Evoluzione del concetto di paesaggio e dei contenuti della pianificazione paesistica

Riproponiamo di seguito un intervento di Gianni Beltrame sul tema del paesaggio risalente al gennaio 2009. Questo testo, al di là dell’interesse ancora oggi attuale delle posizioni che espone, mette in luce quello che fu il metodo di lavoro di Beltrame. L’approfondimento teorico delle questioni che lo interessavano, sempre rigoroso e attento agli sviluppi internazionali del dibattito, non era mai scisso dalle problematiche della pratica professionale e da un posizionamento politico dal lato dell’interesse collettivo, della responsabilità pubblica e dei beni collettivi. Nel caso del paesaggio, questo approccio porta a sottolineare la rilevanza della problematica che Beltrame definisce di “governo del piano”, espressione che preferisce a quella di “governance”. Ovvero, non è sufficiente – benché sia indispensabile – interrogare le operazioni del rappresentare, valutare e pianificare il paesaggio ma è fondamentale interessarsi a quelle che sono le “strutture pubblico-amministrative” e le “forze tecnico-operative” che devono poi concretamente tradurre disposizioni e dispositivi. La sua visione di “governo” è ben riassunta dalla raccomandazione che chiude questo suo contributo: “bisognerebbe, infine, trasformare profondamente anche i metodi e i soggetti del governo del paesaggio, coinvolgendo nella gestione e nella valutazione riguardante l’applicazione del piano, tutte le forze e le diverse competenze tecniche, settoriali e disciplinari che hanno partecipato alla elaborazione del piano. Questa nuova forma di piano richiede evidentemente una forma governo che non può assolutamente essere affidato a una gestione normale, burocratica, che agisce tramite pareri di mera conformità a un semplice vincolo”. L’intreccio tra ricerca scientifica, impegno amministrativo e coscienza politica è un tratto distintivo che ritroviamo nelle biografie dei protagonisti dell’ecologismo scientifico italiano degli anni ’70-’80 tra i quali sicuramente Gianni Beltrame merita di essere annoverato.

Mi sembra molto opportuno e direi necessario, premettere ad ogni discorso che voglia trattare il tema del paesaggio e della sua pianificazione una riflessione iniziale sulla evoluzione recente del concetto di paesaggio. Concetto che ha subito indubbiamente, particolarmente a partire dalla seconda parte del secolo scorso per arrivare ai giorni nostri, un vasto processo di ripensamento e di ridefinizione, sia in Italia che in Europa.

È a tutti evidente che il modo col quale pensiamo oggi al significato del paesaggio e all’importanza e al ruolo sociale, culturale e territoriale che gli si attribuisce, si possa ben considerare distante anni-luce da quell’anno 1939 nel quale si cominciò a pensare, definire e legiferare nel nostro Paese, con un primo sforzo di organicità, attorno al tema della tutela del paesaggio e della pianificazione paesistica.

Ma bisogna tenere anche presente quali e quante novità, svolte, tappe evolutive, sommovimenti e mutamenti dei paradigmi culturali si siano presentati sulla scena scientifico-culturale e dei fini sociali e collettivi in questo stesso periodo – si pensi all’esplodere della questione ambientale, alla presa di coscienza dei limiti dello sviluppo e alla conseguente messa a fuoco dell’obiettivo dello sviluppo sostenibile – che non potevano non coinvolgere e riflettersi anche nella questione del paesaggio.

Ci è necessario dunque premettere qualche breve riflessione e considerazione – mi perdonerete questo audace ma inevitabilmente insufficiente sforzo di sintesi – sulle recenti evoluzioni del pensiero teorico-culturale attorno alla definizione e alla interpretazione del primo passo necessario, quello definitorio-interpretativo, del concetto di paesaggio.

Ma non possiamo e non dobbiamo evidentemente riferirci alla sola ridefinizione o al solo ripensamento del concetto: la tutela e la pianificazione del paesaggio non è una questione solo concettuale, definitoria o idealistica.

Mentre per i poeti e i letterati, ma anche per l’uomo qualunque, il paesaggio continua a essere quello che è, cioè quello che essi sanno interpretare, percepire sensibilmente e individualmente, ed esprimere, per chi di noi si propone di essere anche operatore del e nel territorio, il tema si fa decisamente molto più complesso. Non possiamo cioè sottrarci dal riflettere e intervenire dopo il momento iniziale del definire il paesaggio, anche dall’affrontare i conseguenti e collegati tre momenti del rappresentare, del valutare per arrivare infine al momento conclusivo del pianificare il paesaggio.

Ma c’è un’altra domanda di fondo – che viene subito assieme e subito dopo la definizione dei contenuti e della forma del piano paesistico, tema invero non ancora del tutto risolto – che ci dobbiamo porre e sulla quale non si è mai sufficientemente ragionato in passato e sulla quale non si ragiona ancora abbastanza: una volta giunti al momento del piano e una volta deciso di dare forma e forza di legge a un piano per il paesaggio, a quali strutture pubblico-amministrative e a quali forze tecnico- operative si attribuisce il compito, il potere e la responsabilità di valutare, intervenire, giudicare e controllare la corretta interpretazione e gestione del piano? In altri termini a chi, a quale organizzazione, a quali tecnici e responsabili si affida l’attuazione, il rispetto e l’interpretazione del piano paesistico? Che relazioni si devono prevedere e mettere in atto tra le strutture che decidono ed operano sulle decisioni e sulle scelte del piano paesistico e le strutture chiamate a interpretarle e gestirle (si suppone in coerenza)?

