Editoriale

Il 2011 è stato segnato dall’avanzata della grande crisi economica mondiale, con un ulteriore aumento della disoccupazione, la diminuzione del valore reale del compenso per il lavoro e delle pensioni, mentre la sfiducia sta attraversando tutti i paesi, soprattutto quelli industriali che si sono finora crogiolati in un relativo benessere: merci abbondanti nei negozi, lavoro per tutti, una martellante pubblicità che promette auto veloci, salotti hollywoodiani, bellezza del corpo per giovani e anziani. Restavano in secondo piano, ignorati e detestati, gli immigrati che a rischio spesso della vita abbandonavano i poveri paesi alla ricerca di un modesto salario, magari in nero e per lavori pericolosi e sgradevoli.
L’aggravarsi della crisi economica è stata accompagnato da un’ondata di proteste e di malessere nei paesi “arabi”, dall’Algeria, alla Tunisia, alla Libia, all’Egitto, alla Siria, allo stesso Iraq, tutt’altro che “pacificato e avviato alla democrazia, all’Afghanistan dove continua una  guerra inconcludente svogliatamente condotta dalle potenze occidentali, tanto simile a quella che indusse i sovietici ad abbandonare il paese nel 1989. Che cosa vogliono i contestatori ? Libertà, democrazia, dicono, ma vogliono anche abbattere delle lunghe dittature, alcune delle quali, come in Libia, avevano creato immense fortune per pochi privilegiati e lasciato gran parte del paese dilaniato da divisioni tribali, religiose, politiche.
Viene così ribadito il fallimento della politica coloniale dell’Ottocento che ha visto spezzettati, con confini tracciati sulla carta, paesi che per secoli erano stati tenuti uniti, più o meno bene, dall’Islam e poi dall’Impero ottomano. Nei decenni coloniali gli occupanti non sono stati capaci di assicurare agli abitanti delle colonie condizioni di cultura, di sviluppo, di riconoscimento delle loro origini, non v’è quindi da meravigliarsi dei conflitti che scoppiano adesso, alimentati anche dalla speranza di utilizzare nell’interesse del popolo, o almeno un po’ di più per il popolo, le ricchezze provenienti dalla vendita delle spesso immense risorse petrolifere e minerarie del loro sottosuolo.
In Italia  sulla situazione di disagio si sono inseriti altri motivi di contestazione. Quando è apparso il numero 17 di questa rivista era in pieno sviluppo il dibattito sulle centrali nucleari ed era appena avvenuto l’incidente alla centrale giapponese di Fukushima. Nei mesi successivi gli eventi sono precipitati. Il 12 giugno si è svolto il referendum sul futuro nucleare italiano e la risposta è stata nettamente favorevole all’abrogazione delle norme esistenti per incoraggiare la costruzione di altre centrali nucleari in Italia. Il nucleare è così nuovamente tramontato, con tutte le sue illusioni, per la seconda volta, dopo il 1987, con un referendum popolare. Il favore per il nucleare si è appannato un po’in tutto il mondo anche se le centrali esistenti hanno continuato a funzionare, trasformando i nuclei di uranio e plutonio in frammenti altamente radioattivi a vita lunga e che nessuno sa dove sistemare.
In Italia un altro contestato progetto è stato accantonato, quello della costruzione del ponte sullo stretto di Messina, Una gran quantità di soldi è stata spesa per i progetti preliminari, le consulenze, i sondaggi, ma a poco a poco sono prevalsi i motivi di incertezza economica, ecologica, di stabilità, quelli che gli oppositori stavano illustrando da dieci anni. Certo sarebbe bello collegare la Calabria e la Sicilia con un ponte stradale e ferroviario, ma bisogna fare i conti con i caratteri dello stretto, con la profondità del mare, con le condizioni geologiche e sismiche.
