguenze ambientali e demografiche dell’industrializzazione e le ambizioni dei paesi di recente indipendenza. L’insistenza sui temi dello sviluppo, che era priorità dei paesi poveri e da essi considerata la precondizione per cominciare a interessarsi dei danni ambientali, caratterizzò molta parte della discussione nei primi giorni. Delle grandi questioni sul tappeto, da un lato il passaggio da una crescita senza limiti a un maggiore equilibrio nella produzione e nella riproduzione, dall’altro la graduale riduzione del divario fra paesi industriali e paesi del Terzo mondo, solo il secondo ricevette attenzione. Il capitolo cruciale alla conferenza fu proprio quello del rapporto fra ambiente e sviluppo. I paesi in via di sviluppo sostenevano che le questioni ambientali fossero un problema dei paesi ricchi e causato dai paesi ricchi. Essi quindi ne avrebbero dovuto sopportare tutti i costi. Nutrivano comprensibili timori che l’ambiente servisse invece da pretesto per diminuire l’impegno. Insistevano sulla priorità di favorire crescita e modernizzazione nei paesi del Sud del mondo. Da molte parti nel ricco Nord si osservava invece che gli aiuti dovevano essere modificati radicalmente, abbandonando il modello di industrializzazione e urbanizzazione di massa[44]. Si osservava inoltre che le strategie per lo sviluppo e per l’ambiente non potevano avere effetto se non si frenava l’incremento demografico: gli aiuti finanziari erano annullati dalla crescita della popolazione. La linea ufficiale della conferenza restò tuttavia quella secondo cui crescita demografica e protezione ambientale non erano incompatibili. La questione era spinosa, complice la suscettibilità culturale su questi temi di molti partecipanti, inclusa la Santa Sede che temeva l’agenda si spostasse su programmi per il controllo delle nascite[45]. Pur essendo un argomento che avrebbe meritato una trattazione a sé, la questione demografica fu quindi camuffata, inserita fra i vari punti della discussione generale. Il discorso simbolicamente più potente alla conferenza, e anche il più applaudito, fu quello di Indirà Gandhi, il 14 giugno 1972. Il primo ministro indiano sostenne che il vero conflitto non era fra conservazione e sviluppo ma fra ambiente e sfruttamento selvaggio dell’uomo e della terra in nome dell’efficienza. L’inquinamento non era insomma un problema tecnico ma politico causato dal comportamento miope e dissennato dei paesi ricchi[46].

A lungo, in un clima di forte tensione e con delegazioni spesso distratte da temi politicamente più scottanti, prevalse il pessimismo sui risultati. Gli osservatori alla conferenza erano perplessi di fronte a impegni presi in pubblico che erano in aperto contrasto con le politiche nazionali – uno dei casi più citati era quello del Giappone che si impegnò contro la caccia alle balene. Il 10 giugno, il delegato cinese Tung Ke attaccò la guerra biologica americana nel Vietnam e chiese di rimettere mano alla bozza di dichiarazione sull’ambiente umano, per predisporre  la  quale  un  comitato  ad  hoc aveva  impiegato  ben  otto  mesi.  Nonostante l’opposizione di importanti membri delle Nazioni Unite, e in particolare degli Stati Uniti, la dichiarazione fu totalmente ridiscussa fra il 9 e il 16 giugno e approvata con modifiche non solo formali.

L’Italia a Stoccolma: alcuni paradossi

La partecipazione italiana alla Conferenza sull’Ambiente Umano aveva molte facce. Vi era naturalmente la delegazione ufficiale; vi era poi la folta rappresentanza di inviati dei quotidiani, spesso scienziati o attivisti di movimenti ambientalisti; vi erano organizzazioni non governative come Italia Nostra che allestì un mostra di grande successo nella sede del Forum dell’Ambiente, il luogo della controconferenza; vi erano infine cittadini italiani che erano membri di altre delegazioni. Un esempio è Francesco di Castri, membro fondatore e vicepresidente dello SCOPE, il comitato scientifico per i problemi dell’ambiente istituito nell’ambito del Consiglio Internazionale per le Scienze, che lavorò in stretta associazione con il Segretariato per l’organizzazione della conferenza. Professore dell’Università del Cile di Santiago, era stato designato dagli scienziati dei paesi in via di sviluppo per rappresentarli a Stoccolma[47]. Un altro italiano illustre, non coinvolto però nella delegazione, era Adriano Buzzati-Traverso che partecipò ai lavori per lUnesco[48]. Anche Giorgio Nebbia, che a Stoccolma era cronista d’eccezione per “Il Giorno”, partecipò come membro laico della delegazione della Santa Sede.