Domanda ineludibile alla quale si deve pur rispondere per ovvie ed evidenti ragioni ma anche per potere giudicare – contemporaneamente – della adeguatezza e della efficienza della risposta tecnico-istituzionale data a quel flusso continuo di interpretazioni e decisioni che la gestione di un piano paesistico implica quotidianamente. (Definirò d’ora in avanti, per comodità e per sintesi, tutta questa problematica come questione del governo del piano, e non, come sarebbe più di moda, della governance. Intendendo cioè come governo la stessa cosa che la Convenzione europea del Paesaggio definisce come “Politica del paesaggio” (Art. 1, sub b)

Una pluralità e una ricchezza di nuovi approcci

La ricerca scientifica, specialistica e colta che ha riflettuto sul tema del paesaggio a partire, in particolare, dall’ultima metà del secolo scorso, ha messo in campo una quantità di nuovi approcci e metodi di ricerca, disciplinari e pluridisciplinari – e non solo riferiti all’oggetto ovvero alla sua definizione o ridefinizione ma, inevitabilmente, estesi a tutti gli altri momenti e, in particolare, a quello della sua pianificazione – di grande ricchezza e importanza. Ad esso hanno contribuito in primo luogo i geografi – i primi specialisti storici del paesaggio – ai quali si sono presto affiancati studiosi del territorio, sociologi, semiologi, storici, urbanisti, ecologi, studiosi delle metodologie di pianificazione, epistemologi, antropologi culturali, psicologi. Nel complesso territorio e paesaggio sono stati indagati con una operazione che potremmo definire di complessificazione (intesa in senso proprio e positivo, come definita da Morin e dalla Stengers) che ha saputo rivelare una ricchezza e una portata conoscitiva ed epistemologica del tema paesaggio che non è stata ancora del tutto recepita ed assimilata.

Quello che possiamo dire con certezza è che tutta questa evoluzione ci ha allontanati anni-luce, come si diceva all’inizio, dall’approccio culturale degli estensori delle due leggi del 1939[1] (Bottai, il Ministro e Giovannoni l’architetto, urbanista e storico-critico dell’arte che collaborò alla legge). Ovvero da quella concezione, primitiva e semplice, per la quale il paesaggio è composto da “cose” e da “località” rare, separate e circoscritte, che non riguardano l’intero territorio ma solo alcune sue privilegiate parti –belle – che devono rispondere – come ci si esprimeva con il linguaggio del tempo – a “cospicui caratteri di bellezza naturale o di singolarità geologica”, essere “di non comune bellezza”, possedere “un caratteristico aspetto avente un valore estetico e tradizionale”, carattere di “bellezza panoramica” o di “quadro naturale” e via elencando.

Una concezione di tipo “visivo” ed “estetico-letteraria” per la quale le categorie di valore sono riferite esclusivamente alla “bellezza” e alla “eccezionalità” degli oggetti o dei luoghi dalla quale deriva di conseguenza che il fine precipuo del piano si riduce solo a quello di esercitare una individuazione di questi rari beni e a promuovere e istituire una loro protezione e una incerta salvaguardia, attraverso un “governo” affidato esclusivamente allo Stato tramite il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali. Risultava ancora d’altra parte, in quegli anni, del tutto assente ed ancora ignorata in Italia la dimensione del paesaggio legata alla dimensione dell’intero territorio, una minima cultura e una esperienza della pianificazione urbanistica e territoriale (non c’era ancora una legge urbanistica moderna!) e una men che minima cultura ambientale.

Anche gli approcci di impostazione della lettura e dell’interpretazione del paesaggio come fatto “estetico” (alla Rosario Assunto[2]) come anche quelle di tipo percettivo-visibilistico vengono via via perdendo di importanza.

Ma sembra anche, a mio parere, che i diversi approcci semiologici, pur necessari e inevitabili, tentati ed applicati a casi concreti (come nel caso del territorio lombardo (Turri Eugenio[3]) non abbiano prodotto grandi risultati o avanzamenti sensibili anche perché il paesaggio non parla un linguaggio proprio e si esprime, come aveva già osservato intelligentemente Claude Raffestin[4], contenendo indissolubilmente al suo interno il significato e il significante.

Si può dire invece che i maggiori contributi di rinnovamento del pensiero vengano in primo luogo proprio dal ripensamento critico iniziato dei geografi sui fondamenti e sui limiti della propria disciplina. Tappe determinanti che non possono essere ignorate debbono essere attribuite alla rimeditazione e alla riscoperta tardiva sull’opera di Eric Dardel[5] L’uomo e la terra. Natura della realtà geografica che risale al 1952, al fondamentale testo di Giuseppe Dematteis[6] Le metafore della Terra, che ha sottoposto la disciplina geografica ad un rigoroso ripensamento critico- epistemologico, all’azione della rivista “Hérodote Italia”(edizione italiana, diretta da Massimo Quaini, della omonima rivista francese diretta da Yves Lacan).

