Editoriale n°10

Negazionismo ecologico.

Il mondo è sempre andato avanti perché alcune persone hanno chiesto cambiamenti o riforme sulla base di diritti e valori differenti da quelli egemoni nelle società e comunità in cui vivevano. Tali cambiamenti disturbavano o alteravano gli interessi dei portatori dei diritti e valori allora correnti e le persone colpite dai cambiamenti hanno cercato di opporsi; il meccanismo più comune consiste nel negare che i nuovi diritti e valori avessero senso o utilità generale.

Si potrebbe scrivere una intera storia dell’umanità sulla base di questi conflitti di diritti e valori e sulle varie forme di negazionismo.

Solo per fare alcuni esempi: quando alcune persone, nei primi decenni dell’Ottocento, hanno sostenuto che era diritto dei ragazzi e delle donne di lavorare soltanto un numero limitato di ore al giorno per non averne danno alla salute dei loro organismi, più deboli di quelli dei maschi adulti, hanno intaccato gli interessi dei padroni delle manifatture che ricavavano maggiori profitti – il che consideravano un loro diritto e valore – sfruttando una mano d’opera che costava di meno.

I padroni delle manifatture organizzarono una campagna di stampa e di opinione pubblica negando che il lavoro nelle fabbriche o nelle miniere arrecasse danno alla salute delle ragazze e dei ragazzi, utilizzando anche la voce di autorevoli e riconosciuti scienziati, il cui prototipo è il dottor Andrew Ure, autore del celebre libro “La filosofia delle manifatture”.

D’altra parte i negazionisti sostennero che l’aumento dei costi di produzione, provocato da leggi che avessero limitato l’orario di lavoro di alcune categorie di lavoratori, sarebbe stato dannoso non solo al loro diritto al profitto, ma avrebbe anche danneggiato valori e diritti della collettività perché avrebbe tarpato le ali alla conquista britannica dei mercati – o, per usare termini più moderni, perché impediva la competitività delle merci inglesi – con conseguente perdita di posti di lavoro, eccetera. I termini del dibattito si trovano nel “Capitale” di Marx e sono stati oggetto di numerosi studi nel corso del Novecento. Come risultato di questo conflitto furono approvate, dapprima in Inghilterra, poi lentamente in altri paesi, e anche in Italia, delle leggi che limitavano l’orario di lavoro dei ragazzi e delle donne.

Con argomenti simili si è svolto il dibattito sulla abolizione della schiavitù, specialmente negli stati del Sud degli Stati uniti. Alcune persone sostenevano che la schiavitù era inumana e ingiusta e che la libertà della persona era un diritto e un valore; “La capanna dello zio Tom” di Harriett Beecher Stowe rese popolare nel mondo questa tesi.

I negazionisti esponevano vari motivi per sostenere il loro diritto di possedere schiavi: il loro possesso consentiva un basso costo del lavoro e la produzione a basso prezzo di molte merci, cosa di cui godevano l’intero paese e gli stessi abolizionisti; mettevano poi in evidenza che gli schiavi erano trattati bene, quasi come persone di famiglia, di tanto in tanto potevano anche essere liberati; che gli afroamericani erano diversi dagli americani bianchi, tesi sostenute anche da alcune “chiese” di americani bianchi, eccetera. Ci sono voluti decenni per l’abolizione della schiavitù, poi per il riconoscimento di uguali diritti (in parte ancora non accettati) fra bianchi e neri.

Simili argomenti sono stati usati per negare i diritti e i valori di altri “diversi”, come gli ebrei o gli zingari, ma anche i diritti e i valori di alcune comunità bianche, diverse per religione o credo politico; ogni volta i negazionisti si sono sforzati di mettere in evidenza, anche con scritti di filosofi e sapienti, che il riconoscimento dei diritti e valori degli altri era nocivo all’equilibrio sociale, alla sicurezza, alla conoscenza, all’economia della comunità dei negazionisti, eccetera.

I fenomeni di negazionismo più esplorati si sono avuti in occasione della persecuzione, nella Germania nazista e nei paesi fascisti, ma non solo, degli ebrei, basata sulle tesi che gli ebrei erano “diversi”, erano usurai, erano responsabili della crocifissione di Cristo, e dovevano essere privati del diritto alla uguaglianza e alla libertà di esprimere i loro valori umani e civili, addirittura doveva essere negato il loro diritto alla vita. Da qui le note campagne di persecuzione e sterminio, che vengono ancora oggi negate o giustificate o minimizzate dai portatori degli stessi “valori” tipici di nazismi e dei fascismi.