L’azione italiana era coordinata dall’Ufficio VIII DG affari economici del Ministero Affari Esteri che aveva anche curato la preparazione del rapporto ufficiale[49]. La delegazione era guidata dal ministro per la Ricerca scientifica, Fiorentino Sullo. Suo vice era il sottosegretario agli Esteri, Mario Pedini. A fungere da capodelegazione, una volta che i ministri, subito dopo il discorso d’apertura, lasciarono i lavori, rimase il plenipotenziario Carlo Calenda. Questi aveva seguito i lavori fin dalle fasi preparatorie assieme a Mario Pavan che partecipò come esperto fino all’avvio  della  conferenza[50]. Accanto  ad alcuni  funzionari  ministeriali  della  delegazione facevano parte importanti rappresentanti del mondo scientifico: Vincenzo Caglioti, già citato, Giuseppe Montalenti, presidente della commissione ecologica del CNR, e Carlo Polvani, membro del comitato nazionale energia nucleare. Inoltre vi erano rappresentanti del potere economico e industriale – una folta presenza di autorevoli inquinatori, avrebbe in seguito commentato per il PCI Giovanni Berlinguer[51]. Scarsamente rappresentati erano invece i movimenti ecologisti italiani. Nonostante le connessioni fra ambiente e sviluppo avessero costituito una parte rilevante nella concezione della conferenza e si candidassero quindi naturalmente ad essere un tema di ampia discussione, non vi erano nella delegazione italiana esperti che potessero rappresentare in maniera scientificamente autorevole la visione nazionale sullo sviluppo. È vero che gli scienziati sociali italiani, rispetto a una decina di anni prima quando l’Italia si proponeva esplicitamente come modello di industrializzazione, erano ora meno coinvolti nei circuiti internazionali[52]. Nelle commissioni tecniche che affiancarono i lavori preparatori, non figuravano demografi o economisti italiani[53]. In fondo, questa assenza rifletteva la debolezza strategica delle proposte italiane verso il Terzo mondo, in una fase in cui l’opzione per il multilateralismo sembrava essere una non scelta o addirittura una ritirata rispetto ai costi e alle responsabilità connesse con una più decisa politica di aiuto bilaterale. E mentre timidamente si affacciavano iniziative parallele di carattere non governativo, come l’Istituto Italia-Terzo Mondo, che anticipavano una partecipazione informale del PCI alla politica estera italiana, ciò che restava un punto fermo era l’importanza dei grandi gruppi economici, pubblici e privati, nell’aiuto allo sviluppo[54]. Questa situazione si rifletté in maniera plateale nell’atteggiamento italiano a Stoccolma.

L’impegno italiano alla vigilia della conferenza era stato limitato. La caratteristica enfasi sulla vicinanza ideale ai problemi del Terzo mondo, rappresentata dall’idea di lanciare il decennio dell’ambiente, era stata accompagnata da un disimpegno irritante nelle azioni concrete[55]. La presenza di Pedini nella delegazione rappresentava una garanzia. Questi, infatti, come sottosegretario agli Esteri aveva una specifica responsabilità nell’ambito della cooperazione allo sviluppo ed era il padre della Legge 1033 del 1966, Legge Pedini, che autorizzava la dispensa dal servizio militare per i cittadini che prestassero servizio di assistenza tecnica ai paesi in via di sviluppo. Era prevedibile quindi che la linea italiana privilegiasse le richieste dei pesi poveri rispetto alle preoccupazioni ecologiche. Nel discorso di apertura, il ministro Sullo fu cristallino nel richiamare le idee di papa Paolo VI e sottolineò che “l’autentico inquinamento del sottosviluppo” era rappresentato da fame, epidemie, mortalità. Riprese il leitmotiv della politica italiana, cioè il carattere duale della struttura socio-economica nazionale e la lezione del sottosviluppo imparata dall’Italia grazie al Mezzogiorno. Evidenziò “la caratteristica posizione dell’Italia con un Nord che presenta segni di deterioramento ambientale dei paesi industrializzati e un Sud che aspira allo sviluppo economico e industriale e il quale può portare un peggioramento delle attuali condizioni ambientali”[56]. Il discorso, dai toni tipicamente pomposi, poneva insomma l’accento sulla vicinanza ai paesi del Sud del mondo e sull’applicabilità delle ricette italiane per lo sviluppo economico. Era un atteggiamento piuttosto paradossale. Alla fine degli anni Sessanta i limiti del modello per lo sviluppo del Mezzogiorno erano chiari a tutti, anche a coloro che li avevano proposti. Tanto che ad esempio un personaggio centrale come Pasquale Saraceno, a lungo il punto di riferimento per le strategie di sviluppo economico delle aree arretrate nel secondo dopoguerra, era precipitato in un grave pessimismo sulle possibilità di catching-up in un’economia duale[57]. Oltre che per l’idea della comunione d’intenti con il Sud del mondo, la posizione italiana si caratterizzava anche per una forte fiducia nel potere catartico della tecnologia. Pedini ad esempio dichiarò che: “occorre sforzarsi per controllare e perfezionare lo sviluppo economico per mezzo di innovazioni tecnologiche, per mezzo di una programmazione flessibile, decentrata e scientifica”. Ai paesi in via di sviluppo “che giudicano improduttivi gli investimenti per combattere l’inquinamento e ritengono che possano essere procrastinati” propose perfino la ricetta antinquinamento dell’ENI e distribuì una sintesi del solito lavoro curato da ENI e ISVET in materia di costi e benefici dell’anti-inquinamento, dal titolo Economic costs and benefits of an antipollution project in Italy[58]. Ancora una volta, l’Italia si offriva come modello non troppo distante da imitare. La partecipazione italiana fu commentata in maniera impietosa dai corrispondenti dei quotidiani. Ad esempio Cederna, sul Corriere della Sera, riferendosi al discorso di Sullo affermò: “Mentiremmo se dicessimo che si tratta di un contributo importante al grave dibattito in corso fra centootto paesi: ci è parso sostanzialmente un documento scialbo nel quale, secondo le nostre abitudini, il vezzo di occuparsi di problemi universali, generali e generici serve ad eludere quelli concreti e urgenti”[59]. Anche il documento con cui l’Italia si presentò alla conferenza lasciava a desiderare. Il rapporto era stato preparato con ritardo dal CNR – fu discusso nei giorni 15-16 luglio 1971 oltre tre mesi dopo la scadenza fissata per la consegna. Era lungo ben 172 pagine, prolisso quindi rispetto alle richieste e anche rispetto ai documenti più snelli ed efficaci presentati da altri Paesi industrializzati[60]. Commentava Nebbia: l’Italia “ha presentato, e con grande ritardo, una relazione in cui i problemi ambientali erano trattati in modo inadeguato”[61]. Un rapporto che dava tuttavia, secondo altri, un quadro abbastanza veritiero anche se lacunoso sul degrado ambientale in Italia. Nebbia denunciava il carattere “frammentario, occasionale e contraddittorio” della legislazione in materia di inquinamento e la disastrosa convinzione che fauna, flora, acqua, aria, vegetazione, risorse naturali fossero res nullius anziché bene collettivo. Condannava infine l’indiscriminato sfruttamento idroelettrico dei fiumi e il prosciugamento delle zone umide[62].