Ma non possono nemmeno essere dimenticati i contributi che possono essere fatti risalire all’ affermarsi più in generale e al diffondersi della grande svolta disciplinare e culturale apportata dalla geo-storia, fondata da Fernand Braudel[7] e incrementata e diffusa dalla scuola delle “Annales” e dalla irruzione della storia nel sapere sociale come misura del mondo.

Fondamentale in questa direzione il lavoro svolto in Italia da Lucio Gambi[8] che, partito anch’esso da una forte critica al sapere geografico – la geografia regione depressa – ha saputo, col suo Una geografia per la storia innalzarla ad un livello conoscitivo ben più ampio, nel quale è facile per noi ritrovarci.

Si può riconoscere facilmente come da tutto il lavoro dei geografi incominci ad affacciarsi una concezione del “paesaggio -come scrive Dematteis – come immagine scritta sul suolo di una società e di una cultura” aprendo così tutta una nuova problematica -propriamente paesistica – di “decifrazione dei geroglifici della terra” (Dardel).

Il recente incontro del tema del paesaggio con quello dell’ambiente – partendo dalla riflessione sulla non separabilità del paesaggio dall’ambiente in cui si manifesta o sul quale si impianta, si perpetua, si sorregge, si caratterizza – ha portato alla luce anche un nuovo metodo o una nuova disciplina di approccio che si è affermato per la sua intenzione di modellizzare il paesaggio secondo una logica e secondo una visione “ecosistemica” (Lothar Finke[9], Tricart[10])propria dell’ambientalismo più maturo (Odum), interpretandolo cioè il paesaggio come “ecosistema di ecosistemi” o come “mosaico di ecosistemi”.

La landscape-ecology deriva e cerca di trovare infatti i suoi fondamenti nella ricerca delle leggi e delle regole della natura – quelle che contribuiscono a creare il supporto ambientale di un dato paesaggio – ai fini di capirle, riprodurle, assecondarle, sostenerne l’evoluzione, la conservazione, la biodiversità, la riproducibilità. In questo senso non possiamo non accettare e non usare le sue metodiche anche nella pianificazione del paesaggio. Quello che si può criticare a questo tipo di approccio, a mio parere, è che ad esso è estraneo e sfugge completamente il senso profondo e proprio che è del paesaggio – e cioé la dimensione culturale, storica e sociale, simbolica – dimostrandosi così incapace di coglierlo, di interpretarlo e pertanto di agire su di esso. Nelle regole della natura – da rispettarsi, ovviamente – non si trovano infatti né il progetto culturale umano, né la sua storia, né il linguaggio simbolico e progettuale.

Ma a livello della Carta europea del Paesaggio si spinge questa riflessione sul rapporto paesaggio-ambiente anche oltre, giungendo ad affermare l’implicazione del tema del paesaggio con quello dello sviluppo sostenibile, come ad esempio là dove nel Preambolo si sottolinea il ruolo della pianificazione paesistica per “pervenire ad uno sviluppo sostenibile fondato su un rapporto equilibrato tra i bisogni sociali, l’attività economica e l’ambiente”.

Recentemente gli studi sul paesaggio hanno introdotto una importante distinzione (Cosgrove[11], Lowenthal) tra il paesaggio vissuto e abitato dall’insider e il paesaggio visto e visitato dall’outsider. Si tratta della introduzione di un assai fertile e stimolante approccio duale, di valore sia percettivo che sociologico.

L’insider è colui che conosce e vive un luogo, un territorio e un paesaggio dall’interno, che appartiene al luogo, essendone insediato, vivendolo e conoscendolo quotidianamente, a volte concorrendone alla sua produzione come alla sua distruzione; essendo quel territorio il suo paese o la sua patria.

Egli, per queste ragioni, è anche un “appartenente esistenziale” ai luoghi (Relph) capace di rappresentare la cultura e la conoscenza collettiva dei luoghi.

L’outsider è, al contrario, il visitatore esterno, colui che guarda, osserva, studia e rappresenta il paesaggio, ma non partecipa alla sua produzione, non ne abita i luoghi. Rappresentante tipico dell’osservatore esterno è il turista, il viaggiatore, lo studioso. Al contrario dell’insider, gode “del privilegio di poter andarsene dalla scena così come noi possiamo allontanarci da un quadro” (Cosgrove).

Questa distinzione tra insider e outsider risulta molto preziosa a chi si sforza di comprendere il paesaggio perché rivela e sottolinea la inevitabile differenza di conoscenza, di valutazione e di approccio culturale tra i due punti di vista, spesso inconciliabili e inconfrontabili.