In questo inizio del 2012 è in pieno sviluppo, vivacissimo, il movimento di contestazione della lunga galleria attraverso le Alpi che dovrebbe consentire il trasporto di persone e merci ad alta velocità fra l’Italia e la Francia, la cosiddetta TAV. Non la vogliono gruppi di cittadini che considerano l’impatto territoriale di una grande opera, i danni delle scorie di escavazione, il pericolo di incontrare rocce contenenti amianto e che fanno conti e calcoli confrontando gli altissimi costi, appetiti dai grandi consorzi di costruttori, con la effettiva futura prevedibile richiesta di trasporti ferroviari.
La vuole innanzitutto il governo insistendo sull’esistenza di irrinunciabili accordi con la Francia, considerando l’aumento della velocità dei trasporti come un fattore di crescita economica, dell’occupazione e della competitività delle nostre merci. I sostenitori della TAV avanzavano anche motivi “ecologici” come i vantaggi derivanti dalla diminuzione del traffico stradale e del relativo inquinamento. Vogliono che cessi la contestazione gli operatori turistici della valle che temono una diminuzione degli affari e anche alcuni sindaci dei comuni della zona. Per far cessare la contestazione il governo è disposto a dare dei contributi alle popolazioni locali ed ha intenzione di ricorrere in ultima istanza alla forza.
È difficile dire chi ha ragione o torto. Dal punto di vista della storia dei movimenti di protesta alcuni aspetti della contestazione della TAV ricordano gli episodi di contestazione delle centrali nucleari negli anni Ottanta, quando il governo anche allora fortissimamente voleva costruirne in Puglia, nel Mantovano, in Piemonte, nel Lazio, nel Molise. Anche allora veniva invocata l’importanza di tali centrali per la crescita economica, per l’occupazione, venivano promessi incentivi finanziari alle comunità che avessero accettato le centrali, anche allora fu fatta intervenire la forza pubblica contro le barricate nel Mantovano, anche allora alcuni comuni erano disposti ad accettare, in cambio di soldi, una centrale nel proprio territorio. Anche allora falangi di scienziati dimostravano scientificamente le virtù delle centrali in contrapposizione con le motivazioni di chi non le voleva. Merita di essere citato un raro volume stampato privatamente a Viadana, scritto da Umberto Chiarini, una delle figure di punta della contestazione delle centrali nel Mantovano: “La Bassa contro l’atomo. La centrale nucleare nel Mantovano. Documenti 1975-1987”, 218 pagine ricche di fotografie e testimonianze.
Neanche il fatto che mezza centrale era ormai costruita a Montalto di Castro è servito ad evitare la decisione di interromperne la costruzione, con perdita di soldi e di speranze di occupazione, perdite e dolori e conflitti che avrebbero potuto essere evitati se si fossero considerati con attenzione i motivi della contestazione e si fossero investiti soldi o impegnata occupazione per altre opere.
Qualcuno ricorda la contestazione degli aerei supersonici negli anni Sessanta ? Si sono spesi molti soldi per la progettazione e la costruzione, e, dopo pochi anni, il SST, in Europa il glorioso Concorde, sono finiti negli hangar. Forse valeva la pena ascoltare i motivi della contestazione, in questo caso non solo ecologici, ma anche economici perché la diminuzione di poche ore nel volo Parigi New York non era compensata da vantaggi nei tempi complessivi di trasporto.
In altre casi l’insuccesso di grandi e contestate opere pubbliche è stata provocato dalla  progettazione improvvisata, dal non aver tenuto conto di effetti laterali; si pensi alle dighe e ai laghi artificiali, anche in Italia, divenuti dopo breve tempo depositi del fango dell’erosione delle colline circostanti.
La contestazione ecologica è fondata soltanto su uno snaturato odio del progresso e della velocità, oppure in certi momenti della storia è necessario fermarsi, guardarsi indietro e ascoltare le voci di chi protesta per lo spreco di risorse scarse, i rischi alla salute, l’impatto sull’ambiente naturale e costruito ? Che questo valga anche per la TAV?