Quanto al comportamento italiano nel corso della conferenza, l’Italia non si distinse certo per iniziativa o prese di posizione. Votava sempre con gli americani e in generale con gli altri paesi industrializzati, solo raramente in dissenso con la Santa Sede – ad esempio sull’articolo 26 della Dichiarazione sull’Ambiente Umano relativo alle armi nucleari[63]. Anche lo spazio dato alla conferenza dai mezzi di informazione fu altalenante. Durante le fasi preparatorie l’attenzione fu pressoché nulla. Lamentava con enfasi Giorgio Nebbia, che dal 9 novembre 1971 fino alla conclusione della conferenza curò sul quotidiano “Il Giorno” una rubrica pensata proprio per diffondere il messaggio di Stoccolma all’opinione pubblica: “Nonostante gli inviti delle Nazioni Unite, a differenza di quanto si è verificato in altri paesi, l’opinione pubblica italiana è stata ben poco informata e sensibilizzata sia sulla partecipazione italiana che sul significato della Conferenza stessa di Stoccolma”[64]. Altrove, nel maggio 1972: “Purtroppo l’evento ha avuto finora ben poca risonanza in Italia, un altro segno della notevole indifferenza e apatia del nostro Paese nei confronti dei grandi eventi internazionali e delle organizzazioni internazionali”[65].

Durante la conferenza, tuttavia, vi fu un’impennata nell’attenzione seppure con dei chiari distinguo. I quotidiani italiani coprirono con attenzione variabile lo svolgimento della Conferenza di Stoccolma. Molto attenti furono il “Corriere della Sera” con Alfredo Todisco e Antonio Cederna, “Il Giorno” con Giorgio Nebbia, la “Stampa” con Mario Fazio, “l’Unità” con Cino Sighiboldi, “l’Avvenire” con Virginio Bettini. Al contrario, il “Sole 24 Ore” esibì un assoluto disinteresse. Per rimarcare la distanza, alla vigilia della conferenza pubblicò una recensione dei Limits che riprendeva le critiche dell’“Economist” e di “Business Week”e non faceva alcun accenno a Stoccolma[66]. Nei giorni successivi, sempre ignorando la conferenza, si soffermò sui commenti del Commissario europeo Raymond Barre che ridimensionava le previsioni pessimistiche del Club di Roma[67]. Interessante è poi il caso de “l’Unità”. Quasi a rovesciare la critica all’ecologia come fenomeno borghese, “LUnità” coprì con grande costanza la Conferenza. I contributi dell’inviato Cino Sighiboldi ne davano una lettura preminentemente politica e antiamericana. Mettevano in luce le iniziative dei paesi in via di sviluppo, in particolare l’attività della Cina e dell’India, e lodarono il discorso di Indira Gandhi che respingeva “la linea americana di contenimento dello sviluppo per il Terzo mondo” e attribuiva la colpa dell’inquinamento non alla scienza e alla tecnologia ma alla produzione di beni futili, al “senso dei valori del mondo contemporaneo che ignorano i diritti altrui e non si preoccupano della lunga prospettiva”[68]. L’attenzione per il ruolo di India e Cina era peraltro comune a tutti gli inviati italiani.

Dopo Stoccolma: il dibattito sull’ecologia in Italia

La Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente Umano che era stata affrontata e vissuta con grande scetticismo finì con l’essere valutata come un grande successo[69]. In Italia, follow-up di Stoccolma fu senz’altro rilevante. Non tanto in termini di realizzazioni, poiché – lo notavano i più autorevoli commentatori – le raccomandazioni di Stoccolma non avevano influenzato la politica nel campo delle risorse naturali[70]. Fu importante tuttavia in termini di visibilità dei temi ecologici. Soprattutto, risvegliò sulla stampa un importante dibattito sui limiti dello sviluppo. Chiusi i battenti della conferenza, dai quotidiani italiani scomparve quasi la questione centrale che aveva campeggiato nelle cronache da Stoccolma, cioè lo scontro Nord-Sud e lo sforzo per trovare un compromesso fra esigenze di crescita del Terzo Mondo e preoccupazioni per inquinamento e scarsità di risorse tipiche del ricco Nord. Il discorso si trasferì tutto all’interno delle dinamiche delle relazioni industriali nei paesi avanzati e acquistò un impianto fortemente teorico e ideologico. Commentava così Cino Sighiboldi nell’agosto 1972: “L’interesse su qualcuno dei punti più controversi, e più suggestivi, del dibattito ecologico, si è venuto ancora allargando nei quasi due mesi che sono trascorsi dalla Conferenza di Stoccolma. I giornali continuano ad occuparsene, le polemiche si accendono… Al centro della controversia si colloca senza dubbio il lavoro limiti dello sviluppo[71].

