George Perkins Marsh (1801-1882)

A chi governerà l’Italia e l’Europa nei prossimi anni vorrei rispettosamente suggerire la lettura di un libro che descrive “la natura e l’estensione dei cambiamenti indotti dall’azione dell’uomo nelle condizioni fisiche del globo che abitiamo”. Con queste parole, in italiano, uno scrittore americano presenta il suo: “L’uomo e la natura, ossia la superficie terrestre modificata per opera dell’uomo”.

Il libro spiega, sulla base di quanto l’autore ha pazientemente e attentamente osservato nei suoi viaggi in America, Europa, Asia, Africa, come la vegetazione rappresenti l’unica difesa efficace contro le frane e le alluvioni; come il diboscamento ska l’unica certa origine dei danni e costi che le frane e alluvioni arrecano, come le dune hanno un ruolo essenziale nella difesa degli ecosistemi costieri. Il libro continua spiegando l’origine dell’innalzamento degli alvei dei fiumi — un lungo capitolo è dedicato al Po — e dell’alterazione dei profili delle coste. Il libro offre un grande quadro del nostro pianeta, del ruolo degli esseri viventi nel grande ciclo di vegetali, di animali e di decompositori, uniti nell’evoluzione della vita, fino a quando la miopia, l’arroganza e l’avidità umana non alterano tali cicli, facendo ricadere gli effetti negativi anche su chi non li ha provocati, ma anche su chi li ha provocati e sulle generazioni future.

Sembrerebbe il capitolo dimenticato e mancante dei vari scritti sull’ambiente e sulla “sostenibilità” che affollano, in questo inizio del XXI secolo, gli scaffali delle biblioteche; si  tratta invece di un libro scritto un secolo e mezzo fa e dimenticato o sconosciuto alla maggioranza di coloro che si dichiarano devoti ambientalisti e a coloro che hanno finora amministrato l’Italia.

L’autore, George Perkins Marsh, era nato a Woodstock, nel Vermont, nel 1801. Figlio di un possidente, passò la giovinezza nel piccolo stato della Nuova Inghilterra immerso nei boschi e nelle colline, facendo buoni studi che gli hanno consentito di conoscere molte lingue straniere, oltre al latino e al greco, vissuto in una casa con buona biblioteca e circondato da persone di buona cultura; a Burlington, la capitale del piccolo stato del Vermont, intraprese la carriera di avvocato, di rappresentante nel suo stato a Washington, fu non sempre fortunato imprenditore e tutto ciò coltivando senza sosta studi di geografia, di filologia e di storia naturale.

Ottenne meritati riconoscimenti come intellettuale e uomo pubblico, tanto che nel 1849 venne nominato ambasciatore degli Stati Uniti in Turchia: Marsh raggiunse Costantinopoli con la famiglia dopo un lungo viaggio che lo portò, fra l’altro, a Pisa, Firenze, Roma, Napoli e durante il quale incontrò uomini politici e intellettuali. Da tale viaggio nacque il suo grande amore per l’Italia e per la Toscana.

Tornato in patria nel 1854, nel 1861 venne nominato ambasciatore degli Stati Uniti presso il neonato regno d’Italia, prima a Torino e poi a Firenze. (Sono gli anni della guerra di secessione america del 1861-65 che ebbe devastanti effetti anche sulla natura e sull’ambiente).

I fenomeni naturali che aveva osservato in tante parti del mondo nel corso di tanti anni indussero Marsh a raccogliere tali osservazioni in un libro intitolato: “Man and Nature; or physical geography as modified by human action”, di 560 pagine, pubblicato da Scribner a New York nel 1864, ristampato due volte nel 1865 e nel 1867. Gli amici italiani sollecitarono l’autore a pubblicare una traduzione italiana che fu pubblicata, dopo alcune vicissitudini, nel 1870 dall’editore Barbèra di Firenze col titolo: “L’uomo e la natura: ossia la superficie terrestre  modificata per opera dell’uomo”, un volume di 635 pagine, ristampato nel 1872. Nel 1874 apparve, a New York e Londra, una nuova edizione inglese, di 656 pagine, col titolo: “The Earth as modified by human action: a new edition of ‘Man and Nature’” (ristampe nel 1877, 1882, 1884). Un’ultima edizione riveduta, di 629 pagine, apparve postuma nel 1885, col titolo: “The Earth as modified by human action: a last revision of ‘Man and Nature’” (ristampe nel 1898 e nel 1907).

