Editoriale n°13
Ci sono tante forme di invasioni: quelle dei “barbari” che invadono l’impero romano, quella degli Arabi che invadono l’Asia e il Nord Africa, quella degli italiani in Libia e Etiopia, quella degli immigrati che spaventano i “nativi” ma portano lavoro e speranze in Europa o nel Nord America, quelle dei parassiti che aggrediscono il corpo dei vegetali e degli animali, e quelle dei virus che vanificano anni di paziente lavoro di chi usa un computer o un sistema telematico. Ci sono addirittura specialisti che elaborano virus per fare un danno ai privati o ai governi o alle banche. Insomma la vita, così bella e multiforme, è fragile. E ad uno di questi virus va imputata la distruzione del sito http://www.altronovecento.it/ che alcuni avevano imparato a conoscere e frequentare e forse, chi sa?, ad apprezzare.
Questo spiega il lungo silenzio di questo sito, di questa periodico telematico sia pure irregolare. Ma la vita continua e la Fondazione Micheletti ha potuto recuperare il materiale, molte migliaia di “pagine” pubblicate nei dieci anni passati – Altronovecento compie dieci anni nel 2008 – e ricominciare le pubblicazioni con questo numero 13 datato dicembre 2008.
Per chiudere questa parte burocratica riproduciamo l’indice di Altronovecento:
I quasi due anni trascorsi dal marzo 2007, quando è apparso il numero 12, al dicembre 2008, sono stati tempestosi. Il mondo è stato attraversato da guerre, conflitti etnici, da crisi economiche, da oscillazioni nei mercati. Tutti fenomeni che rappresentano la continuazione del Novecento che già di per sé era stato un secolo lungo, cominciato nell’Ottocento con le grandi scoperte della chimica, dell’elettricità, e proseguito con l’avvento del petrolio e dell’energia atomica, della radio e della microelettronica.
Altronovecento si propone, quindi di continuare a illustrare e “raccontare”, persone, eventi e cose di questa età della storia che ha visto aumentare di quattro volte la popolazione mondiale, di dieci volte i consumi di energia, che ha visto declinare la popolazione dei “bianchi” cristiani gradualmente sostituita con la popolazione di altri paesi e con la pelle di altri colori.
Questa prima parte del XXI secolo è caratterizzata dall’assestamento di quanto resta del comunismo (“morto” appena venti anni fa) e dalla continuazione in forma sempre più aggressiva del capitalismo e del libero mercato, ma anche dalla crisi del capitalismo stesso.
Grandi potenti e civili popoli – gli abitanti della Cina, dell’India, dell’America del Sud, dell’Africa, del mondo islamico – stanno vivendo un rinascimento non solo culturale, ma anche economico e merceologico.
È perciò quanto mai necessario rivolgersi alla storia, soprattutto alla storia della tecnica, per comprendere le radici degli errori passati e quanto il passato, alla luce delle nuove conoscenze, può ancora insegnare. È questo il fine della Fondazione Luigi Micheletti che inaugura proprio adesso il Museo dell’Industria e del Lavoro (www.musil.bs.it) nella nuova sede di Rodengo Saiano (BS) in cui saranno trasferite non solo molte collezioni ma consistenti fondi librari e archivistici.
Sarà così possibile consultare la vasta documentazione dell’archivio sull’energia solare e sulle fonti energetiche rinnovabili, che erano già apparse promettenti fonte di energia all’inizio del Novecento, fra le due grandi guerre, dopo la crisi energetica degli anni ‘70 e che vengono ora “riscoperte”. Alla conoscenza di tali fonti energetiche contribuisce la presentazione di macchine restaurate e delle centrali ad acqua sopravvissute come nel caso del museo del ferro di Brescia, sempre facente parte del Musil, e specialmente della centrale di Cedegolo, divenuta museo dell’energia idroelettrica.
Anche l’archivio si è arricchito con i fondi donati dagli eredi Francia, (Fondo Giovanni Francia), Fazio (Fondo “Mario Fazio”), Pinchera (Fondo “Giancarlo Pinchera”), da Ugo Facchini, poco prima della sua scomparsa. E ciò è solo per restare nell’ambito della questione energetica. Ma la Fondazione Luigi Micheletti, quando ha concepito il Museo dell’Industria e del Lavoro, ormai molti anni fa, si prefiggeva di fornire strumenti conoscitivi, non necessariamente specifici, per affrontare su ampio raggio l’intero fenomeno dell’industrializzazione, indagandone la specifica fenomenologia italiana, con la sua ricca varietà di casi locali, in un contesto europeo e internazionale.
L’intento era culturale e divulgativo, forse anche pedagogico, partendo dal semplice assunto che l’industrializzazione aveva rappresentato la più grande svolta e frattura nella storia dell’umanità, specie se vista dal basso, dalla condizione di vita e di lavoro delle persone comuni.
