Editoriale

In uno dei suoi ultimi interventi Andrea Zanzotto si interroga, anche in termini autocritici, sui rapporti uomo natura: “C’è stato un tempo in cui ho creduto che la cultura nascesse e si sviluppasse come manifestazione spontanea di un dialogo in atto tra l’uomo e la natura, quasi un rapporto di mutua e amorosa comprensione tra una madre e il proprio feto, mai destinato, proprio per questo, a un irreversibile distacco dall’alveo di provenienza. A conti fatti posso dire di essermi parzialmente illuso. Non si è trattato di due realtà in accrescimento reciproco, ma di un rapporto unidirezionale di prevaricazione; tantomeno si può parlare di un vero e proprio ‘dialogo’, relativamente al tragico scempio della  natura commesso dall’uomo in quest’ultimo quarantennio, ma di una monologante e allucinata sequela di insulti.”

L’assalto al paesaggio è l’espressione di “una più generale tendenza implosiva della  psiche umana, una sua tendenza autodistruttiva, nemmeno più percepita come tale, ma avvertita immediatamente come benessere”.  In nome del benessere si è operata una frattura senza precedenti nel processo di civilizzazione che ha dato forma ai luoghi e ai paesaggi. “Si è verificata –continua Zanzotto- una damnatio di questa memoria territoriale millenaria, o, meglio, una banalizzazione della storia in toto, che ha comportato un violento rovesciamento dei rapporti temporali; e l’antichissima realtà naturale, da sempre fondante la stessa idea di ‘essere umano’ si dà oggi come miraggio ecologico, proiettato verso un futuro estremamente avanzato: non verso ‘ciò che sarà’, ma verso ‘ciò che sarà stato’. Gli stessi sfondi paesaggistici dei nostri Giorgione e Tiziano, non trovando più una corrispondenza nella realtà geografica che siamo costretti ad abitare, hanno assunto un’evidenza fantascientifica.”  (da Sarà (stata) natura ? (2006),  in A. Zanzotto, Luoghi e paesaggi, Bompiani, Milano 2013).

La riflessione di Zanzotto è importante da più punti di vista; qui ci interessa perché indica chiaramente una periodizzazione,  che, partendo dal caso veneto, ha valore  per tutto il territorio italiano, nonostante le grandi e, per fortuna, perduranti differenze che lo caratterizzano.  La grande trasformazione, la frattura di civiltà indicata da Zanzotto, sono avvenute in tempi brevi e concentrati, traducendosi in una accelerazione dei processi di utilizzo delle risorse naturali, in primo luogo la terra e l’acqua, per poi invadere l’aria. La governabilità di questi processi, pienamente in atto nonostante la crisi economica, anzi invocati per porre fine alla crisi, risulta estremamente difficile per la connessione evidenziata dal poeta tra distruzione e benessere.

Negli ultimi quarant’anni dice Zanzotto, ma si può retrodatare di un paio di decenni avendo presenti i motori dello sviluppo, il paesaggio storico, costruito attraverso i secoli dal lavoro umano, è stato investito dall’espansione urbana, dalle infrastrutture della mobilità e dei trasporti, posto sotto assedio e in misura rilevante demolito per effetto della crescita economica, che da noi diventa di massa, superando i confini delle vecchie aree industriali, nell’epoca del “miracolo economico”; il benessere riceve allora un ben preciso imprinting che nei suoi tratti fondamentali non verrà più superato. Di qui discendono problemi culturali e politici irrisolti, che si traducono in una sorta di coazione a ripetere, particolarmente evidente nelle classi dirigenti ma ampiamente diffusa in tutti gli strati sociali. Ai fini di una visione storica prospettica è indispensabile mettere a fuoco le peculiarità italiane, ma non siamo di fronte ad un fenomeno ascrivibile al carattere nazionale, che incide solo sulla superficie, sulla fenomenologia esteriore, anche se questo occupa interamente la scena, cosa inevitabile in una “società dello spettacolo”.

Attraverso contributi di carattere generale o analitico, questa rivista si pone l’obiettivo di fornire qualche elemento di conoscenza e riflessione attorno al nodo del rapporto uomo-natura, calato nella contemporaneità e nel tempo presente.  La questione è precisamente quella della Tecnica, anche se preferiamo scriverlo con la minuscola come si conviene a dei semplici artigiani. Vediamola attraverso le parola di un altro artista, Michelangelo Pistoletto che nel 2003 ha lanciato il suo manifesto del “Terzo Paradiso”, a cui hanno fatto seguito numerose iniziative sino al Rebirth-day (giornata mondiale della rinascita) del 21 dicembre 2012.

Secondo Pistoletto  “il primo è il paradiso in cui gli esseri umani erano totalmente integrati nella natura. Il secondo è il paradiso artificiale, sviluppato dall’intelligenza umana attraverso un processo che ha raggiunto oggi proporzioni globalizzanti. Questo paradiso è fatto di bisogni artificiali, di prodotti artificiali, di comodità artificiali e di ogni altra forma di artificio. Si è formato un vero e proprio mondo artificiale che, con progressione esponenziale, ingenera, parallelamente agli effetti benefici, processi irreversibili di degrado a dimensioni planetarie. Il progetto del Terzo Paradiso consiste nel condurre l’artificio, cioè la scienza, la tecnologia, l’arte, la cultura e la politica a restituire vita sulla Terra ( ). Terzo Paradiso significa il passaggio ad un livello di civiltà planetaria, indispensabile per assicurare al genere umano la propria sopravvivenza” (cfr. www.pistoletto.it/it/ crono 26.html).