Non era facile trovare, nelle biblioteche italiane, l’edizione italiana o quelle americane dell’opera di Marsh fino a quando, molto opportunamente, nel 1988 l’editore Franco Angeli di Milano ha pubblicato la ristampa anastatica dell’edizione Barbèra del 1872, con una ricca e ampia introduzione di Fabienne O.Vallino. A tale introduzione di 127 pagine deve ricorrere chi vuole sapere di più sulla vita di Marsh e sui suoi rapporti con personalità italiane e straniere, specialmente nella seconda metà della sua vita passata in prevalenza fra Roma e la Toscana. Marsh morì a Vallombrosa, nel luglio 1882, durante una vacanza fra i boschi che tanto gli ricordavano il lontano Vermont. Marsh è stato sepolto a Roma nel cimitero cosiddetto “degli inglesi”, vicino alla Piramide Cestia, accanto a Keats e Shelley, e a tanti altri, fra cui Labriola e Gramsci. La biblioteca di Marsh, sia la parte rimasta a Burlington, nella casa di famiglia del Vermont, sia quella rimasta in Italia, fu venduta e poi donata dall’acquirente all’Università del Vermont.

L’influenza di Marsh sulla cultura geografica e naturalistica è stata enorme. Ne è stato profondamente influenzato Lewis Mumford (1895-1990, che è stato ricordato nel numero xxx di “altronovecento”) che “riscoprì” Marsh nel 1931 con il libro “The brown decades”. Alla fine della seconda guerra mondiale l’azione dell’uomo sulla terra aveva assunto nuovi volti: la contaminazione radioattiva ad opera delle attività nucleari militari e civili, l’esplosione delle città, l’aumento della popolazione mondiale, gli effetti dello sfruttamento coloniale dei paesi del “terzo mondo”, indussero alcuni studiosi a ripensare il tema centrale dell’opera di Marsh. Carl Sauer, Marston Bates, Lewis Mumford e altri decisero allora di tenere a Princeton, nel 1955, un grande simposio i cui contributi sono stati raccolti nei due volumi dell’opera curata da William Thomas Jr., “Man’s role in changing the face of the Earth” (Chicago, 1956).

Dagli anni cinquanta del Novecento ci sono state decine di conferenze internazionali.su quella che, grossolanamente, è stata chiamata “ecologia”, con enorme spiegamento di persone e spese, ma con uno spirito profetico molto più povero di quello che ha animato gli studiosi, i geografi, i naturalisti della fine dell’ottocento e della metà del Novecento: quali figure, fra quelli che vagano da Stoccolma, a Rio, a Tokyo, a Nairobi, hanno la levatura di Marsh, di Woeikof (1842-1914), di Reclus (1830-1905), di Vidal de la Blache (1845-1918), di Mumford ?

Eppure i problemi descritti da Marsh e quelli analizzati nel 1955 sono gli stessi che abbiamo di fronte oggi, anzi aggravati dall’ulteriore aumento della popolazione, dalla crescente perdita di boschi e di copertura vegetale, dall’espansione delle aree urbanizzate, dai mutamenti climatici anch’essi indotti dalle attività umane.

La salvezza, o quello che è possibile salvare, per le generazioni future, vanno cercati nella diffusione di una cultura che non sia soltanto ambientalistico-consumistica, ma che analizzi le condizioni dei fiumi e delle valli, che rallenti la distruzione dei boschi, che ricominci a imparare la lezione del moto delle acque. Le pagine, per esempio, in cui Marsh tratta il problema delle sabbie e delle coste e il ruolo delle dune sabbiose, meriterebbero una attenta lettura, per esempio, in questo periodo in cui in Italia esiste una frenesia per l’apertura di nuovi porti turistici e verso insediamenti costieri, con volonterosi “scienziati” che non esitano a garantire che gli interventi sulle coste non arrecano alcun disturbo.

Chi sa cosa direbbe Marsh se vedesse le coste della sua amata Toscana in cui si fa fatica a trovare le tracce di quelle dune che ancora esistevano ai suoi tempi, in cui sono stati spianati e cementificati i reticoli di fossi scolmatori e canali che pure gli ultimi Lorena avevano curato con amore? che cosa direbbe delle valli italiane diboscate, in cui ogni pioggia più intensa allaga i fondo valle e spazza via case e abitazioni?

La cosa più impressionante è che si conoscono esattamente i meccanismi con cui “l’opera dell’uomo” modifica la natura e la “superficie terrestre” e si conoscono esattamente gli effetti che tali modifiche provocano sulla vita non solo della natura, ma degli stessi esseri umani. Non a caso Marsh aveva proposto per il suo libro il titolo “Man, the disturber”. Troppo provocatorio per l’editore dell’ottocento: figurarsi per i nostri contemporanei per i quali il progresso, l’aumento dell’economia e del PIL possono avvenire soltanto “modificando” la natura, considerato compito primario di una società moderna avanzata. Poco conta che il successo economico di un paese o di una classe travolga ricchezza e benessere di altri esseri umani, di altre classi, di altri abitanti – come oggi appare chiaro – dello stesso intero pianeta, “della Terra”.

Fino a quando gli effetti negativi e i costosi del “disturbo” non ricadono sulle stesse persone che l’hanno provocato, fino a quando si rivelerà necessario, anzi indispensabile, fermarsi in questa corsa alla distruzione della Terra per chiedersi: che cosa stiamo facendo?