Crolla, o va in crisi, sotto questo angolo visuale – come giustamente rilevato anche dal Puppi[12] – la nota frase del Sereni: “il gusto del contadino per il ‘bel paesaggio’ agrario é nato di un sol getto con quello di un Benozzo Gozzoli per il ‘bel paesaggio’ pittorico, e con quello del Boccaccio per il ‘bel paesaggio’ poetico del Ninfale fiesolano” volta a riportare a unità culturali – il Sereni presuppone una assai improbabile unità della cultura toscana – identità culturali diverse inconciliabili e non identificabili come quella colta e cittadina di pittori e letterati e quella incolta di contadini analfabeti.

Così come possono aprirsi assai stimolanti e fondamentali riflessioni sull’uso, sulla comprensione e sul senso di appartenenza (a volte conflittuale) del paesaggio tra gli outsider del turismo di massa e gli insider dei paesi oggetto di una offerta turistica di massa.

Vengono così alla luce l’esistenza di diversi paesaggi – anche se quello osservato sensibilmente è lo stesso – secondo il ruolo ed il punto di vista e la cultura dell’osservatore. Nessuno può supporre che possano coincidere la visione del paesaggio calabro di un viaggiatore colto come l’Abate di Saint-Non (outsider), con quella del contadino stabile e analfabeta dell’Aspromonte (insider) dello stesso diciottesimo secolo.

O quella, per riferirci al nostro lago, tra il modo di guardare al paesaggio del laghée (insider) e quello del frettoloso turista americano o giapponese (outsider). (Discorso senza dubbio molto stimolante e produttivo se lo si volesse un giorno affrontare in profondità a proposito del nostro lago).

Di tutta questa evoluzione se ne trova ampia traccia – per chi ne volesse approfondire il discorso – nei lavori e negli Atti del Seminario internazionale Il senso del Paesaggio promosso dal Politecnico di Torino presso il Castello del Valentino nel 1998.

La ricchezza e la complessità dei tanti e nuovi approcci disciplinari, interdisciplinari e transdisciplinari può farci quasi dubitare della nostra adeguatezza a parlare e ragionare, oggi, di paesaggio. Per fortuna tutto questo non intacca un nostro comune, profondo e innato senso del paesaggio che continuerà a sorreggerci nel nostro operare.

Edmund Wilson, il fondatore della sociobiologia, si è chiesto nel suo libro Biofilia del 1984[13] se esiste nell’uomo un senso profondo, radicato di paesaggio ovverosia se esiste una base genetica, in senso propriamente sociobiologico, che condiziona il comportamento sociale della specie umana nei riguardi della concezione del paesaggio e della progettazione del paesaggio (intesa come definizione di una forma preferenziale). A questa domanda Wilson non solo dà una risposta affermativa “esiste una profonda memoria genetica dell’ambiente ottimale dell’umanità” ma la definisce e la qualifica anche come quella di un “ambiente simile alla savana”. Risposta che personalmente ritengo molto convincente e stimolante, soprattutto pensando alle costanti progettuali che guidano quella che è stata, ed è ancora oggi, l’arte dei giardini.)

Le nuove acquisizioni culturali e metodologiche

Tutta questa evoluzione di pensiero e la connessa e conseguente innovazione metodologica relativa ai metodi del conoscere e dell’operare sul e per il paesaggio – invero non ancora unificata, del tutto assimilata ed entrata in una concezione comune e diffusa e solo affacciatasi recentemente, se pur in minima parte, nelle nuove leggi e nei piani del paesaggio – pone comunque degli inevitabili nodi, interrogativi e acquisizioni con cui non è ormai più possibile non fare dei conti.

Sarebbe tuttavia sbagliato pensare che tutta questa evoluzione della riflessione sul paesaggio abbia prodotto solo risultati culturali o teorici destinati a restare solo sui libri.

La capacità di leggere e interpretare il territorio e il paesaggio si è venuta evolvendo ed arricchendo in parallelo: basti pensare a come si stanno oggi diffondendo ed affermando metodi e concetti di analisi, in passato ignoti o poco praticati, come l’uso dei concetti di “sito”, “luogo”, la ricerca del “genius loci”, l’analisi dei “contesti” (dal latino contextus : connessione, nesso, fili che formano e tengono assieme un tessuto), la ricerca per definire “l’identità dei luoghi” o il diffondersi dell’analisi storica e culturale sulla evoluzione e la formazione locale del paesaggio. O al caso, molto avanzato, della legislazione regionale toscana (legge n. 1/2006, Norme per il governo del territorio) che introduce l’obbligo per tutti gli strumenti della pianificazione territoriale di predefinire uno “statuto del territorio” (art.05) che contenga ed evidenzi le “invarianti strutturali” del territorio “quali elementi cardine dell’identità dei luoghi”.

