Editoriale
Questo numero della nostra rivista torna a presentare una gamma vasta e articolata di contributi lungo gli assi definiti da tempo, alla ricerca di un Novecento altro da quello raccontato nelle narrazioni correnti sempre meno legate a grandi progetti ideali e sempre più affidate al sistema dei media, con la novità proliferante e caotica della “rete” a cui noi stessi affidiamo le sorti di “Altronovecento”.
Anche in questa occasione i limiti temporali non sono rispettati per i balzi all’indietro e le frequenti incursioni nei temi e problemi del nuovo secolo e millennio (una dimensione, quest’ultima, ben poco presente nella cultura del nostro tempo). Il criterio è quello dell’attualità di antiche storie, così nell’Anno internazionale della Luce, Giorgio Nebbia ripropone la figura straordinaria dello scienziato arabo Alhazen, il cui ruolo nel progresso generale della scienza smentisce già da solo le molte sciocchezze veicolate dagli adepti della “guerra di civiltà” con l’Islam. Il grosso dei contributi riguarda precisamente la storia della tecnica e dell’ambiente, le strutture, istituzioni, personalità che con la loro attività e riflessione hanno contribuito a forgiare e interpretare il mondo contemporaneo: da Adriano Olivetti a Ivan Illich a Vinton Cerf, per citare alcuni protagonisti di questo numero 27.
Costruita del tutto artigianalmente all’interno della Fondazione Micheletti alla fine del secolo scorso, la rivista si è posta l’obiettivo di gettare qualche luce su dimensioni poco frequentate della storia del Novecento, principalmente l’universo delle tecniche nell’età dell’industrializzazione, un processo a nostro avviso pienamente in corso su scala globale, e le trasformazioni dell’ambiente e della società per effetto della tecnica (lasciando aperta la questione del suo possibile utilizzo piuttosto che della sua autonomizzazione e dominio). Argomenti collegati e in tutta evidenza non proprio secondari, eppure poco presenti nella ricerca storica, specie in Italia, ovvero spezzettati e relegati in ambiti microspecialistici, sino a renderli invisibili al di fuori di rarefatti circuiti accademici.
Ma “Altronovecento” ha voluto anche contrastare, con i suoi modesti mezzi, la narrazione dominante centrata sulla riduzione del cosiddetto “secolo breve” a età degli orrori riassumibile nella “shoà” e nel “gulag”. Una visione costruita attorno al paradigma illusorio della fine della storia, ovvero di un salto messianico in una nuova storia, il che tradotto in politica voleva dire unificazione del mondo attorno all’unico modello vincente: quello nordamericano. Le cose sono andate ben diversamente, al punto che è stata evocata una terza guerra mondiale in atto, a pezzi, con il manifestarsi di faglie di frattura tragicamente pericolose con l’Islam, la Russia, in prospettiva la Cina, mentre procede l’autodistruzione dell’Europa (in primo luogo per l’insipienza politica degli attuali leader europei).
In questo contesto i sentimenti prevalenti nelle nostre società sono quelli del disincanto, della perdita di fiducia e speranza. Uno stato d’animo che tocca in particolare le giovani generazioni, bersaglio privilegiato della interminabile crisi economica e anche del clima creato dai media che oscillano costantemente tra banalizzazione e catastrofismo.
Forse mai come in questi anni la realtà è stata ridotta a stereotipi ripetuti all’infinito, rendendo la sfera pubblica infrequentabile. Per fortuna al di fuori dei media e della stampa generalista, dove si svolge interamente il dibattito politico che coinvolge ormai solo sparute minoranze, esistono, vivono, talvolta solo sopravvivono, molti altri mondi invisibili, operano persone, gruppi, associazioni che si fanno carico di tutto ciò che è stato desertificato dalle istituzioni e dal potere, nelle sue varie articolazioni.
Dice l’ultimo rappresentante di “Socialisme ou Barbarie”, principale e misconosciuta scuola di pensiero politico e sociale francese della seconda metà del Novecento: “Tutto in realtà è già iniziato, ma senza che lo si sappia” (Edgar Morin). Non sappiamo se abbia ragione ma di sicuro la ricerca va fatta, qualcosa dobbiamo cominciare a sapere, senza commettere l’errore di attribuire missione e poteri salvifici a quel che si riesce a scoprire indagando realtà sociali ricche e stimolanti, anche se prive o quasi di rappresentazione e rappresentanza.
E’ il caso, a nostro avviso, di quel che sta avvenendo specie dagli anni successivi alla fine del “secolo breve” nel mondo delle campagne d’Italia e soprattutto del mondo. Senza entrare troppo nello specifico segnaliamo i materiali presenti in questo numero e, soprattutto, i densi e molteplici contributi prodotti dal Convegno “Le 3 agricolture: contadina, industriale, ecologica” del 20-22 aprile 2015, la più importante iniziativa della Fondazione nei primi mesi di quest’anno, che contiamo di mettere a disposizione a stampa, se potremo, per il prossimo autunno, quando sarà ancora aperta l’Expo di Milano dedicata al cibo e all’alimentazione, cioè all’agricoltura (forse).
In merito una sola puntualizzazione. La proposta del Convegno e i materiali preparatori sono stati sottoposti a critica anche da parte di alcuni partecipanti, sostenendo che avevano un carattere troppo antindustrialista. E’ vero che altri hanno espresso una critica diametralmente opposta, ma non è questo il punto: tutte le critiche sono legittime. La questione dell’industrializzazione dell’agricoltura ha però valenze di grande portata che non riguardano solo il settore primario.
Si tratta, a nostro avviso, della attualità e necessità di una transizione non solo tecnologica di portata epocale. Cerchiamo di spiegarci in modo semplice e sintetico: l’industrializzazione della produzione agricola sta proseguendo intensamente, ma manifesta criticità molto rilevanti e, pensiamo, insostenibili. L’agricoltura centrata sul modello industriale non soddisfa tre parametri fondamentali: la qualità del cibo, la qualità del lavoro, la qualità ambientale. La loro sommatoria impone un cambiamento di paradigma che in parte, in numerose seppure minoritarie situazioni, è in atto. Con ancora minore attenzione, qualcosa di analogo sta avvenendo in altri settori, da quello energetico a quello manifatturiero. Sono temi che ci auguriamo di poter documentare e approfondire. Segnali invisibili che qualcosa è effettivamente iniziato.