Nel 1991 uno storico e intellettuale americano, tanto importante quanto controverso, Christopher Lasch, ha pubblicato un libro intitolato The True and Only Heaven. Progress and its Critics, prontamente tradotto da Feltrinelli con il titolo Il paradiso in terra. Il progresso e la sua critica (1992). Un libro ben poco discusso in Italia, per motivi su cui qui è inutile soffermarsi, e che però affronta una questione decisiva, vale a dire la fede nel progresso quale motore principale della storia nell’epoca moderna.  L’analisi di Lasch, calata nello specifico nordamericano, assunto quale luogo emblematico  e egemonico (si pensi al Gramsci di “Americanismo e fordismo”),  è sorretta dalla tesi  secondo cui il progresso, per la società americana e il mondo intero, ha rappresentato l’unica prospettiva di realizzazione di tutte le speranze di prosperità, felicità e giustizia, sino, appunto, alla realizzazione del paradiso in terra; e però, secondo Lasch, il progresso non ha mantenuto le sue promesse,  ed è quindi da considerarsi come l’ultima falsa ideologia.

L’approccio di Lasch, discutibile per la cecità che dimostra nei confronti delle derive reazionarie dei critici del progresso da lui valorizzati, pone nondimeno la questione nei suoi termini radicali e reali, a differenza di coloro che si limitano a criticare la crescita ma non lo sviluppo, ovvero la crescita e lo sviluppo ma non il progresso. Per altro a Lasch, analista acuto della società americana del secondo Novecento, sembra sfuggire la dimensione periodizzante della crisi ecologica per effetto dell’artificializzazione del mondo. Ma l’esito del progresso si colloca proprio a questa altezza, segnando un salto di paradigma, secondo noi insostenibile per l’ambiente e, ancor prima, per la psiche individuale e collettiva, il singolo e la società. Secondo altri saremmo invece in presenza della forma concreta, storicamente possibile, del trascendimento della condizione umana. Un percorso, quest’ultimo, che vede la tecno scienza protagonista della transizione in atto verso il postumano, quale prodotto della artificializzazione e controllo totale della natura.

In attesa della postumanità, liberata dal dolore e forse dalla morte, le donne e gli uomini nella loro dimensione di esseri viventi e senzienti sono sempre più superflui e di peso per il funzionamento e finanziamento della macchina produttiva.  La contraddizione tra le potenzialità della tecnica, non illimitate ma enormi rispetto al passato, e l’indigenza materiale e spirituale in cui sono costrette le moltitudini, configura uno scandalo che assume tratti grotteschi considerando le disuguaglianze abissali che si dispiegano tra i diversi paesi e all’interno di ciascuno di essi, nel mondo unificato e globalizzato.

In questo scenario prevalgono due opposti e complementari atteggiamenti, con, sullo sfondo, una terza opzione minoritaria ma non trascurabile. Il mainstream che occupa quasi totalmente la comunicazione è contrassegnato dall’attivismo di coloro che considerano la realtà con le sue contraddizioni una “seconda natura” insuperabile, in cui inserirsi e da cui trarre i massimi vantaggi, anche a costo di spezzare vincoli etici e valoriali, considerati il retaggio di un passato obsoleto, e la stessa cornice giuridico-normativa, che pretende di ingabbiare gli “spiriti animali” entro leggi che confliggono con la costituzione materiale della società.  All’attivismo dei vincitori, per altro sistematicamente sconfitti dall’arrivo di nuovi protagonisti, fa da contraltare la passività delle maggioranze, non più mobilitabili, almeno per cause progressiste.

La terza opzione è circoscritta a chi considera la crisi ecologica una discontinuità maggiore nel corso storico, capace di mettere in discussione l’idea di progresso, radicalmente da riformulare. Se dalle enunciazioni generali si passa ad un esame analitico della molteplicità di esperienze, proposte, organizzazioni riconducibili a tale orizzonte, quel che ne emerge è un panorama di estrema frammentazione, autoreferenzialità, mancanza di visione generale. E però questa debolezza ha il suo rovescio nella capillarità del fenomeno, nella sua pervasività in ambiti diversi, nella capacità di auto sostenersi e espandersi in un ambiente ostile.  L’altro elemento di grande rilievo, che qui può solo essere evocato, è che tale composito movimento non si esprime solo in una presa di coscienza priva di efficacia ma sta penetrando negli assetti fondamentali della produzione e riproduzione sociale, con una sintomatica e rivelatrice inversione di rilevanza: al primo posto c’è l’agricoltura, a seguire l’artigianato e l’industria, solo dopo i settori che nell’assetto attuale governano l’economia e dominano la società. Non è proprio il caso di fare previsioni sul futuro di questa transizione ecologica, resta il fatto che affondando nel passato più lontano, resa cogente dalla crisi del rapporto uomo-natura, costituisce ormai una realtà storica degna di attenzione, forse l’unica chance su cui vale la pena scommettere.