Il PCI aveva condannato senza appello i Limits che non avevano ricevuto nella stampa di sinistra una recensione specifica al momento dell’uscita. Il primo a farvi riferimento fu Giovanni Berlinguer, su “Rinascita”, nel resoconto dedicato alla conferenza di Stoccolma intitolato Ecologia e politica[72]. Questi irrise il tentativo di organizzare a Stoccolma “uno show dei malthusiani”, ironizzò sul “nuovo business dell’ecologia” e sparò a zero contro “un certo Club di Roma” e “uno degli esponenti di questo club, il prof. Buzzati Traverso”. Il tono particolarmente sprezzante rivolto a Peccei, alle sue inascoltate previsioni apocalittiche e alla persona di Buzzati-Traverso, innescò uno spiacevole battibecco sul Club di Roma che fu etichettato come un camuffamento propagandistico degli inquinatori[73]. La polemica aveva origini e mire domestiche ed era piuttosto lontana dalle posizioni sovietiche sul tema. L’Unione Sovietica, infatti, vedeva con interesse l’utilizzo dell’analisi di sistema per prevedere l’andamento di fenomeni globali. Già nel novembre 1972 l’Accademia delle Scienze aveva organizzato una prima conferenza per discutere i risultati del rapporto. Dzhermen Gvishiani, il filosofo e sociologo che si occupava di analisi di sistemi complessi come membro corrispondente dell’Accademia, lavorava con Meadows all’IIASA Internationales Institut für angewandte Systemanalyse, di Vienna, l’istituto fondato grazie agli sforzi di Lyndon Johnson e Alexey Kosygin col fine di utilizzare la scienza per costruire collegamenti fra Est e Ovest durante la guerra fredda[74]. Gvishiani, genero di Kosygin, dal 1965 era anche vicepresidente del Comitato statale per la scienza e la tecnologia del Consiglio dei ministri dell’URSS, e guidava dal 1969 il laboratorio di ricerca sociale. Convinto della possibilità di applicare il metodo scientifico per risolvere problemi di organizzazione sociale di carattere globale, era in stretto contatto con Peccei e con i lavori del Club di Roma, anche se rigettava la conclusione che sembrava emergere dal rapporto, cioè l’esistenza di un trade-off tra progresso tecnologico e progresso dell’uomo[75].

A fronte di questo interesse sovietico divenne complesso spiegare perché l’ecologia potesse imbarazzare i marxisti[76]. L’articolo di Cino Sighiboldi che criticava le teorie della crescita zero uscì durante la conferenza di Stoccolma. Il sottotitolo era esplicito: “Spunta sotto vesti “ecologiche” una vecchia tesi reazionaria”. L’aumento della popolazione, sosteneva, era un puro “pretesto per negare ai popoli del Terzo mondo il diritto a uno sviluppo economico autonomo”, nel tentativo di propugnare l’idea che fra sviluppo e protezione dell’ambiente naturale esistesse una contraddizione rigida. Polemico verso Todisco e Buzzati-Traverso, per smontare il modello dei Limits il giornalista adottò le critiche al modello MIT avanzate dal laburista britannico Jeremy Bray e prese nettamente posizione a favore dell’approccio proposto da Barry Commoner[77]. Quest’ultimo peraltro fu a lungo considerato dagli ambientalisti italiani, non certo solo dal PCI, un maestro e un punto di riferimento[78]. Antonio Cederna, ad esempio, definì la relazione di Commoner dell’8 giugno 1972, in cui criticava il sistema politico-economico e i consumi sproporzionati della società americana, come “uno dei documenti più importanti di questo incontro di Stoccolma”[79].

Più articolata fu la posizione della new left italiana, dove i Limits furono discussi dopo la conferenza di Stoccolma. “Il manifesto” intervenne più volte sulle questioni ambientali, anche riportando contributi di autori stranieri. Fra gli italiani, Marcello Cini scrisse un articolo in cui condannava la capacità distruttiva del capitale contro l’uomo e la natura[80]. Il critico più attento riconducibile alla new left è forse però C. B. Zorzoli che commentò i Limits da un punto di vista ideologicamente schierato ma con grande cura, sia in “Fabbrica e Stato” sia in “Sapere”. Anche qui, la problematica dei limiti dello sviluppo era inserita nel più ampio discorso sulla crisi strutturale del sistema capitalistico[81]. Pur condividendo l’idea di imporre vincoli alla produzione industriale o di introdurre il controllo delle nascite, Zorzoli rimaneva critico perché il Club di Roma era espressione di un “gruppo molto esclusivo di tecnocrati e managers di risonanza internazionale”. Questi erano a suo parere impegnati in una “operazione ideologica” per giustificare la stagnazione o, peggio ancora, per “fornire supporto teorico allo sviluppo dualistico dell’economia”[82]. Così, per “spuntare l’arma nelle mani della borghesia” Zorzoli si impegnò a dimostrare che la crescita zero era assolutamente compatibile con un modello di società comunista[83].

La crisi energetica avrebbe presto costretto società, intellettuali e politica italiana a fare di necessità virtù e a smorzare le critiche, trasformando le idee sulla crescita zero e sullo stato stazionario in giustificazioni scientifico-morali per l’austerity.

Conclusioni

Negli anni Settanta, anche in virtù dei condizionamenti della politica internazionale e della nuova percezione dei problemi ambientali come questioni globali sbocciata con la conferenza di Stoccolma l’ambientalismo italiano si trasformò da movimento di nicchia su posizioni conservazioniste, – difesa della natura e delle specie in via d’estinzione, salvaguardia dei beni culturali e architettonici, stretto legame con il turismo -, in un movimento capace di fare presa sull’opinione pubblica e di penetrare la dimensione politica. L’ecologia era divenuta tema relativamente in voga e aveva trovato spazio di discussione sui maggiori quotidiani nazionali. Come  dimostrano  i  dibattiti  sulla  stampa,  l’attenzione  aveva  tuttavia  una  dimensione prettamente intellettuale e speculativa con scarse conseguenze sull’agire politico. I grandi temi della compatibilità fra ambiente e sviluppo, disponibilità delle risorse, demografia e salvaguardia del pianeta, crescita e equità distributiva entrarono nel dibattito pubblico italiano. Rimasero però appannaggio della discussione teorica e non si tradussero in un programma. La politica non mancò di schierarsi a favore. Era però solo ecologia a parole, mentre restò indietro perfino quando si trattava di impegnarsi nelle discussioni a livello internazionale, tanto che l’Italia si caratterizzò per una “debole e poco qualificata” presenza nelle assise internazionali sulle questioni ambientali, prima, durante e dopo Stoccolma[84].

