Giovanni Pirelli intellettuale del Novecento

Giovanni Pirelli intellettuale del Novecento, a cura di Mariamargherita Scotti, Fondazione Isec – Mimesis, Sesto San Giovanni 2016

Giovanni Pirelli è stata una delle figure più significative e meno conosciute della cultura italiana del Novecento (1918-1973), prima di questa pubblicazione collettanea la bibliografia era limitata a due sole opere: Diane Weill-Ménard, “Vita e tempi di Giovanni Pirelli”, Linea d’Ombra 1994 e Cesare Bermani, “Giovanni Pirelli. Un autentico rivoluzionario”, Centro di Documentazione di Pistoia 2011 (senza dimenticare il volume curato da Nicola Tranfaglia: A. Pirelli-G.Pirelli, “Un mondo che crolla. Lettere 1938-1943”, Archinto 1990). Le ragioni del silenzio, al di fuori di cerchie ristrette, sono molteplici e risalgono direttamente al distacco, per altro complesso e tormentato, dell’erede di una delle maggiori dinastie industriali italiane dal suo ambiente, con la decisione di non assumere la guida della grande azienda di famiglia.

Dopo la drammatica esperienza della guerra, Giovanni Pirelli, senza clamori, rompe politicamente con la classe di appartenenza, la borghesia imprenditoriale, consapevole delle conseguenze di tale decisione. In un inedito del febbraio 1948, intitolato “Noi, transfughi borghesi, ci confessiamo”, scrive: “…Per tutte queste colpe, coscienti delle vostre accuse, ci riconosciamo colpevoli di aver tradito la classe ove traemmo i natali e percorremmo buon tratto del cammino. Rei confessi davanti a questa corte borghese, attendiamo la nostra condanna.”. In effetti poco dopo su Candido Indro Montanelli lo accusa pubblicamente di diserzione e di intelligenza con il nemico, nel bel mezzo della guerra che la borghesia sta combattendo contro il comunismo.

A dire il vero Giovanni Pirelli non sarà mai comunista nel senso di aderente o fiancheggiatore del PCI più o meno filosovietico come nel caso di borghesi divenuti celebri quali Giangiacomo Feltrinelli o Giulio Einaudi. E questo ulteriore distacco dall’altro principale polo della “guerra fredda”, fortemente attrezzato nella battaglia culturale, se non proprio egemonico, come spesso si dice con superficialità, costituisce un ulteriore elemento, al di là della postura individuale, per capire la poca attenzione dedicata a Pirelli dalla pubblicistica e poi dalla storiografia. Ma innegabilmente Montanelli aveva avuto buon fiuto nell’attaccare da una tribuna quanto mai discutibile “Il Cippico della borghesia” (10 aprile 1948).

Giovanni Pirelli, dopo la scelta di campo, fatica a trovare una propria strada: si iscrive all’Istituto di studi storici di Napoli, promosso da Benedetto Croce, ma la sua idea di ricerca storica, centrata sui problemi economici e sociali del tempo presente, è lontanissima dall’idealismo crociano come dalla storiografia oggettiva e accademica. Nel 1950, coinvolto dall’amico Piero Malvezzi, inizia il lavoro sulle lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana (1952) e europea (1954), pubblicazioni che ebbero un grande e duraturo successo di pubblico, le sole per cui venne conosciuto presso cerchie ampie di lettori.

Nel 1960, con Patrick Kessel, avvia la raccolta delle “Lettere della Rivoluzione algerina” (Einaudi 1963, in francese da Maspero 1962). Si tratta di un’opera dal taglio dichiaratamente politico e militante, dalla parte della lotta anticoloniale degli algerini e del FLN. In quel periodo, agli inizi del ’61, incontra Franz Fanon, ed è la seconda decisiva svolta della sua vita. “Fanon ammirava l’immensa cultura di Pirelli, la sua capacità di ascolto e generosità, Pirelli la generosità di Fanon e l’acutezza del suo pensiero “(Alice Cherki). La presa di posizione anticoloniale di Giovanni Pirelli è nettissima, egli considera la guerra condotta dai francesi in Algeria “una guerra prettamente nazista che si svolge sotto i nostri occhi di antifascisti patentati”. Con Jacques Chaby appronta una raccolta di disegni e testimonianze di bambini algerini profughi in Tunisia e altri paesi africani (“Racconti di bambini d’Algeria”, Einaudi 1962). Sempre nello stesso periodo, tra il 1962 e il 1963 fonda a Milano il Centro Franz Fanon, dedicato all’amico morto prematuramente nel dicembre del 61, al fine di sostenere la lotta contro ogni forma di oppressione coloniale.

