Gabriella Rienzo (a cura di), “Manfredonia, industria e ambiente, per la composizione di un conflitto”, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 2006.

Quali sono i motivi per cui il Mezzogiorno, non povero di risorse naturali e intellettuali è ancora afflitto da disoccupazione, da fabbriche che chiudono, da giovani generazioni deluse? Le condizioni del Mezzogiorno non erano e non sono diverse da quelle che hanno consentito alla Valle Padana o alla Toscana di guidare l’industrializzazione: agricoltura, spirito imprenditoriale e ingegno. E non si può dire neanche che il successo della Valle Padana è stato dovuto al fatto che gli imprenditori hanno realizzato a Milano il Politecnico e l’Università commerciale Bocconi, perché anche gli imprenditori pugliesi hanno voluto, ben 120 anni fa, prima della Bocconi, una loro università commerciale, quella che è oggi la Facoltà di Economia di Bari; hanno costruito quello che per decenni è stato il più grande acquedotto del mondo ed esportavano in tutto il mondo prodotti agroindustriali.

Forse una risposta può essere cercata nella storia delle attività agricole e industriali che hanno attraversato e poi abbandonato la Puglia, un campo meno esplorato rispetto a quello, molto ricco, della storia delle arti, delle lettere e della politica. Fortunatamente qualcosa si muove, come dimostra il bel volume di Gabriella Rienzo, docente di storia economica nella Facoltà di Economia di Foggia.

Manfredonia, borgo marinaro e di pescatori ai piedi del Gargano, cerniera fra le fertili terre di Capitanata e il vasto comprensorio delle più grandi saline d’Europa poi abbandonate, vicino a giacimenti di bauxite, il minerale di alluminio, ha vissuto una breve stagione di speranza quando la scoperta di un giacimento di metano a Candela ha suggerito di costruire, proprio a ridosso del porto, un polo energetico e petrolchimico. Nell’impresa sono stati investiti tanti soldi e un lungo saggio di Franco Mercurio ricostruisce la stagione fra il 1963, inizio delle promesse, e gli ultimi anni Ottanta del secolo scorso, con la fine del sogno, con una coda di disoccupazione, di fabbriche abbandonate, di terre contaminate da bonificare.

Una straordinaria lunga pagina di storia dell’industrializzazione, ma anche di storia delle lotte operaie, civili e ambientali; non a caso il libro della prof. Rienzo esce proprio nel trentennale dell’incidente all’Enichem, con fuoriuscita di 10 tonnellate di arsenico, che ricaddero sulla città di Manfredonia, finiti non si sa bene dove.

La industrializzazione avrebbe potuto essere una occasione di sviluppo: il metano è stato usato per produrre ammoniaca e concimi, urea per le fibre sintetiche; una fabbrica di glutammato monodico si proponeva di utilizzare il melasso degli zuccherifici del Foggiano con moderne biotecnologie; poco distante, a Margherita di Savoia, una fabbrica di bromo valorizzava le acque madri della salina.

Purtroppo queste iniziative utilizzavano, di Manfredonia, soltanto la mano d’opera; le decisioni imprenditoriali venivano prese da lontano, da persone che, a giudicare dai risultati, non amavano né la Puglia né quello che dovevano amministrare. A Manfredonia sono stati investititi tanti soldi pubblici, ma non sono stati fatti studi preliminari sulla qualità delle risorse disponibili, sui processi, sui mercati. E così, come racconta, nel libro citato, Roberto Rana che ha ricostruito la storia della fabbrica di glutammato della Ajinomoto, vissuta appena dieci anni, nessuno si è accorto che il melasso del foggiano non andava bene per i batteri che dovevano trasformare lo zucchero in glutammato e dopo qualche tempo la materia prima ha dovuto essere importata dalla Francia e dalla Turchia.

La stessa imprevidenza si è manifestata davanti ai problemi dell’esaurimento del campo metanifero, davanti ai mutamenti del mercato della chimica, con un petrolchimico bloccato su solo due pezzi del ciclo produttivo ammoniaca-urea che avrebbe dovuto continuare altrove, ma di cui non erano stati predisposti adeguati sbocchi.

Che cosa si farà negli scheletri di fabbriche abbandonate e corrose, nel suolo contaminato? La formula magica dei “contratti d’area”, strumenti di attrazione di nuove imprese, produzioni e fonti di lavoro, sarà capace di evitare le trappole produttive e ambientali in cui sono cadute tante volte le imprese della Cassa per il Mezzogiorno?

A mio modesto parere, lo sviluppo industriale ed economico del Mezzogiorno richiede innovazioni che sono figlie dalla cultura e dalla storia del lavoro e della produzione di beni materiali. Convincono poco il piagnisteo sul basso costo della mano d’opera dei nostri concorrenti internazionali, l’idea che la salvezza del mezzogiorno e dell’Italia dipende dalla moda e dagli articoli di lusso, il chiacchiericcio sulla società dematerializzata. Fondamentale è invece il ruolo delle Università, con i loro corsi di discipline economiche, tecniche, ambientali e anche storiche, per stimolare nuove attività nell’agricoltura e nell’industria, e anche un orgoglio del fare e del produrre.