Editoriale n°5
Chi viaggia in Italia, nelle periferie urbane, nelle campagne, nelle valli di montagna, incontra dei “segni”, spesso abbandonati, del lavoro, delle fabbriche, delle officine. Ma se il viaggiatore si ferma a chiedere che cosa sono questi camini, questi capannoni abbandonati, che cosa vi veniva prodotto, chi ci ha lavorato ? spesso non ottiene risposta. Eppure dentro quei muri hanno vissuto, e faticato, per anni i nonni, talvolta i padri, di molti degli abitanti del posto. L’Inghilterra, la terra in cui è nata più vivace la “rivoluzione industriale”, ha sviluppato fin dal secolo scorso una cultura e un rispetto per i ruderi delle proprie fabbriche, al punto da riconoscerne il valore di “beni culturali” e da dar vita ad una disciplina scientifica, con cattedre universitarie, l’”archeologia industriale”. Questo interesse si è diffuso tardi e poco anche in Italia, e quel poco soprattutto per merito di Eugenio Battisti (1924-1989), un interesse un po’ afflitto dalla tradizione dell’archeologia e dall’attenzione per il “restauro” degli edifici.
Così sono stati opportunamente salvati e restaurati fabbriche e edifici industriali di grande pregio, qualche ponte metallico, un certo numero di macchinari. Ma, a mio modesto avviso, molto resta ancora da fare soprattutto per quanto riguarda la documentazione sulla cultura delle manifatture.In ciascuno edificio di archeologia industriale si producevano “delle cose” – minerali, metalli, plastica, tessuti, macchine, piastrelle, alimenti, elettricità – con processi che vedevano, “uniti”, se così si può dire, lavoratrici e lavoratori e macchinari, in operazioni dedicate alla trasformazione delle ricchezze della natura in cose utili.
Gli stessi edifici sono stati sedi di conflitti, anche duri, fra lavoratori e padroni, hanno visto incidenti e la morte di centinaia o migliaia di persone, ma sono stati anche sedi di innovazione, di manifestazione dell’abilità umana e sedi di solidarietà “di classe”, come si diceva una volta.
Molti di questi aspetti non sono facilmente comprensibili se non si conoscono, se non si vedono e, direi, se non si toccano fisicamente “le cose”, se non ci si chiede come erano fatte, con quali materiali, con quali processi, se non si cerca di identificare il loro “contenuto” di innovazione e di “bravura”.
Il lettore non si scandalizzi di queste parole, ma sono, per la mia avanzata età, un sopravvissuto ad un’epoca in cui ci si entusiasmava davanti alla macchina per scrivere Olivetti “Lettera 22”, in cui “Il Calendario del Popolo”, il primo mensile popolare comunista, dedicava intere pagine alle scoperte e invenzioni, in cui il vecchio “Sapere”, il mensile di Hoepli, raccontava nuove macchine e nuovi processi. Sono uno di quelli che si incantano, nel Museo della Scienza e della Tecnica di Milano, davanti alle macchina da cucire Singer e alle prime macchine contabili.
Anche se si tratta di entusiasmi “di una volta”, sono convinto che una educazione e una attenzione all’evoluzione della tecnica e delle manifatture sia anche oggi utile e indispensabile: anzi oggi più che nel passato, dal momento che nella cultura e nella scuola prevalgono gli aspetti virtuali, filosofici e epistemologici della scienza, in cui si tenta di diffondere l’impressione che la materia non conti più niente, proprio quando invece contano, eccome, la materia,la sua trasformazione, l’inventiva.
Da qui l’importanza di aprire un dibattito, e di fare delle proposte, su un progetto di museo della tecnica, di salvaguardia di quanto resta delle macchine, degli strumenti, delle “furbizie” di tante persone, anche se le loro “furbizie” e invenzioni, sono state ormai travolte da cose sempre più efficienti e economicamente attraenti; Il museo della tecnica a cui è dedicata gran parte di questo fascicolo n. 5 di altronovecento rappresenta proprio un progetto di salvare alcune cose – molte sono andate irrimediabilmente perdute – che aiutino a ricordare il lavoro e la passione umana.
Un museo che si propone di raccogliere testimonianze di oggetti ,macchine, eventi, estesi in quello che Pier Paolo Poggio chiama “il secolo lungo”. L’altronovecento è cominciato, infatti, con la scoperta dell’elettricità, nel 1800, da parte di un italiano, Alessandro Volta, come mostra la cronologia contenuta in questo fascicolo e che ci permette di ripercorrere l’intera storia del “novecento lungo” italiano. Perché una delle conseguenze della mancanza di una cultura e di un “orgoglio” per il lavoro e le manifatture sta proprio nell’esserci entusiasmati (sia pure poco) per le invenzioni straniere e nell’aver dimenticato coloro che nel nostro paese hanno fatto crescere la tecnica.
Tecnica che è cresciuta attraverso e incrociandosi con eventi politici drammatici: la breve stagione napoleonica, gli stati della restaurazione, l’unificazione nazionale, le guerre coloniali, la prima “grande guerra”, la lunga notte del fascismo, segnata da “stupidisie”autarchiche ma anche da innovazioni tecnico-scientifiche. La Liberazione e la rinascita dell’Italia industriale, le varie stagioni del capitalismo di stato e del suo declino, fino all’epoca attuale in cui manifattura significa andare a far fare all’estero, dove ci sono lavoratori da sfruttare a basso prezzo, le merci che arrivano nelle nostre case.
E così, una dopo l’altra, scompaiono fabbriche, macchinari, ma anche archivi industriali, gli archivi delle attività produttive presso i ministeri. E’ come se si fosse un deliberato progetto di cancellare le pagine della storia legate alla produzione di beni materiali.
Che cosa si può salvare? E’ quello che si sta chiedendo da anni la Fondazione Micheletti di Brescia, madrina di questa rivista, con il Museo dell’industria e del lavoro Eugenio Battisti, e a cui cerca e offre risposta con operazioni nelle quali si intrecciano la storia politica del Novecento, la storia delle manifatture, la storia del lavoro e quella, relativamente più recente, dell’ambiente. Quest’ultima nei suoi aspetti più interessanti di analisi degli effetti sulla natura di un capitalismo e di una tecnica imprevidenti.
A che cosa serve investire soldi nel museo e nell’archivio qui proposti? a che cosa serve conservare il ricordo di fabbriche e di “marchi”di fabbrica e commerciali, ormai inglobati in società finanziarie possedute da altre società finanziarie nel grande oceano della globalizzazione in cui scompare perfino il segno degli oggetti e della loro fabbricazione?
Serve, a mio modesto parere, a ricostruire un poco di senso di orgoglio di appartenere ad una comunità di lavoro e di produzione di beni. In questa ripresa dell’”amor di patria” e del ricordo di imprese eroiche, non sarà male ricordare le imprese eroiche dei milioni di lavoratori dei campi, delle miniere, delle fabbriche, dei cantieri, dei laboratori, spesso morti avvelenati dai fumi o spazzati via dai crolli e dagli incidenti – che hanno, con la loro fatica, la loro fantasia e la loro vita, fatto diventare l’Italia un grande paese industriale e moderno.
Alcuni dei loro nomi si ritrovano nella lunga cronologia che accompagna il progetto del Museo Eugenio Battisti che ha il fine di salvare dalla distruzione e dall’oblio macchinari ed edifici, manufatti e carte e archivi, da lasciare alle generazioni future come testimonianza e come occasione didattica, civile.