Vediamo, molto audacemente, di sintetizzare qui di seguito quelli che mi sembrano alcuni dei punti o delle nuove acquisizioni culturali più significative e stimolanti emerse e con le quali è certamente utile confrontarsi:

  • si sta ormai affermando ormai una diffusa concezione del paesaggio che nega ad esso una esistenza oggettiva (fatta di cose o di sommatorie di beni, di cose belle ed eccezionali, facilmente individuabili e circoscrivibili, identificabili nei cosiddetti beni paesaggistici) ma che attribuisce ad esso un significato, una dimensione e una funzione eminentemente culturale, e quindi storica, capace di dare senso e significato alla configurazione del nostro vivere e insediarci nell’ambiente;
  • che il paesaggio deve riguardare tutto il territorio e la sua presenza è in ogni luogo ovvero, come afferma la Convenzione europea del Paesaggio “è un elemento importante della qualità della vita delle popolazioni: nelle aree urbane e nelle campagne, nei territori degradati, come in quelli di grande qualità, nelle zone considerate eccezionali, come in quelle della vita quotidiana”.
  • che l’unica possibile e significativa lettura e interpretazione che possiamo dare del territorio e del paesaggio è quella che passa attraverso un approccio geo-storico, e antropologico-culturale di decifrazione dei “geroglifici” e del “palinsesto” diacronico del territorio (si vedano anche le mie definizioni di paesaggio contenute nelle due relazioni tenute all’Elmepe nel 2000, nota 18);
  • che quello che leggiamo visivamente è solo la parte emersa dell’iceberg ma che la lettura e la interpretazione del paesaggio richiede una operazione di decifrazione e di spiegazione storico-culturale;
  • che, per una comprensione profonda del paesaggio abbiamo ormai a disposizione una molteplicità di discipline e di metodologie interpretative;
  • che abbiamo sempre più bisogno di paesaggio per dare un senso e un significato al nostro ambiente di vita in modo da poterci riconoscere in esso, identificarci e riconoscerlo come nostro. Riconoscendo, come afferma la Convenzione europea del Paesaggio, “che il paesaggio è in ogni luogo un elemento importante della qualità della vita”;
  • che il paesaggio è una risorsa da sfruttare e da utilizzare per dare un sensoriconoscibile alla qualificazione del nostro ambiente di vita;
  • che la capacità di produrre paesaggio è oggi a rischio e che rischiamo una “morte del paesaggio”;
  • che il paesaggio misura e svela la nostra capacità o incapacità di sfruttare, relazionarci e rappresentare il nostro rapporto con le risorse ambientali e con la nostra storia.

Ma una delle più stimolanti riflessioni che è venuta recentemente a maturare, affrontata anche nel Seminario internazionale di Torino nelle relazioni di Paolo Castelnovi[14] e di Giuseppe Dematteis[15], riguarda la natura, la sostanza e la specificità della pianificazione paesistica.

Sostiene Castelnovi che il piano paesistico “non ha una sua specificità tecnico- normativa (come ha, ad esempio, il Piano Regolatore o hanno i piani urbanistici) ma che “quella paesistica non sia una progettualità normativa specifica, quanto piuttosto un “germe” – quello appunto del paesaggio – da inserire nelle pratiche progettuali correnti”; che, scrive Dematteis, il piano deve derivare dalla specificità del paesaggio locale e dei suoi siti, deve guidare i progetti a farsi “un atto cosciente e intenzionale di costruzione di quel paesaggio” deve, in altri termini, aiutare a “contestualizzare” il progetto di paesaggio e i progetti di intervento e di trasformazione di quel territorio e di quell’ambiente;

  • deve raggiungere, vincolare e condizionare la pianificazione comunale e influire sulla sua qualità paesistico-ambientale;
  • deve tenere conto di tutta la lunga catena formata da coloro che operano o agiscono sul territorio, rivolgendosi e guardando sia a chi costruisce che a chi distrugge il paesaggio;
  • deve quindi essere diretto a raggiungere tutti gli operatori e soggetti che agiscono sul territorio e trasmettere loro con chiarezza e con metodo quel “germe” o quell’ “in più” che sono i criteri e le regole per il riconoscimento e per la costruzione del paesaggio;
  • deve affidare la trasmissione dei suoi criteri e delle sue scelte agli operatori e ai destinatari del piano non solo attraverso il ricorso agli strumenti normativi e attuativi, ma soprattutto attraverso una operazione di formazione, di diffusione e di innalzamento di una cultura del paesaggio.

Scrive ancora, giustamente, Giuseppe Dematteis: “…penso che ai futuri architetti, ingegneri, urbanisti e pianificatori dovremmo insegnare anzitutto due cose:

  • (1) a capire il paesaggio in cui si andranno a iscrivere i loro manufatti e interventi, in modo che il progettare sia sempre un atto cosciente e intenzionale di costruzione di quel paesaggio;
  • (2) a fare in modo che questa progettata costruzione di paesaggio venga capita da chi – abitante stabile o saltuario, o semplice visitatore – vive quel paesaggio come appartenenza a un luogo”.

In sostanza anche l’idea di pianificazione del paesaggio subisce, in questa evoluzione, un mutamento sostanziale e non da poco: si passa dai temi del riconoscimento e della conservazione all’ambizioso e ancor più difficile tema/obiettivo della guida alla sua qualificazione ovvero alla sua produzione, al saper produrre paesaggi.

Tutte riflessioni altamente stimolanti e attuali sulle quali occorre riflettere, assimilarle ma soprattutto farle diventare attive e operanti.