Un aspetto interessante riguarda il coinvolgimento dei perseguitati al fianco dei persecutori; dei neri che si sono adattati ad accettare la discriminazione dei bianchi per catturare una qualche benevolenza o accettazione da parte dei bianchi; dei lavoratori sfruttati che si schierano al fianco dei padroni per non perdere il proprio posto di lavoro (il “raffinato” ricatto occupazionale: o diritti o lavoro).

Gli stessi scontri fra diritti e valori sono al centro dei conflitti ecologici. La contestazione ecologica nasce dal fatto che alcune persone riconoscono valori e diritti ad alcuni aspetti del mondo naturale.

Prendiamo il caso delle lotte contro l’inquinamento dell’aria. Alcune persone hanno sostenuto che esisteva il diritto a respirare aria pulita e che l’inquinamento dell’aria, danneggiando la salute, violava tale diritto. A poco a poco tali persone si sono guardate intorno e hanno identificato alcune fonti di inquinamento dell’aria e hanno chiesto leggi che lo vietassero. Gli inquinatori si sono naturalmente opposti, rivendicando i loro diritti: se si desse retta alle richieste di questi portatori di nuovi diritti alla salute, le imprese dovrebbero depurare i fumi dei loro camini e così aumenterebbero  i costi di produzione delle loro merci. Possono i legislatori tarpare le ali alle industrie, far diminuire la competitività del paese? D’altra parte possono i legislatori accettare che aumenti il numero di ammalati e di morti?

A questo punto entrano in azione i negazionisti, spesso esperti “scienziati”, che sostengono che un inquinamento esiste, ma così minimo da non nuocere alla salute, al contrario di coloro che sostengono che anche inquinamenti minimi sono nocivi alla salute. Ma poi quanto nocivi? Se non si mettono i filtri quante persone in più muoiono all’anno? E se si mettono i depuratori quanto devono spendere di più le imprese e di quanto aumenta il prezzo delle scarpe o delle automobili e di quanto sono danneggiati i cittadini, inquinati compresi, e l’economia nazionale?

Tutta la storia del movimento per la difesa dell’ambiente – che fra l’altro trova spazio in questa rivista – è piena di questi conflitti.

La contestazione delle centrali nucleari è basata sul fatto che le operazioni di preparazione del combustibile nucleare, il funzionamento delle centrali e il trattamento dei residui radioattivi sono dannosi per la presente e per le future generazioni umane e non sono accettabili anche se l’elettricità nucleare costasse di meno (il che non è vero) di quella ottenuta da altre fonti.

I negazionisti sostengono che l’intero ciclo del combustibile nucleare può essere tenuto sotto controllo per evitare contaminazioni radioattive (il che non è vero, come risulta dall’irrisolto problema della sistemazione delle scorie radioattive) e che anzi l’energia nucleare è ecologicamente virtuosa perché produce elettricità senza generare gas responsabili dell’effetto serra.

È preferibile far correre, alle generazioni future, il rischio di catastrofi climatiche (dovute al crescente uso di combustibili fossili per colpa dei gas che emettono) o quello di contaminazioni radioattive (dovute alle code delle attività nucleari)? E, davanti al prevedibile esaurimento di fonti energetiche fossili, la preoccupazione per le generazioni future giustifica la scelta di privare di elettricità i poveri della generazione presente?

Si potrebbero usare fonti energetiche rinnovabili, come quella del Sole, del vento, del moto delle acque, ma i negazionisti negano i vantaggi e l’efficacia di ciascuna di queste sulla base delle loro caratteristiche fisiche (la necessità di grandi superfici terrestri per la loro captazione), o dei danni ambientali dei laghi artificiali necessari per le centrali idroelettriche; nel caso poi degli aerogeneratori, un negazionismo che viene dall’interno dello stesso movimento ambientalista, denuncia che i motori eolici deturpano il paesaggio e uccidono gli uccelli del cielo; ma un’altra parte del movimento ambientalista obietta che si possono usare motori a vento di piccole dimensioni, e avanti di negazionismo in negazionismo, a profitto del petrolio, del carbone e del nucleare.