In parte tale debolezza si può attribuire a un particolare disinteresse, dell’opinione pubblica ma soprattutto della politica, per l’attività delle organizzazioni internazionali e per i temi che affollavano l’agenda della politica multilaterale. Tale noncuranza fece sì che la politica fosse incapace di utilizzare il potenziale di conoscenza tecnica sulle questioni ambientali che pure sarebbe stato disponibile fra gli scienziati e gli esperti italiani. Così durante la Conferenza di Stoccolma la delegazione italiana tornò a proporre la retorica datata della vicinanza con i paesi emergenti dovuta all’esperienza del sottosviluppo del Mezzogiorno, incurante dei fallimenti casalinghi quanto a crescita socioeconomica delle aree depresse e anche del dissesto che caratterizzava la realtà italiana. Integrò affrettatamente questo aspetto con ricette preconfezionate per la promozione delle tecnologie italiane, proponendo come improbabile panacea le tecniche antinquinamento dell’ENI. Gli esperti italiani, capaci di entrare in importanti network e di rivestire posizioni di assoluta centralità negli organismi internazionali, restarono ininfluenti nell’elaborazione della linea ufficiale dell’Italia. Nel caso della politica ambientale, così come nel caso della cooperazione allo sviluppo, è evidente una grande distanza fra pensiero “tecnico” che circola nella società civile e disinteresse nella politica ufficiale, una discrasia fra impegno a parole e disimpegno nei fatti.

Questo grande limite era riconosciuto anche dai contemporanei. Nel giugno 1973 si tenne a Urbino la prima conferenza nazionale sull’ambiente. In quell’occasione fu presentato il primo rapporto sulla condizione ambientale italiana. Confezionato dalla TECNECO, il rapporto mostrava un quadro desolante[85]. Una realtà di incuria e abuso edilizio che già la stampa, anche in occasione della conferenza di Stoccolma, non aveva esitato a denunciare. Allora come ora criticava il fatto che l’azione di protezione ambientale fosse affidata alle grandi imprese corresponsabili dell’inquinamento piuttosto che a un’agenzia ambientale dello Stato[86]. Pier Luigi Romita, ministro per la Ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica, a Urbino affermò che l’ecologia era in cima ai pensieri della politica italiana. “Ma è stata, avrebbe dovuto aggiungere, in fondo ai nostri atti concreti”[87].

(Orig. in “Rivista Contemporanea”, n. 3, luglio-settembre 2016,  pp. 395-418. Sara Lorenzini è Professore ordinario presso l’Università di Trento.)


[1] A. Todisco, La pace fra i popoli unica arma per combattere gli inquinamenti, in “Corriere della Sera”, 6 giugno 1972.

[2] Stephen Macekura, The limits of the global community: The Nixon administration and global environmental politics, in “Cold War History”, a.11, n. 4, 2011, pp. 489-518; anche Mark Mazower, Governing the World, Alien Lane-Penguin, 2012 , p.334

[3] Sulla centralità della Conferenza di Stoccolma nella nascita dell’ambientalismo globale si veda John McCormick, The Global Environmental Movement, John Wiley, London 1995, pp. 47-105. Inoltre sul ruolo delle questioni ambientali nel più ampio quadro della crisi e trasformazione degli anni Settanta si veda J.R. McNeill, The Environment, Environmentalism, and International Society in the Long 1970s, in Niall Ferguson et al., The Shock of the Global. The 1970s in Perspective, Harvard University Press, Cambridge Mass. 2010. Per un quadro sulle connessioni fra questioni ambientali e guerra fredda John R. McNeill, Corinna R. Unger [eds.], Environmental Histohes of the Cold War, Washington, D.C.,  German Historical Institute, Cambridge University Press, Cambridge 2013.

[4] In questo senso Simone Neri Serneri, Incorporare la natura. Storie ambientali del Novecento, Carocci, Roma 2015, che tuttavia discute i limiti del coinvolgimento dell’opinione pubblica sulle questioni ecologiche. Si vedano anche in particolare gli studi di Luigi Piccioni: Luigi Piccioni e Giorgio Nebbia, I limiti dello sviluppo in Italia. Cronache di un dibattito 1971-1974, in “Iquaderni di Altronovecento”,n. l, 2011 e Luigi Piccioni, Fourty Years Later. The Reception of the Limits to Growth in Italy, 1971-1974, in “I quaderni di Altronovecento”,n. 2, 2012. Sulla centralità della conferenza di Stoccolma nella nascita dell’ambientalismo in altri casi nazionali si vedano in particolare: Kai F. Hünemörder, Vom Expertennetzwerk zur Umweltpolitik. Frühe Umweltkonferenzen und die Ausweitung der öffentlichen Aufmerksamkeit für Umweltfragen in Europa [1959-1972], in “AfS”, v. 43, 2003, pp. 275-296 e Martin Janicke e Helmut Weidner (a cura di), National Environmental Policies: A Comparative Study of Capacity-Building, Spronger Verlag, 1997.

[5] Per una sintesi sull’ambientalismo italiano si vedano in particolare anche Edgar H. Meyer, I pionieri dell’ambiente. L’avventura del movimento ecologista italiano. Cento anni di storia, Carabà edizioni, Milano 1995 e Saverio Luzzi, // virus del benessere: ambiente, salute, sviluppo nell’Italia repubblicana, Laterza, Roma-Bari 2009. Inoltre si vedano Marco Armiero, Le montagne della patria, Torino, Einaudi 2013, e Marco Armiero, Ambiente e risorse nel Mezzogiorno contemporaneo, Meridiana Libri, Corigliano Calabro (CS) 2000.  

[6] Dennis Meadows, Donella Meadows, Jorgen Randers, and William W. Behrens III, The Limits to Growth, Universe Books, 1972, trad. it. I limiti dello sviluppo, 1972.

[7] Louis B. Sohn, The Stockholm Declaration on the Human Environment, in “The Harvard International Law Journal”, v. 14, n. 3, Summer 1973, pp. 423-515.

[8] Un’efficace sintesi delle tappe di avvicinamento alla Conferenza è in Giorgio Nebbia, Verso Stoccolma, in “Natura e Montagna”, s. III, a. XII, n. l, marzo 1972.