La necessità di una riunificazione della pianificazione territoriale, paesistica e ambientale per una progettazione del nostro ambiente di vita dotata di senso

Sembra che, nella nostra odierna cultura paesistico-ambientale, ma anche da parte della più generale cultura ambientalista, si possa dare ormai per maturata e acquisita l’esigenza di una riunificazione in una unica, organica e integrata forma di pianificazione – che potremmo definire di tipo olistico – del nostro odierno e futuro ambiente di vita.

Soprattutto per poter superare le antiche e, ormai, non più accettabili separatezze disciplinari, operative e culturali che nel passato – ma ancora presenti e operanti nelle odierne leggi e istituzioni – hanno agito così negativamente sullo studio del paesaggio o, ancor più negativamente, nel tenere separato il diritto dell’ambiente da quello del territorio[16] e nel non fare emergere i rapporti e le contraddizioni tra sviluppo e ambiente.

Sembra oggi di poter dare per ampiamente riconosciuto ed acquisito:

  • che alla pianificazione urbanistico-territoriale – relegata tradizionalmente alla organizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture nel e sul territorio – si chiede di aprirsi e di incorporare la dimensione ambientale e paesistica. Le si chiede quello che oggi sembra incapace di garantire ovvero di saper costruire e produrre paesaggio. Mentre per la pianificazione urbanistica e territoriale l’incontro con la questione ambientale, viene definito, nelle visioni più mature, addirittura come “questione centrale e rifondativa”[17];
  • che alla pianificazione ambientale si chiede di incorporare anche la dimensione paesistica, che le risulta ancora estranea e disciplinarmente sconosciuta;
  • che alla pianificazione paesistica si chiede di ritrovarsi e di essere presente, congruente e non contradditoria con le logiche e le scelte che derivano dalla pianificazione territoriale e ambientale.

Ma queste sono ancora tendenze ed aspirazioni culturali in corso di maturazione. Purtroppo le leggi e le prassi pianificatorie ed operative vigenti ci chiedono e ci forniscono ancora piani distinti e separati: i piani paesaggistici (i meno definiti e sperimentati), i piani territoriali (i più solidi e sperimentati, anche alle diverse scale), i piani ambientali (i più frammentati e settorializzati).

Qualche piccolo passo in avanti in questa direzione lo si può ormai intravedere.

Il passo più importante è senza dubbio quello apportato dalla legge Galasso attraverso l’affidamento della pianificazione paesistica, per la prima volta in Italia, a “piani urbanistico territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali”. Anche se poi la legge non ha saputo chiarire molte altre cose essenziali (ad esempio in che consistano i “piani paesistici” senza aggettivi o come si possa riconoscere e distinguere la specifica considerazione dei valori paesistici.

Così come deboli ma significative aperture possono essere viste nella legislazione nazionale e regionale di seconda generazione nell’uso del trattino posto ormai con sempre più diffusa frequenza nei testi tra il termine paesaggio e il termine ambiente (paesaggio-ambiente o paesistico ambientale 18) con la volontà di significare o di accennare – ma non molto di più e senza concrete conseguenze ed effetti applicativi – ad un rapporto ormai inscindibile tra paesaggio e ambiente.

O, come anche risulta dalla recente tendenza delle legislazioni regionali di seconda generazione che incominciano ad attribuire agli strumenti urbanistici, a tutti i livelli, l’obbligo di incorporare scelte e contenuti specificatamente paesistici (come si può constatare anche in Regione Lombardia dove è anche in corso l’importante, e più definito e preciso, tentativo di introdurre una connessione obbligatoria tra strumentazione urbanistica comunale, il PGT, e valutazione ambientale del piano urbanistico, la VAS).

Di questa tendenza incominciamo a registrare diverse prove e segni concreti di esperienze operative che giungono ad informare ormai non solo le nuove metodologie di piano, comunali o di area vasta, ricercate e sperimentate un po’ ovunque, ma che sono penetrate anche, a conferma della solidità della acquisizione del concetto, nel linguaggio legislativo.

Anche se dal punto di vista della acquisizione metodologico-culturale della unità territorio-paesaggio ambiente siamo, come già detto, di fronte ad una acquisizione che ormai appare come irreversibile, c’è ancora molta strada da percorrere e molto lavoro da fare sia per poter esplicitare e raggiungere adeguati e coerenti livelli di elaborazione e di trasformazione dei metodi di pianificazione che per poter eliminare definitivamente le antiche “separatezze” metodologiche, culturali e disciplinari, della legislazione e del diritto, che, nonostante l’evoluzione recente, continuano ad essere presenti e ad operare in molti modi e in differenti contesti.

Ci si riferisce ad alcuni dei principali nodi di fondo che contrastano con quanto ritenuto acquisito e che marciano anziché nella direzione dell’unità in direzione ancora della separatezza degli interventi e degli strumenti di piano. In particolare si sottolineano qui: il permanere in circolazione di diversi approcci culturali che trattano l’ambiente e il paesaggio ancora in forme separate e divergenti (tra questi il permanere, da un lato, degli approcci estetico-letterari e percettivo-visibilistici del 1939, contrapposti agli approcci della landscape-ecology che pretendono di ridurre il paesaggio all’ambiente e alle metodologie naturalistico-ambientali); al permanere di una separatezza tra diritto ambientale e diritto urbanistico ; al permanere di una forte settorializzazione e frammentazione di leggi, regolamenti, istituti e soggetti che si occupano dell’ambiente rispetto a quelli deputati ad occuparsi del territorio e che operano di fatto per rinnovare e mantenere inutili e incongruenti separatezze; alla necessità di fare maturare metodologie di piano coerenti con l’approccio unitario teorizzato che vadano oltre le attuali frammentate e parziali sperimentazioni.