            A chi contesta, nel nome del diritto degli animali, la caccia il negazionismo obietta che i cacciatori (spesso contadini o operai) hanno diritto al sano sport all’aria aperta, che i divieti di caccia danneggiano i fabbricanti di armi e cartucce e i loro lavoratori, che di uccelli ce ne sono tanti nel cielo e che una legge restrittiva sulla caccia in Italia spinge i cacciatori in altri paesi dove non ci sono tante ubbie ecologiste e si può uccidere quello che si vuole.

            A chi contesta gli inceneritori dei rifiuti, considerati responsabili di inquinamento dell’aria e del suolo, i negazionisti fanno notare le concrete difficoltà e la parzialità della raccolta differenziata, i danni ecologici delle discariche nel suolo, i vantaggi della produzione di elettricità e di calore che si possono recuperare dalla combustione e “valorizzazione energetica” dei rifiuti.

            Un intero libro si potrebbe scrivere sulla contestazione dell’inquinamento atmosferico provocato dai carburanti per autoveicoli e sulla negazione dei danni dovuti ai vari carburanti che si sono succeduti in un secolo: benzina, alcol etilico, benzina ad alto numero di ottano addittivata con il velenoso piombo tetraetile, benzina addittivata con MTBE, benzina contenente benzolo, oppure composti aromatici. Carburanti responsabili, in una rincorsa fra motori più compressi e carburanti meno “detonanti”, dell’emissione nell’atmosfera e nei polmoni umani, di ossidi di azoto e di zolfo, di composti del piombo, di sostanze cancerogene, di polveri, con un vivace negazionismo, da parte dei fabbricanti, dei danni di ciascun carburante per evitare, sino all’ultimo, di doverlo cambiare: nessuno potrà mai sapere quanto i “perfezionamenti” dell’industria automobilistica e petrolifera, sono costati in vite umane, in salute, in malattie.

            Gli esempi potrebbero continuare, dal dibattito sui pesticidi, sui detersivi, sugli additivi alimentari, sui solventi responsabili del buco dell’ozono stratosferico, sull’erosione e cementificazione del suolo dovuto a variegate forme di speculazione edilizia, sulle sostanze tossiche usate nei cicli produttivi che avvelenano il primo importante “ambiente”, quello del corpo umano dei lavoratori dentro la fabbrica o nei campi. E ogni volta si trovano contrapposti gli stessi soggetti; i portatori della domanda di condizioni più sane e sicure e di nuovi diritti e valori; i negazionisti che negano, appunto, tali valori e sostengono che il mondo va benissimo così com’è; gli scienziati che sostengono i valori della contestazione; gli scienziati che sostengono le ragioni dei negazionisti; i legislatori che devono dare peso e ascolto ai contendenti e legiferare a sostegno dei contestatori o dei negazionisti, sulla base di considerazioni squisitamente politiche ovvero elettorali. Infine c’è la collettività che vorrebbe sia il cielo pulito che le scarpe e le automobili a basso prezzo.

Esiste un criterio “oggettivo”, “scientifico”, per riconoscere se una fonte di inquinamento o di nocività ambientale è davvero nociva, al punto da giustificare un freno all’economia e un aumento dei costi delle merci e dei servizi?

A mio parere non esiste perché i valori e i diritti non possono essere misurati in chili e in euro; poiché peraltro qualche indicatore si deve trovare, sono stati inventati numerosi processi per assegnare un numero alla qualità o virtù ecologica di una merce o di un servizio sulla base dei danni alla vita o alla salute delle persone. O alla perdita di bellezza.

Ma quanti morti all’anno sono provocati da ogni chilo di anidride solforosa o da ogni grammo di diossina che esce dal camino di un forno o di un inceneritore o dal tubo di scappamento di una automobile? Quante ore di lavoro e di vita sono perdute ogni anno per le malattie provocate dagli agenti inquinanti dell’aria o delle acque? La scienza epidemiologica dovrebbe dare una risposta a tali domande sulla base di considerazioni statistiche, anche se è difficile accertare se una persona è morta effettivamente per quei determinati quantum di sostanze cancerogene respirati magari anni prima.

Ma anche nell’ambito dei portatori di nuovi diritti e valori – nell’ambito della contestazione ecologica – ci sono molte sfumature e conflitti che giovano sostanzialmente a chi non vuole cambiare niente.