[9] Così G. Nebbia, Tre livelli di azione per proposte concrete, in“Il Giorno”, 16 novembre 1971.

[10] Environment  Stockholm, pubblicazione del Centre de linformation economique et sociale a l’Office Europeen des Nations Unis Génève. Une seule terre. Conference des Nations Unies sur lenvironnement, Stockholm 5-6 juin 1972, ACS, Italia Nostra, Busta 279.

[11] Giorgio Nebbia, Verso Stoccolma, cit, p.91.

[12] Historique de la conference, in Environment Stockholm, cit, p.16.

[13] UN Doc. A/CONF.48/10 Annex I at 20 , 33, 1971.

[14] Si veda in particolare in numero monografico della rivista “International Organization”, v. 26, n. 2, International Institutions and the Environmental Crisis, Spring, 1972, curato da David A. Key e Eugene B. Skolnikoff.

[15] Only One Earth: The Care and Maintenance of a Small Planet. La traduzione italiana uscì pressoché in
contemporanea: Una sola terra. Cura e mantenimento di un piccolo pianeta, Mondadori, Milano 1972.

[16] Cfr. Barbara Ward, intervista a Tinker, cit. in McCormick, cit. p.117 e Maurice F. Strong, Introduzione a Only One Earth, p.VII e XVI. I consulenti italiani erano: Franco A. Casadio, presidente del comitato esecutivo della Federazione mondiale delle associazioni delle Nazioni Unite, Francesco di Castri, direttore dell’Istituto di ecologia, Università australe del Cile, vicepresidente SCOPE, Scientific Committe on Problems of the Environment, Giuseppe Montalenti, direttore dell’Istituto di genetica, Università di Roma, presidente della Commissione per la protezione della natura, Consiglio nazionale delle ricerche, Aurelio Peccei, vicepresidente della Olivetti e Presidente del Club di Roma, Vasco Ronchi, fondatore e direttore dell’Istituto nazionale di ottica, Firenze, presidente dell’Unione internazionale di storia e filosofia della scienza funzionario esecutivo dell’ICSU, International Council of Scientific Unions.

[17] Per uno schizzo biografico si veda Jane Gartlan, Barbara Ward : her life and letters, ,  Continuum, London – New York 2010.

[18] Gunter A. Pauli, Crusader for the future: a portrait of Aurelio Peccei, founder of the Club of Rome, Pergamon Press, Oxford – New York, 1987; Eleonora Barbieri Masini, The Legacy of Aurelio Peccei and the Continuing Relevance of His Anticipatory Vision, European Support Centre of the Club of Rome, Vienna 2006, disponibile sul sito http://www.clubofrome.at/archive/mas-peccei.html. Adriana Castagnoli (a cura di], Fra Etica, Economia e Ambiente: Aurelio Peccei, un protagonista del 900, Università degli studi di Torino, Edizioni SEB 27, Torino 2009.

[19] Carl Kaysen, The Computer that Printed Out W*O*L*F*, in “Foreign Affairs”, July 1972, https://www.foreÌRnaffairs.com/articles/1972-07-01/computer-printed-out-wolf ; Patrick McCray, The Visioneers. Howagroup of elite scientists pursued space colonies, nanotechnologies, and a limitless future, Princeton University Press 2013, p.34-37; Christian Parenti, The Limits to Growth: A Book That Launched a Movement, in “The Nation”, 5 December 2012, http://www.thenation.com/article/171610/limits-Rrowth-book-launched-movement

[20] Si veda Amintore Fanfani, Strategia della sopravvivenza: proposte 1971-1975, Cinque Lune, Roma 1977.

[21] Fanfani, Strategia della sopravvivenza, cit. Membri erano i senatori Simone Gatto, Chiarello, Cifarelli, Crollalanza, Del Pace, Dindo, Menichelli, Pecoraro, Rossi Doria, Togni.

[22] Gli atti furono pubblicati nel volume Problemi dell’ecologia, Senato della Repubblica, Tipografia del Senato, Roma 1971, 3 volumi; le relazioni scientifiche sono contenute nel vol. l, la discussione nel vol.2.

[23] V. Caglioti, L’uomo e il suo ambiente nella società tecnologica, pp.7-34, in parte cit. a p.32, in Problemi dell’ecologia, cit.

[24] M. Pavan, I problemi faunistici nell’ambito dell’assestamento ecologico territoriale italiano, p.139, in Problemi dell’ecologia, cit.

[25] Gli studi sono rispettivamente: Gianni Scaiola, L’intervento pubblico contro l’inquinamento. Valutazione dei costi e dei benefici economici connessi a un progetto di eliminazione delle principali forme di inquinamento atmosferico e idrico in Italia, Franco Angeli, Milano 1971; Gianni Scaiola, Paolo Gardin e Martino Lo Cascio, Lineamenti di una politica di intervento pubblico contro l’inquinamento, Franco Angeli, Milano 1975.

[26] Simone Neri Serneri, L’impatto ambientale dell’industria 1950-2000. Risorse e politiche, in Salvatore Adorno, Simone Neri Serneri, (a cura di), Industria ambiente e territorio. Per una storia ambientale delle aree industriali in Italia, Il Mulino, Bologna 2009, pp.33-86, qui p. 46.

[27] In Problemi dell’ecologia, cit, le citazioni sono rispettivamente a p.195 e 200

[28] Aldo Moro, Speech at the XXIV session of the UNGA. 1969, in Luciano Tosi, Sulla scena del mondo. L’Italia all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite 1955-2009, Editoriale Scientifica, Napoli 2011, p.168.

[29] In Stone, cit, p. 429.

[30] Si veda in particolare Lorella Tosone, Trade and aid. L’Italia alla Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio
e lo sviluppo.1964-1972, in Luciano Tosi, In Dialogo. La diplomazia multilaterale italiana negli anni della
guerra fredda,
Cedam, Padova 2013, pp. 227-260.