Pare quindi che si stia affermando, consolidando e diffondendo l’acquisizione – almeno in campo per ora metodologico-culturale – nella necessità di riunificare e ricomporre nella pianificazione urbanistico-territoriale sia i contenuti e i metodi della pianificazione ambientale che, contemporaneamente, della pianificazione paesistica. È evidente a tutti che se si decidesse, un domani, di compiere un salto in avanti di questo genere dovrebbero essere trasformate radicalmente la gran parte delle condizioni di fondo, legislative, istituzionali, disciplinari, metodologiche, operative, culturali e di governo che oggi presiedono e reggono la pianificazione e la gestione del territorio e del paesaggio.

Il nodo concettuale e metodologico della pianificazione paesistica. L’in più dell’apporto paesistico

Vorrei qui sottolineare il fatto che in questo sperato processo di unificazione (per poter parlare di riunificazione dei tre strumenti, bisognerebbe riferirsi a epoche assai remote dove le separatezze discipliari ancora non esistevano e non potevano nemmeno essere supposte, anche se di paesaggio se ne sapeva produrre) l’anello più debole – o forse solo più nuovo e complicato – riguarda proprio la pianificazione del paesaggio. Che dei tre strumenti si presenta ancora oggi come il meno noto, il meno sperimentato, il meno usato nell’attività pratica e forse anche il meno capito nella sua specificità.

E che è cosa anche molto diversa – e anche qui risiede una delle difficoltà del discorso – da quella che sino ad oggi si è intesa e viene per lo più ancora intesa, sia nella cultura corrente che nelle leggi e nei piani concretamente sperimentati.

Se infatti si condividono le conclusioni – come io condivido – alle quali sono pervenuti sia Castelnovi che Dematteis (nel Seminario internazionale Il senso del paesaggio) bisogna riconoscere che la pianificazione paesistica è ancora cosa tutta da inventare e da sperimentare e da distinguere nella sua specificità, soprattutto in relazione alle altre forme e metodologie – più solide e scientificamente fondate – della pianificazione ambientale e territoriale.

Quell’ apporto in più che deve venire dalla pianificazione paesistica, come lo chiamo io, o, quella introduzione di un “germe da inserire nelle pratiche progettuali correnti” come lo definisce Castelnovi, non corrisponde ad altro che alla esigenza di affidare al piano paesistico lo specifico compito di aiutarci a ritornare ad esercitare la capacità – ormai persa o in corso di progressiva perdita – di creare paesaggio nella espressione e nella configurazione del nostro rapporto con l’ambiente e col paesaggio attuale e futuro. Che, detto in altra forma sintetica, dovrebbe corrispondere ad immettere nelle nostre pratiche di pianificazione una espressione, un comportamento, una cultura di significazione e di riconoscimento del paesaggio.

È a tutti evidente che un avanzamento e una ricerca in questa direzione non è cosa facile. Molte vecchie strade già percorse in passato dovrebbero essere abbandonate, molte nuove dovrebbero essere percorse e sperimentate:

  • bisognerebbe dimenticare ed abbandonare l’idea che un piano paesistico possa e debba riguardare solamente cose, beni e oggetti di valore paesistico, i cosiddetti “beni paesaggistici” (tenuti ancora, assurdamente, separati dai “beni culturali”). Capire a fondo che un piano paesistico non è nemmeno un piano di prefigurazione di un assetto territoriale predeterminato[18], che non è qualcosa di simile o di vicino all’arte dei giardini, che non sta scritto o è definito dalle inesistenti vocazioni territoriali;
  • bisognerebbe capire che la finalità di fondo della pianificazione paesistica non risiede più e solo nella protezione e nella conservazione delle cose e dei siti belli del passato (lo è evidentemente ancora ma non è più la unica) ma che la finalità del piano è anche una attività creativo-culturale necessaria anche per progettare il nostro ambiente di vita futuro, capace di usare il paesaggio come risorsa progettuale (Dematteis);
  • imparare che il compito precipuo del nuovo piano paesistico non è più quello di prefigurare o disegnare un paesaggio, predefinito e compiuto, ma quello di fornire criteri e impulsi per una sua processuale creazione;
  • abbandonare l’idea errata che un piano paesistico possa svolgere funzioni propositive di pianificazione urbanistico territoriale;
  • bisognerebbe imparare a inserire e trasmettere a tutti i fruitori e gli utilizzatori del piano questo in più. Operazione eminentemente di ordine formativo e culturale, rivolta più che a tutelare il paesaggio esistente a fornire input e criteri progettuali per la costruzione e la qualificazione del paesaggio da costruire e nel quale ci si possa riconoscere e identificare;
  • bisognerebbe smettere di chiedere alla pianificazione paesistica cose che essa non può assolutamente dare, come, ad esempio, accade a quelle leggi nazionali e regionali che impongono ai piani paesistici di individuare infrastrutture, ambiti di trasformazione, nuovi insediamenti, previsione di linee di sviluppo urbanistico ed edilizio (come fa anche, assurdamente, il Codice Urbani nella versione del 2004). Bisognerebbe finalmente riconoscere che la pianificazione paesistica non può né ha alcuna capacità di sostituirsi alla pianificazione urbanistico-territoriale né alla pianificazione ambientale ma che ha invece necessità assoluta di trovare una assoluta e sostanziale coerenza in questi piani e attraverso questi piani.
  • bisognerebbe modificare i tradizionali criteri di analisi e di valutazione del paesaggio, finalizzandoli alla nuova forma di piano.
  • bisognerebbe introdurre e inventare nuove forme per normare gli indirizzi e le prescrizioni del piano, differenziandole e non confondendole con le norme ambientali o con le norme urbanistiche tradizionali (come oggi spesso accade). Da un punto di vista metodologico occorrerà differenziare le norme urbanistico-edilizie (che riguardano essenzialmente destinazioni, funzioni, indici, riferiti ad azzonamenti circoscritti e omogenei) dalle norme più propriamente paesistiche (che riguardano le relazioni che devono qualificare i rapporti tra i possibili modi di intervento consentiti dal piano urbanistico e ambientale in rapporto ai diversi contesti interessati). Riferendo sostanzialmente gli input progettuali derivanti dalla normativa ai singoli contesti e alle unità di paesaggio;
  • bisognerebbe, infine, trasformare profondamente anche i metodi e i soggetti del governo del paesaggio, coinvolgendo nella gestione e nella valutazione riguardante l’applicazione del piano, tutte le forze e le diverse competenze tecniche, settoriali e disciplinari che hanno partecipato alla elaborazione del piano. Questa nuova forma di piano richiede evidentemente una forma governo che non può assolutamente essere affidato a una gestione normale, burocratica, che agisce tramite pareri di mera conformità a un semplice vincolo.

[1] Legge 29 giugno 1939, n. 1497 “Protezione delle bellezze naturali” e Regio Decreto 3 giugno 1940, n. 1357 “Regolamento per l’applicazione della L. 29 giugno 1939, n. 1497, sulla protezione delle bellezze naturali”.

[2] Rosario Assunto, Il paesaggio e l’estetica, Napoli, Giardina Ed. 1973.

[3] Eugenio Turri, Semiologia del paesaggio, Milano, Longanesi 1979; Id., Antropologia del paesaggio, Milano, Edizioni di Comunità 1974; Id., Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato, Venezia, Marsilio 1998.

[4] Claude Raffestin, Per una geografia del potere, Milano, Unicopli 1981.

[5] Eric Dardel, L’uomo e la terra. Natura della realtà geografica, Milano, Unicopli 1952.

[6] Giuseppe Dematteis, Le metafore della terra, Milano, Feltrinelli 1985.

[7] Fernand Braudel, Storia, misura del mondo, Bologna, il Mulino 1998.

[8] Lucio Gambi, Una geografia per la storia, Torino, Einaudi 1973; Id., Questioni di geografia, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 1964; Id., “I valori storici dei quadri ambientali”, in AA.VV., Storia d’Italia.I. I caratteri originali, Torino, Einaudi 1972; Id., Una geografia per la storia, Torino, Einaudi 1973.

[9] Lothar Finke, Introduzione all’ecologia del paesaggio, Milano, F. Angeli, 1993.

[10] J. Tricart, J. Kilian, L’eco-geografia e la pianificazione dell’ambiente naturale, Milano, F. Angeli, 1985.

[11] Denis Cosgrove, Realtà sociali e paesaggio simbolico, Milano, Unicopli 1990.

[12] Lionello Puppi, “L’ambiente, il paesaggio, il territorio”, in Storia dell’arte, Torino, Einaudi 1980.

[13] Edmund Wilson, Biofilia, Milano, Saggi Mondadori, 1984.

[14] Paolo Castelnovi, “Il senso del paesaggio, relazione introduttiva” in Atti del Seminario Internazionale, Il senso del paesaggio, Torino, Politecnico di Torino 1998.

[15] Giuseppe Dematteis, “Il senso comune del paesaggio come risorsa progettuale” in Atti del Seminario Internazionale, Il senso del paesaggio, Torino, Politecnico di Torino 1998.

[16] Gianni Beltrame, “La pianificazione territoriale ambientale tra “diritto urbanistico” e “diritto ambientale”, Urbanistica Informazioni”, n. 143, settembre-ottobre1995 e Costruire, n.150, novembre 1995.

[17] Gianni Beltrame, “Relazione generale del Gruppo Ambiente”, in Atti 20° Congresso Nazionale INU, Palermo 20-22 maggio 1993.

[18] Gianni Beltrame, “Interpretare e rappresentare il paesaggio” e “Valutare e pianificare il paesaggio”, in AA.VV., Opinioni sul paesaggio, Como, Ordine degli Architetti della Provincia di Como, 2000.