Alcuni gruppi sostengono che bisogna andare avanti attenuando gli impatti ambientali con soluzioni tecniche, le meno ecologicamente offensive possibili. Il verbo di questa corrente di pensiero è rappresentata dalla parola magica “sostenibile”.

E qui i produttiri-inquinatori sono contenti perché comunque possono fabbricare automobili ipoteticamente meno inquinanti e plastica ipoteticamente degradabile e sono contenti gli abitanti dei paesi dentro i parchi naturali perché possono avere visitatori e qualche posto di lavoro, magari con costruzioni ben progettate, magari con la possibilità di praticare un po’ di caccia al margine delle zone protette.

Altri sostengono che l’aria pulita e le bellezze del paesaggio sono valori in se, indipendentemente dagli affari dei fabbricanti di automobili o dal numero di morti o dai pericoli di frane in seguito al diboscamento

E qui i negazionisti hanno buon gioco: voi fautori della decrescita economica siete disposti a rinunciare ai computer e alla posta elettronica – che fanno crescere i consumi di elettricità e i relativi inquinamenti – per diffondere il vostro pensiero: siete disposti a diffondere il pensiero della vita conviviale a chi abita nelle periferie di Napoli o di New York o di Calcutta?

Perché il vero problema non è tanto sulle maggiori o minori virtù ecologiche della carta riciclata, degli inceneritori o dei motori eolici, quanto nel fatto che tutto il dibattito finora esposto riguarda non sessanta milioni di italiani, o seicento milioni di europei e americani industrializzati, ma riguarda tremila milioni di indiani, cinesi e asiatici di sud-est e ottocento milioni di africani che si stanno appena affacciando o sono ancora lontanissimi dai consumi occidentali e non desiderano altro che possedere quelle merci che gli vengono proposte dalle pubblicità televisive che ormai raggiungono anche i remoti villaggi africani e asiatici.

Lo si è visto quando centinaia di milioni di persone sono uscite dalle austere – anche se ecologicamente non virtuose – società comuniste e si sono scatenate nella società dei consumi.

È il trionfo del negazionismo ecologico: voi state a giocherellare se le pale degli aerogeneratori uccidono gli uccelli e noi – potere economico, industriale e finanziario – costruiamo centrali nucleari, ricicliamo schede di computer inquinando il suolo, i fiumi e il mare, cioè quegli ambienti naturali da cui vengono le fragole o i pesci o gli oggetti che trovate nei negozi e nei mercati.

All’alba dell’ecologia, nel 1970, si scriveva e leggeva che la Terra è una sola grande unità planetaria, governata dalle ineluttabili leggi dell’ecologia e dei suoi cicli naturali, che rappresenta la nave spaziale dell’intera umanità, per cui andavano sottoposte a revisione le scelte economiche e politiche, alla luce dei vincoli dell’ecologia. A 35 anni di distanza sembra trionfare l’impero della violenza ecologica, della soppressione di ogni vincolo ecologico. Le leggi nazionali ed europee sono scritte per nuocere il meno possibile al mondo degli affari, con una leggera patina di apparente rispetto per i diritti alla salute.

Il dibattito sul pianeta, sul clima, sulla demografia (aumento della popolazione in alcuni paesi e invecchiamento in altri), sulla qualità delle merci, sugli equilibri ecologici, è assente nella politica tutta schiacciata su parole magiche – competitività, andamento del prodotto interno lordo, innovazione – e manca qualsiasi indicazione su come queste categorie economico-filosofiche si traducono nelle cose che hanno effetti ambientali: i cereali, il ferro, la benzina, la plastica, il legno, i divani, le scarpe, gli strumenti della microelettronica, eccetera.

È disperata la situazione? Il negazionismo vince sempre? No, il mondo va avanti proprio con persone, spesso originariamente poche, che propongono nuovi diritti e valori che diventano poi valori condivisi (quasi) universalmente; la storia mostra che le tesi dei negazionisti e dei loro sostenitori anche scientifici alla fine sono sconfitte, ma nella battaglia per nuovi diritti bisogna tenere conto del negazionismo e non è male conoscere i volti in cui si è presentato nel cammino dell’umanità e continuerà a presentarsi anche in futuro.

Da questo punto di vista la storia della contestazione e del negazionismo in tema di ecologia offre interessante materiale di studio.