[31] Sull’organizzazione della conferenza e il tentativo di coinvolgimento formale della Fabian Society si veda: LSE Archives, Fabian Society, G 63/1. Gli atti della conferenza sono pubblicati in due volumi dell’UDDA, A.M. Angelini et al, Processo alla tecnologia, Angeli, Milano 1972 e V.E. Bolis et al, La gestione del futuro, Angeli, Milano 1973

[32] Fondamentale qui il lavoro Luigi Piccioni e Giorgio Nebbia, I limiti dello sviluppo in Italia, cit.

[33] L’Unione dei Giuristi Cattolici Italiani organizzò su questo tema il XXII Convegno nazionale di studio, Roma, 6-7 dicembre 1971.

[34] Buzzati-Traverso, Le ombre del Duemila, in “Corriere della Sera”, 8 aprile 1972.

[35] Si veda G. Cannata, Saggi di economia dell’ambiente, Giuffré, Milano 1974 e Società Italiana degli Economisti, Economia e ecologia. Atti della Riunione della Società Italiana degli Economisti, Roma, settembre 1973, Giuffré, Milano 1975

[36] Le posizioni di Mansholt sono disponibili nella raccolta di saggi Sicco Mansholt, Die Krise. Europa und die Grenzen des Wachstums, Rowohlt Taschenbuch, 1974. Sulla posizione delle Comunità europee sulle questioni ambientali si vedano Laura Scichilone, LEuropa e la sfida ecologica. Storia della politica ambientale europea. 1969-1998, Il mulino, Bologna 2008 e Jan-Henrik Meyer, Appropriating the Environment. How the European Institutions received the Novel Idea of the Environment and made it their own, in “KFG-Working Paper” n. 31, Research College, The Transformative Power of Europe, Free University Berlin 2011.                                           

http://www.polsoz.fu-berlin.de/en/v/transformeurope/publications/workinR paper/WP 31 Meyer neu.pdf

[37] La recensione è di Valerio Selan, I limiti dello sviluppo, in “Futuribili”, aprile 1972, pp. 26-30; Pavel Apostol, Punto di vista marxista sui limiti dello sviluppo, in “Futuribili”, novembre 1972, pp. 50-58, Rassegne I limiti dello sviluppo, in “Futuribili”, ottobre 1972, p.72.

[38] L’espressione è quella usata da Saverio Luzzi, op. cit.,p.100.

[39] Berlinguer Giovanni, Relazione introduttiva, in Istituto Gramsci, Uomo natura società: ecologia e rapporti
sociali. Atti del convegno,
Frattocchie, 5-7 novembre 1971, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 16-34.

[40] Istituto Gramsci, Uomo natura società: ecologia e rapporti sociali. Atti del convegno, Frattocchie, 5-7 novembre 1971, Editori Riuniti, Roma 1972.

[41] Ilrapporto tra l’uomo e la natura in Italia e in Unione Sovietica. Atti del Convegno italo-sovietico, Edizioni Italia-URSS, Roma 1972. La mozione finale è alle pp. 609-610.

[42] L’espressione è quella usata da Barry Commoner, v. sotto. I documenti ufficiali della conferenza provengono da ACS, fondo Italia Nostra, busta 693. Il materiale è probabilmente annotato da Bonaldo Stringher.

[43] Barry Commoner, Motherhood in Stockholm, in “Harpers Magazine”, 1972, pp.49-54.

[44] Blueprint for survival, in “The Ecologist”, v. 2, n. 1, January 1972, ripubblicato da Penguin books nel settembre
1972, ora disponibile su http://www.theecoloRist.info/kev27.html. La citazione è in Commoner, Motherhood in
Stockholm,
cit, p. 50.

[45] Environment Stockholm, cit.

[46] Man and Environment, Plenary Session of United Nations Conference on Human Environment, Stockholm 14th June 1972, da http://lasulawsenvironmental.bloRspot.it/2012/07/indira-Randhis-speech-at-stockholm.html, consultato il 25.02.2014.

[47] Francesco di Castri, La diffusione nel Mondo del pensiero di Valerio Giacomini, in “Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali”, n. 36, giugno 2002.

[48] L’anno dopo, al termine dell’incarico con l’Unesco, Buzzati-Traverso divenne consulente scientifico, senior scientific advisor dellUnep, United Nations Environmental Programme, lagenzia diretta da Maurice Strong costituita per dare applicazione proprio ai programmi ambientali discussi a Stoccolma. Si veda Francesco Cassata, L’Italia intelligente: Adriano Buzzati-Traverso e il Laboratorio internazionale di genetica e biofisica. 1962-69,  Donzelli, Roma 2013, pp. 394-396.

[49] Giorgio Nebbia, Proposta dell’Italia, in “Il Giorno”, 7 dicembre.

[50] Note a l’attention de Messieurs Toulemon et Riflet, Bruxelles 21 mars 1972, con allegato Compte Rendu, New York 6-10 mars, in Archivio storico dell’Unione Europea, HAEU, BAC 28/1980 656, Commission des Communautes Europeennes, Groupe ad hoc “environment”, Conference de Stockholm, Bruxelles 22 mars 1972; Subject area V, Environment and Development, in HAEU, BAC 28/1980 655.

[51] G. Berlinguer, Ecologia e politica, in “Rinascita” n.25, 23 giugno 1972, p.20.

[52] Per una sintesi: Sara Lorenzini, Sviluppo e strategie di guerra fredda: il contagio difficile,  in “Storica”,  n.

53, 2012,  pp. 7-37, soprattutto pp.23-28. Si veda inoltre C. Villani, La trappola degli aiuti. Sottosviluppo,
Mezzogiorno e guerra fredda negli anni 50
, Progedit, Bari 2008.

[53] Si veda in particolare la lista di esperti contenuta in Partecipation de Pays en Voie de Developpement, in HAEU,
BAC 28/1980 655, p.159.