Proprio l’immersione totale nello sviluppo industriale, che nel caso italiano si approfondisce negli anni della ricostruzione e del “miracolo economico”, ha reso a lungo difficoltosa la messa a fuoco delle sue caratteristiche, anche transeunti o problematiche: apparendo un fenomeno naturale, irresistibile e benefico risultava difficile prendere la misura, comprenderne la portata e l’incidenza sulla società, le persone, il territorio, l’ambiente.
Contrariamente a quel che si va sostenendo da qualche tempo, non pensiamo affatto che l’industria sia ormai passata in secondo piano e che altre forze l’abbiano soppiantata. Basta rivolgere lo sguardo verso i Paesi che in pochissimo tempo sono diventati le fabbriche del mondo. A dire il vero nemmeno l’agricoltura ha finito il suo ciclo e solo molto di recente è avvenuto un sorpasso di portata epocale: l’insieme di tutte le attività umane risulta ora avere più addetti del settore primario. Cosa che deve essere letta anche nel suo rovescio, per cui gli inizi del XXI secolo circa metà della popolazione mondiale è ancora direttamente legata all’agricoltura. Tutto ciò deve indurci ad allargare la nostra prospettiva spaziale e temporale e a collocarci in una dimensione non completamente schiacciata sul presente, sul tempo senza spessore dei media, in cui la realtà viene bruciata istantaneamente. Ma nemmeno una prospettiva di lunga durata è di per sé efficace e soddisfacente, essa determina una sorta di straniamento e di indifferenza di fronte alla realtà in rapido movimento in cui siamo immersi.
L’obiettivo che ci si è posti con Altronovecento e su un altro piano, con le attività, i progetti, le realizzazioni promosse dalla Fondazione Luigi Micheletti è di dare piena visibilità all’industrializzazione nel suo farsi storico, in quanto fulcro della civiltà occidentale e poi mondiale degli ultimi due secoli, non riducibili quindi agli orizzonti di storia e approcci specialistici rispetto a storie generali prevalentemente politiche. Di qui il richiamo ad un Novecento “altro” rispetto a quello delle lotte ideologiche della guerra e dei massacri, ancorché con esso intrecciato.
È evidente che il motore di ciò che designiamo con il termine generico di industrializzazione è costituito dalla tecnica poi divenuta tecnoscienza. Altronovecento, in termini sicuramente artigianali, anche per il grande ritardo accumulato dalla nostra cultura, cerca quindi di promuovere e incoraggiare ricerche sulla storia delle tecniche, specie in età contemporanea.
D’altro canto, sin dagli inizi, fu operata una scelta netta centrando l’attenzione sul rapporto problematico tra industria e ambiente la tesi è che la storia dell’industria ha veramente senso, non è solo storia interna al dispiegarsi di un fenomeno percepito come naturale e indiscutibile, se viene indagata nelle sue conseguenze umane, sociali, ambientali. Si introduce in tal modo una dimensione eretica, si rivolge lo sguardo anche sui lati negativi dell’industrializzazione.
Si potrebbe argomentare che in ciò non c’è nulla di nuovo, considerata l’ambivalenza e i costi che segnano il divenire storico in quanto tale, a fronte di innegabili progressi tanto più tangibili nel capo dell’industrializzazione.
È un argomento forte che va tenuto ben presente, ma a questa altezza, che è poi il punto a cui è arrivata la storia dell’umanità. Si delinea abbastanza nettamente un bivio, una biforcazione che qui semplifichiamo, ma che ci pare innegabile. In ogni caso una possibilità di scelta che ridà senso al nostro stare nel mondo, e che dovrebbe diventare terreno di dibattito, confronto, dialogo tra culture e sensibilità diverse. Cosa che sta anche avvenendo ma in circoli troppo ristretti, il che non vuol ride elitari, quanto piuttosto dispersi, scarsamente comunicanti, nonostante le enormi potenzialità dei mezzi di informazione.
In definitiva noi pensiamo che l’”altronovecento”, che è poi quello vincente, quello che ha superato la tragedia del secolo, può effettivamente dar vita ad un mondo rinnovato e inevitabilmente unificato, superando i rischi di catastrofi politiche tuttora incombenti.
La sua eredità, di fatto imponente, è però segnata da un’ambivalenza di fondo, su cui lecito anzi doveroso dividersi, anche se ciò a poco ha poco o nulla a che fare con le vecchie separazioni ideologiche otto-novecentesche. Da un lato c’è chi pensa hce la potenza della Tecnica stia appena inaugurando un’epoca di piena affermazione del potere illimitato dell’uomo sulla Natura. In questo senso l’industrializzazione sarebbe la preistoria del futuro. Dall’altro c’è chi pensa che la crisi ecologica prodotta dell’industrializzazione, imponga un ripensamento radicale, l’accettazione del limite e il controllo della Tecnica da parte dell’umanità associata.
Non è difficile ricondurre le due opzioni alle principali culture che hanno alimentato la vicenda degli umani. La novità sta piuttosto nelle implicazioni, e quindi nella portata delle scelte da compiere. Ad Altronovecento come piccola rivista affidata alla tecnologia dell’etere spetta solo il piccolo compito di fornire qualche tassello di conoscenza in mezzo al grande oceano del sapere e del “non sapere”.