Come documenta in questo volume l’importante contributo di Tullio Ottolini (“Giovanni Pirelli e la guerra d’indipendenza algerina. Tra attivismo intellettuale e soutien concreto”) il coinvolgimento di Pirelli è fortissimo, frutto di una scelta che è insieme etica e politica, sostenuta da una elaborazione intellettuale di particolare interesse. In Fanon non trova solo il critico intransigente del colonialismo ma anche l’attenzione per il soggetto rivoluzionario in quanto individuo, arricchendo su un punto decisivo la tradizione del marxismo e socialismo europeo.

In uno dei suoi ultimi scritti, prima della tragica scomparsa, annota: “La storia della mia vita, dalla guerra in poi, altro non è che la storia di uno –di origine borghese, di formazione intellettuale- che cerca una risposta alla domanda: da che parte stare? dalla parte dei padroni o dalla parte opposta” (G. Pirelli, “Giovannino e i suoi fratelli”, Fabbri 1972). La rottura con la propria classe, difficile per i motivi che analizza ripetutamente, investe in modo totale l’individuo e per tale via trova un punto di convergenza con la ribellione degli ultimi, dei dannati della terra. Partendo dagli scritti di Fanon, specie la “Sociologia della rivoluzione algerina”, scrive: “Una razza oppressa –o, allo stesso modo, una classe anche se Fanon non lo dice – si libera solo attraverso una lotta nella quale, più importante dell’eliminazione del nemico, è la ristrutturazione, la riscoperta dell’uomo da parte dell’uomo (…). L’atto che l’individuo compie nel processo rivoluzionario (…) ha come corrispettivo la reinvenzione della propria intelligenza creativa, del proprio corpo, dei propri muscoli, ama dire Fanon. L’individuo che si libera impone naturalmente nuovi rapporti intersoggettivi, nella famiglia tradizionale, nel gruppo sociale.”

Nella ricerca dell’ardua saldatura tra le lotte di classe in Occidente e le lotte anticoloniali Giovanni Pirelli propone la formula della “guerra di liberazione contro l’imperialismo”, al fine di tenere assieme “le lotte operaie nei paesi a sviluppo capitalistico avanzato e le lotte rivoluzionarie in varie parti del cosiddetto terzo mondo”. In tale contesto il filo rosso che lega l’attività e le opere da lui curate e promosse è l’attenzione per la soggettività dei protagonisti, persone comuni di norma destinate alla cancellazione; contemporaneamente e inestricabilmente si tratta di un lavoro collettivo, costruito attraverso “una rete capillare di contatti, che si alimenta nel corso della ricerca fino a coinvolgere una gran numero sia di studiosi sia di militanti. Una rete che diventa negli anni davvero impressionante per dimensioni e capacità di superare confini geografici, politici, culturali”. (M. Scotti).

La poliedricità di interessi e attività di Giovanni Pirelli emerge dai contributi presenti in questo volume ma sicuramente merita ulteriori approfondimenti, trovando nell’archivio personale una base documentaria rilevante per una biografia complessiva ormai indispensabile e che viene annunciata dalla curatrice, Mariamargherita Scotti. Tra le relazioni, alle origini della nuova sinistra italiana, ricordiamo almeno il rapporto con Raniero Panzieri e Giovanni Arrighi, mentre sul legame con Elio Vittorini, Giuseppe Luraghi e Renato Guttuso si soffermano i testi di Giuseppe Lupo, Pablo Rossi Doria e Clara Amodeo. Particolarmente utile è l’appendice documentaria che chiude il volume. Per farsi un’idea delle capacità di scrittura e di analisi di Giovanni Pirelli segnaliamo il gustoso – e molto attuale – “Taccuino dell’Expo”, dedicato all’Esposizione Universale di Bruxelles (1958).