[54] Per le caratteristiche della cooperazione allo sviluppo italiana in questo periodo si veda Elena Calandri, Prima
della globalizzazione. L’Italia, la cooperazione allo sviluppo e la guerra fredda 1955-1995,
Cedam, Padova 2013, pp.134-163.

[55] Giorgio Nebbia, Proposta… cit.

[56] G. Nebbia, Un confronto di iniziative, in “Il Giorno”, 9 giugno 1972.

[57] Pasquale Saraceno, The Process of Industrialization of an Overpopulated Agricultural Area – The Italian Experience, in Jagdish Bhagwati and Richard S. Eckaus, Development and planning : essays in honour of Paul Rosenstein Rodan, Alien & Unwin,  London 1972, pp. 185-198.

[58] Sugli interventi di Sullo e Pedini: Sullo sollecita l’Onu  a una energica difesa dell’ambiente naturale. In Italia la convivenza di una regione industrializzata e di una regione in via di sviluppo ci ha insegnato che l’egoismo dei paesi ricchi è una politica pericolosa, in “Il Popolo”, 8 giugno 1972.

[59] A. Cederna, Sotto accusa l’Italia per gli “scandali” ecologici, in “Corriere della Sera”, 10 giugno 1972.

[60] Nella lista della bibliografia della conferenza è indicata come Rapport du Gouvernment Italien, 1.1.41, 197 pagine.

[61] G. Nebbia, Dopo Stoccolma, in “Sapere”, v. LXXIII. n. 755, dicembre 1972, p.15.

[62] Così Cederna, Sotto accusa, cit.

[63] Così Giorgio Nebbia, Intervista con l’Autore, 13 febbraio 2014.

[64] Giorgio Nebbia, Verso Stoccolma, cit.

[65] Giorgio Nebbia, Una sola Terra, in “Il Giorno”, 23 maggio 1972.

[66] Pietro Terna, Abbiamo già vissuto l’età dell’oro, 2 giugno 1972, Riguarda il rapporto MIT-Club di Roma, in
occasione della sua pubblicazione in appendice all’annuario 72 dell’Enciclopedia della Scienza e della Tecnica di Mondadori

[67] Ugo Piccione, L’apocalisse si può rimandare senza penalizzare l’economia, in “Il Sole-240re”, 14 giugno 1972.

[68] Cino Sighiboldi,  Ferma polemica della Gandhi con l’occidente capitalistico, in “l’Unità”, 15 giugno 1972.

[69] Così Richard N. Gardner, The Stockholm Conference: Assessment and Follow-up, in “SIOI”, July 5, 1972, in ACS, Italia Nostra, busta 693. Gardner, Professor of Law and International Organisation a Columbia University era Special consultant on legli and organisational problems to Secretary General Maurice Strong.

[70] Nebbia, Dopo Stoccolma, cit.

[71] Cino Sighiboldi, Iteorici della “crescita zero, in “l’Unità”, 24 giugno 1972, p.3

[72] G. Berlinguer, Ecologia e politica, cit.

[73] La risposta di Buzzati-Traverso su “l’Espresso” del 23 luglio, la controreplica di Berlinguer su “Rinascita” il 28 luglio, il contributo di Emilio Garroni sempre su “Rinascita” il 15 settembre.

[74] Wolfgang Geierhos, Die Sowjetunion und der Club of Rome, in “Deutsche Studien Vierterjahreshefte”,h. 67, 1979, pp. 213-230.

[75] Gvishiani, Dzhermen Mikhailovich, voce su The Great Soviet Encyclopedia, 3rd Edition, 1970-1979.

[76] L’espressione era stata usata da Alfredo Todisco e fu ripresa e criticata da Sighiboldi, Il pretesto dell’ecologia”, in “l’Unità”, 10 agosto 1972.

[77] Cino Sighiboldi, Iteorici della “crescita zero, cit.

[78] Barry Commoner è definito da un’attenta studiosa e divulgatrice sui temi ambientali, Laura Conti, “maestro e amico di Enzo Tiezzi e di tutti noi”, introduzione a Enzo Tiezzi, Tempi storici, tempi biologici, Garzanti, Milano 1984.

[79] Antonio Cederna, La guerra nel Vietnam è anche un annientamento della natura, in “Corriere della sera”, 9 giugno 1972.

[80] M. Cini, Verità e mistificazioni della crescita zero, in “Il manifesto”, 16 settembre 1972.

[81] Giovan Battista Zorzoli, Limiti dello sviluppo o limiti del capitalismo?, in “Fabbrica e stato”, luglio-ottobre 1972, pp. 39-43; riporta un’intervista a Forrester, pubblicata su “Le Monde”.

[82] G. B. Zorzoli,  Verso la Catastrofe?, in “Sapere, v. LXXIV, n. 759, aprile 1973, p.8-15: vede la conferma di questa tesi nelle parole di Garret Hardin, su “Science”: “è impossibile che la dignità e la civiltà possano sopravvivere dovunque: meglio allora che in alcuni luoghi che in nessuno”,  cit. a p.15.

[83] G. B. Zorzoli, Limiti dello sviluppo o limiti del capitalismo?, cit, p.41.

[84] L. Piccioni e G. Nebbia, I limiti dello sviluppo…cit., p. 44.

[85] Tecneco(a cura di), Prima relazione sulla situazione ambientale del Paese, Colombo, Roma 1974.

[86] Si veda il resoconto di Virginio Bettini, in “l’Avvenire”, 30 giugno 1973 e i contributi di Mario Fazio, Ecologia all’italiana. Privilegi e speculazioni, in “La Stampa”,  6 giugno 1973 e Presentata la mappa degli inquinamenti, in “La Stampa”, 30 giugno 1973.

[87] Intervento di Giovanni Berlinguer, Urbino, 30 giugno 1973, in ACS, Italia Nostra, busta 200.